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per Operatori del Benessere Immateriale
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Il volto e la voce
del tempo di Ayres Marques
La Fotografia Terapeutica in Animazione |
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In quante famiglie i nipotini ricevono dai nonni i primi rudimenti della fede!… Proprio mentre vengono meno le energie e si riducono le capacità operative, questi nostri fratelli e sorelle diventano più preziosi nel disegno misterioso della Provvidenza. Anche sotto questo profilo, dunque, oltre che per un’evidente esigenza psicologica dell’anziano stesso, il luogo più naturale per vivere la condizione di anzianità resta quello dell’ambiente in cui egli è “di casa”, tra parenti, conoscenti e amici, e dove può rendere ancora qualche servizio. (Giovanni Paolo II) 5. L’anziano in famiglia Il nonno e la nonna, soprattutto quando sani e attivi, rappresentano oggi un importante cuscinetto sociale, svolgendo un ruolo fondamentale nella cura dei nipotini e rappresentano un sostegno materiale, economico e psicologico per i figli (che sempre più tardi “mettono su” casa e famiglia). Le generazioni più giovani probabilmente non potranno contare su questo cuscinetto, in virtù della scelta sempre più frequente di rimandare la formazione di una nuova famiglia con figli. Una realtà molto diversa si presenta alle famiglie che hanno tra i propri componenti un anziano malato non autosufficiente da accudire, e rappresentano il 13% le famiglie italiane che si trovano in questa condizione. Dati forniti negli anni ’90 dal Ministero della Sanità – Consiglio Sanitario Nazionale, rivelavano che l’88% delle famiglie se ne prendeva cura direttamente, mentre il 9,8% di esse si avvaleva del supporto di operatori e soltanto il 2,4% affidava l’anziano alle istituzioni. Il Professor Massimo Mengani osserva ancora che, se nel 1999 la percentuale di anziani con più di 65 anni era del 17,71%, nel 2024 passerà al 25,75% e che la percentuale di ultrasettantacinquenni (fascia di età in cui l’incidenza della disabilità senile aumenta) sarà del 13,28%, quando nel 1999 era di appena il 7,51%. Il Professor Mengani sostiene che la famiglia sopporta oggi un carico assistenziale improprio e che poco probabilmente potrà continuare in futuro a garantire all’anziano un supporto assistenziale consistente e continuo. Questa previsione si rafforza se consideriamo, accanto alla riduzione della natalità e della composizione media dei nuclei familiari e all’allungamento dell’aspettativa di vita, la maggior presenza della donna nel mercato del lavoro, fattori che riducono la disponibilità di figure femminili per mansioni di cura dell’anziano informali all’interno della famiglia. A questo proposito viene ricordato che l’assistenza famigliare all’anziano è un’attività di competenza quasi esclusivamente femminile. Sono le mogli, le figlie, le nuore i primi soggetti che vengono chiamati ad occuparsi dell’anziano disabile. Le ricerche di Facchini (1994) evidenziano che è in particolare la donna tra i 45 e i 65 anni ad assumersi il maggior carico nei riguardi del genitore o del marito non più autosufficiente. Sono proprio loro i soggetti più a rischio di depressione e stress, in misura maggiore degli uomini. Nel caso in cui l’anziano assistito sia affetto da demenza, l’impatto sullo stile di vita della famiglia e specialmente su quello dell’assistente (caregiver) è notoriamente maggiore (Dogliotti et al., 1994). Queste considerazioni spiegano perché il soggetto attivo di tutela (caregiver) si trasforma col tempo in soggetto di domanda di tutela (Scortegagna, 1996) affetto da “patologia da assistenza”: stress, depressione, ansia (Pernigotti, 1994). Lo stato italiano, per sostenere l’anziano non autosufficiente, ha privilegiato i provvedimenti di carattere economico, come assegni, pensione di invalidità e indennità di accompagnamento piuttosto che forme di sostegno basate su beni e servizi. Lo stato riconosce la necessità di aumentare e diversificare l’offerta di sostegno all’anziano e alla famiglia dell’anziano non autosufficiente. In questo senso, sono state avviate delle forme innovative: il programma di Assistenza Domiciliare Integrata (A.D.I.) che offre supporti sociali, psicologici, infermieristici e riabilitativi a domicilio e l’Ospedalizzazione Domiciliare (O.D.) che prevede l’assistenza infermieristica, visite mediche e consulenze specialistiche a domicilio. Nonostante questi sforzi, viene sottolineato dal Professor Mengani che sono sempre maggiori le difficoltà causate dall’attività di assistenza ad un famigliare anziano quando ad occuparsene è prevalentemente o solamente la famiglia, e conclude affermando che la società italiana è chiamata a rispondere con urgenza a questa sfida, se vorrà assicurare livelli dignitosi di assistenza alla crescente popolazione anziana, nel rispetto della qualità di vita dell’intera comunità. Il tempo e la
pazienza possono più della forza e della rabbia. (Jean de la Fontane) Racconti di famiglia 1 Mamme in guerra I miei genitori sono nati entrambi negli anni ’30 ed è naturale per loro, quando sorge l’occasione, raccontare gli anni della II Guerra Mondiale, quando erano ancora ragazzini ma vivevano sulla loro pelle le conseguenze di quella terribile fase storica. Nel mio caso, i racconti di famiglia più frequenti fanno riferimento agli ultimi anni della guerra, all’8 settembre, alla ritirata dei tedeschi e all’avanzata degli alleati. Per mia fortuna, nessuno della mia famiglia è scomparso durante la guerra, e questo relativizza un po’ il peso dei loro ricordi. Anche chi è stato deportato o è sopravvissuto ai bombardamenti, poi è riuscito a vivere dignitosamente dopo la guerra. Inoltre, sia mio padre che mia madre hanno un grande umorismo nel raccontare, per cui alcuni episodi drammatici diventano tragicomici e suscitano addirittura qualche risata. Quello che in particolare mi ha sempre colpito è lo spirito con cui le mie nonne, le mie zie e mia madre, hanno affrontato la vita in quegli anni: niente odio, niente panico, ma un grande senso di protezione verso i figli, i nipoti, i fratelli più piccoli. Mia madre ama raccontare che nonna Maria, all’epoca madre di 4 figli, abitava vicino ad una zona militare e nonostante la paura degli aerei che decollavano e atterravano di giorno e di notte sul campo di aviazione lì vicino, non smise mai di portare da mangiare al marito e ai parenti che lavoravano per i campi. Tra il 1944 e il 1945, trovandosi tra le azioni partigiane, le rappresaglie dei militari tedeschi e la presenza dei soldati polacchi, nonna non si perdeva d’animo e quando necessario offriva cibo a tutti i soldati che passavano (occupanti e liberatori), sperando così di salvare la tranquillità della sua famiglia. Un certo giorno, dopo aver nascosto il marito nell’armadio per paura della deportazione, affrontò da sola le richieste insistenti di due ufficiali tedeschi che volevano bestiame per il trasporto e cibo per i soldati (erano ormai alla fame). Preparò una bella tavolata di affettati e vino, si lamentò di vivere con i figli piccoli senza il marito prigioniero (bugia a fin di bene!) e dirottò gli ufficiali verso contadini più “ricchi” di lei che avrebbero potuto sopportare la perdita di un bue o una mucca. Anche la mia nonna paterna, che si chiamava naturalmente Maria, aiutava qualsiasi persona si presentasse a chiedere qualcosa da mangiare (partigiani, soldati tedeschi, a lei non importava), forse nella segreta speranza che suo figlio prigioniero in Germania potesse ricevere lo stesso trattamento da qualche donna generosa come lei... chissà? Ma i racconti di zio Luigi, cugino di nonno, tornato a casa in maniera avventurosa dopo la tragica “campagna di Russia”, mi hanno confermato che questo spirito non è appartenuto solo alle “nostre” nonne, zie e mamme, ma anche alle donne che – dall’altra parte della barricata – stavano affrontando con coraggio e determinazione una guerra che sarebbe finita in modo disastroso per tutti. Zio scappò durante la ritirata con un amico, e i due riuscirono a sopravvivere i primi giorni dopo la fuga solo grazie all’ospitalità di una donna russa che diede loro un posto per dormire e una zuppa di verdure per rifocillarsi. Arrivarono a casa sani e salvi, dopo un lungo viaggio fatto su vagoni merce, carretti, biciclette e infine a piedi, ringraziando Dio ma anche l’umanità di quella donna per averla scampata. Non vorrei cadere nello stereotipo della donna = madre = bontà infinita, ma a volte penso che noi donne possiamo offrire qualcosa di speciale all’umanità, soprattutto nei momenti di crisi, di non comunicazione e quindi di conflitto. Cosa ne dite? Gigliola Capodaglio
Racconti di famiglia 2 Prima Comunione e rubinetti dell’acqua Nonostante la guerra fosse finita nel 1945, la ricostruzione nei quartieri periferici di Ancona andava a rilento. E, come succede spesso, prima si fanno i coperchi e poi le pentole. Le strade erano state asfaltate, la corrente elettrica ripristinata e quindi c’era il filobus che funzionava. Mancava però l’acqua corrente nelle case. Non c’erano proprio i rubinetti da nessuna parte, tranne che nel lavatoio, un vasto locale in pietra, aperto a tutte le massaie del quartiere che ci andavano a lavare i panni e dove, anche i bambini, andavano, con le brocche di alluminio, a prendere l’acqua per i comuni bisogni casalinghi. Era una faticaccia ed un disagio, anche se faceva bene al cuore sentire le donne che tra una risata ed una chiacchiera, spesso si mettevano a cantare in coro, mentre facevano il bucato. In quel giorno di settembre del 1956 noi, figlie di Emilia, dovevamo fare la Prima Comunione. La data era stata stabilita con notevole anticipo dal parroco e nessuno prevedeva che, proprio quell’estate sarebbero iniziati i lavori per portare le tubature dell’acqua nelle case. Strade rivoltate da profonde scanalature, accesso ai portoni consentito solo da passerelle di legno, polvere dappertutto e fango quando pioveva. Emilia, come tutte le altre mamme, ci aveva fatto confezionare dei bellissimi abiti bianchi. Il pranzo per parenti ed amici, si sarebbe svolto nel cortile di casa nostra, dal quale si entrava e usciva soltanto attraverso la casa stessa. Figuriamoci che problema sia stato portare tavoli, sedie, piatti (quella volta c’era molta solidarietà, erano i vicini che mettevano insieme le cose che occorrevano). Le lasagne, i polli e conigli arrosto, i dolci erano stati preparati in precedenza e portati al forno rionale per la cottura. Quella mattina, molto emozionate ed orgogliose del nostro aspetto, siamo uscite io e mia sorella, facendo molta attenzione a non sporcarci. Dopo la bella cerimonia siamo andati in un parco vicino casa a fare le fotografie e poi tutti a casa a mangiare! Per pavoneggiarci un po’ con i nostri cuginetti, abbiamo fatto vedere loro i rubinetti nuovi nuovi, li abbiamo aperti convinte che non ci fosse niente (era così fino al giorno prima) ed è uscito invece un getto d’acqua di un brutto color marrone che ci ha schizzate e sporcate da capo a piedi. A quel rumore mia madre si è alzata al grido di “Acqua, finalmente acqua!!!”. Gli invitati sono venuti tutti a constatare il miracolo del progresso ed è finita a spruzzi e lazzi. Solo qualche uomo è rimasto seduto ed imperturbabile ha borbottato: “È sempre meglio il vino!”. Alla fine, la vera festa è stata solo per quei rubinetti gocciolanti. La nostra Prima Comunione è diventata Seconda, per importanza. Per fortuna, perché quando mamma Emilia ha dovuto lavare i vestiti, anziché lamentarsi, ha apprezzato molto di poterlo fare in casa. Rosanna Lucioli |
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