I giochi e gli uomini. La maschera
e la vertigine
di Roger Caillois scarica txt.zip Prefazione di Pier Aldo Rovatti | Note all'edizione italiana di Giampaolo Dossena |Traduzione di Laura Guarino | Titolo originale Les Jeux et les hommes - Le masque et le vertige | 1967 Editions Gallimard | 1981/2010 RCS Libri S.p.A. |
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II gioco come attitudine naturale, ma anche nelle sue forme più strutturate e finalizzate, rispecchia i complessi meccanismi mediante i quali le società elaborano e trasmettono i propri modi di organizzare il mondo. Attività al tempo stesso libera e vincolata, creativa e ripetitiva, il gioco ha infatti accompagnato la civiltà umana, arricchendosi via via di significati simbolici e rituali. Ricomponendo sotto il segno del "gioco" osservazioni sparse di etologi e pedagogisti, filosofi e etnologi, letterati e teatranti, con questo importantissimo saggio del 1958, Caillois tenta una classificazione di attività e regole apparentemente lontane. Sottolinea così una possibile differenziazione delle pratiche ludiche, riconducendole tutte a quattro modalità fondamentali: la competizione (agon), la sorte (alea), La maschera (mimicry), la vertigine (ilinx). Queste coordinate si combinerebbero di volta in volta tra loro, determinando le due facce, opposte e complementari, del gioco: il ludus, inteso come scaltrezza , calcolo, abilità e pazienza; la paidia, percepita invece come turbolenza, improvvisazione, scarto ed ebbrezza. Un affascinante esempio di curiosità intellettuale. Un classico dell'antropologia umana. Roger Caillois nasce nei pressi di Reims nel 1913. Si diploma brillantemente all'Ecole Normale Supèrieure di Parigi (1936). Dirige riviste come "Les Lettres Frangaises" (1941-1945) e la Trance libre" (1945-1947), oltre alla prima collezione europea di narrativa sudamericana, dal titolo Scienze umane. Accademico di Francia nel 1917, muore nel 1978. è autore di Vocabolario estetico pubblicato da Bompiani.
PREFAZIONE di Pier Aldo Rovatti Un'isola precaria. Questo libro, pubblicato in Francia nel 1958, è ormai diventato un "classico" nel suo genere. Prima, troviamo solo Homo ludens di Johan Huizinga che era uscito nel 1939 in tedesco e che rimane - come Caillois stesso riconosce - il primo classico contemporaneo sull'argomento. Successivamente si è scritto molto sul gioco e sui giochi e basterebbe un occhio alla psicologia e alla pedagogia per rendersi conto di quanto possa essere ampia la relativa bibliografia critica, senza contare lo sviluppo della teoria matematica dei giochi o l'uso della metafora del gioco in filosofia e nella critica letteraria o artistica. Tuttavia al libro di Caillois non ha fatto seguito nessun altro tentativo unitario di interpretazione del gioco, condotto - come accade qui - attraverso una descrizione e una classificazione applicate direttamente al mondo dei giochi. Semmai, è stato lo stesso Caillois a mettere a frutto le proprie idee coordinando un'èquipe di studiosi che ha dato vita (nel 1967) a un volume della prestigiosa enciclopedia della "Plèiade" intitolato Jeux et sports.1 Huizinga, olandese, era uno storico del Medioevo: uno storico magari poco amato dagli storici di professione, ma non tanto per la sua vena idealistica, quanto per il suo sincretismo e il suo sguardo libero. In Homo ludens2 afferma che il gioco è un operatore decisivo di ogni cultura e che, se andiamo a scavare un poco, scopriamo che il mondo del gioco e il mondo del sacro appartengono al medesimo universo. Huizinga, che tra l'altro scrive in tempi bui, deplora che la fondamentale componente ludica della cultura - che identifica nella "competizione regolata" - si sia imbastardita e corra il rischio di andar perduta. Caillois è un "sociologo", ma le virgolette sono d'obbligo. Il suo sapere e il suo modo di studiare le cose, se certo non corrispondono a quelli dello storico, però non corrispondono neanche a quelli abituali del sociologo. Negli anni Trenta aveva scritto libri importanti sul mito e sul sacro e si può ben dire che il suo oggetto di ricerca fosse, almeno in un primo tempo, la "società " e, in particolare, alcuni fenomeni che non rientravano (e non rientrano) nell'idea comune di razionalità , il gioco fra questi. Ma al medesimo titolo possiamo dire che Caillois si è occupato di antropologia e di filosofia, nonchè di poesia e di quanto attiene alla sfera dell'immaginazione; ma poi non possiamo certo negare che Caillois intendesse il suo lavoro al pari di quello dello scienziato, uno scienziato che si rivolge fin dall'inizio al mondo della natura e che finisce con lo scrivere alcune opere, singolari e uniche nel loro genere, dedicate alle pietre. Un filosofo tedesco di scuola fenomenologica, Eugen Fink, in un suo saggio del 1957,3 dice che il gioco è una "oasi della gioia". Caillois sembra rispondergli dicendo: il gioco è una "isola incerta". Il gioco è dunque qualcosa di "circoscritto", oasi o isola che sia, uno spazio a sè, in certo modo chiuso, sicuramente "separato" dalla realtà comune. Anche Huizinga aveva insistito su questa separatezza, parlando di uno "spazio magico" entrando nel quale sospendiamo le regole e i modi della vita quotidiana. Ma un'isola di incertezza è altra cosa da un'oasi di felicità : la dimensione "ludica" non è ovviamente scindibile dal piacere di giocare, tuttavia Caillois dà alla parola "gioco" e all'aggettivo "ludico" un'intonazione ben diversa: la bella e leale competizione che aveva in mente Huizinga (il modello della contesa cavalleresca) diventa in Caillois un'esperienza inquietante caratterizzata piuttosto dall'aleatorietà , dall'ambiguità della maschera e dall'effetto squilibrante della vertigine. Entrare nel gioco, in-ludere, non significa per lui solo entrare in una dimensione illusoria, già di per sè instabile, ma anche esporsi al rischio e infine partecipare di quello stato "incandescente" ben noto all'esperienza del giocatore d'azzardo. La bella felicità descritta (e rimpianta) da Huizinga si drammatizza nel senso suggerito dalla comune espressione "mettersi in gioco". Si tratta comunque di una drammaticità che si combina strettamente con un altro carattere del gioco che a Caillois interessa evidenziare, e cioè la "gratuità ". Il gioco è gratuito e, quando è "regolato", le sue regole valgono esclusivamente come regole di quel gioco: non alludono alle regole della vita, non le simulano o imitano, non sono un allenamento o un addestramento alla vita. Il gioco dunque non è nè utile nè produttivo, anzi in generale si manifesta come un'attività "in pura perdita". Ed è in considerazione di questo che Caillois, dopo aver riconosciuto il debito che lui stesso e noi tutti abbiamo nei confronti di Huizinga (che con il suo libro apre la strada), mette in discussione la equivalenza tra gioco e sacro. Lo fa nelle pagine iniziali de I giochi e gli uomini, riprendendo gli argomenti di una recensione pubblicata alcuni anni prima sulla rivista "Confluences".4 Sottolineo questa critica perchè non è così
ovvia. Anzi, ci saremmo aspettati che Caillois valorizzasse una dimensione,
cui appartengono la tensione iniziatica e il segreto, il sacro appunto,
in un quadro che si caratterizza poi (in Huizinga) come un'estetica
delle regole e quindi tende a svalutare l'equivalenza individuata
all'origine. Nel 1939 Caillois aveva pubblicato L'homme et le sacre
e i suoi interessi di quegli anni si erano in gran parte polarizzati
intorno a tale questione. Inoltre, il giocatore d'azzardo, che è
certo la figura sulla quale il lavoro successivo sui giochi fa centro,
ha a che fare con il sacro, e precisamente con il "sacro di trasgressione"
come lo chiama Caillois, nella sua vocazione alla "perdita".
Ma Caillois scorge una precisa differenza tra la dimensione religiosa
con il necessario investimento che la accompagna e la dimensione ludica
la quale invece rimanda solo a se stessa in una sorta di auto-investimento.
Caillois non nega che molti giochi, se andiamo a vederne le origini,
ci riconducano alle pratiche religiose, ma poi se ne separano e si
affermano nella loro specifica gratuità di giochi. Per
esempio, il gioco del pallone, che oggi è diventato un fatto
sociologico di primaria importanza, presso i Maori è un rito
che si collega ai miti della conquista del cielo: la posta in gioco,
e cioè il pallone medesimo, rappresentava il sole. Ma poi il
gioco del pallone, fino all'attuale football, si sgancia da questo
teatro del mito e il pallone cessa di rappresentare il cielo da conquistare.
Il gioco diventa, ed è, un rito senza mito, anzi un rituale:
qualcosa di meramente profano opposto - si direbbe - al sacro, in
cui il divertimento non ha più nulla a che fare con la tensione
religiosa: e anche la "trasgressione" del giocatore
d'azzardo va intesa come qualcosa di puramente profano, un paradossale
sacro-profano nettamente "separato" dall'esperienza
religiosa. Osserviamo, in margine, che Caillois compie questo passo
anche sotto la suggestione di un Questa rettifica avviene soprattutto mediante un passaggio, dal singolare al plurale, dal gioco ai giochi. In altre parole, Caillois crede che si possa ricostruire il campo delle pratiche ludiche solo se riusciamo ad evitare un pregiudizio (filosofico, potremmo chiamarlo) che si presenta come una indebita reductio ad unum. Sta qui la discriminante principale che Caillois traccia nei confronti di Huizinga, e (aggiungo) nei confronti di tutte le filosofie del gioco (per esempio, nei confronti dei lavori di Fink). Nella ricordata recensione, Caillois scrive: "Ma un punto resta in questione: il gioco è veramente uno".6 Possiamo ridurre il gioco a un'idea unitaria di gioco? Non ci mette sulla strada il fatto che l'esperienza ludica ha ricevuto ed ha, nelle diverse lingue, una sorprendente varietà di nomi i quali talora indicano caratteri e aspetti assai diversi del gioco? Il progetto di Caillois nasce da queste domande. Ammettiamo pure
che l'esperienza ludica possa essere riconosciuta come qualcosa di
comune a tutti gli uomini e a tutte le compagini socio-culturali (senza
dimenticare gli animali), tuttavia a un'eventuale identificazione
di tale esperienza non si arriva per via astratta (riflettendo sul
concetto di gioco), ma ci si può arrivare solo allargando l'indagine
ai vari tipi di gioco e ai vari modi di giocare, insomma attraversando
l'universo dei giochi giocati senza preclusioni (intanto, rimuovendo
il pregiudizio nei confronti dei giochi d'azzardo), e solo in un secondo
momento ipotizzando un ordine o una classificazione. Così Caillois
perviene alla sua tipologia la quale - schematicamente - riconosce
quattro forme del gioco: l'agon, l'alea, la mimicry e l'ilinx. Ovvero:
la competizione, la sorte, la maschera e la vertigine. Rispetto a
Huizinga, l'orizzonte viene decisamente allargato, e direi sfondato.
Con l'aggiunta di un'indicazione epistemo
Un fanciullo "nato vicino a Reims poco prima del 1914 a cui toccò il privilegio ormai raro di trascorrere l'infanzia in campagna", ma "nulla in quel figlio d'una terra gessosa annunciava l'amante delle pietre". Un adolescente che "incontra al liceo tre o quattro compagni fra cui Renè Daumal, ed il piccolo gruppo si organizza come una specie di società segreta della conoscenza". Un giovane intransigente che brucia esperienze intellettuali: "il surrealismo, la sua seconda grande esperienza, sarà anch'essa attraversata di corsa, e il sodalizio con Georges Bataille, mente acuta e geniale, ma per tanti aspetti molto lontana dalla sua, durerà ancora meno. Eppure ha lasciato un segno profondo in Caillois".8 Nel retrobottega di una libreria parigina, tra il 1937 e il 1939, si brucia con pari rapidità l'esperienza del Collège de sociologie: Caillois, che ne è il vero promotore, insieme a Bataille e a Michel Leiris lancia l'idea di una sociologia del sacro proprio negli anni più cupi del fascismo. In quelle riunioni, che hanno ancora il tono della società segreta, passano Klossowski, Kojève, Wahl... Marguerite Yourcenar lo incontrerà per la prima volta nel 1943: "Eravamo entrambi esuli volontari, lui sotto la Croce del Sud, io in un'isola spesso irradiata dall'aurora boreale, e Caillois accettò di buon grado un mio lungo saggio per la rivista Les Lettres francaises di cui era direttore a Buenos Aires".9 Un uomo, infine, dal "rigore ostinato" che aborriva ogni convenzione e che pensava che in campo letterario bisognasse tornare allo "stato ardente della lava", un poeta dunque ma insieme e soprattutto uno scienziato: Caillois, che già allora aveva scritto libri importanti come Le mythe et l'homme (1938) e L'homme et la sacrè (1939), sapeva distinguere in modo netto tra l'esperienza solo letteraria del fantastico e la "vera" esperienza del fantastico, quella che si può scoprire, osservare e studiare non solo nei fenomeni laterali tra la normalità e la follia ma anche nei fenomeni "insoliti" del mondo naturale: proprio a casa di Brèton, il padre del surrealismo, aveva scoperto i fulgoridi, insetti dotati di una mostruosa protuberanza frontale, insetti "mascherati" da coccodrilli... La "poetica" di Caillois, la sua idea di "immaginazione" e di "immaginario", non ha infatti bisogno di un mondo onirico che raddoppia la realtà poichè è la descrizione della realtà stessa, osservata nella sua dimensione bizzarra e nascosta. La lezione dei suoi maestri, Marcel Mauss e Georges Dumèzil, si traduce in questa ostinazione di conoscere trasversalmente (o meglio, diagonalmente) il gioco delle analogie. Più tardi e alla fine verranno gli stupefacenti lavori sulle pietre, nella convinzione che negli archivi della geologia si può già trovare il modello di ciò che in seguito sarà un alfabeto. Ma la Yourcenar non ha dubbi: il libro su I giochi e gli uomini, sulla maschera e la vertigine, è il perno dell'intera opera. E se Dumèzil non aveva saputo trovare alcun difetto in questo edificio del gioco ("come un tempio a quattro file di colonne"), la Yourcenar di suo aggiunge: Tutte le attività ludiche esistenti e possibili sono puntualmente contemplate da quest'opera dalla bella struttura logica e geometrica. Ma qualcosa mi fa pensare che questo libro assiale è allo stesso tempo una piattaforma girevole".10 Da questa piattaforma possono partire quelle "diagonali" che a Caillois interessano: la diagonale del sopravvento della forza e dell'intelligenza, quella della funzione spossessante della maschera, gli abissi che la sorte e la vertigine permettono di costeggiare. E'bella e felice quest'immagine della piattaforma girevole perchè ci serve a capire la mobilità intellettuale di Caillois ma ci dà anche un suggerimento per leggere il libro in un modo forse più vicino alle intenzioni dell'autore: il gioco non è "uno" bensì appunto qualcosa di simile a una piattaforma girevole con lati e aspetti diversi collegati da una logica circolare. E se poi certamente qui ci troviamo all'apice del lavoro di Caillois "umanista", è però anche vero che il gioco, così inteso, agisce come un volano dall'effetto decentrante. Scentra l'uomo, che infatti non risulta disporre del proprio gioco e che anzi viene assorbito nel gioco dell'alea, della mimicry e dell'ilinx. Movimento di assorbimento dell'uomo nel gioco della natura assecondando il quale Caillois procederà "dal nuotatore all'onda" (come suggerisce con un'altra felice immagine la Yourcenar) fino ai libri sulle pietre, alle Recurrences dèrobèes (1978) e soprattutto al Fleuve Alphèe (1978). "L'uomo che scriverà Bellone ou la Pente de la guerre sa bene che il gioco si confonde con la guerra; l'autore di Meduse et Cie [1960], sa che il piacere di ubriacarsi o di travestirsi è comune a molte specie animali [...] In Cases d'un èchiquier [1970] il gioco degli scacchi e l'umile gioco dell'oca diventano il simbolo di qualcosa che ha in sè e oltrepassa ogni vita".11 Forse è all'opera in Caillois, dall'inizio alla fine, una certa indifferenza per l'uomo: così la Yourcenar sembra concludere il suo ritratto. è vero che, studiando le affinità tra il mondo della vita e il mondo inorganico, Caillois mostra infine di essere più attratto da quest'ultimo. Ma il gioco è piuttosto un volano, un'andata e ritorno: ed è dal luogo del gioco che Caillois si fa maggiormente ascoltare. L'umile gioco dell'oca, interminabile, con i suoi arresti, le pene e i premi: in Cases d'un èchiquier12 il giocatore tenta di allargare le regole di un gioco al quale non ha chiesto di partecipare ma che non gli è consentito di abbandonare. Un gioco in cui siamo "imbarcati", che lo vogliamo o no; come già aveva detto Pascal.13
Il gioco non è solo prova di sè e capacità ordinata di vincere gli ostacoli, è anche paidia, ovvero turbolenza, fantasia incontrollata, improvvisazione. Qui il piacere sembra cambiar natura: si associa al "divertimento" nel senso più proprio di questa parola, come nel caso di tutte le manifestazioni che hanno a che fare con l'eccitazione, l'allegria e il riso. Ciò che dà piacere nella paidia (e già il termine ci rimanda al mondo infantile) è lo scarto, la sorpresa, la novità , ma poi anche l'eccesso e l'ebbrezza. Di conseguenza, ci avverte Caillois, se ricerchiamo quale sia il piacere del gioco, troveremo uno scenario doppio o ambivalente, abitato tanto dal ludus quanto dalla paidia, dallo scorrimento dall'uno all'altra, dal gioco dei loro effetti polari, complementari e compensatori. C'è dunque, fin da subito, un movimento non riducibile ad un vettore unico, un'instabilità non semplificabile, che sembra appartenere all'esperienza stessa del giocare. Questa mobilità polare e instabile la ritroveremo puntualmente, proprio come un secondo registro (secondo, ma decisivo) nella geometria dei quattro assi o caratteri o tipi del gioco che infatti Caillois prima circoscrive e poi annoda. Nell'agon la potenza del ludus è massimamente rappresentata: nei giochi agonali, qualunque sia il livello di "regola" che li organizza, è in gioco la "padronanza di sè", la capacità dell'individuo, l'affidamento nelle proprie capacità e responsabilità . Al contrario, nei giochi che possiamo raccogliere sotto il tipo alea, l'individuo è passivo, la sua soggettività quasi scompare dinnanzi al tiro dei dadi o alla pallina della roulette. Il colpo fortunato, quello che può addirittura cambiare la vita o da cui comunque ci si aspetta un repentino cambiamento, prescinde dall'impegno del giocatore: anzi, si direbbe, il piacere di questo gioco con il destino (e anche con la morte) è commisurato alla capacità del giocatore di "stare al gioco", cioè di corrispondere alla passività della sorte, di saper accettare l'alea. Se nell'agon non conta l'entità della posta, nell'a/ea può sembrare che la posta sia tutto, e in certi casi la posta è davvero tutto: d'altra parte, l'alea ci rivela, meglio di ogni altro tipo di gioco, che uno degli aspetti caratterizzanti ogni esperienza ludica è di essere "in pura perdita": chi azzarda è già un perdente, ha già messo in conto la perdita, grande che sia, e da qui ricava il piacere specifico dell'azzardo. Anche nella mimicry - il terzo asse disegnato da Caillois - è in gioco una perdita. Mimicry è un termine inglese che significa mimetismo e che si riferisce in particolare al mimetismo degli insetti: ricordiamo la maschera mostruosa degli insetti fulgoridi che aveva attratto il giovane Caillois... Perchè perdita? Perchè nella maschera, nel mascherarsi e poi in tutti i fenomeni della mimicry che riguardano la teatralizzazione e anche la spettacolarizzazione della nostra vita quotidiana, a cominciare dal teatro infantile in cui i bambini si raccontano storie e così giocano, il piacere specifico è quello di uscire da se stessi e di impersonare un altro, di "diventare" un altro - è il caso di dire. Come Caillois sa, a giocare ai fantasmi si diventa fantasmi: ma poi quel che Caillois sottolinea e che soprattutto gli preme è osservare che noi vogliamo diventare fantasmi e che di fatto diventiamo fantasmi almeno un poco. Il gioco della maschera è una deliberata esposizione all'alterità e dunque ai suoi effetti. La maschera arcaica è spossessante e terribile, incute paura: quell'uomo che fa la parte del dio irato nella festa o nella danza rituale, per coloro che partecipano al rito è una divinità irata e lui stesso è preda di uno stato di possessione o di trance. Poi arriverà il dio burlone e ironico ad "allentare" la tensione di questo gioco... e infine la maschera si svuoterà del potere terribile che l'insetto fulgoride testimonia con la sua grottesca mostruosità . Tuttavia, per quanto lontane e rimosse, le istanze originarie della maschera mantengono delle sopravvivenze, e se così non fosse non capiremmo da dove viene il piacere di Buscherarsi o di prendere il ruolo e le fattezze di un altro. Modesta che sia, l'esperienza resta quella del piacere di una messa a repentaglio della propria identità attraverso uno scarto, uno sbilanciamento, uno spaesamento, per quanto leggero. Se il gioco qui rivela il suo carattere di finzione, il piacere della finzione sembra allora corrispondere a un occultamento momentaneo di sè e all'effetto equivoco che si produce negli altri (ma anche in se stessi) grazie a questa "alterazione". La paura della maschera sembra scomparsa, ma non è stata completamente cancellata: infatti resta uno scarto dalla realtà normale (quello scarto per il quale qualunque gioco è in qualche misura un gioco di finzione) e tale esperienza mantiene un rapporto con il rischio. Rischio che compare enfatizzato fino all'eccesso nell'ilinx. è il termine più strano tra quelli coniati o riutilizzati da Caillois, e non per caso. Si tratta di una parola greca ma assai meno comune del termine agon: la traduciamo con vertigine, ma la traduzione letterale è "gorgo". Qui la piattaforma circolare, che possiamo prendere quale metafora della circolarità di giochi e del gioco come esperienza complessiva, prende a muoversi vorticosamente: ci inebria come quando fissiamo una trottola, o danziamo avvitandoci sempre più rapidamente su noi stessi, ci dà un senso di ebbrezza, e ci tira giù nel suo giro abissale. Fin da ragazzo - secondo la testimonianza della Yourcenar - Caillois era attratto da simili esperienze di giochi vertiginosi: in ogni caso l'ilinx è l'ombelico della sua teoria dei giochi, il punto chiave o, meglio, di fuga di tutto il suo edificio. Un edificio, allora, il cui armonioso equilibrio è quanto meno instabile. Lo scorrere della piattaforma produce nozze e divorzi: agon e alea, mimicry e ilinx, ma poi anche alea e ilinx... Ogni epoca storica, ci ricorda Caillois, ha la sua forma di gioco, ma nessuna forma è "pura" e il gioco delle opposizioni e delle complementarità non si riassorbe mai. I tipi che si affermano non cancellano completamente quelli che ormai sembrano abbandonati: non solo essi si mantengono in forme "degenerate" ma se poi dimenticassimo che il gioco altro non è che il movimento dell'intera piattaforma, ed ha sempre una base instabile (se non altro per l'ambivalenza tra ludus e paidia), ci impediremmo di comprendere qualunque esperienza ludica. Come Huizinga, Caillois individua un processo storico che tacita tale esperienza e tende a ridurla. Così alla società della mimicry-ilinx ha dato il cambio la civiltà dell'agon-alea, che è l'unica forma di civiltà che oggi concepiamo, regolata da un dosaggio di merito personale e di sorte: non solo le chanches individuali sono accompagnate da un margine di alcatorietà , ma talora la sorte è l'ultimo criterio di equità , la garanzia di imparzialità e di uguaglianza. L'agon, osserva Caillois, è comunque l'unico aspetto del gioco cui attribuiamo un valore, tutti gli altri vengono penalizzati come disvalori. Disvalore è la possessione della maschera, disvalore l'ebbrezza della vertigine, e disvalore viene anche considerata la cecità della sorte. Ne consegue l'evoluzione culturale dell'idea di gioco nella direzione appena accennata. Tuttavia questa "culturalizzazione", che è sotto gli occhi di un osservatore come Caillois (e a maggior titolo sotto i nostri) anche nei suoi aspetti più spettacolarizzati e involgariti, rende solo meno visibile il giro della piattaforma: è in fondo il motivo per cui viene scritto questo libro. Non tanto per classificare, quanto per far esplodere ogni volta l'idea di gioco, anche quando essa pare sopita e neutralizzata rispetto ai suoi "disvalori". Chi ha detto che un bambino che gioca non sa dell'azzardo? E vero che riusciamo a controllare il teatrino e1 i ruoli passando agilmente da uno all'altro di essi? C'è qualcuno che si sottrae davvero all'esigenza di affidarsi a una scommessa e a tentare magari per una volta la sorte? La risposta di Caillois è manifesta nella sua simpatia per l'ilinx. E non c'è neppure bisogno di soffermarsi sui voladores messicani (cui è dedicata un'appendice), che magari ci possono sembrare lontani. Basterebbe considerare l'assurdità di quel gioco che fanno gli uccelli quando si lasciano cadere in picchiata per poi riprendere a volare quando già pare che si schiantino per terra. Ma poi, a veder bene, qualsiasi novità , anche la più piccola, è uno spostamento del limite e quindi ha una qualche affinità con quella prova e perdita di sè di cui è fatta l'ilinx. Ancora l'agon, ma adesso girato verso l'alea e l'ebbrezza... Dal che consegue che l'uomo non è affatto padrone del suo gioco, dei suoi giochi. Ognuno di noi è una casella nel grande gioco dell'oca, una mossa in una partita di scacchi di cui non conosciamo mai tutte le regole. Il piacere ludico è certamente connesso al piacere specifico che ricaviamo da un gioco particolare, ma poi si collega a quel girare della grande piattaforma e alla nostra capacità di stare al gioco. Di saper accettare o abitare l'incertezza dell'isola, il rischio e lo squilibrio. INTRODUZIONE - Avvertenza: le note indicate con la numerazione romana sono quelle di Giampaolo Dossena, in numerazione araba quelle dell'autore.Innumerevoli sono i giochi e di vario tipo: giochi di società , di destrezza, d'azzardo, giochi all'aperto, giochi di pazienza, giochi di costruzione, ecc. Nonostante la quasi infinita varietà e con costanza davvero notevole, la parola gioco richiama sempre i concetti di svago, di rischio o di destrezza. E, soprattutto, implica immancabilmente un'atmosfera di distensione o di divertimento. Il gioco riposa e diverte. Evoca un'attività non soggetta a costrizioni, ma anche priva di conseguenze per la vita reale. Si contrappone alla serietà di questa e viene perciò qualificato frivolo. Si contrappone al lavoro come il tempo perso al tempo bene impiegato. Il gioco, infatti, non produce alcunchè: nè beni nè opere. A ogni nuova partita, giocassero pure per tutta la vita, i giocatori si ritrovano a zero e nelle stesse condizioni che all'inizio. I giochi a base di denaro, scommesse o lotterie, non fanno eccezione: non creano ricchezze, le spostano soltanto. Questa fondamentale gratuità del gioco è appunto l'aspetto che maggiormente lo discredita.I Ed è al tempo stesso ciò che consente di abbandonatisi con assoluta spensieratezza e lo mantiene isolato dalle attività produttive. Ognuno, fin dall'inizio, si persuade così che il gioco è soltanto divertente capriccio e futile evasione, qualunque sia l'attenzione che vi si pone, le facoltà che stimola, il rigore che viene richiesto. Lo si avverte chiaramente nella frase di Chateaubriand: "La geometrie spèculative a ses jeux, ses inutilitès, comme les autres sciences." Con queste premesse, tanto più significativo appare il fatto che storici eminenti, dopo accurate ricerche, e scrupolosi psicologi, dopo indagini ripetute e sistematiche, abbiano convenuto di fare dello spirito ludico una delle molle principali, per le società , dello sviluppo delle manifestazioni più alte della loro cultura e, per l'individuo, della sua educazione morale e della sua evoluzione intellettuale. Il contrasto fra un'attività minore, ritenuta trascurabile, e i risultati essenziali che improvvisamente vengono iscritti a suo merito, appare così assurdo da far insinuare il dubbio che si tratti di un qualche paradosso più ingegnoso che fondato. Prima di esaminare le tesi o le congetture dei fautori del gioco, mi sembra utile analizzare le nozioni implicite che sono insite nell'idea stessa del gioco,II così come appaiono nei diversi impieghi della parola al di fuori del suo senso proprio, quando viene usata sotto metafora. Se il gioco è realmente una molla primordiale di civiltà , i suoi significati nascosti non possono che rivelarsi altamente istruttivi. In primo luogo, in una delle sue accezioni più correnti, e
anche più vicine al senso proprio, la parola "gioco"
indica non soltanto l'attività specifica cui dà
il nome, ma anche la totalità delle figure, dei simboli
o degli strumenti necessari a questa attività o al funzionamento
di un insieme complesso. Si dice infatti "gioco di carte"
per indicare l'insieme delle carte impiegate in un dato gioco; "gioco
di scacchi" per designare il complesso dei pezzi indispensabile
per giocare a questo gioco. L'insieme di elementi è completo
e numerabile: un elemento in più o in meno, ed ecco il gioco
diventare impossibile o apparire falsato, a meno che la sottrazione,
o l'aggiunta, di uno o diversi elementi non sia annunciata in anticipo
e non corrisponda a una precisa intenzione: com'è il caso del
jolly nel mazzo di carte o del vantaggio che dà un certo
pezzo nel gioco degli scacchi allo scopo di ristabilire l'equilibrio
fra due giocatori di forza disuguale. Allo stesso modo, si parlerà
La parola "gioco" indica ancora lo stile, il particolare modo di esprimersi di un interprete, attore o musicista, vale a dire i caratteri originali che distinguono dagli altri il suo modo di suonare uno strumento o di recitare una parte. Pur dovendo restare aderente al testo o alla partitura, gli resta pur sempre un certo margine di libertà per manifestare la propria personalità con inimitabili, sottilissime sfumature o variazioni. Il termine "gioco" mette quindi insieme le idee di limite, di libertà e d'invenzione. E, per estensione, esprime una straordinaria mescolanza in cui si riconoscono congiuntamente le idee complementari di fortuna e di abilità , di risorse concesse dal caso o dalla fortuna e della più o meno viva intelligenza che le mette in opera e cerca di trarne il massimo profitto. Un'espressione come avere buon gioco corrisponde al primo senso, altre come giocare prudente, giocare d'astuzia si rifanno al secondo; altre ancora, come scoprire il proprio gioco o, al contrario, dissimulare il proprio gioco, si riferiscono inestricabilmente ad ambedue i sensi: vantaggio iniziale e abile impiego di una sapiente strategia. L'idea di rischio viene subito a complicare dei dati già abbastanza ingarbugliati: la valutazione delle risorse disponibili, il calcolo delle eventualità prevedibili si accompagnano ben presto a un'altra speculazione, una sorta di scommessa che presuppone un confronto fra il rischio accettato e il risultato che ci si aspetta. Da cui, locuzioni come mettere in gioco, giocare forte, giocarsi la carriera, giocarsi la vita, o anche la constatazione che il gioco non vale la candela, cioè che tutto il profitto che ci si può aspettare dalla perdita resta sempre inferiore al costo della luce che la illumina. Il gioco appare, di nuovo, come una nozione straordinariamente complessa che mette insieme un dato di fatto, una "mano" favorevole o infelice, in cui il caso è sovrano e che il giocatore eredita in base ai capricci della sorte senza poterci far niente, un'attitudine a trarre il miglior partito da queste risorse così discontinue, che un calcolo sagace fa fruttare e la negligenza dissipa, e infine una scelta fra la prudenza e l'audacia che introduce un'ultima coordinata: la misura in cui il giocatore è disposto a puntare su ciò che gli sfugge piuttosto che su ciò che controlla. Ogni gioco è un sistema di regole.III Esse definiscono ciò
che è o non è gioco, vale a dire il lecito e il vietato.
Queste convenzioni sono al tempo stesso arbitrarie, imperative e senza
appello. Non possono essere violate con alcun pretesto, pena l'interruzione
e la fine immediata del gioco. Nient'altro, infatti, sostiene la regola
se non il desiderio di giocare, vale a dire la volontà
di rispettarla. Bisogna giocare secondo le regole o non giocare affatto.
Ora, stare al gioco è un'espressione che si impiega in moltissimi
altri casi al di fuori del gioco, e anzi soprattutto al di fuori di
esso, in un'infinità di azioni e rapporti che si cerca
di regolare in base a delle condizioni implicite molto simili a quelle
del gioco. E tanto più conviene sottomettervisi dal momento
che nessuna sanzione ufficiale punirà il partner sleale.
Semplicemente, cessando di stare al gioco, egli avrà
reinstaurato lo stato di natura e permesso nuovamente ogni imposizione,
astuzia o reazione proibita, che le conve La parola "gioco" evoca, infine, un'idea di libertà ,
di facilità di movimento, una libertà opportuna
ma non eccessiva, quando si parla di gioco di un meccanismo, di un
ingranaggio,IV o quando si dice che una nave ha un certo gioco rispetto
l'ancora, alludendo al movimento consentito dallo spazio fra la nave
e l'ancora. Questo spazio rende possibile un'indispensabile mobilità .
è il gioco che sussiste fra i diversi elementi a rendere possibile
il funzionamento di un meccanismo. D'altra parte, questo gioco non
dev'essere eccessivo, perchè in questo caso la macchina sarebbe
come impazzita, andrebbe a ruota libera. Questo spazio, accuratamente
calcolato, impedisce dunque che la macchina si blocchi o si guasti,
perda il suo ritmo. Gioco significa dunque la libertà
all'interno del rigore stesso, affinchè questo acquisisca o
conservi la sua efficacia. D'altronde, l'intero meccanismo può
essere considerato come una sorta di gioco in un senso che il dizionario
precisa nel modo seguente: â
Vi sono casi in cui i limiti si attenuano, la regola sfuma, altri, al contrario, in cui la libertà e l'invenzione sono sul punto di sparire. Ma gioco significa che i due poli sussistono e che fra l'uno e l'altro è mantenuto un certo rapporto. Esso propone e propaga delle strutture astratte, delle immagini di spazi chiusi ed esclusivi, in cui possono esercitarsi ideali convergenze. Strutture e convergenze che costituiscono altrettanti modelli per le istituzioni e i comportamenti. Naturalmente, esse non sono direttamente applicabili alla realtà sempre confusa e ambigua, complicata e multiforme. Interessi e passioni non vi si lasciano dominare facilmente. Violenza e tradimenti sono moneta corrente. Tuttavia, i modelli offerti dai giochi costituiscono altrettante anticipazioni di quell'universo regolato che è opportuno sostituire all'anarchia naturale. Ridotta all'essenziale, questa è l'argomentazione di un Huizinga, quando fa derivare dallo spirito ludico la maggior parte delle istituzioni che regolano le società o delle discipline che concorrono alla loro fama immortale. Il diritto rientra incontestabilmente in questa categoria: il codice enuncia la regola del gioco sociale, la giurisprudenza la estende ai casi controversi, la procedura definisce la successione e la regolarità delle mosse. E vengono prese delle precauzioni affinchè tutto si svolga con la chiarezza, la precisione, l'onestà e l'imparzialità di un gioco. I dibattimenti vengono svolti e la sentenza emessa in un'aula di tribunale, in base a un rituale fisso, e indubbiamente ricordano rispettivamente l'aspetto consacrato al gioco (recinto, pista o arena, scacchiera), la rigida separazione che deve tagliarlo fuori dallo spazio circostante per tutta la durata della partita o dell'udienza, e infine il carattere inflessibile ed essenzialmente formale della regolamentazione in vigore. Anche in politica, tranne quando si ricorre alla forza (e allora non si sta più al gioco), esiste una regola dell'alternanza che porta successivamente al potere, e nelle stesse condizioni, partiti opposti. Il gruppo che governa " e sta correttamente al gioco, conformandosi cioè alle disposizioni stabilite e senza abusare dei vantaggi che gli dà l'usufrutto momentaneo del potere " esercita il potere senza approfittarne per mettere fuori gioco l'avversario o togliergli ogni probabilità di succedergli legalmente. Senza di che, si darebbe via libera alla cospirazione e alla sommossa. Tutto degenererebbe allora in una brutale prova di forza cieca e sorda al richiamo moderato di fragili convenzioni: quelle che avevano come conseguenza di estendere alla lotta politica le leggi chiare, distaccate e incontrovertibili delle rivalità controllate. Nel campo estetico le cose non vanno diversamente. In pittura, le
leggi della prospettiva sono in gran parte delle convenzioni. Esse
generano delle abitudini che, alla fine, le fanno apparire naturali.
Le leggi dell'armonia, per la musica, quelle della prosodia e della
metrica per l'arte dei versi, ogni altra regola, unità
o canone per la scultura, la coreografia o il teatro, costituiscono
parimenti altrettante legislazioni, più o meno esplicite e
dettagliate, che guidano e al tempo stesso limitano il creatore. Sono
le regole del suo gioco. D'altra parte, esse danno luogo a uno stile
comune e riconoscibile in cui si riconciliano e si compensano la disparità
del gusto, la prova della difficoltà tecnica e i capricci
del genio. Queste regole hanno qualche cosa di arbitrario e il primo
venuto, se le trova assurde o soffocanti, è libero di rifiutarle
e dipingere senza prospettiva, scrivere senza rima nè cadenza,
comporre suoni al di fuori della regolamentare armonia. Così
facendo, egli non sta più al Neppure la guerra è il campo della violenza pura, ma tende a essere quello della violenza regolata. Le convenzioni limitano le ostilità nel tempo e nello spazio. Queste iniziano con una dichiarazione che puntualizza solennemente il giorno e l'ora in cui il nuovo stato di cose entra in vigore. E termina con la firma di un armistizio o di una resa che ne puntualizza allo stesso modo la fine. Altre restrizioni escludono dalle operazioni belliche le popolazioni civili, le città aperte, tentano di proibire l'impiego di determinate armi, garantiscono il trattamento dei feriti e dei prigionieri. All'epoca delle guerre cosiddette cortesi, perfino la strategia è convenzionale. Marce e contromarce vengono decise e si articolano come tante combinazioni di scacchi e può anche capitare che dei teorici ritengano il combattimento addirittura inutile ai fini della vittoria. Guerre di questo tipo sono quindi molto simili a una sorta di gioco: omicida, sterminatore, ma che obbedisce a determinate regole.
I giochi agonistici, di competizione, fanno capo agli sport, i giochi d'imitazione, di travestimento, prefigurano il teatro. I giochi d'azzardo e combinatori sono stati all'origine di innumerevoli sviluppi nel campo della ma tematica, dal calcolo delle probabilità allo studio degli spazi topologici. Lo si vede chiaramente: il panorama della fertilità culturale dei giochi non cessa d'essere impressionante. E il loro contributo a livello dell'individuo non è da meno. Gli psicologi riconoscono al gioco un ruolo capitale nel processo dell'autoaffermazione nel bambino e nella formazione del suo carattere. Giochi di muscoli, di destrezza, di calcolo, sono esercizio e allena mento. Rendono il corpo più vigoroso, più agile, più resistente, la vista più acuta, il tatto più sapiente, lo spirito più metodico o più sagace. Ogni gioco potenzia, affina, qualche facoltà fisica o intellettuale. Attraverso il divertimento e la perseveranza, rende facile ciò che all'inizio appariva difficile o stressante. Contrariamente a quanto si sostiene spesso, il gioco non è un apprendistato del lavoro. Esso non anticipa che in apparenza le attività dell'adulto. Il ragazzino che gioca col cavalluccio o col trenino non si prepara affatto a diventare cavaliere o macchinista, nè si prepara a fare la cuoca la bambina che ammannisce in ipotetici piatti alimenti fittizi insaporiti da finti odori. Il gioco non prepara a un mestiere preciso, esso allena in generale alla vita aumentando ogni capacità di superare gli ostacoli o di far fronte alle difficoltà . è assurdo, e non serve a niente nella vita reale, lanciare il più lontano possibile un martello o un disco di metallo, o riprendere e rilanciare continuamente una palla con una racchetta. Ma è utilissimo avere, dei muscoli possenti e dei riflessi pronti. Il gioco presuppone, ovviamente, la volontà di vincere, utilizzando nel migliore dei modi certe risorse e vietandosi di far ricorso ai colpi proibiti. Ma esige qualcosa di più: bisogna superare in lealtà l'avversario, fidarsi di lui per principio e combatterlo senza animosità . Bisogna anche accettare in anticipo lo scacco eventuale, la sfortuna o la fatalità , rassegnarsi alla sconfitta senza rabbia nè disperazione. Chi si adira o si lamenta si discredita. Infatti, laddove ogni nuova partita appare come un inizio assoluto, niente è perduto e il giocatore, invece di recriminare o abbattersi, ha modo di raddoppiare i propri sforzi. Il gioco invita, abitua ad attenersi a questa lezione di padronanza di sè e a estenderne la pratica all'insieme dei rapporti e delle vicissitudini umane dove la concorrenza non è più disinteressata, nè la fatalità circoscritta. Un tale distacco nei confronti dei risultati dell'azione, anche se resta apparente e sempre da verificare, non è virtù da poco. Certo, questa padronanza è molto più facile nel gioco, dove in qualche modo è di rigore e dove sembra che l'amor proprio si sia impegnato in partenza a rispettarne gli obblighi. Tuttavia, il gioco mette in moto i diversi vantaggi che ciascuno può aver ricevuto dalla sorte, mobilita il suo miglior impegno, la fortuna cieca e inesorabile, l'audacia del rischio e la prudenza del calcolo, la capacità di mettere insieme queste diverse specie di gioco, che è a sua volta gioco e gioco più alto, di più vasta complessità , nel senso che è arte di unire proficuamente forze non facilmente componibili. In un certo senso, niente quanto il gioco esige attenzione, intelligenza, resistenza nervosa. è provato che esso porta la persona a uno stato per così dire d'incandescenza, che la lascia senza forza e senza energie, passato il momento culminante, l'acme dell'impresa, raggiunto come per miracolo nell'exploit o nella resistenza. Anche qui, il distacco è degno di lode. Come il fatto di accettare di perdere tutto sorridendo su un tratto di dadi o una carta voltata dal mazziere. Inoltre, bisogna considerare i giochi di vertigine e il brivido di voluttà che assale il giocatore al fatale rien-ne-va-plus. Questo annuncio pone fine al potere discrezionale del suo libero arbitrio e rende inappellabile un verdetto che stava solo a lui di evitare non giocando. Alcuni attribuiscono forse paradossalmente un valore moralmente formativo a questo profondo smarrimento deliberatamente accettato. Provare piacere di fronte al panico, esporvisi spontaneamente per tentare di non soccombervi, avere davanti agli occhi l'immagine della rovina, saperla inevitabile e non riservarsi altra via d'uscita se non la possibilità di affettare indifferenza, è, come dice Platone per un'altra scommessa, un rischio affascinante e che vai la pena di esser corso. Ignazio di Loyola sosteneva che bisognasse agire contando solo su se stessi, come se Dio non esistesse, ma ricordando costantemente che tutto dipendeva dalla sua volontà . Il gioco non è una scuola meno severa. Esso impone al giocatore di non trascurare alcunchè per la vittoria, pur mantenendo le debite distanze nei suoi confronti. Ciò che si vince può essere perduto, è anzi destinato a essere perduto. Il modo di vincere è più importante della vittoria stessa e, in ogni caso, più importante della posta in gioco. Accettare l'insuccesso come un semplice contrattempo, la vittoria senza ebbrezza nè vanità ; questo distacco, quest'ultima riserva nei confronti della propria azione, è la legge del gioco. Considerare la realtà come gioco, dare maggior spazio a questo atteggiamento nobile e magnanimo che allontana, mortifica l'avarizia, l'avidità e l'odio, è far opera di civiltà . Questo perorare in difesa del gioco esige una palinodia che ne metta
brevemente in luce debolezze e pericoli. Il gioco è attività
di lusso e presuppone del tempo libero. Chi ha fame non gioca. In
secondo luogo, dal momento che non vi si è costretti e che
esso è tenuto in vita unicamente dal piacere che vi si prova,
il gioco resta alla mercè della noia, della sazietà
o di un semplice cambiamento d'umore. D'altra parte, esso è
condannato a non costruire nè produrre alcunchè, perchè
è insito nella sua natura annullare i propri risultati, a differenza
del lavoro e della scienza che capitalizzano i loro e, più
o meno, trasformano il mondo. Esso sviluppa inoltre, a scapito del
contenuto, un rispetto superstizioso della forma che può diventare
maniacale non appena ci si metta di mezzo il gusto dell'etichetta,
del punto d'onore o della casistica, i giochetti della burocrazia
o della procedura. Il gioco, infine, sceglie le sue difficoltà ,
le isola dal loro contesto e per così dire le irrealizza. In questo risiede il difetto principale del gioco. Ma fa parte della sua natura e, senza questa caratteristica, il gioco sarebbe parimenti sprovvisto della sua fertilità . PARTE PRIMA 1. DEFINIZIONE DEL GIOCO
Huizinga ha svolto molto brillantemente questa tesi, ma, se è vero che egli scopre il gioco dove prima di lui non si era saputo riconoscerlo, è anche vero che egli trascura deliberatamente, come ovvia, la descrizione e la classificazione dei giochi stessi, come se corrispondessero tutti agli stessi bisogni ed esprimessero indifferentemente lo stesso atteggiamento psicologico. La sua opera non è uno studio dei giochi, ma una ricerca sulla fecondità dello spirito ludico che presiede a una determinata specie di giochi: i giochi di competizione regolata. L'esame delle formule di partenza di cui si serve Huizinga per circoscrivere il campo delle sue analisi aiuta a comprendere le strane lacune di un'inchiesta d'altronde notevole sotto tutti i profili. Huizinga definisce il gioco nel modo seguente: "Considerato per la forma si può dunque, riassumendo, chiamare il gioco un'azione libera, conscia di non essere presa "sul serio" e situata al di fuori della vita consueta, che nondimeno può impossessarsi totalmente del giocatore; azione a cui in sè non è congiunto un interesse materiale, da cui non proviene vantaggio, che si compie entro un tempo e uno spazio definiti di proposito, che si svolge con ordine secondo date regole, e suscita rapporti sociali che facilmente si circondano di mistero o accentuano mediante travestimento la loro diversità dal mondo solito."14 Una simile definizione, dove pure ogni parola è preziosa e profondamente significativa, è al tempo stesso troppo ampia e troppo circoscritta. è senz'altro meritorio e fecondo l'aver colto l'affinità che esiste fra il gioco e l'arcano o il mistero, ma questa connivenza non può tuttavia rientrare in una definizione del gioco che è quasi sempre spettacolare, se non addirittura ostentativo. Senza dubbio, il segreto, il mistero, il travestimento insomma, si prestano a un'attività ludica, ma è opportuno aggiungere subito che questa attività si esercita necessariamente a detrimento del segreto e del mistero. Lo espone, lo rende pubblico e, in qualche modo, lo consuma. Tende, in una parola, ad alienarlo dalla sua stessa natura. Al contrario, quando il mistero, la maschera, il travestimento adempiono a una funzione sacramentale, si può essere certi che non c'è gioco, ma istituzione. Tutto ciò che è mistero o simulacro per natura, è vicino al gioco: ma bisogna che la parte della fantasia e del divertimento prevalga, vale a dire che il mistero non sia visto con riverente soggezione e il simulacro non sia origine o segno di metamorfosi e di possessione. In secondo luogo, la parte della definizione di Huizinga che presenta il gioco come un'azione avulsa da ogni interesse materiale, esclude semplicemente tutte le scommesse e i giochi d'azzardo, vale a dire, ad esempio, bische, Casinò, corse e lotterie che, bene o male, occupano realmente una parte importante nell'economia e nella vita quotidiana dei vari popoli, sotto forme, è vero, estremamente variabili, ma in cui la costanza del rapporto rischio-profitto è tanto più impressionante. I giochi d'azzardo, che sono anche giochi di denaro, non trovano praticamente posto nell'opera di Huizinga. Un simile partito preso non è privo di conseguenze. Ma non è neppure inesplicabile. Indubbiamente, è molto più difficile stabilire la fecondità culturale dei giochi d'azzardo di quella dei giochi agonistici. Tuttavia, l'influenza dei giochi d'azzardo non è meno importante, anche se la si ritiene malefica. Inoltre, non prendere in considerazione i giochi d'azzardo porta a dare del gioco una definizione in base alla quale si afferma, o si sottintende, che il gioco non comporta alcun interesse di ordine economico. Ora, bisogna distinguere. In alcune delle sue manifestazioni, il gioco è invece estremamente lucrativo o rovinoso e destinato ad esserlo. Ciò non toglie che questa caratteristica si accompagni con il fatto che il gioco, anche nella sua forma di gioco a fine di lucro, rimanga rigorosamente improduttivo. La somma delle vincite, nel migliore dei casi, non può che essere uguale alla somma delle perdite degli altri giocatori. Quasi sempre, anzi, le è inferiore, a causa delle spese generali, delle tasse, o dei proventi del gestore, il solo che non giochi o il cui gioco sia salvaguardato dai rischi del caso dalla legge dei grandi numeri, vale a dire il solo che non possa divertirsi al gioco. C'è spostamento di proprietà , ma non produzione di beni. Per di più, questo spostamento non riguarda che i soli giocatori e solo nella misura in cui essi accettano, per effetto di una libera decisione rinnovata a ogni partita, l'eventualità di un simile trasferimento. Il fatto che il gioco non crei alcuna ricchezza, alcun prodotto, è infatti una delle sue caratteristiche peculiari. In questo, esso si differenzia dal lavoro o dall'arte. Alla fine della partita, tutto può e deve ripartire dallo stesso punto, senza che niente di nuovo abbia avuto origine: nè nuovi prodotti, nè oggetti, nè capolavori, nè nuovo capitale. Il gioco è occasione di puro dispendio: di tempo, di energie, d'intelligenza, di abilità e a volte di denaro, per l'acquisto degli accessori del gioco o per pagare eventualmente l'affitto del locale. Quanto ai professionisti, pugili, ciclisti, fantini o attori che si guadagnano la vita sul ring, la pista, l'ippodromo o le scene, e che devono pensare al premio, alla paga o al cachet, è chiaro che, in queste attività , non si sentiranno dei giocatori. Quando vogliono giocare, giocano a qualche altro gioco. D'altra parte, non c'è dubbio che il gioco debba essere definito come un'attività libera e volontaria, fonte di gioia e divertimento. Un gioco cui si fosse costretti a partecipare cesserebbe subito d'essere un gioco: diventerebbe una costrizione, una corvèe di cui non si vedrebbe l'ora di liberarsi. Obbligatorio o semplicemente consigliato, perderebbe una delle sue caratteristiche fondamentali: il fatto che il giocatore vi si dedichi spontaneamente, e unicamente per il proprio piacere, avendo ogni volta la piena libertà di preferirgli il riposo, il silenzio, il raccoglimento, la solitudine oziosa o un'attività produttiva. Di qui, la definizione del gioco proposta da Valèry: il gioco è là dove "l'ennui peut dèlier ce que l'entrain avait liè".15 Esso esiste solo là dove i giocatori hanno voglia di giocare e giocano, sia pure al gioco più impegnativo e stressante, con l'intenzione di divertirsi e dimenticare le proprie preoccupazioni, vale a dire per evadere dalla vita di ogni giorno. Bisogna inoltre, e soprattutto, che essi abbiano la libertà di andarsene quando vogliono, dicendo: "Non gioco più." Infatti, il gioco è essenzialmente un'occupazione separata, scrupolosamente isolata dal resto dell'esistenza, e svolta in generale entro precisi limiti di tempo e di luogo. C'è uno spazio del gioco: a seconda dei casi, gli scomparti disegnati in terra per il gioco del mondo, la scacchiera per gli scacchi e la dama, lo stadio, la pista, il recinto, il ring, il palcoscenico, l'arena, ecc. Niente di quanto avviene all'esterno di questa frontiera ideale è da prendere in considerazione. Uscire dall'area stabilita per errore, per caso o per necessità , mandare la palla al di là del campo, a volte squalifica il giocatore, a volte comporta una penalità . Bisogna ricominciare il gioco entro i confini pattuiti. Lo stesso dicasi per il tempo: la partita inizia e si conclude al segnale convenuto. Spesso, la sua durata viene stabilita in anticipo. Abbandonarla o interromperla senza una ragione di forza maggiore (gridando "arimorti", ad esempio, nei giochi infantili) è senz'altro disonorevole. Se è il caso, la si prolunga, previo accordo dei contendenti o decisione dell'arbitro. In tutti i casi, lo spazio del gioco è un universo precostituito chiuso, protetto: uno spazio puro. Le leggi ingarbugliate e confuse della vita ordinaria vengono sostituite, all'interno di questo spazio circoscritto e per il tempo stabilito, da regole precise, arbitrarie, irrevocabili, che bisogna accettare come tali e che presiedono al corretto svolgimento della partita. Chi bara, anche se le infrange, finge almeno di rispettarle. Non le discute: abusa della lealtà degli altri giocatori. Sotto questo punto di vista, hanno ragione quegli autori che hanno osservato come la disonestà del baro non distrugga il gioco. Chi lo fa saltare è il negatore che denuncia l'assurdità delle regole, la loro natura puramente convenzionale, e che rifiuta di giocare perchè il gioco non ha alcun senso. Argomenti irrefutabili. Il gioco non ha altro senso che in se stesso. Del resto, è proprio per questo che le sue regole sono imperative e assolute: al di là di ogni discussione. Non c'è alcuna ragione perchè esse siano come sono piuttosto che in un altro modo. Chi non le ammette con questa peculiarità deve necessariamente giudicarle pura stravaganza. Si gioca solo se si vuole, quando si vuole, per il tempo che si vuole. In questo senso, il gioco è un'attività libera. Esso è, inoltre, un'attività incerta. Il dubbio sulla sua conclusione deve sussistere fino alla fine. Quando, in una partita a carte, l'esito non è più dubbio, non si gioca più, i giocatori buttano giù le carte. Alla lotteria, alla roulette, si punta su un numero che può uscire o meno. In una competizione sportiva, le forze dei campioni devono essere bilanciate, affinchè ciascuno di essi possa mantenere fino all'ultimo le sue possibilità di vittoria. Per definizione, ogni gioco di destrezza comporta, per il giocatore, il rischio di mancare il colpo, una minaccia di fiasco senza la quale il gioco non sarebbe più divertente. Infatti, colui che, troppo allenato o troppo bravo, vince infallibilmente e senza alcun sforzo, non diverte più. Uno svolgimento noto in anticipo, senza possibilità di errore o di sorpresa, che porti manifestamente a un risultato ineluttabile, è incompatibile con la natura del gioco. Occorre invece un costante e imprevedibile rinnovamento della situazione, come avviene nella scherma o nel gioco del calcio a ogni mossa e a ogni risposta, nel tennis a ogni rinvio di palla, o negli scacchi ogni volta che uno degli avversari muove un pezzo. Il gioco consiste nella necessità di trovare, d'inventare immediatamente una risposta che è libera nei limiti delle regole. Questa libertà del giocatore, questo margine accordato alla sua azione è essenziale al gioco e spiega in parte il piacere che esso suscita. Ed è sempre questa libertà che spiega certi impieghi particolarmente interessanti e significativi della parola "gioco" quali si osservano, ad esempio, in espressioni come il gioco scenico di un artista o il gioco di un ingranaggio, per indicare nel primo caso lo stile personale di un interprete e nel secondo il non totale combaciamento di determinati pezzi in un meccanismo. Molti giochi non comportano regole. Non ce ne sono, ad esempio per lo meno di rigide per giocare con le bambole, per giocare alla guerra, a guardie e ladri, o a fare il treno, l'aereo, il cavallo, e tutti quei giochi che presuppongono in genere una libera improvvisazione e la cui attrattiva principale deriva dal piacere di recitare una parte, di comportarsi come se si fosse qualcuno o addirittura qualche cosa d'altro, una macchina per esempio Nonostante il carattere paradossale dell'affermazione, dirò che in questo caso la finzione, il sentimento del come se sostituisce la regola e assolve esattamente la stessa funzione. Con il suo stesso porsi, la regola crea una finzione. Colui che gioca a scacchi, a bandiera, a polo, a baccarà , per il fatto stesso di ottemperare alle rispettive regole di quei giochi, si trova ad essere separato dalla vita normale, la quale non conosce alcuna attività che quei giochi si sforzerebbero di riprodurre fedelmente. Per questo, si gioca sul serio a scacchi, a bandiera, a polo, a baccarà . Per davvero, non come se. Al contrario, ogni volta che il gioco consiste nell'imitare la vita, da una parte il giocatore non può evidentemente inventare e seguire delle regole che la realtà non contempla, dall'altra il gioco si accompagna alla consapevolezza che il comportamento tenuto è illusione, apparenza, semplice mimica. Questa consapevolezza della fondamentale irrealtà del comportamento adottato separa dalla vita normale, tiene luogo della legislazione arbitraria che definisce altri giochi. L'equivalenza è così precisa che a interrompere il gioco non è solo colui che denuncia l'assurdità delle regole, ma anche colui che spezza l'incantesimo, che rifiuta improvvisamente di aderire all'illusione proposta, che ricorda al ragazzino che non è un vero detective, un vero pirata, un vero cavallo, un vero sottomarino, o alla bambina che non sta cullando un vero neonato o che non sta servendo un vero pasto a delle vere signore nel suo piccolo servizio in miniatura. I giochi, dunque, non sono regolati e fittizi. Sono piuttosto o regolati o fittizi. Tanto che, se un gioco regolato appare in determinate circostanze come un'attività seria e al di fuori dalla portata di chi ne ignora le regole, se cioè gli appare come facente parte della vita normale, questo gioco può immediatamente fornire al profano sconcertato e curioso lo schema di un divertente simulacro. Si riesce facilmente a capire che dei bambini, allo scopo di imitare gli adulti, si divertano a maneggiare in qualche modo dei pezzi, veri o immaginari, su di una inesistente scacchiera, e provino una gran soddisfazione nel giocare a "giocare agli scacchi". Questa disamina, volta a precisare la natura dei giochi, il loro maggiore denominatore comune, ha al tempo stesso il vantaggio di sottolineare la loro diversità e allargare sensibilmente l'universo abitualmente esplorato quando li si studia. In particolare, queste osservazioni tendono ad annettere a questo universo due nuove branche: quella delle scommesse e dei giochi d'azzardo, quella della mimica e dell'interpretazione. Tuttavia, ci sono molti altri giochi che non rientrano in queste classificazioni e ai quali le precedenti osservazioni non calzano proprio a pennello: tali sono, ad esempio, l'aquilone e la trottola, i puzzle, i solitari con le carte e i cruciverba, la giostra, l'altalena e certe attrazioni dei luna-park. Bisognerà tornarci sopra. Per il momento, l'analisi precedente ci consente già di definire essenzialmente il gioco come un'attività:
Queste diverse qualità sono puramente formali. Non anticipano un giudizio sul contenuto dei giochi. Tuttavia, il fatto che le ultime due la finzione e la regola siano apparse tali da escludersi quasi l'una con l'altra, dimostra che l'intima natura dei dati che esse cercano di definire implica, e forse esige, che questi dati siano a loro volta oggetto di una suddivisione che si sforzi, a questo punto, di tener conto, non già dei caratteri che li contrappongono nel loro insieme al resto della realtà , ma di quelli che li raggruppano in base a un'originalità veramente irriducibile. 2. CLASSIFICAZIONE DEI GIOCHI Il grandissimo numero e l'infinita varietà dei giochi fa inizialmente disperare di trovare un principio di classificazione che consenta di suddividerli tutti in un numero limitato di categorie ben definite. Inoltre, essi presentano aspetti così diversi che i punti di vista autorizzati sono molti. Il vocabolario corrente dimostra sufficientemente il grado generale di esitazione e incertezza: esso impiega, infatti, molte classificazioni concorrenti. Non ha senso contrapporre i giochi di carte ai giochi di destrezza, nè i giochi di società ai giochi olimpici. In un caso, infatti, si sceglie come criterio di suddivisione lo strumento del gioco; in un altro, la qualità principale che esso esige; in un terzo, il numero dei giocatori e l'atmosfera della partita; nell'ultimo, infine, il luogo in cui il cimento viene disputato. Inoltre, e questo viene a complicare tutto, si può giocare a uno stesso gioco da soli o in molti. Un determinato gioco può mobilitare diverse qualità insieme o non richiederne alcuna. In uno stesso luogo, si può giocare a giochi molto diversi: i cavalli di legno delle giostre e il diabolo sono tutti e due giochi all'aperto: ma il bambino che si diverte passivamente abbandonandosi al moto rotatorio della giostra non si trova nello stesso stato d'animo di quello che si dà daffare per ricevere bene il suo rocchetto sulla cordicella. D'altra parte, molti giochi si giocano senza alcuno strumento o accessorio, e uno stesso accessorio può assolvere funzioni diverse a seconda del gioco preso in considerazione. Le biglie sono in genere strumenti di un gioco di destrezza, ma uno dei giocatori può anche cercare di indovinarne il numero pari o dispari nella mano chiusa dell'avversario: esse diventano allora lo strumento di un gioco d'azzardo. Mi soffermo tuttavia su quest'ultima espressione. Per una volta, essa allude al carattere fondamentale di un tipo di gioco ben preciso. Sia al momento di una scommessa che di fronte alla lotteria, alla roulette o a baccarà , è chiaro che il giocatore mantiene lo stesso atteggiamento. Non prende iniziative, attende la decisione della sorte. Al contrario, il pugile, il podista, il giocatore di scacchi o il bambino che fa il "gioco del mondo" ce la mettono tutta per vincere. Poco importa che a volte questi giochi siano atletici, a volte intellettuali. L'atteggiamento del giocatore è lo stesso e consiste nello sforzo di vincere un avversario che si trova nelle sue stesse condizioni. Appare così giustificato contrapporre i giochi d'azzardo ai giochi agonistici. E, soprattutto, diventa stimolante vedere se non sia possibile scoprire altri atteggiamenti non meno fondamentali, e tali da fornire eventualmente gli indici di una classificazione ragionata. Dopo un esame delle diverse possibilità , proporrei a questo scopo una suddivisione in quattro categorie principali a seconda che, nei giochi considerati, predomini il ruolo della competizione, del caso, del simulacro o della vertigine. Le ho chiamate rispettivamente Agon, Alea, Mimicry e Ilinx. Tutte e quattro appartengono a pieno titolo al campo dei giochi: si gioca al calcio, a biglie o a scacchi (agon), si gioca alla roulette o alla lotteria (alea), si gioca ai pirati o si recita la parte di Nerone o Amleto (mimicry), ci si diverte, si gioca, a provocare in noi, con un movimento accelerato di rotazione o di caduta, uno stato organico di perdita della coscienza e di smarrimento (ilinx). Tuttavia, queste designazioni non esauriscono ancora l'intero universo del gioco. Esse lo dividono in quadranti ciascuno dei quali è governato da un principio originale e delimitano dei settori che riuniscono giochi della stessa specie. Ma, all'interno di questi settori, i vari giochi si scaglionano nello stesso ordine, secondo una progressione comparabile. E li si può contemporaneamente ordinare fra due poli antagonisti. A un'estremità regna, quasi incondizionatamente, un principio comune di divertimento, di turbolenza, di libera improvvisazione e spensierata pienezza vitale, attraverso cui si manifesta una fantasia di tipo incontrollato che si può designare con il nome di paidia. All'estremità opposta, questa esuberanza irrequieta e spontanea è quasi totalmente assorbita, e comunque disciplinata, da una tendenza complementare, opposta sotto certi aspetti, ma non tutti, alla sua natura anarchica e capricciosa: un'esigenza crescente di piegarla a delle convenzioni arbitrarie, imperative e di proposito ostacolanti, di contrastarla sempre di più drizzandole davanti ostacoli via via più ingombranti allo scopo di renderle più arduo il pervenire al risultato ambito. Quest'ultimo diventa perfettamente inutile, benchè esiga una somma sempre più grande di sforzi, di tenacia, di abilità o sagacia. A questa seconda componente do il nome di ludus. Non è mia intenzione, ricorrendo a queste denominazioni esotiche, costituire chissà quale sofisticata mitologia, totalmente priva di senso. Ma, dovendo raccogliere sotto una stessa etichetta delle manifestazioni alquanto disparate, mi è sembrato che il modo più economico per riuscirvi consistesse nel prendere a prestito da questa o quella lingua il vocabolo più significativo e insieme più comprensivo possibile, allo scopo di evitare che ogni insieme esaminato non si trovasse uniformemente contrassegnato dalla qualità particolare di uno degli elementi che comprende, cosa che non mancherebbe di verificarsi se il nome di quest'ultimo servisse a designare l'intero gruppo. Ognuno, del resto, via via che cercherò di stabilire la classificazione che ho scelto, avrà modo di rendersi conto personalmente della necessità in cui mi sono trovato di utilizzare una nomenclatura che non rimandasse troppo direttamente all'esperienza concreta, che essa è in parte destinata a suddividere in base a un principio inedito. Nello stesso spirito, mi sono sforzato di far rientrare in ogni categoria i giochi apparentemente più diversi, allo scopo di far risaltare meglio la loro fondamentale affinità . Ho messo insieme i giochi del corpo e quelli dell'intelligenza, i giochi che si basano sulla forza e quelli che si richiamano all'abilità o al calcolo. Nè ho fatto distinzione, all'interno di ogni categoria, fra i giochi dei bambini e quelli degli adulti; e, ogni volta che mi è stato possibile, ho cercato nel mondo animale dei comportamenti analoghi. Si trattava di sottolineare, così facendo, il principio stesso della classificazione proposta che non avrebbe alcuna validità se non si vedesse con evidenza che le suddivisioni che essa stabilisce corrispondono a degli impulsi essenziali e irriducibili. A. CATEGORIE FONDAMENTALI Agon. Esiste tutto un gruppo di giochi che presenta le caratteristiche della competizione, vale a dire di un cimento in cui l'uguaglianza delle probabilità di successo viene artificialmente creata affinchè gli antagonisti si affrontino in condizioni ideali, tali da attribuire un valore preciso e incontestabile al trionfo del vincitore. Si tratta dunque, ogni volta, di una rivalità che si rapporta a una sola qualità (rapidità , resistenza, forza, memoria, abilità , ingegnosità , ecc.) e si esercita entro limiti ben definiti, senza alcun intervento esterno, in modo che il vincitore appaia il migliore in una determinata categoria di imprese. Tale è la regola dei cimenti sportivi e la ragion d'essere delle loro molteplici suddivisioni, sia che vi si vedano contrapposti due individui o due squadre (polo, tennis, calcio, boxe, scherma, ecc.), sia che vengano disputati fra un numero indeterminato di concorrenti (corse di vario genere, gare di tiro, golf, atletica, ecc.). Alla stessa categoria appartengono anche quei giochi in cui gli avversari, al momento del via, dispongono di elementi dello stesso valore e dello stesso numero. La dama, gli scacchi, il biliardo, ne offrono degli esempi calzanti. La ricerca dell'uguaglianza delle possibilità di vittoria all'inizio del gioco è così manifestamente il principio essenziale della rivalità che la si riconferma attraverso un handicap fra giocatori di diverso livello, vale a dire che all'interno dell'uguaglianza delle possibilità inizialmente stabilita, ci si preoccupa di una seconda disuguaglianza, proporzionale alla forza relativa supposta dei partecipandoti. è significativo che un'usanza simile sussista sia nell'agon di carattere muscolare (gli incontri sportivi) sia in quello di tipo cerebrale (le partite di scacchi, ad esempio, in cui si assegna al giocatore più debole il vantaggio di un pedone, di un cavallo, di una torre). Per quanto scrupolosamente si cerchi di predisporla, un'assoluta parità non sembra tuttavia interamente realizzabile. Qualche volta, come nel gioco della dama o degli scacchi, il fatto di muovere per primo procura un vantaggio, perchè questa priorità consente al giocatore favorito di occupare delle posizioni chiave o d'impostare la sua strategia. Al contrario, nei giochi in cui si rilancia una posta, chi dichiara per ultimo approfitta delle indicazioni che gli forniscono le dichiarazioni dei suoi avversari. Allo stesso modo, al croquet, colpire la palla per ultimo aumenta le possibilità del giocatore. Negli incontri sportivi, l'esposizione, l'avere il sole di fronte o di spalle; il vento che favorisce o ostacola uno dei due campi; nelle corse disputate su pista, il trovarsi all'interno o all'esterno della curva, costituiscono all'occorrenza altrettanti atout o altrettanti vantaggi la cui incidenza non è necessariamente trascurabile. Questi inevitabili squilibri vengono annullati, o attenuati, con l'estrazione a sorte della situazione iniziale e, in seguito, con una rigorosa alternanza della posizione privilegiata. Per ogni concorrente, la molla principale del gioco è il desiderio di veder riconosciuta la propria superiorità in un determinato campo. Per questo, la pratica dell'agon presuppone un'attenzione costante, un allenamento appropriato, degli sforzi assidui e la volontà di vincere. Implica disciplina e perseveranza. Lascia al campione le sue sole risorse, lo spinge a trarne il miglior partito possibile, lo obbliga infine a servirsene lealmente e entro i limiti stabiliti che, uguali per tutti, hanno in compenso la funzione di rendere indiscutibile la superiorità del vincitore. L'agon si presenta come la forma pura del merito personale e serve a manifestarlo. Al di fuori o al limite del gioco, si ritrova lo spirito dell'agon in altri fenomeni culturali che obbediscono allo stesso codice: il duello, il torneo, alcuni aspetti costanti e particolari della guerra cosiddetta cortese. In linea di massima, sembrerebbe che gli animali, non potendo concepire nè limiti nè regole, e cercando soltanto in uno scontro spietato una brutale vittoria, debbano ignorare l'agon. è evidente che nè le corse dei cavalli nè i combattimenti dei galli possono essere portati a esempio: si tratta infatti di lotte in cui sono gli uomini a far affrontare delle- bestie addestrate, seguendo determinate norme che essi soli hanno fissato. Tuttavia, alla luce di certi fatti, sembra che anche gli animali si divertano ad affrontarsi in cimenti in cui, se ovviamente manca ogni regola, esiste però un limite implicitamente convenuto e spontaneamente rispettato. è il caso, segnatamente, dei gattini, dei cuccioli, delle giovani foche e degli orsacchiotti che si divertono a rovesciarsi guardandosi bene dal ferirsi l'un l'altro. Più convincente ancora, l'abitudine dei bovidi che, a testa bassa, uno di fronte all'altro, cercano di fare indietreggiare l'avversario. I cavalli praticano lo stesso tipo di duello amichevole e ne conoscono un altro: per misurare le loro forze, si drizzano sulle zampe posteriori e si lasciano cadere di peso uno sull'altro, con una vigorosa spinta obliqua, per far perdere l'equilibrio all'avversario. Allo stesso modo, gli osservatori hanno segnalato numerosi giochi d'inseguimento che hanno luogo a seguito di una sfida o un invito. L'animale raggiunto non ha niente da temere da parte del suo vincitore. Il caso più eloquente è senz'altro quello dei pavoni selvatici chiamati "combattenti". Essi scelgono un campo di battaglia, "un posto un po' elevato", scrive Karl Groos,16 "sempre umido e ricoperto di un'erba rasa, di un diametro che va da un metro e mezzo a due metri". Quotidianamente, un certo numero di maschi vi si danno convegno. Il primo arrivato aspetta un avversario e la lotta ha inizio. I campioni trepidano e inclinano la testa a diverse riprese; le piume si rizzano ed essi si avventano l'uno contro l'altro, il becco in avanti, pronti a colpire. Non c'è mai inseguimento o lotta al di fuori dello spazio appositamente delimitato per il torneo. Per questo, mi pare senz'altro legittimo, sia in questo caso sia negli esempi precedenti, richiamare il termine agon: tanto è evidente che lo scopo di questi scontri non è causare un danno grave al rivale, ma dimostrare la propria superiorità . L'uomo non vi aggiunge che le raffinatezze e la precisione della regola. Nei bambini, non appena si afferma la personalità e prima della pratica di competizioni regolate, si può constatare il frequente manifestarsi di strane sfide in cui gli avversari si sforzano di dimostrare la loro resistenza. Li si vede infatti gareggiare a chi riuscirà a fissare il sole più a lungo, a resistere al solletico, a non respirare, a non sbattere le palpebre, ecc. A volte, la posta è più impegnativa, e si tratterà di resistere alla fame o al dolore sotto forma di fustigazione, di pizzicotti, di punture, di bruciature. Questi giochi di ascetismo, come si è convenuto di chiamarli, prefigurano allora prove ben più crudeli. Anticipano le sevizie e le vessazioni che gli adolescenti devono sopportare al momento della loro iniziazione. Ci si allontana quindi via via dall'agon, che non tarderà a trovare le sue forme ottimali sia nei giochi e gli sport propriamente competitivi, sia nei giochi e gli sport di abilità e destrezza (caccia, alpinismo, cruciverba, problemi di scacchi, ecc.) in cui i campioni, senza affrontarsi direttamente, non cessano di confrontarsi in una più vasta, estesa e continuata competizione. Alea. è la parola latina che indica il gioco dei dadi. L'ho qui adottata per designare tutti i giochi che si fondano, contrariamente all'agon, su una decisione che non dipende dal giocatore e sulla quale egli non può minimamente far presa; giochi nei quali si tratta di vincere non tanto su un avversario quanto sul destino. Per essere più precisi, il destino è il solo artefice della vittoria e questa, quando c'è rivalità , significa esclusivamente che il vincitore è stato più favorito dalla sorte del vinto. Esempi tipici di questa categoria di giochi sono forniti dai dadi, la roulette, testa o croce, baccarà , lotterie, ecc. Qui, non solo non si cerca di eliminare l'ingiustizia del caso, ma è proprio l'arbitrio di questo a costituire l'unica molla del gioco. L'alea sottolinea e rivela il favore del destino. Il giocatore vi è totalmente passivo, non deve impegnarvi le sue qualità o disposizioni, le risorse della sua abilità , dei suoi muscoli, della sua intelligenza. Deve solo aspettare, con speranza e trepidazione, il verdetto della sorte. Rischia una posta. La giustizia " sempre perseguita, ma questa volta in modo diverso, e tendente a esercitarsi anche in questo caso in condizioni ideali " lo ricompensa proporzionalmente al rischio con rigorosa esattezza. Tutta l'applicazione testè impiegata nell'uguagliare le possibilità di successo dei concorrenti è in questo caso impiegata nell'equilibrare scrupolosamente il rischio e il profitto. Contrariamente all'agon, l'alea nega il lavoro, la pazienza, la destrezza, la qualificazione; elimina il valore professionale, la regolarità , l'allenamento. Ne vanifica in un attimo i risultati accumulati. è avversità totale o fortuna assoluta. Reca al giocatore fortunato infinitamente più di quanto gli può procurare una vita di lavoro, di disciplina, di fatica. Appare come un'insolente e sovrana derisione del merito. E presuppone, da parte del giocatore, un atteggiamento esattamente opposto a quello di cui dà prova nell'agon. In quest'ultimo, egli conta solo su se stesso; nell'alea, conta su tutto, sull'indizio più vago, sulla più piccola particolarità esterna che immediatamente considera un segno o un avvertimento, su ogni singolarità che coglie... su tutto, tranne che su se stesso. L'agon è una rivendicazione della responsabilità personale, l'alea un'abdicazione della volontà , un abbandono al destino. Alcuni giochi come il domino, lo jacquet XI e la maggior parte dei giochi di carte mettono insieme l'agon e l'alea: il caso presiede alla composizione delle "mani" di ciascun giocatore, e questi poi sfrutta nel miglior modo possibile, e a seconda delle proprie forze, la carta che il caso gli ha ciecamente attribuito. In un gioco come il bridge, sono il ragionamento e la competenza a costituire la difesa del giocatore e a consentirgli di trarre il miglior partito dalle carte che ha avuto in sorte; in un gioco come il poker, sono piuttosto determinate qualità di intuizione psicologica e di carattere. In generale, il ruolo del denaro è tanto più considerevole quanto più grande è la parte del caso e di conseguenza più debole la difesa del giocatore. La ragione è evidente: funzione dell'alea non è quella di far guadagnare del denaro ai più intelligenti, ma, al contrario, di abolire ogni superiorità naturale o acquisita degli individui, allo scopo di porre ciascuno su un piede di assoluta uguaglianza di fronte al cieco verdetto della sorte. Dal momento che il risultato dell'agon è necessariamente incerto e si avvicina, paradossalmente, all'effetto del puro caso, dato che le probabilità dei concorrenti sono in linea di massima il più equilibrate possibile, ne consegue che ogni incontro che abbia le caratteristiche di una competizione regolata ideale può diventare oggetto di scommesse, vale a dire di aleae: le corse dei cavalli, ad esempio, o di levrieri, le partite di calcio o di pelota basca, i combattimenti di galli. Succede perfino che l'ammontare delle scommesse cambi continuamente, durante la partita, in base alle peripezie dell'agon.17 I giochi d'azzardo appaiono giochi umani per antonomasia. Gli animali conoscono i giochi di competizione, d'immaginazione e di vertigine, e K. Groos, segnatamente, fornisce degli esempi sorprendenti per ciascuna di queste categorie. In cambio, gli animali, esclusivamente immersi nell'immediato e troppo schiavi dei loro impulsi, non sono in grado di immaginare una potenza astratta e insensibile al cui verdetto sottomettersi anticipatamente per gioco e senza reagire. Attendere passivamente e deliberatamente un pronunciamento del fato, rischiare su questo una somma per moltiplicarla proporzionalmente al rischio di perderla, è atteggiamento che esige una possibilità di previsione, di rappresentazione e di speculazione, di cui può essere capace solo un pensiero oggettivo e calcolatore. Ed è forse nella misura in cui il bambino è vicino all'animale che i giochi d'azzardo non hanno per lui l'importanza che ricoprono per l'adulto. Per il bambino, giocare è agire. D'altra parte, privo com'è di indipendenza economica e sprovvisto di denaro proprio, il bambino non trova nel gioco d'azzardo ciò che costituisce la sua maggiore attrattiva. Giochi di questo tipo non riescono a emozionarlo. Certo, le biglie sono una moneta, per lui. Tuttavia, per guadagnarle, conta sulla propria abilità piuttosto che sulla fortuna. Agon e alea esprimono atteggiamenti opposti e in qualche modo simmetrici, ma obbediscono ambedue a una stessa legge: la creazione artificiale, fra i giocatori, di condizioni di assoluta uguaglianza che la realtà nega invece agli uomini. Perchè niente nella vita è tanto chiaro quanto appunto il fatto che tutto all'inizio è oscuro e incerto, le probabilità come i meriti. Il gioco, agon o alea che sia, è dunque un tentativo di sostituire, alla normale confusione dell'esistenza ordinaria, delle situazioni ottimali. Queste sono tali che il ruolo del merito o del caso vi si mostra preciso e indiscutibile. E implicano altresì che tutti debbano godere esattamente delle stesse probabilità di dimostrare la propria bravura o, sull'altro versante, delle stesse probabilità di essere favoriti dalla sorte. Nell'uno e nell'altro modo, si evade dal mondo facendo/o altro. Si può evaderne anche facendosi altro. A questo bisogno risponde la mimicry. continua >>>>> |