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F.Fornari - Psicoanalisi della guerra

 

INDICE

 

 

Cap. 2

La guerra nelle società primitive

L’indagine psicoanalitica sulla guerra non può prescindere dallo studio delle espressioni che essa assume nei popoli primitivi. Lo psicoanalista ha infatti l’impressione che la guerra, nelle società primitive, si trovi molto più vicina alle modalità in cui essa è fantasticata nell’inconscio.
Lo studiò sistematico della guerra nelle società primitive è stato fatto da Maurice R. Davie.(1)
I tempi preistorici ci hanno lasciato testimonianza della guerra. Alcuni antropologi sostengono però che l’uomo pitecantropo non praticasse la guerra propriamente detta.
Su quello che riguarda i tempi storici Burton ha osservato che nel Gabon e nel Basso Niger la guerra era meno praticata che nell’Africa Orientale.
A tale proposito è importante rilevare che la scarsa bellicosità nel Gabon e nel Basso Niger sembra sia dipesa dal fatto che la guerra non era decisa da un capo, ma richiedeva il consenso di tutti gli interessati (consiglio degli anziani e talvolta di tutti gli uomini che facevano parte della tribù). Nell’Africa Orientale, dove esisteva un’alta bellicosità, il potere monarchico era invece senza freno. In Africa come in Polinesia cioè la dipendenza assoluta dai capi attraverso la istituzione della regalità ha avuto come conseguenza diretta di togliere alla guerra ogni carattere giuridico.

1. 1 riti iniziatici e la guerra nei popoli primitivi

Un capitolo particolarmente importante della guerra nei popoli primitivi è quello riguardante i rapporti tra la guerra e i riti iniziatici. Questi infatti possono essere considerati non solo come riti puberali, ma come tipici riti di iniziazione alla guerra, in quanto il fare la guerra è l’attributo specifico dei maschi adulti. Dopo i riti iniziatici, il giovane è autorizzato a portare le armi. Tale prerogativa è intimamente associata alla definitiva separazione dalla madre e all’assunzione del neofita nella società dei maschi adulti.
Se vede la madre, il giovane iniziato deve nascondersi. Theodor Reik ha analizzato il significato delle brutalizzazioni alle quali vengono sottoposti i giovani iniziati. Le cerimonie si svolgono in capanne appartate e le pratiche rituali implicano spesso maltrattamenti vistosi che vengono simbolizzati in una vicenda di morte e resurrezione. La castrazione simbolica, comune nei riti iniziatici, è collegata da Reik alla situazione edipica.
Oltre che segnare la drastica separazione dalla madre, i riti iniziatici segnano una rigida separazione
delle attribuzioni dei maschi e delle femmine, e l’attribuzione specificamente maschile è la guerra.
Secondo molti autori l’apice dei riti iniziatici è dunque rappresentato dalla sottomissione totale e dalla ubbidienza ai capi, l’una e l’altra strettamente collegate alla iniziazione alla guerra. Reik ha messo in rilievo l’intimo legame tra i riti iniziatici e la situazione edipica — non ha però preso in considerazione quello tra i riti iniziatici e la guerra.
Il fatto che i riti iniziatici (vere e proprie brutalizzazioni rituali dei padri verso i figli) siano coincidenti con l’iniziazione alla guerra (uccisione rituale dei nemici), indica in modo evidente il rapporto tra l’aggressività edipica e la guerra come spostamento rituale di tale aggressività.
I riti di morte e resurrezione sembrano indicare, oltre alla realizzazione simbolica dell’uccisione dei figli da parte dei padri, un altro avvenimento apicale: la fine del rapporto con la madre, percepita come morte-castrazione per rinascere nel rapporto con il gruppo; il gruppo prenderebbe quindi il posto della madre (Roheim).
Il fatto che il rito iniziatico esprima il passaggio dal rapporto con la madre al rapporto con il gruppo oltre che l’iniziazione alla guerra sottolinea la sacralità originaria della guerra e dell’appartenenza al gruppo. La lotta tra padri e figli nei riti iniziatici si conclude, di fatto, in una resa senza condizioni dei figli ai padri, per cui i figli si pongono di fronte ai padri come castrati, per poter essere ammessi nel gruppo.
Il prezzo del diventare uomo per il giovane iniziato è quindi la castrazione. Si comprende perciò che se l’ingresso nel gruppo suscita l’ansia di castrazione, il gruppo stesso deve provvedere l’adepto di una rassicurazione contro tale ansia. Scopriamo a questo punto che la guerra è, per i popoli primitivi, la difesa, offerta dal gruppo, dall’ansia di castrazione suscitata dall’ingresso nel gruppo. Possiamo perciò comprendere perché, allorché l’iniziato uccide il primo uomo in battaglia, corre festoso al villaggio gridando “Sono un uomo, sono un vero uomo!” Sembra che l’ingresso nel gruppo e il rito iniziatico non diano, in sé e per sé, la vera investitura maschile, ma che al contrario suscitino intense ansie omosessuali (in quanto unitamente alla sottomissione passiva ai padri implicano la rinunzia alla madre e la castrazione) che pare vengano controllate dal fare la guerra.
Geza Roheim, sulla scorta di Simmel, ha particolarmente messo in rilievo come il gruppo sostituisca l’unità duale” vissuta dal bambino con la madre, per cui l’unità che il singolo acquista nella pluralità del gruppo, il senso di appartenenza ad una unità, che di fatto è molteplice (il collettivo), si fonda su un rapporto illusorio con un fantasma materno messo nel gruppo. Le ansie di esclusione dal gruppo sarebbero perciò la ripetizione di ansie di separazione dalla madre.

2.Guerra e sessualità

Per quello che riguarda il rapporto tra la guerra e la sessualità, i due fatti più importanti offertici dai popoli primitivi sono:
1) la guerra è il mestiere specifico del sesso maschile;
2) la guerra ha spesso come scopo quello di impossessarsi di donne.
Il ratto delle donne s’incontra molto frequentemente come incidente di guerra presso le tribù primitive.
Il ratto delle donne inoltre ha lo scopo di procurare mano d’opera sotto forma di schiavitù. Secondo Bennett le principali cause di guerra presso i Fang sono le dispute che si riferiscono alle donne e queste ostilità possono durare negli anni. Tale situazione può impedire alla donna di lavorare e ne nasconde gravi penurie di viveri. Presso i Ba-Huana del Congo le principali istigatrici di guerra sono le donne. Se gli uomini hanno disposizioni pacifiche le donne li coprono di ridicolo?
Il fatto che la guerra sia il mestiere dei maschi viene collegato da Davie alla divisione del lavoro e alla forza fisica del sesso maschile, che porta alla sottomissione della donna all’uomo, come legge naturale della razza umana (8). La dominazione dei maschi sulle femmine è tanto più radicale quanto più i gruppi sono bellicosi. Alle donne viene riservato, oltre che l’allevamento della prole, anche il lavoro in genere e in modo particolare l’agricoltura. La diffusione della cultura guerriera e in modo particolare dell’agricoltura quindi sarebbe stata favorita nei popoli primitivi soprattutto dal ratto delle donne.
Dopo le riflessioni sui riti iniziatici e la guerra in rapporto al complesso edipico, alle ansie di castrazione e alle difese dalle medesime, possiamo comprendere meglio sia la guerra come mestiere del sesso maschile che il ratto delle donne nell’ambito generale dei contenuti edipici inconsci e della funzione del gruppo come funzione di difesa dalle ansie che si collegano alla situazione edipica. Comprendiamo inoltre perché i popoli primitivi, privati di guerra, dicono di non sentirsi più uomini e perché il vinto, fatto prigioniero, nelle popolazioni primitive, si sente trasformato in donna e venga adibito al lavoro, che è attribuzione della donna. Allorché eccezionalmente le donne fanno la guerra, come nel caso del corpo militare delle Amazzoni del Dahomey, esse si mascolinizzano e non possono essere toccate dagli uomini, a scopi sessuali, senza pericolo di morte. L’omologazione del nemico vinto alla donna sembra stare alla base — e a sua volta essere condizionata — della equivalenza armi-pene, che domina l’universo sessuale sadomasochistico che ritroviamo puntualmente nel nostro inconscio.
L’uomo senza armi, nel Congo Superiore, è trattato con disprezzo ed è invitato ad “andare ad allevar i bambini.”
I Fang del Congo ex-francese, quando uccidono una persona in un’imboscata, ritornano trionfanti al loro villaggio e gridano: “Noi siamo dei veri uomini, noi siamo dei veri uomini, noi siamo andati al villaggio e abbiamo ucciso un uomo, noi siamo degli uomini, siamo dei veri uomini !"(10). Così un Massai o un indigeno del Golfo della Papuasia non può sposarsi se prima non ha ucciso dei nemici.
L’accettazione del lavoro — considerato attribuzione femminile — sembra influire direttamente sulla diminuzione dello spirito bellicoso.
I popoli agricoli sono tendenzialmente pacifici. Presso i Sarasin, tribù agricole, non si ha una guerra vera e propria; quando qualcuno è stato ucciso, il combattimento cessa e le loro guerre non hanno mai per scopo la conquista, ma solo la definizione dei limiti tra territori di caccia.
Nei popoli agricoli l’allevamento del bestiame è molto importante e crea una cultura non guerresca. Roscoe (11) racconta che i Bahima dell’Africa hanno per gli animali un attaccamento pieno di calore e trattano il bestiame come i propri bambini. Non sono rari i casi in cui alcuni uomini si sono suicidati per aver perso un animale favorito. Per le tribù che vivono di saccheggio l’essere privati della guerra è come essere privati della loro possibilità di nutrirsi. L’esistenza di popoli pacifici, come i Bahima, in mezzo a popoli predatori, costringe però i pacifici a stare sempre sulla difensiva. Nascono così eterni conflitti tra pastori e agricoltori. I pastori sono nomadi e più bellicosi. Di solito però le tribù pastorali diventano padrone delle tribù di agricoltori.
La conquista da parte di un popolo nomade e bellicoso di popoli pacifici e agricoli viene considerata come il fondamento dello Stato, che, originariamente, sarebbe quindi un prodotto della guerra. Lo Stato nella sua forma primitiva sarebbe il risultato di una dominazione sotto forma di pace imposta da conquistatori a conquistati (12) Su tale dominazione lo Stato si crea — in base ad una specie di accoppiamento tra due gruppi di cui uno (il vincitore) è omologato nel pensiero primitivo alla condizione maschile, mentre l’altro (il vinto) è omologato alla condizione femminile.
Tutti questi dati relativi alla omologazione del bellicoso al virile ed alla omologazione del non bellicoso al femminile-castrato possono far comprendere l’istintiva diffidenza che gli uomini provano per le posizioni pacifiste. Nell’inconscio degli uomini le armi equivalendo al pene, il disarmo viene in genere temuto come castrazione. Ciò spiegherebbe la impopolarità del disarmo in genere.

3) La guerra e il mondo magico-religioso dei popoli primitivi

Uno degli aspetti del fenomeno guerra, che maggiormente si presta a riflessioni psicoanalitiche, è l’aspetto magico-religioso che la guerra assume nei popoli primitivi.
Il mondo magico-religioso, sullo sfondo del quale si svolge la guerra dei popoli primitivi, sembra riconducibile alle reazioni originarie dell’uomo di fronte alla morte. Le divinità dei popoli primitivi sono in realtà scarsamente differenziabili dagli spiriti degli antenati morti.
Agli occhi dei primitivi il mondo è popolato di innumerevoli fantasmi e spiriti che costituiscono una specie di ambiente immaginario. Gran parte di questi spiriti sono gli spiriti dei morti per cui tutto il mondo immaginario nel quale vive il primitivo può essere considerato un’elaborazione del lutto. Gli spiriti sono concepiti in gran parte come esseri maligni e ostili, sempre pronti a danneggiare i vivi.
Quindi da queste osservazioni sui popoli primitivi sembra che la forma più elementare di territorio nemico e di rapporto con l’oggetto nemico sia vissuta dagli uomini nell’ambiente illusorio nel quale vengono sentiti come esistenti gli spiriti dei propri familiari morti.
A causa della loro invisibilità gli spiriti sono più temibili che non i pericoli reali ai quali l’uomo primitivo è esposto. Per l’uomo primitivo cioè sembra preferibile muovere guerra ad un nemico visibile, che può essere ucciso, che non sopportare l’inimicizia di spiriti invisibili che non possono più essere uccisi in quanto diventati spiriti immortali.
Vissute come presenze ubiquitarie, attraverso la credenza alla realtà del Mana come onnipotenza magica impersonale, le anime dei morti diventano l’origine di tutti gli accadimenti negativi legati alla “condizione aleatoria” della vita dei popoli primitivi.
Essendo per i primitivi la causalità delle leggi naturali una realtà più debole delle loro ansie esternalizzate, essi attribuiscono gran parte degli accadimenti importanti agli spiriti. Il grande problema quindi è quello di renderli propizi. Pur vivendo i propri trapassati come entità nemiche, essi non possono, per le ragioni anzidette, fare guerra ai propri morti, ma devono propiziarseli, per mezzo di sacrifici, per mezzo di offerte. Se non ottengono tali offerte o sacrifici, gli spiriti vanno in collera e si vendicano.
Gli spiriti hanno cioè in mano una specie di arma assoluta. La religione primitiva pertanto appare come un’organizzazione difensiva contro un nemico invisibile e onnipotente, suscettibile di essere trasformato in amico solo a costo di sacrifici.
Anche se tale necessità difensiva si organizza in religione, non riesce però in realtà a controllare le ansie persecutorie nei riguardi degli spiriti dei morti attraverso propiziazioni riparatorie. Allora il rinforzo dell’etnocentrismo, determinato dai rituali religiosi, portando a negare l’oggetto persecutore attraverso la idealizzazione del medesimo sotto forma di “protettore del popolo eletto,” produce contemporaneamente la necessità di proiettare nel gruppo straniero le proprie cose cattive che dispiacciono agli spiriti. L’idealizzazione del proprio rapporto con gli spiriti sotto forma di credersi popolo eletto, cioè particolarmente amato, non riesce però ancora a rassicurare contro la paura di essere puniti dagli spiriti. Sembra comunque che tale paura non possa essere controllata che ad opera di un meccanismo paranoideo di identificazione proiettiva attraverso il quale le parti cattive che costituiscono le misteriose ragioni per cui i morti sono pieni di desideri di vendetta verso i vivi vengono messe nella tribù straniera. Dopo tale proiezione uccidere i nemici è la stessa cosa che distruggere le parti cattive di sé che dispiacciono agli spiriti.
Così i Topinambas del Brasile ritenevano che solo gli uomini che avevano vissuto secondo virtù (cioè che avevano ucciso e mangiato molti nemici) potevano andare nel soggiorno dei felici.(13)
“Al suo arrivo nell’altro mondo, l’anima di un Fidji doveva poter vantarsi di avere in realtà massacrato una quantità di gente e distrutti molti villaggi: erano quelle le opere di bene.”(14)
La religione dei popoli primitivi, che considerano virtù il delitto, sembra dunque esprimere una coincidenza cruda tra l’Es e il Super-Io (nel paradiso dei Fidji troviamo come divinità l’Adultero, il Rapitore Notturno delle Donne Ricche, l’Assassino, il Sopraffattore ecc.).
Il trovarsi di fronte a questi dati etnologici può scandalizzare il ben pensante della cultura occidentale; non può però non impressionare la rassomiglianza tra la religione dei Fidji e la morale militare in genere. E proprio tale situazione curiosa, per cui il delitto e la virtù coincidono, ci appare esprimere in modo tipico la singolarità del fenomeno guerra e rivelare il suo significato in relazione alla elaborazione del lutto: o magari a ciò che chiamerò la elaborazione paranoica del lutto.
Mentre i riti propiziatori e l’idealizzazione del rapporto con i propri morti-dei, sono comprensibili come elaborazione di ansie depressive del lutto (per cui colui che mette in opera riti propiziatori come tendenze riparative fa ciò in quanto si sente come se fosse egli stesso ad aver offeso gli dei morti che vuole propiziare), la guerra-virtù, invece, intesa come propiziazione dei propri morti-dei, si fonda sul processo proiettivo per cui i propri morti sono stati offesi da quelli della tribù straniera, dai nemici.
Perciò l’uccisione del nemico, o qualsiasi atrocità commessa contro di esso, acquista un significato di virtù, in quanto è lotta e punizione verso le parti cattive del sé proiettate. Poiché i maltrattamenti fatti dai padri ai figli nei riti iniziatici — maltrattamenti che arrivano talvolta all’uccisione vera e propria — suscitano, assieme alla rimozione (Reik), anche il rafforzamento del desiderio dei figli di uccidere i genitori, il fatto che i riti iniziatici siano riti di iniziazione alla guerra ci conduce a ritenere che la guerra stessa sia intimamente legata alla lotta contro gli impulsi parricidi messi dentro la tribù nemica.

Perciò, visti dall’esterno, il comportamento dei primitivi come pure l’etica militare in genere rivelano una singolare coincidenza dell’Es con il Super-Io. Vista però dal di dentro, l’etica militare, allo stesso modo della religione dei popoli primitivi come religione di guerra, ci appare contenere un tipo particolare di eticità comprensibile come elaborazione paranoidea del lutto. Vista in termini razionali, tale forma di eticità appare una vera e propria alienazione morale, fondata sull’alienazione dei propri sentimenti di colpa, messi nel nemico.
Il popolo primitivo, in guerra contro un altro popolo primitivo, costituisce l’altro come ricettacolo delle proprie necessità di colpa, per cui l’uccisione dell’altro, percepito come colpevole della morte dei propri morti, è sentita come vendetta del sangue e serve per evitare la sofferenza depressiva del lutto.
Il significato paranoideo del rapporto con la tribù nemica, come rapporto con parti cattive di sé proiettate, appare anche dalla credenza religiosa secondò la quale i nemici uccisi in questo mondo serviranno, come schiavi, colui che li ha uccisi.
L’uccisione del nemico (diventato il rappresentante del proprio Es), in quanto ne permette il controllo, tiene così il posto del controllo sul proprio Es.
Gli dei della guerra, come dei sanguinari, che esigono incessantemente vittime umane, sono cioè gli spiriti dei morti che esprimono gli attacchi di un Super-Io sadico il quale di norma fa evolvere il lutto nella malinconia. La guerra pertanto vista nel contesto dei vissuti magico-religiosi dei popoli primitivi, appare una specie di singolare rito funerario, e rappresenterebbe lo spostamento del sacrificio propiziatorio sullo straniero, nel quale è stata messa la causa della morte dei propri morti.
Privati della guerra come reazione paranoidea del lutto, i popoli primitivi evolvono verso posizioni depressive. Tribù bellicose dell’Oceania sono arrivate ad una confusione depressiva particolare, da quando gli europei hanno loro imposto la pace. Gli uomini si annoiano perché sono privati della loro occupazione di base, si stimano buoni a nulla e perdono completamente l’autostima per il fatto di non fare più le loro spedizioni guerresche. Diventano pigri, debosciati, si danno al bere, perdono ogni loro dignità, non si sentono più uomini e perdono la loro ragione di essere. Alcuni etnologi attribuiscono a questo la depopolazione della Polinesia.
Eliane Métais si è occupata recentemente dell’angoscia di morte in una tribù Kanachi, dopo che questa è stata colonizzata dai bianchi che hanno impedito la guerra.(15) In questa tribù la privazione di guerra avrebbe prodotto l’insorgenza di profonde angosce di distruzione, vissute, non in riferimento a nemici reali o ai colonizzatori bianchi, ma in rapporto ai propri stregoni. Constatiamo cioè, in questo caso, che la privazione di guerra ha determinato la reinternalizzazione nel proprio gruppo dell’oggetto persecutore. La paura di essere distrutti dai propri stregoni avrebbe cioè tutti i Caratteri di un Super-Io sadico come oggetto cattivo internalizzato in una situazione melanconica. In tal modo la doppia legalità di pace e di guerra, abitualmente sentita come ipocrisia, si rivelerebbe come necessità psicologica paradossale della guerra: il suo essere cioè un’alter­nativa allo sviluppo di un processo melanconico endogeno, per cui la guerra, come elaborazione paranoide del lutto, sarebbe una difesa contro la elaborazione del lutto nella sua modalità melanconica. E’ sorprendente constatare, attraverso questi fatti, che la paura dell’annientamento (che l’uomo prova all’idea di abbandonare la possibilità della guerra) non proverrebbe tanto dall’essere minacciati da un pericolo reale esterno (l’essere cioè disarmati in balia di un nemico esterno), ma dal fatto di trovarsi di fronte all’annientamento come pericolo del tutto illusorio, legato ad un’ansia psicotica. Oltre a gettare luce sui moventi psicotici della guerra, ciò che si osserva nei popoli primitivi, privati di guerra, sembra costituire una prova decisiva a favore dell’ipotesi freudiana dell’istinto di morte, in quanto ci pone di fronte al mondo della distruzione non come situazione esogena, ma come pura emergenza endogena. Sempre a proposito dei rapporti tra mondo magico-religioso dei primitivi e la guerra, Davie sostiene la tesi per cui la religione dei popoli primitivi favorisce la guerra. A mio modo di vedere sembra più esatto dire che sia la religione sia la guerra trovano una comune origine nell’elaborazione delle ansie psicotiche collegate al lutto, costituendo l’una e l’al­tra una modalità socializzata di difesa da tali ansie. Così anche il rapporto tra la violazione dei tabù e la guerra sembra collegato alle realtà psicologiche che abbiamo illustrato. Allorché il capitano Cook fu ucciso, lo fu perché aveva violato un tabù, toccando il re delle popolazioni indigene delle isole Sandwich. Essi punivano così nel capitano Cook i propri desideri aggressivi verso il capo.
La stessa spiegazione sembra poter essere riferita al fatto che il parlar male del morto, o anche solo il nominarlo durante il periodo di lutto, è una causa di guerra fra gli indigeni della Polinesia.
Oltre che essere collegato a questa specifica elaborazione del lutto, l’atteggiamento paranoideo agisce nelle motivazioni di guerra in generale.
Lawvest (16) racconta che i Motou del Sud-Est della Nuova Guinea hanno una paura superstiziosa dei loro vicini Koitapou, al cui potere magico essi attribuiscono ogni calamità. Vediamo quindi che le qualità cattive degli spiriti vengono messe oltre che negli spiriti dei morti anche dentro le tribù straniere. Nel 1876, avendo perso una grande quantità di saù in una tempesta di mare che aveva capovolte le piroghe, i Motou accusarono i Koitapou di aver stregato le piroghe e ne uccisero una quantità per vendicarsi. Nel 1878 i Motou resero responsabile un villaggio di Koitapou di una siccità e mossero ad essi una guerra di vendetta. Poiché la siccità finì e infine piovve, i Motou videro nella pioggia la conferma della loro proiezione. L’uomo occidentale medio sorride di queste proiezioni, ma come abbiamo visto anche l’americano medio si comporta in modo analogo: in periodi di siccità il governo in carica perde le elezioni e il linciaggio dei negri segue l’andamento del prezzo del cotone.
L’intimo legame tra la guerra e la reazione paranoica del lutto risulta però particolarmente evidente se si considerano gli stretti legami tra la guerra e le credenze magiche nei riguardi della causa di morte. La maggior parte degli etnologi sono d’accordo nel ritenere che la credenza che la morte è prodotto della magia nefasta proveniente da tribù straniere è una delle cause di guerra più frequenti e più gravi.
Presso molte tribù primitive è una regola quasi generale che, quando un uomo muore, un altro uomo venga accusato di essere causa della sua morte. Le tribù di Assam, tanto per citare un esempio, credono che le malattie e la morte siano occasionate da uno spirito maligno che è stato scatenato da qualche membro di una tribù ostile. Basta un pensiero di questo genere per far divampare la guerra.
Miss Kingsley ha affermato: “La credenza nei sortilegi causa più morti in Africa di qualsiasi altra cosa. Essa ha ucciso e continua ad uccidere in Africa più uomini e donne che la tratta degli schiavi.” (17) Non è raro che dieci persone vengano uccise per vendicare la malattia o la morte di una sola.
La conoscenza delle reazioni inconsce al lutto ci permette di affermare che la paura che i propri impulsi cattivi possano provocare la morte di una persona cara è una delle componenti normali del lutto. Le credenze magiche in sortilegi, che provocano la morte delle persone care, rappresenta perciò la forma più diretta di alienazione dell’ansia depressiva che accompagna il lutto. Il bisogno di accusare un altro della morte di una persona cara è la testimonianza più evidente dell’incapacità di tollerare la colpa in occasione
del lutto. E’ sorprendente dover constatare che questa incapacità di elaborazione del lutto è intimamente unita, nei popoli primitivi, allo scatenamento della guerra.
Allo stesso modo il bisogno di combattere per propagandare la propria religione sembra fondarsi sul fatto che si mette nell’altro la parte di noi che non crede per costringere noi stessi, messi nell’altro, a credere. Per cui il proselitismo, e quindi anche il proselitismo ideologico in genere, sarebbe il risultato della propria miscredenza ideologica inconscia. In tal modo anche le guerre tra popoli primitivi, che vengono scatenate per propagandare le rispettive religioni, si baserebbero su una elaborazione inautentica del lutto. Non si vuole solo far testimoniare dagli altri che siamo buoni e non odiamo la nostra religione (i morti vissuti nell’ambivalenza): dal momento che le parti cattive del sé vengono messe nell’altro, nell’altro deve avvenire anche la riparazione. La paura dei morti-spiriti, oltre ad essere elaborata nelle modalità sopra esposte, è intimamente legata alla vendetta del sangue.
La vendetta del sangue nei popoli primitivi si mette in moto quando un uomo viene assassinato. Poiché però ogni morte nell’inconscio è assassinio, ogni morte mette in moto la Vendetta del sangue.
Così la guerra diventa un dovere. La fantasia inconscia può essere così espressa: “Poiché ogni morto è ucciso da me, io sono colpevole di ogni morte, ma poiché questo mi porta al suicidio nella elaborazione melanconica del lutto, io devo mettere la colpa nell’altro e punirlo come me cattivo.” La mobilizzazione depressiva della colpa in rapporto alla mancata vendetta del sangue è particolarmente evidente sotto forma di perdita totale della autostima e del valore personale. L’uomo che non mette in atto la vendetta del sangue “viene coperto di sarcasmi dalle donne vecchie, se è celibe nessuna ragazza gli parlerà, se è sposato le spose lo abbandonano; sua madre si lamenterà di aver dato alla —luce un figlio così degenere, il padre lo tratterà con disprezzo, e sarà oggetto di pubblico disprezzo.(18)
Se uno del proprio sangue è stato ucciso si perde l’onore. In Albania l’uomo il cui onore è stato compromesso è ossessionato dall’idea della propria impurità: se la persona del proprio sangue viene uccisa si diventa impuri. Ciò significa che si diventa colpevoli. La macchia (cioè la colpa) deve essere lavata con il sangue; la macchia può essere pulita (cioè la repulsione può essere evitata) trovando il colpevole e uccidendolo (cioè mettendo al di fuori di sé sia la colpa che la punizione).
Questo è un processo di verificazione e di testimonianza tipico della situazione sociale: “Uccidendo l’uccisore potrò far chiaro a tutti che non sono stato io l’uccisore. Non sono stati tutti i miei desideri inconsci ad uccidere la persona del mio sangue; ad uccidere il mio consanguineo è stato un altro.” Come vedremo meglio più avanti sembra cioè che la società e le sue funzioni di testimonianza collettiva si riferiscano — in questi casi — a tutta una serie di processi di colpevolizzazione e assoluzione in relazione alla fenomenologia del lutto e dei rapporti del lutto con la guerra.
In Albania la vendetta del sangue è infatti un problema di tribù. Per la vendetta potrà bastare uccidere uno della tribù dell’uccisore, anche se è del tutto estraneo al delitto. L’uccisione dell’altro diventa pertanto la conquista dell’onore. La Durham racconta che in una tribù dell’Albania un frate francescano, volendo trattenere un vendicatore con la paura dell’inferno, si sentì rispondere: “Preferisco lavare il mio onore e andare in inferno.” E quando, ferito egli stesso nella vendetta, questi stava per morire, al frate che voleva indurlo al pentimento in punto di morte, dichiarò: “Non voglio né la tua assoluzione né il tuo cielo, perché ho lavato il mio onore.”
La Durham osserva: “Noi possiamo rammaricarci che il suo onore fosse a tal punto radicato nel disonore; ma c’è una grandezza tragica presso l’uomo che accetta di sacrificare tutto ciò che ha, tutto ciò che gli è caro, anche la vita, per fare ciò che crede giusto. Non tutti sono pronti a mettere i propri atti al livello dei propri ideali.” (19)
Questa “tragica grandezza” di cui ci parla la Durham contiene un grosso problema umano che dovremo cercare più avanti di chiarire.
Vale la pena comunque di rilevare che l’angoscia dell’inferno come esclusione dal rapporto con Dio e l’angoscia del disonore come esclusione dal rapporto con la propria tribù sono ad un certo punto la stessa cosa: esse elaborano m forme diverse la stessa angoscia originaria di separazione-abbandono al proprio oggetto d’amore quale è vissuta dal bambino e rivissuta in sede religiosa o in sede sociale.
Ci basta per il momento l’aver collegato la vendetta del sangue all’elaborazione paranoica del lutto e l’aver constatato che una delle funzioni della società nei popoli primitivi è quella di stabilire alcuni costumi, strettamente collegati al fenomeno guerra, che hanno il vero e proprio significato di elaborare nella modalità paranoica l’ansia depressiva del lutto.

4. La guerra e i sacrifici umani

Un altro capitolo della guerra dei popoli primitivi è quel­lo del rapporto tra la guerra e i sacrifici umani. Tra i diversi tipi di sacrifici umani, due dei più importanti sono l’offerta di vittime agli dei-spiriti e come nutrimento e come schiavi-domestici. (20)
Il sacrificio di vittime umane si presenta come una tipica tendenza riparativa messa in moto dalla situazione depressiva del lutto, Anche in questo caso però l’offerta della vittima sacrificale non implica un sacrificio del Sé (come avviene nell’elaborazione melanconica del lutto), ma la tendenza riparativa passa invece attraverso l’uccisione del nemico; è quindi il nemico, o meglio l’uccisione del nemico, che viene strumentalizzata come riparazione.
Le credenze che stanno alla base dei sacrifici umani sono così riassumibili: gli spiriti dei morti hanno gli stessi desideri che avevano da vivi. Se i loro desideri non sono soddisfatti stanno male: se stanno male diventano cattivi e si vendicano sui vivi. Bisogna quindi procurare loro delle soddisfazioni per renderli propizi. Tanto più che i morti sono invidiosi delle fortune dei vivi: il che va evitato, perché la loro invidia potrebbe procurare una grande quantità di disgrazie.
Il costume di sacrificare vittime sulle tombe dei morti sarebbe quindi una tipica risposta al lutto nel quale il morto viene fantasticato come un “bambino svezzato dalla vita.” Sembra che ai popoli primitivi ripugni ereditare qualcosa dai morti. Ciò costituirebbe una difesa dagli impulsi predatori impliciti nell’eredità. Quando un capo o qualche altro personaggio importante muore, tutti i capi del circondario inviano schiavi come doni da offrire allo spirito del
defunto. Nel Dahomey tutti i servitori e le donne favorite defunto vengono sacrificati ai suoi funerali, in modo si circondato delle cose che gli piacevano di più. Se muore un re, occorrono tante vittime e allora per procurarsele può essere necessario intraprendere una guerra. In tal caso sembra che il sentimento di colpa per le inconsce fantasie di appropriazione della potenza e degli attributi paterni, in occasione del lutto, vengano elaborati in senso riparativo attraverso la guerra che procura vittime sacrificali. I nemici allora diventano il ricettacolo degli impulsi predatori rivolti dai sudditi verso il defunto e il loro sacrificio rituale ne rappresenterebbe appunto la negazione. La singolarità di un tale procedimento etico-riparativo consiste dunque in una fondamentale alienazione dei sentimenti di colpa originati dal lutto, e nella guerra conseguente quale riparazione, anch’essa alienata in quanto attuata dal nemico. La guerra, in rapporto ali sacrifici umani, avrebbe quindi come movente psichico un fondamentale processo di alienazione per cui sia gli impulsi predatori, sia il senso di colpa per i medesimi, sia la riparazione per tali sentimenti di colpa, vengono declinati in chiave di oggetto-straniero-nemico di una integrale modalità paranoica di elaborazione del lutto.

5. La guerra e i cacciatori di teste

Un altro interessante capitolo della guerra dei popoli primitivi è quello riguardante il rapporto tra la guerra e la caccia alle teste.
Presso le tribù del Borneo, presso i Papua della Nuova Guinea, dei Kiwai, ecc., la caccia alle teste è una delle cause più ordinarie di guerra. Spesso non si attende e non si ottiene dalla guerra alcun altro vantaggio che l’acquisizione di teste.(21)
Un tale costume si basa sulla credenza religiosa che l’ani­ma sia situata in una zona del corpo umano e più precisamente nella testa. Così, se si riesce a decapitare un uomo, ci si può impadronire della sua anima attraverso il possesso della sua testa. La testa cacciata viene considerata ancora viva e di solito conservata con lo stesso amore con cui un religioso occidentale conserverebbe le reliquie di un santo. Poiché lo spirito del morto nemico, come quello del morto proprio, è sempre corrucciato con i vivi, gli spiriti che sono chiusi nella testa devono venir propiziati nutrendo le teste catturate e colmandole di doni. Dopo la propiziazione quelle teste diventano delle specie di numi tutelari, ai quali si rivolgono preghiere.(22) I Fang ritengono che le preghiere rivolte alle teste cacciate siano sempre esaudite.(23) Il possesso di una testa offre perciò la possibilità di esercitare un controllo assoluto e onnipotente su ogni accadimento nefasto. E’ una vera sorpresa trovare che un costume, il quale alla nostra sensibilità appare tanto crudele, si fonda in definitiva su evidenti fantasie di trasformazione dell’oggetto nemico in oggetto amico. La caccia alle teste, nei suoi contenuti magico-religiosi, sembra essere comprensibile nei termini in cui Melanie Klein ha descritto il meccanismo di controllo sadico — onnipotente come difesa maniacale dalle ansie persecutorie. Mentre nei sacrifici umani avevamo visto che l’elaborazione del lutto si esprimeva in una modalità tipicamente paranoica, attraverso l’alienazione sui nemico degli impulsi ostili dei sentimenti di colpa e delle difese, nel costume dei cacciatori di teste troviamo una modalità maniacale,(24) per cui la fondamentale ansia persecutoria nei riguardi degli altri morti viene controllata attraverso un meccanismo di negazione. Un tale processo di negazione, associato alla fantasia di controllo sadico — onnipotente, conduce alla trasformazione degli spiriti persecutori dei morti in numi tutelari, come oggetti buoni idealizzati. In tale senso maniacale sembra poter essere inteso il carattere di trionfo e di vanità, che si collega al rito della caccia alle teste. La testa è il trofeo che il vincitore esibisce come prova della sua invincibilità e valore (25); tema che sì collega alla maniacalità del trionfo e della gloria commessa intimamente alla psicologia sia della guerra dei popoli primitivi sia di quella in generale.
Allorché l’uomo primitivo reagisce alla morte di un membro della sua tribù come prodotta dalla magia nefasta di un uomo di un’altra tribù alla quale decide di fare la guerra, sappiamo che reagisce al sentimento di colpa per la morte del membro della propria tribù attraverso un meccanismo paranoideo.
Possiamo quindi affermare che i fattori psichici che determinano la guerra nei popoli primitivi, pur essendo intimamente legati al senso di colpa, ne rappresentano una fondamentale negazione.
La guerra avrebbe quindi origine, più che da sentimenti di colpa, da un fondamentale processo di alienazione morale. Non sarebbe il senso di colpa a produrre la guerra, ma la difesa paranoica dalla colpa stessa, cioè una modalità inautentica di elaborazione del lutto, Questa scoperta ci pare molto vicina alla scoperta di Freud relativa alla deflessione dell’istinto di morte e ne ha di fatto tutta la tragicità.
Abbiamo visto che la rinuncia alla guerra (intesa fondamentalmente come deflessione all’esterno dell’istinto di morte, nell’elaborazione paranoica del lutto) espone l’uomo ad un rischio autodistruttivo. Contrariamente a quanto comunemente si crede, il rinunciare a fare la guerra non sembra affatto costituire una situazione drammatica, in quanto espone colui che rinuncia a farsi distruggere dai nemici. Il fatto sorprendente è che il non fare la guerra (come abbiamo visto verificarsi nelle reazioni depressive che si hanno nei popoli primitivi privati di guerra con l’arrivo degli europei) esporrebbe ad un rischio autodistruttivo come vicenda collegata ai pericoli interni. E’ cioè la reinternalizzazione dell’oggetto cattivo come reinternalizzazione sul Sé degli istinti di morte che crea il pericolo dell’elaborazione del lutto.(26)
Il parlare di alcune esperienze della vita collettiva in termini psicotici o parapsicotici può sorprendere. Esso ha però soprattutto lo scopo di farci prendere coscienza della possibilità della nostra alienazione nel gruppo, della quale avremo modo di parlare più avanti quando dovremo parlare delle funzioni del gruppo come funzioni di difesa da ansie psicotiche. A tale proposito vale la pena di rilevare che nei popoli primitivi il singolo individuo ha la possibilità di occultare, attraverso il gruppo, la propria pazzia.
Riferendosi alla differenza tra la paranoia in Europa e le fantasie paranoidi riscontrate nei popoli primitivi, Roheim arriva alla conclusione che queste ultime possono essere vissute senza che determinino un conflitto con la realtà.
Allorché in una tribù australiana un individuo esprime le idee di influenzamento, la sua idea delirante può essere sufficiente per mettere in moto una vendetta del sangue. Avviene cioè che il gruppo gli offre la guerra alla tribù vicina come mezzo per risolvere le sue ansie persecutorie, come se il gruppo offrisse, con la guerra, una paradossale e comoda psicoterapia dei deliri del singolo traducendoli appunto in realtà.(27)
Nella sua forma più primitiva, perciò, la società è un’organizzazione che risolve in termini di realtà le ansie psicotiche. La guerra, pertanto, permette ai popoli primitivi di occultare, socializzandole, le loro pazzie private.
Per questa ragione Roheim si oppone decisamente alla tesi di Davie che tende a vedere la guerra dei popoli primitivi in funzione della concorrenza vitale, cioè in funzione dell’istinto di autoconservazione come lotta contro i reali pericoli nell’ambito generale della lotta per la vita. Secondo Roheim, tutte le guerre combattute dai primitivi nell’Australia sono contro la teoria di Davie della guerra dei primitivi come lotta per la vita. Egli porta a conferma di ciò l’autorità di eminenti etnologi e cita l’opinione del Wheeler secondo il quale “la guerra vera e propria ha origine solo come risultato della vendetta del sangue, dovuta all’uccisione, quasi sempre con mezzi magici, di un membro di una tribù da parte di un membro di un’altra tribù.”(28)
Strehlow — citato da Roheim — dà una spiegazione della guerra dei popoli primitivi dell’Australia che viene incontro in modo sorprendente alla nostra teoria della guerra come elaborazione paranoica del lutto: “Lo scopo delle guerre come spedizioni di vendetta (da parte di alcuni popoli primitivi) è quello di dare agli abitanti di un altro villaggio la stessa ragione di lutto che essi hanno avuto.”(29)
Roheim, in polemica con Davie, sostiene che studiando i popoli cannibali, dietro alcune dichiarazioni che appaiono più che altro delle bravate, si riscontrano immancabilmente complicati meccanismi di angoscia, conflitto e senso di colpa. Gli esseri umani, secondo Roheim, provano rimorso anche quando uccidono animali, e ipotetici uomini che praticassero il cannibalismo o la guerra senza impiegarli per risolvere conflitti interni, non sarebbero uomini e perciò probabilmente non sarebbero cannibali e non farebbero la guerra.
Un’importante affermazione di Roheim — sulla quale dovremo ritornare — riguarda il fatto che nell’uomo esiste un’autoaggressività in misura maggiore che negli animali. Egli riconduce tale prerogativa umana all’unità duale del bambino con la madre, come specifica all’uomo.
La natura umana tenderebbe a mantenere, sotto forma di finzione, ciò che non riesce a mantenere come
realtà.
Da ciò derivano le rappresentazioni della società come “un corpo solo” di cui gli individui sono “membri.”
Attraverso tali finzioni l’uomo cercherebbe di ricreare il passato in cui la sua vita era tutt’uno con un corpo reale: il corpo della madre.
Partendo dall’affermazione di Freud per cui il puro Io del piacere sente come proprio ciò che è piacevole e come alieno ciò che è spiacevole, Roheim trova nel gruppo la verificazione radicale di una tale scissione psichica originaria. Essa starebbe alla base sia del nazionalismo sia della guerra come in genere di ogni posizione schizoparanoide.
Per le ricerche sociali Roheim propone il metodo di chiarire i problemi della nostra esperienza infantile, studiare i modi di essere che scaturiscono da questa esperienza e successivamente applicare alla società le scoperte fatte sul bambino.
La società, secondo Roheim, seleziona meccanismi originari, escludendone alcuni e rinforzandone altri, durante l’evoluzione storica, così la guerra e le relazioni internazionali sarebbero basate essenzialmente su una verificazione sociale particolare della primitiva esperienza del bambino con la madre e col padre. “Il padre è il primo straniero nella vita del bambino e lo straniero è sempre il padre.”

6.Tendenze riparative verso il nemico nei popoli primitivi

Una dimostrazione del carattere fortemente razionalizzato che Davie ha impresso alla propria interpretazione della guerra dei popoli primitivi quale espressione della lotta per la vita, può esserci indicata dal fatto che nel suo libro non si trova alcun riferimento esplicito ai rituali di espiazione che seguono le guerre: rituali che in particolar modo si prestano a mettere in rilievo il senso di colpa che nei popoli primitivi accompagna il fenomeno guerra. Freud era rimasto particolarmente colpito da un tale problema e, come è foto, gli ha dedicato un capitolo di Totem e Tabù, collegando i rituali di espiazione dopo le guerre all’ambivalenza generale del tabù.
Non ci sembra utile in questa sede affrontare il problema del totemismo e tanto meno il carattere problematico che avrebbe assunto nella moderna antropologia il concetto stesso di totemismo per cui Lévi-Strauss ha parlato di “illusione totemica.” (30)
I fatti che ci interessano riguardano infatti il problema del tabù anziché il totemismo.
Ci interessa constatare che l’uccisione del nemico impone una serie di tabù, che sono analoghi a quelli rivolti ai capi della propria tribù e ai propri morti, e vengono trattati da Frazer nel capitolo dedicato al “Tabù e i pericoli dell’anima.” (31)
Tra i riti che seguono la guerra e rappresentano un’elaborazione del senso di colpa suscitato dall’uccisione in guerra si possono citare i già ricordati trattamenti riservati alle teste catturate dai cacciatori di teste. Tali trattamenti hanno cioè lo scopo sia di creare una riconciliazione col nemico ucciso sia di trasformare il nemico in amico o addirittura in nume tutelare.
Per ottenere questo effetto si eseguono danze, si recita un coro di propiziazione, in cui si piange il nemico ucciso e si invoca il suo perdono. “Non essere in collera con noi... Ti abbiamo offerto una vittima per placarti. Perché sei stato nostro nemico? Non sarebbe stato meglio che fossimo rimasti amici?”
La trasformazione del nemico in amico operata dai riti dedicati alle teste tagliate e portate al villaggio viene attuata con una specie di maternage funerario confermando l’ipotesi già espressa per cui il morto è fantasticato come un bambino svezzato dalla madre-vita. Le teste vengono trattate per dei mesi con particolare amore, e chiamate con i nomi più dolci di cui dispone la lingua primitiva. Ad esse sono riservati i bocconi migliori e attraverso tali gratificazioni orali si è persuasi di renderle amiche della nuova tribù. Presso molte genti selvagge dell’America del Nord per il nemico ucciso e scotennato si osserva un lutto particolarmente prolungato. Dorsay, citato da Frazer, ha rilevato che le tribù Osagon, dopo essere state in lutto per i propri morti, ripetono il lutto per il nemico come se si trattasse di un amico. Considerando tali trattamenti usati al nemico ucciso, Freud si rifà all’interpretazione più comune, che li riconduce alla paura dei morti in generale. “Troviamo in essi espressioni di rimorso e di stima per il nemico, di pentimento per averlo ucciso. Sembrerebbe che, molto prima di aver ricevuta dalle mani di un dio una legislazione, questi selvaggi conoscessero il comandamento ‘Non uccidere’ e che sapessero che ogni violazione di questo precetto portava con sé un castigo.” (32)
Bisogna notare che i riti di propiziazione e l’elaborazione del lutto nei casi citati, riguardano specialmente quelle tribù che hanno l’abitudine di portare con sé, per conservarle come trofei e amuleti, parti del corpo del nemico ucciso. Sembra lecito perciò ravvisare in tali costumi, nei quali una parte di un oggetto nemico viene portata e conservata nel proprio mondo privato, la verificazione diretta di ciò che la Klein ha chiamato il processo di internalizzazione di un oggetto parziale cattivo, a scopo di controllo delle ansie persecutorie. E’ innegabile tuttavia che i processi di propiziazione e di lutto testimoniano che presso questi popoli primitivi il nemico vinto viene elaborato anche come oggetto d’amore; come se, diminuita l’ansia persecutoria con l’uccisione del nemico primitivamente elaborato sul piano paranoideo, diventasse possibile un’elaborazione corretta del lutto.
Alcuni popoli primitivi, attraverso i riti di propiziazione e di espiazione sembrano arrivare, sul piano psicologico, al superamento di una posizione paranoidea verso il nemico.
Una constatazione questa che ci colpisce maggiormente se ricordiamo che alla fine delle due ultime guerre mondiali i vincitori hanno imposto ai tedeschi vinti l’obbligo di considerare se stessi gli unici colpevoli della guerra. Il bisogno tipicamente paranoideo di espellere da sé la colpa di tutte le distruzioni e di tutte le uccisioni e di metterla nel vinto, ci sembra, dal punto di vista della lealtà psicologica, nettamente regressivo rispetto ai costumi di quei popoli primitivi che sopra abbiamo citato.
I popoli primitivi appaiono infatti più leali nei riguardi delle necessità di colpa che l’uomo porta nel proprio inconscio e che fanno sentire la guerra come criminosa. Nell’isola di Timor il condottiero di una spedizione militare non può far ritorno direttamente alla sua casa dopo la guerra. Adesso gli viene riservata una dimora nella quale, per due mesi, egli e il suo seguito devono sottoporsi a diverse pratiche purificatorie. Per due mesi non può vedere sua moglie né prender cibo da solo, come se l’uccisione-distruzione che porta in sé per aver ammazzato i nemici potesse in qualche modo contaminare sia la moglie che il cibo.
Costumi analoghi sono stati riscontrati nei Dayak, a Logea, nella Nuova Guinea.
Fra i Monumbo della Nuova Guinea tedesca, chi uccide un nemico in battaglia diventa “impuro” come le donne durante la mestruazione. Se toccasse qualcuno dei suoi familiari, questi sarebbe colpito da bubboni: situazione che, al di là della sua apparente stravaganza, lascia intuire profonde realtà psicologiche, che l’uomo civile sembra essersi occultate e che, per Freud, si collegano alla ambivalenza verso il nemico.
Questo fatto ci sembra di importanza particolare agli effetti della discussione dei problemi della guerra in generale e in particolare in riferimento ai problemi della guerra atomica, sui quali dovremo ritornare. L’ambivalenza verso il nemico ci conduce cioè al paradosso rivelatoci dalla psicoanalisi, per cui, nel nostro inconscio, noi odiamo anche i nostri amici e amiamo anche i nostri nemici.
Abbiamo ricondotto le motivazioni che sembrano stare alla base delle cause psicologiche della guerra nei popoli primitivi, all’elaborazione paranoica del lutto. Siamo perciò colpiti dal vedere che i riti rivolti al nemico ucciso contengono invece un’elaborazione autentica del lutto, attuata nei riguardi del nemico, come se tale elaborazione del lutto, che implica il trattare il nemico come amico, fosse il rito della vita di pace. In altre parole, alcuni popoli primitivi sembrano fondare la pace sul fatto di responsabilizzarsi della morte dei nemici, come se la morte dei nemici provocasse in essi gli stessi processi psichici e gli stessi sentimenti di colpa, che vengono di solito mobilizzati in occasione della morte delle persone care.
Vedremo in seguito come le verità psicologiche contenute nei riti di propiziazione e nel lutto per i nemici uccisi potrebbero servire da indicazione per la fondazione di una prassi pacifista fondata sulle scoperte psiconalitiche.
Avremo modo di vedere che, secondo Money-Kyrle, la scissione tra oggetto amico e oggetto nemico è meno pronunciata presso i popoli primitivi che presso quelli più civilizzati. L’attuale situazione atomica conduce alla constatazione che la guerra riunisce nella distruzione simultanea l’oggetto amico e l’oggetto nemico: ciò spinge la vita dei gruppi verso la necessità di trattare il gruppo nemico come coinvolto nella stessa sorte del gruppo amico. Si tratta di una eventualità la cui realizzazione sembra molto problematica; essa però si è già verificata in alcuni costumi di guerra dei popoli primitivi.

7.  Miti di guerra come reviviscenza di fantasie primitive nella guerra di oggi

Alla fine della seconda guerra mondiale, Marie Bonaparte ha pubblicato un libro nel quale ha raccolto i miti della guerra fioriti in forme varie e diffusi presso diversi popoli durante l’ultimo conflitto. (33)
Affrontando prima di tutto il problema della mitologia germanica, rileva che Hitler rappresentò per i tedeschi la reincarnazione di Sigfrido. Una cartolina postale, diffusa in tutta la Germania, lo rappresentava infatti vestito con l’armatura scintillante di Sigfrido.
Analogamente a Sigfrido che forgia la spada invincibile, Nothung, con i resti della spada del padre spezzata nella lotta con Wotan, così Hitler riforgia l’esercito con i brandelli dell’armata tedesca, andata in pezzi durante la sconfitta della prima guerra mondiale.
Allo stesso modo in cui Sigfrido deve uccidere il drago che dorme sul tesoro, l’oro del Reno, anello del Nibelungo che conferisce la potenza mondiale, così Hitler deve combattere contro le plutocrazie e l’ebraismo internazionale che sono i padroni dell’oro, del Capitale internazionale.
Come Sigfrido sveglia la Walchiria, che lo saluta con il suo Heil, così Hitler risveglia la Germania (Deutschland erwache!) che lo saluta con i suoi “Heil Hitler.”
Come Sigfrido aveva rotto la lancia del dio padre Wotan, così Hitler voleva rompere la lancia dei padri-padroni del mondo, Churchill, Stalin, Roosevelt.
E come alla fine Sigfrido è stato tradito da Hagen, così anche Hitler è stato a sua volta tradito agli occhi dei nazisti vinti.
Questa sarebbe la leggenda di Hitler eroe salvatore, nata all’interno del suo paese. Ma all’esterno Hitler era diventato il genio del male, complice delle forze diaboliche (the forces of Evil). Anche Napoleone, idolatrato dai francesi, era stato visto dai popoli contro cui aveva combattuto come l’orco della Corsica. Ciò analogamente a quanto avviene nelle tribù primitive, dove gli dei della propria tribù sono buoni, mentre quelli della tribù nemica sono cattivi.
Oltre però alla mitologia legata alla leggenda di Hitler, Marie Bonaparte ha studiato altri curiosi miti di guerra, nei quali vediamo riaffiorare misteriose risonanze arcaiche: il mito del cadavere nell’auto, il mito del danaro indovinato, il mito del vino dell’intendenza, il mito del nemico impotente, il mito delle lacrime della madre, i miti che si riferiscono ad Albione minacciata.
Il mito del cadavere nell’auto e del danaro indovinato si collegano fondamentalmente allo stesso tema magico.
Il mito del cadavere nell’auto riguarda una storia raccolta durante l’ultimo conflitto mondiale in diversi paesi, su un tema comune. In esso appare chiaramente che il soldato, nel rito sacrificale di guerra, è sacrificatore e vittima. Nella sua forma più tipica si tratta della predizione della morte di Hitler e della fine della guerra, collegate però alla coincidenza con un’altra morte casuale. Una persona misteriosa, accolta fortuitamente in un viaggio in macchina, predice che un tale, di solito uno chiamato alle armi morirà nell’auto, che anche Hitler morirà e che la guerra finirà. In seguito un uomo muore realmente in un’auto e questa morte di un uomo chiamato alle armi viene impiegata per avvalorare la predizione della morte di Hitler e della fine della guerra.
Il mito del danaro indovinato, anch’esso elaborato in racconti raccolti in diversi paesi, racconta come una zingara riesca a indovinare, di solito su un autobus o su un treno, quanti soldi certi viaggiatori abbiano nel loro portafogli. Tale prestazione divinatoria fa da sfondo alla sollecitazione mossa alla zingara di predire quando finirà la guerra.
In tutti e due i casi, l’autenticità dell’aneddoto veniva garantita.
Marie Bonaparte interpreta la storia del cadavere nell’auto come un mito di carattere sacrificale, nel quale l’auto prende il posto dell’altare, sullo sfondo del simbolismo sessuale del viaggio in auto. Chi predice la morte è di solito una donna, mentre colui che morirà nell’auto è un uomo. Tutta la vicenda viene interpretata in chiave edipica per cui l’uomo che morirà nell’auto corrisponde ad un doppio di colui che guida l’auto, che è insieme considerato il sacrificante e il sacrificato. Il cadavere nell’auto rappresenterebbe dunque una forma di sacrificio umano attuato come propiziazione del destino, nel quale la morte di Hitler e la fine della guerra rappresenterebbero a loro volta la morte del padre, e la pace riconquistata starebbe al posto della madre.
Nel mito del danaro indovinato si tratta di una zingara che indovina il danaro che uno ha in tasca e questa sua capacità divinatoria, realmente testimoniata, viene messa al servizio della predizione della morte di Hitler e ricompensata con l’offerta di danaro.
In base a tali miti la pace sarebbe quindi un simbolo materno continuamente alienato dal padre-nemico. Come se la conquista della pace dovesse sempre essere pagata con il sacrificio del figlio, portato all’uccisione del padre-nemico.
Il mito del vino dell’intendenza riguarda una credenza molto diffusa in ogni esercito, secondo la quale, nelle bevande e nei cibi dati a soldati, verrebbe messa una qualche sostanza antiafrodisiaca che rende impotenti. Un tale mito è stato riscontrato in varie armate ed è collegato al fatto che all’inizio dell’ultima guerra si erano verificati tra i soldati molti casi di impotenza temporanea. La Bonaparte collega tale situazione, elaborata attraverso ansie persecutorie nei riguardi dell’intendenza, alla continenza propiziatoria.
La rinuncia all’attività sessuale attraverso l’impotenza, realmente verificatasi nei soldati all’inizio del conflitto, costituirebbe la reviviscenza, ai nostri giorni, dei riti arcaici di protezione dei soldati primitivi i quali quando andavano alla guerra, dovevano astenersi dall’andare con le donne. Presso molti popoli primitivi era diffusa la credenza che i rapporti sessuali consumati prima di andare in guerra indebolissero i guerrieri esponendoli alla sconfitta.
Ciò che nei primitivi è un vero e proprio rituale regolato dall’intera cultura della tribù, ai nostri tempi sarebbe diventata un’inibizione nevrotica elaborata persecutoriamente attraverso la fantasia di essere resi impotenti dai propri superiori.
I fenomeni di impotenza dei militari si collegherebbero quindi, per la Bonaparte, all’atteggiamento di propiziazione sacrificale che abbiamo visto nei due miti precedenti.
I miti del nemico impotente hanno per tema essenziale la negazione della pericolosità del nemico e la propria onnipotenza. Tipica a tale riguardo è la storia dell’automobile e del carro armato. Una Rolls-Royce (una Mercedes nella versione tedesca) viaggia in Germania (in Inghilterra nella versione tedesca). Ad un certo punto, la macchina che va a forte andatura si trova davanti d’un tratto una sfilata di carri armati. Non riuscendo a frenare, avviene l’urto tra l’auto e un carro armato tedesco (inglese nella versione tedesca). Il risultato dello scontro è che la macchina rimane illesa, mentre il carro armato va in frantumi. La idealizzazione della propria forza e la negazione della forza del nemico diventano la miglior rassicurazione maniacale contro le ansie persecutorie suscitate dai pericoli della guerra.
Il mito delle lacrime della madre si riferisce alle effigi della Madonna che secondo alcune credenze avrebbero pianto durante la guerra, sia in forma reale che in forma simbolica (la fonte di Sainte Odile in Alsazia e la Madonna di Sartène in Corsica), spargendo lacrime di propiziazione materna per le sofferenze dei figli.
Nella scia dei miti del nemico impotente e del proprio esercito onnipotente troviamo tutte le deformazioni di realtà che si operano durante la guerra e che si esprimono nella diversità in cui ogni stato maggiore belligerante dava notizie delle proprie perdite e delle perdite del nemico. Confrontando i vari bollettini di guerra dell’ultimo conflitto, risulta che le proprie perdite erano minime contro quelle ingenti del nemico. Così, all’inizio della guerra, i giornali francesi e inglesi parlavano del bluff hitleriano, mentre i tedeschi parlavano del bluff occidentale.
La Bonaparte poi riscontra il complesso di castrazione nell’elaborazione fantasmatica dei fatti politico-militari che dettero inizio alla seconda guerra mondiale.
In un colloquio con Henderson nell’agosto del 1939 Hitler sollevò contro i polacchi l’accusa capitale di aver castrato dei tedeschi. Ora la Bonaparte fa rilevare quattro punti del trattato di Versailles che sono stati particolarmente pericolosi per la pace in Europa. Fra questi l’obbligo imposto ai tedeschi di dichiararsi i soli responsabili della guerra sembra rientrare nello schema dell’elaborazione paranoidea del lutto. Ma il punto forse più grave fu l’istituzione del corridoio di Danzica il quale tagliava dal corpo della Germania la Prussia Orientale (parte fallica della Germania?). Il corridoio di Danzica creava cioè le condizioni migliori per attivare il complesso di castrazione di un grande popolo virile, e forse l’inconscio desiderio dei vincitori di castrare il vinto.
L’attentato di Monaco a Hitler mise in moto le interpretazioni più fantastiche.
I tedeschi lo attribuirono alla perfida Albione e all’Intelligence Service, gli Alleati da parte loro lo interpretarono come un attentato messo in atto da Hitler stesso allo scopo di infiammare e fanatizzare l’odio dei tedeschi. La fuga delle donne di fronte all’arrivo dei tedeschi per paura di essere violentate viene ricondotta dalla Bonaparte alla fuga davanti ai propri desideri inconsci.
Il lettore potrà trovare nel saggio della Bonaparte la documentazione di tutte le deformazioni che accompagnarono le vicende militari durante la guerra; quel che è certo, però, è che l’esigenza di proiettare le atrocità sul nemico sembra costante e comune a tutte le guerre e a tutti i popoli i quali vogliono poter odiare senza colpa.
Le stravaganti invenzioni delle pastiglie di benzina, dell’arma soporifera che avrebbe addormentato tutti gli inglesi, del raggio della morte, ecc. indicano chiaramente che la mentalità magica riaffiora nei miti di guerra. Il mito degli inglesi che avevano incendiato il mare per impedire lo sbarco, collegato al mito del mare alleato agli inglesi, degli attacchi respinti dall’Inghilterra, dei tedeschi bruciati e annegati nel tentativo di invasione e le terrificanti difese ignee dell’Inghilterra, sono particolarmente densi di materiale edipico e di angosce primarie.
L’imprendibilità dell’Inghilterra protetta dal mare ci rivela il mito della madre che difende con tutti i mezzi e tutte le forze il figlio prediletto dalle minacce del padre cattivo.
Non possiamo qui prendere in considerazione il mito dell’Ebreo-Satana, che si collega a tutto il grosso problema dell’antisemitismo, che sembra essere inquadrabile nello schema del nemico-interno. Vorrei però avanzare l’ipotesi che gli stessi elementi, che inconsciamente partecipano al fenomeno guerra, partecipano pure all’ostilità verso il popolo ospite.
E’ degno di rilievo che l’antisemitismo abbia voluto rendere gli ebrei responsabili delle ultime tre guerre — del ‘70, del ‘14 e del ‘39 — perché l’antisemitismo sembra contenere l’alienazione morale in cultura pura. Ma non si può non restare colpiti leggendo nello Sturmer, il settimanale dell’ispiratore delle leggi razziste, Julius Streicher, queste tre massime fondamentali:

1) Gli ebrei sono causa della guerra
2) Chi combatte l’ebreo combatte il diavolo
3) Gli ebrei sono la nostra disgrazia.

Infatti queste tre massime contengono le stesse accuse fondamentali che il inondo ha fatto a Hitler: di aver scatenato la guerra; di essere un’incarnazione del diavolo; di essere stato la causa della rovina dell’Europa.
L’aspetto più ovvio di questa constatazione è quello suggerito dal vedere che i nazisti hanno proiettato sugli ebrei il loro male; noi diremo la parte negativa di sé. Noi possiamo cioè verificare in modo integrale il carattere proiettivo della modalità in cui il nazismo ha costituito gli ebrei.
A questo punto sorge però una domanda inquietante. Il modo nuovo di considerare Hitler è una pura e semplice constatazione di realtà o contiene anche elementi proiettivi? In altri termini, Hitler oltre che essere ciò che realmente è stato può essere considerato anche come la proiezione della parte cattiva di ogni uomo? Dobbiamo pensare che la tendenza a porre la causa della seconda guerra mondiale al di fuori di noi (cioè solo in Hitler) è di fatto una delle tante modalità di elaborazione paranoica del lutto? Oppure dobbiamo ritenere che una tale radicalizzazione e generalizzazione delle operazioni dei meccanismi di proiezione è semplicemente un non senso ed è fuorviante perché ingenera solo confusione?
Per tutti noi può essere ovvio l’accettare di considerare l’antisemitismo una proiezione. Possiamo dire altrettanto delle nostre proiezioni su Hitler? Certo nella realtà Hitler è stato il carnefice e gli ebrei le sue vittime. Ma Hitler non è diventato Hitler proprio in quanto “senza giustificazione” ha attuato sugli ebrei le stesse proiezioni che noi ora con giustificazione facciamo su di lui?
A proposito di queste inquietanti domande, Marie Bonaparte ci ha ricordato — e io penso con grande coraggio— che “si fanno prestiti soprattutto ai ricchi,” intendendo con ciò affermare che il carattere realmente malvagio di Hitler non può essere impiegato per negare la natura proiettiva in alcuni nostri modi di considerarlo.

7 Torday e Joice, rIse Ba-Huana, JAI, XXVI, 289.

8 Crawley, Sexual Taboo, JAI, XXIV, 116.

6 La valorizzazione del lavoro avvenuta negli ultimi secoli della storia occidentale è stata accompagnata alla nuova valorizzazione sociale della donna. Engels infatti ha omologato la condizione proletaria alla condizione femminile.

10 Bennett, The Fang, JAI, XXIX, 93.

11 Roscoe, The Bahima, JAI, XXXVII, 94-95.

12 Keller, Homeric Society, p. 248, citato da Davie.

13 Tylor, Primitive Culture, II, 86, citato da Davie.

14 Thomson, Nativies of Savage Island, JAI, XXXI, 139.

15 E. Métais, Les sorciers nous tuent, "Cahiers Int. De Soc.," XXXV, 1963.

17 M. Kingsley, Travels in West Africa, pp. 315-19.

18 Tylor, Anthropology, p. 415, citato da Davie.

19 Durham, High Albania, JAI, XL, pp. 165-66.

20 lubbock, origin of civilization, pp. 240-43; tylor, primitive culture, ii, pp. 271, 383, 389, 403; summer e keller, science of society, cc. xxxv, xxxvi (citati da davie).

22 Davie, ibid., p. 214.

23 Bennett, The Fang, JAI, XXIX, 87.

24 Modalità maniacale (da mania = eccitamento euforico opposto alla depressione). La modalità maniacale è l’opposto di quella depressiva. La modalità maniacale si fonda essenzialmente su meccanismi di negazione della colpa e di negazione della perdita dell’oggetto d’amore.

25 Davie, ibid., p. 217.

26 Lo studio citato di Métais ci indica che l’abolizione della guerra nei popoli primitivi è disastettosa. ciò sembra però dovuto al fatto che la guerra è l’istituzione fondamentale dei popoli primitivi per cui, privati di guerra, essi si trovano ad essere privati della loro Istituzione culturale più essenziale. L’abolizione della guerra nella nostra società non sembra dover avere effetti disastrosi in quanto questa dispone di molte istituzioni culturali, indipendenti dalla guerra, che sono sconosciute si popoli primitivi.

27 Geza Roheim, War crime and the covenant, “Journ. of crim. Psy­chopath..” 1943, 4; Projection and the blood feud, ibid., 1943, 5; War and the blood feud, ibid., 1943, 5; Crime in primitive society, ibid., 1944, 5.

28 G. C. Wheeler, The tribal and intertribal relation in Australia, 1910,148-49.

29 STREIILOW, Die Aranda und Loritjasttlme Ztuald Australien, Frankfurt, IV, Abt. II.

30 Lévi-Strauss, Il totemismo oggi, Feltrinelli, Milano, 1964.

31 J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Einaudi, Torino, 1950.

32 Freud, Totem e Tabù, Laterza, Bari, 1946.

33 Marie Bonaparte, Mythes de guerre, Presses Univ. De France, Paris, 1950