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Parte 1 - 2 - 3

IVAN ILLICH
LA CONVIVIALITÀ - 1

L'idea di una analisi multidimensionale del sovrasviluppo industriale l'ho formulata per la prima volta nel 1971 in un documento di lavoro redatto insieme a Valentina Borremans come testo-base per un convegno latinoamericano tenuto al Centro intercultural de documentaciòn (Cidoc) nel gennaio 1972.

Una versione francese, rielaborata in occasione dello Zeno Symposium organizzato a Cipro dal professor Richard Wollheim, fu pubblicata nel marzo 1972 nella rivista “'Esprit”; dove fu oggetto di un dibattito.

La stesura di questo libro fii occasionata dalla mia partecipazione a una conferenza di giuristi e parlamentari canadesi tenutasi a Ottawa nel gennaio 1972 per discutere l'orientamento della legislazione canadese nel prossimo decennio. Questo fatto, e la collaborazione dell'amico Greer Taylor, spiegano il costante riferimento e l'importanza attribuita alla Common Law in tutta la trattazione.

Lo stesso servì poi come base per una serie di seminari tenuti al Cidoc e in India, e dai quali mi vennero numerose critiche e preziosi suggerimenti, in particolare da J. P. Naik. I partecipanti a questi seminari riconosceranno le loro idee, talvolta riprese alla lettera, e ad essi esprimo qui la mia viva gratitudine, specialmente per i loro contributi scritti.

Le bibliografie, gli appunti di lavoro, le analisi critiche eccetera, che, a vari gradi di completezza e utilità, sono servite da materiali e punti di riferimento per questo studio, sono disponibili presso la biblioteca del Cidoc e nella serie di documenti che il Centro pubblica regolarmente.

A distanza di nove mesi ho poi scritto due versioni destinate alla pubblicazione: una in inglese l'altra in francese.

Questo testo italiano non un è un nuovo rifacimento, ma neppure una semplice versione del testo francese: incorpora infatti le mie risposte alle osservazioni puntuali, rispettose e congeniali del mio editore italiano, Donato Barbone.

Ivan Illich, Centro intercultural de documentacion, Cuernavaca (Messico)

Introduzione

Nel corso dei prossimi anni mi propongo di lavorare a un epilogo dell'età industriale. Vorrei tracciare il profilo delle storture e delle ipertrofie intervenute nel linguaggio, nel diritto, nei miti e nei riti, in quest'epoca nella quale uomini e prodotti sono stati assoggettati alla pianificazione razionale. Vorrei ritrarre come è venuto declinando il monopolio del modo di produzione industriale, e la metamorfosi subita dalle professioni che esso genera e nutre.

Soprattutto intendo dimostrare questo: che i due terzi dell'umanità possono ancora evitare di passare per l'età industriale se sceglieranno sin d'ora un modo di produzione fondato su un equilibrio postindustriale, quello stesso al quale i paesi sovraindustrializzati dovranno ricorrere di fronte alla minaccia del caos. E nella prospettiva di un tale lavoro che io sottopongo questo abbozzo di analisi all'attenzione e alla critica del pubblico.

Sono parecchi anni che mi occupo di una ricerca critica sul monopolio del modo di produzione industriale, e sulla possibilità di definire concettualmente altri modi di produzione, postindustriali. In un primo tempo ho concentrato la mia attenzione sull'attrezzatura educativa; i risultati, pubblicati in Descolarizzare la società[1] , stabilivano i seguenti punti:

1.      L'educazione universale mediante la scuola obbligatoria è impossibile.

2.      Il condizionamento delle masse attraverso l'educazione permanente non presenta grossi problemi tecnici ma, moralmente, è ancor meno accettabile della scuola di vecchio tipo. Nuovi sistemi educativi sono ormai prossimi a soppiantare i sistemi scolastici tradizionali, nei paesi ricchi come in quelli poveri. Si tratta di strumenti di condizionamento massicci ed efficaci, capaci di produrre in serie manodopera specializzata, consumatori di cultura docili e disciplinati, utenti rassegnati. Sono sistemi che rendono redditizio il processo educativo, generalizzandolo al livello di tutta una società. Possiedono indubbie attrattive, ma sotto queste attrattive celano una profonda distruttività: tendono infatti a dissolvere, in maniera ancor più sottile e implacabile della scuola, i valori più essenziali.

3.      Una società che voglia ripartire equamente tra i suoi membri l'accesso al sapere, e consentire loro una reale partecipazione al processo produttivo, deve stabilire dei limiti pedagogici alla crescita industriale, mantenendo tale crescita al di qua di determinate soglie psicologicamente critiche.

L'analisi dell'apparato educativo di ogni società fondata sull'espansione del modo di produzione industriale mi ha aperto la strada alla scoperta dei limiti non-ecologici di questa espansione. Lo sviluppo del sistema scolastico obbligatorio mi è parso infatti l'esempio-tipo di una situazione che si ritrova anche in altri ambiti della società industriale, dovunque si tratti di produrre un servizio, cosiddetto di pubblica utilità, per soddisfare un bisogno cosiddetto elementare. Sono così passato ad analizzare il sistema di assistenza medica obbligatoria e quello dei trasporti che, oltrepassata una certa soglia, divengono anch'essi, a loro modo, forzosi; e sono arrivato a convincermi che la sovrapproduzione industriale di un servizio ha, inevitabilmente, effetti secondari non meno catastrofici e distruttivi della sovrapproduzione di un bene di consumo. Esiste cioè una serie di limiti alla crescita dei servizi di una società: come nel caso delle merci, questi limiti sono inerenti al processo di crescita e quindi inesorabili. La riorganizzazione del sistema industriale di produzione e di distribuzione che si preannuncia per il prossimo decennio, e che si ispira principalmente a limitazioni nell'uso di carburanti e ad analoghe considerazioni ecologiche, è destinata a fallire.

Bisogna prender coscienza al più presto che i limiti da porre allo sviluppo devono riguardare tanto i beni quanto i servizi, prodotti industrialmente. Ed è la serie di questi limiti che bisogna scoprire e rendere manifesta.

Per analizzare il rapporto tra l'uomo e il suo strumento, io propongo qui il concetto di equilibrio multidimensionale della vita umana. In ognuna delle sue dimensioni, questo equilibrio corrisponde a una certa scala naturale. Quando un attività umana esplicata mediante strumenti supera una certa soglia definita dalla sua scala specifica, dapprima si rivolge contro il proprio scopo, poi minaccia di distruggere l'intero corpo sociale. Occorre dunque determinare con chiarezza queste scale naturali e riconoscere le soglie che delimitano il campo della sopravvivenza umana.

La società, una volta raggiunto lo stadio avanzato della produzione di massa, produce la propria distruzione. La natura viene snaturata. Sradicato, castrato nella sua creatività, l'uomo è rinserrato nella propria capsula individuale. La collettività è governata dal gioco combinato di una polarizzazione estrema e di una specializzazione a oltranza. L'affannosa ricerca di modelli e prodotti sempre nuovi, cancro del tessuto sociale, accelera a tal punto il mutamento da escludere ogni ricorso ai precedenti come guida per l'azione. Il monopolio del modo di produzione industriale riduce gli uomini a materia prima lavorata dagli strumenti. E tutto questo in misura non più tollerabile. Poco importa che si tratti di un monopolio privato o pubblico: la degradazione della natura, la distruzione dei legami sociali, la disintegrazione dell'uomo non potranno mai servire a uno scopo sociale.

Le ideologie oggi correnti mettono in luce le contraddizioni della società capitalista, ma non forniscono il quadro necessario per analizzare la crisi del modo di produzione industriale. Mi auguro che un giorno si arrivi a formulare una teoria generale dell'industrializzazione abbastanza rigorosa da reggere all'assalto della critica. Per poter funzionare, questa teoria dovrà esprimere i propri concetti in un linguaggio comune a tutte le parti in causa, in modo che i criteri da essa definiti concettualmente siano altrettanti parametri su scala umana: strumenti di misura, mezzi di controllo, guide per l'azione. Si potranno allora valutare le tecniche disponibili e le diverse programmazioni che esse implicano. Si determineranno le soglie di nocività dell'attrezzatura sociale, il punto in cui questa si rivolge contro il proprio fine o minaccia l'uomo; si limiterà il potere dello strumento. Si inventeranno le forme e i ritmi di un modo di produzione postindustriale e di un nuovo mondo sociale.

Vorrei che questo saggio contribuisse alla formulazione di una tale teoria chiarendo almeno un punto: come esistano delle tecniche ipertrofiche nell'uso di energia o d'informazione, la cui stessa struttura ingenera rapporti di sfruttamento e di dominio nelle società che le adottano. Non è facile immaginare una società in cui l'organizzazione industriale sia equilibrata e compensata da modi di produzione complementari, distinti e ad alto rendimento. Siamo talmente deformati dalle abitudini industriali che non osiamo più scrutare il campo del possibile, e l'idea di rinunciare alla produzione di massa di tutti gli articoli e servizi è per noi come un ritorno alle catene del passato o al mito del buon selvaggio. Ma se vogliamo ampliare il nostro angolo di visuale, adeguandolo alle dimensioni della realtà, dobbiamo ammettere che non esiste un unico modo di utilizzare le scoperte scientifiche, ma per lo meno due, tra loro antinomici.

C'è un uso della scoperta che conduce alla specializzazione dei compiti, alla istituzionalizzazione dei valori, alla centralizzazione del potere: l'uomo diviene l'accessorio della megamacchina, un ingranaggio della burocrazia. Ma c'è un secondo modo di mettere a frutto I invenzione, che accresce il potere e il sapere di ognuno, consentendo a ognuno di esercitare la propria creatività senza per questo negare lo stesso spazio d'iniziativa e di produttività agli altri.

Se vogliamo poter dire qualcosa sul mondo futuro, disegnare i contorni di una società a venire che non sia iperindustriale, dobbiamo riconoscere l'esistenza di scale e limiti naturali. L'equilibrio della vita si dispiega in varie dimensioni; fragile e complesso, non oltrepassa certi limiti. Esistono delle soglie che non si possono superare. La macchina non ha soppresso la schiavitù umana, ma le ha dato una diversa configurazione. Infatti, superato il limite, lo strumento da servitore diviene despota. Oltrepassata la soglia, la società diventa scuola, ospedale, prigione, e comincia la grande reclusione. Occorre individuare esattamente dove si trova, per ogni componente dell'equilibrio globale, questo limite critico. Sarà allora possibile articolare in modo nuovo la millenaria triade dell'uomo, dello strumento e della società. Chiamo società conviviale una società in cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona integrata con la collettività, e non riservato a un corpo di specialisti che lo tiene sotto il proprio controllo. Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni.

Parlando di «convivialità» dello strumento mi rendo conto di dare un senso in parte nuovo al significato corrente della parola. Lo faccio perché ho bisogno di un termine tecnico per indicare lo strumento che sia scientificamente razionale e destinato all'uomo austeramente anarchico. L'uomo che trova la propria gioia nell'impiego dello strumento conviviale io lo chiamo austero. Egli conosce ciò che lo spagnolo chiama la convivencialidad, vive in quella che il tedesco definisce Mitmenschlichkeit. L'austerità non significa infatti isolamento o chiusura in se stessi. Per Aristotele come per Tommaso d'Aquino, è il fondamento dell'amicizia. Trattando del gioco ordinato e creatore, Tommaso definisce l'austerità[2] come una virtù che non esclude tutti i piaceri, ma soltanto quelli che degradano o ostacolano le relazioni personali. L'austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l'eutrapelia, l'amicizia.

I. Due soglie di mutazione

L'anno 1913 segna una svolta nella storia della medicina moderna. All'incirca da quella data, il paziente ha più di una probabilità su due che un medico laureato gli somministri una cura efficace, purché ovviamente il suo male sia registrato dalla scienza medica dell'epoca. Gli sciamani e i guaritori, con la loro pratica dell'ambiente naturale, non avevano aspettato tanto per ottenere risultati analoghi, in un mondo dove la salute era concepita diversamente.

Da allora, la medicina non ha fatto che perfezionare la definizione delle malattie e la somministrazione delle cure. La popolazione dell'Occidente ha imparato a sentirsi malata e a farsi curare conformemente alle categorie di moda nell'ambiente medico. La clinica è stata sempre più dominata dall'ossessione quantitativa, ciò che ha permesso ai medici di misurare la portata dei loro successi con criteri da essi stessi stabiliti. La salute è divenuta così una merce in una economia di sviluppo. Questa trasformazione della salute in prodotto di consumo sociale ha trovato riscontro nell'importanza attribuita alle statistiche sanitarie.

Ma i dati statistici sui quali sempre più si fonda il prestigio della professione medica non dipendono, per la parte essenziale, dalla sua attività. La riduzione a volte spettacolare della morbilità e della mortalità all'inizio del processo di industrializzazione di un paese è dovuta soprattutto alle modificazioni dell'habitat e del regime alimentare, e all'adozione di elementari misure d'igiene. Le fognature, il trattamento dell'acqua col cloro, la carta moschicida, l'asepsi e i certificati sanitari richiesti per viaggiare, prostituirsi o lavare i piatti hanno avuto un'influenza benefica assai maggiore dell'insieme dei complessi «metodi» di cure specialistiche. Nell'Honduras come in Olanda, il progresso della medicina si è espresso più nel controllo dei tassi di incidenza che nell'aumento della vitalità degli individui.

In un certo senso, più che l'uomo è stata l'industrializzazione a trarre profitto dai progressi della medicina: si è infatti riusciti a far lavorare la gente più regolarmente in condizioni più disumanizzanti. Nascondendo il carattere profondamente distruttivo delle nuove attrezzature, del lavoro alla catena e del regno dell'automobile, si sono esaltate certe cure spettacolari che si applicano alle vittime dell'aggressione industriale nelle sue varie forme: velocità, tensione nervosa, avvelenamento dell'ambiente. E il medico si è trasformato in mago, unico essere in grado di compiere miracoli che esorcizzino la paura nascente dal sopravvivere in un mondo divenuto minaccioso.

Contemporaneamente, i mezzi per diagnosticare la necessità di certe cure e lo strumento terapeutico corrispondente si venivano semplificando. Ormai chiunque potrebbe accertare da solo una gravidanza e praticare un aborto, riconoscere e curare quelle malattie veneree che un secolo fa erano incurabili, apprendere nella pratica come evitare sia una gravidanza sia un'infezione. Il paradosso è che quanto più lo strumento diventa semplice, tanto più la professione medica si sforza di conservarne il monopolio. Più l'iniziazione del terapeuta si prolunga, più la popolazione dipende da lui per l'applicazione cosciente delle scoperte importanti e per il miglioramento della vita quotidiana. L'igiene, che l'antichità considerava una virtù, diviene il rituale che un corpo di specialisti celebra sull'altare della scienza.

Dopo la seconda guerra mondiale, cominciò a divenire chiaro che la medicina moderna ha pericolosi effetti secondari sulla salute individuale. Ma c'è voluto del tempo perché i medici identificassero la nuova minaccia rappresentata dai microbi divenuti resistenti alla chemioterapia, o studiassero gli effetti cancerogeni degli insetticidi, o riconoscessero un nuovo genere di epidemie nei disordini genetici dovuti all'impiego degli ormoni o dei raggi X durante la gravidanza. Trent'anni prima, Bernard Shaw già lo rilevava: i medici, diceva, hanno smesso di guarire per impadronirsi dell'intera vita dei loro pazienti. Si è dovuto attendere gli anni Cinquanta perché questo rilievo divenisse evidenza manifesta: producendo nuovi tipi di malattie, la medicina aveva superato una seconda soglia di mutazione. Nel 1972 il sottosegretario alla Sanità degli Stati Uniti d'America poteva affermare che quattro quinti della spesa federale servivano o ad accrescere la sofferenza o a curare malattie che non sarebbero insorte senza un precedente intervento medico.

Al primo posto fra i guasti causati dalla professione, bisogna collocare quella vera e propria malattia «mentale» consistente nella pretesa di fabbricare una salute «migliore». Le prime vittime di questo male iatrogeno (generato cioè dai medici) sono stati i pianificatori e i medici. Ben presto l'aberrazione si è diffusa nell'intero corpo sociale, e nel corso degli ultimi quindici anni la medicina specialistica è divenuta la più concreta minaccia per la salute. Quando infatti non la danneggia, razionalizza e giustifica l'aggressività. Mi è capitato di esaminare una bibliografia tedesca di circa 13000 contributi recenti nel campo della «medicina del traffico»: non contiene un solo studio che mostri dal punto di vista della scienza medica come questo genere specifico di mali, che nei paesi sviluppati costituisce la causa più generale di mortalità in età adulta-produttiva, potrebbe essere virtualmente eliminato se le velocità veicolari venissero limitate al di sotto di un certo livello. D'altra parte, somme colossali vengono spese al solo scopo di tamponare i danni incommensurabili prodotti dalle cure mediche. Ciò che costa non è tanto la guarigione, quanto il prolungarsi della malattia: ammalati ormai morenti possono vegetare a lungo imprigionati in un polmone d'acciaio, attaccati a un tubo di perfusione o sospesi al funzionamento di un rene artificiale. Sopravvivere in città insalubri, in condizioni di lavoro debilitanti, costa sempre più caro. Il monopolio medico estende la sua azione a un numero sempre crescente di situazioni della vita quotidiana. E non soltanto il trattamento medico, ma anche la ricerca biologica ha contribuito a questa proliferazione delle malattie. Gente che in passato aveva imparato a vivere con le proprie malattie, oggi viene imbottita di medicine. Ogni invenzione di un nuovo modo di vivere e.di morire ha portato con sé la parallela definizione di una nuova norma e, in corrispondenza con questa, la definizione di una nuova devianza, di una nuova malignità.

Infine, reso impossibile alla nonna, alla zia o alla vicina di prendersi cura della donna incinta, del ferito, del malato, dell'invalido o del morente, si è creata una domanda impossibile da soddisfare. Man mano che il prezzo del servizio aumenta, la cura personale diventa più difficile e spesso impossibile. Nello stesso tempo, il ricorso al medico viene ritenuto necessario per una serie sempre più vasta di indisposizioni comuni, sicché si moltiplicano specializzazioni e paraprofessioni il cui unico scopo è di mantenere l'esercizio terapeutico sotto il controllo della corporazione. Quando, per l'azione del medico, l'incapacità della popolazione in generale di provvedere alla propria igiene comincia a crescere, si arriva a una nuova svolta dell'istituzione medica.

Giunti a questa seconda soglia, è la vita che appare malata, in un ambiente deleterio. Attività principale, e grosso affare, della professione medica diventa quella di preservare una popolazione sottomessa e dipendente. Per il loro alto costo, la prevenzione e la cura diventano un privilegio, al quale hanno diritto soltanto i grandi consumatori di servizi medici. Le persone che possono farsi visitare da uno specialista, essere ammesse in un grande ospedale, beneficiare dell'attrezzatura per la cura della vita sono i malati il cui caso sia giudicato interessante oppure gli abitanti delle grandi città, dove il costo della prevenzione sanitaria, della purificazione dell'acqua e del controllo dell'inquinamento è altissimo. Paradossalmente, le cure per abitante risultano tanto più care quanto più il costo della prevenzione è già elevato. E necessario aver consumato prevenzione e assistenza per aver diritto a cure eccezionali. L'ospedale, come la scuola, si basa sul principio che si fa credito solo ai ricchi: come nel campo dell'educazione i grandi consumatori di insegnamento otterranno borse di ricerca mentre gli altri avranno solo il diritto di apprendere il proprio fallimento, così, per la medicina, più cure daranno luogo a più sofferenze: il ricco sarà curato sempre più per i mali indotti dalla medicina, mentre il povero deve accontentarsi di soffrirne.

Oltrepassata la seconda soglia, i sottoprodotti dell'industria medica affliggono non singoli individui ma popolazioni intere. Nei paesi ricchi, la gente sta diventando più vecchia. Da quando si mette piede sul mercato del lavoro, si comincia a versare risparmi e contributi per assicurazioni che garantiscano, per una durata sempre più lunga, la possibilità di utilizzare i servizi di una costosa geriatria. Negli Stati Uniti, il 27 per cento delle spese mediche va a favore dei vecchi, che rappresentano il 9 per cento della popolazione. Fatto significativo, il primo terreno di collaborazione scientifica scelto da Nixon e Breznev riguarda le ricerche sulle malattie proprie degli anziani. Da tutte le parti del globo i vecchi benestanti accorrono nelle cliniche di Boston, di Houston, di Denver per sottoporsi ai restauri più raffinati e costosi, mentre negli Stati Uniti stessi, tra le classi povere, la mortalità infantile resta paragonabile a quella di certe regioni dell'Asia o dell'Africa tropicale. Negli Stati Uniti bisogna essere ricchissimi per pagarsi il lusso che tutti si permettono nei paesi poveri: essere assistiti sul letto di morte. In due giorni d'ospedale, un americano spende una cifra pari al reddito medio annuo in contante della popolazione mondiale. Nei paesi poveri, grazie alla medicina moderna, un maggior numero di bambini arriva all'adolescenza, e un maggior numero di donne sopravvive a gravidanze più numerose. La popolazione aumenta, supera la capacità di ricezione dell'ambiente naturale, rompe gli argini e le strutture della cultura tradizionale. Il male che ne deriva è ben peggiore di quello sanato, poiché si generano nuove specie di malattie che né la tecnica moderna né l'immunità naturale né la cultura tradizionale riescono a sconfiggere. Su scala mondiale, e in particolare negli Stati Uniti, la medicina fabbrica una razza di individui dipendenti per la loro sopravvivenza da un ambiente sempre più costoso, sempre più artificiale, sempre più igienicamente programmato. Al congresso dell'American Medical Association del 1970, il presidente, senza sollevare opposizione alcuna, esortava i colleghi pediatri a considerare ogni neonato alla stregua di un paziente fino a che non se ne fosse certificato lo stato di buona salute. I piccoli nati all'ospedale, nutriti su prescrizione, rimpinzati di antibiotici, divengono poi adulti che respirano un'aria viziata, si nutrono di cibi avvelenati e vivono un'esistenza di spettri nella grande città moderna. Sarà per loro ancora più costoso allevare i propri figli i quali, a loro volta, saranno ancora più dipendenti dal monopolio medico. Il mondo intero diventa un ospedale, popolato da gente che, per tutta la vita, deve attenersi scrupolosamente ai regolamenti d'igiene e alle prescrizioni sanitarie.

Questa medicina burocratizzata sta conquistando l'intero pianeta. Nel 1968, vent'anni dopo la rivoluzione, il Collegio di medicina di Shangai si è dovuto arrendere all'evidenza: «Produciamo dei cosiddetti medici di prima classe... che ignorano l'esistenza di 500 milioni di contadini e servono solo le minoranze urbane,... Assorbono ingenti spese di laboratorio per esami di routine,.. prescrivono senza necessità enormi quantità di antibiotici... e, in mancanza di ospedali e laboratori, si trovano ridotti a spiegare i meccanismi della malattia a persone per le quali non possono fare altro e alle quali quella spiegazione non reca utilità alcuna». Questa presa di coscienza, durante la «rivoluzione culturale», ha condotto a una inversione dell'istituzione e nel 1971, come riferisce lo stesso Collegio, si erano ormai formati un milione di «lavoratori della salute» dotati di un accettabile livello di competenza. Si tratta di operai o contadini che durante la stagione morta seguono dei corsi accelerati: imparano la dissezione su un maiale, eseguono le analisi di laboratorio più comuni, apprendono nozioni elementari di batteriologia, patologia, clinica medica, igiene e agopuntura. Poi fanno un tirocinio pratico con medici o «lavoratori della salute» già provetti. Dopo questa prima formazione, questi «medici scalzi» riprendono il loro consueto mestiere, assentandosi dal lavoro dei campi solo quando è necessario per occuparsi dei loro compagni. I compiti affidati alla loro responsabilità includono l'igiene dell'ambiente di vita e di lavoro, l'educazione sanitaria, le vaccinazioni, il pronto soccorso, l'assistenza dei convalescenti, il trattamento dei rifiuti, i parti, il controllo delle nascite e i metodi di aborto.

Dieci anni dopo che la medicina occidentale aveva oltrepassato la seconda soglia, la Cina si metteva a formare un lavoratore sanitario competente per ogni cento cittadini. L'esempio prova che invertire di colpo il funzionamento di una grande istituzione è impresa possibile. Resta da vedere fino a che punto questa deprofessionalizzazione può resistere alla trionfante ideologia dello sviluppo illimitato e alla pressione dei medici classici che oggi, a soli cinque anni dalla «rivoluzione culturale», già tendono a incorporare i loro omonimi scalzi al livello più basso della gerarchia medica, come una fanteria di lavoranti a parttime.

Come nella seconda metà degli anni Sessanta in tutto il mondo è scoppiata una crisi di fiducia nel sistema scolastico, così si possono ormai avvertire i presagi di una analoga crisi nei confronti del complesso medico-industriale. Ma allo stesso modo che nell'altra crisi l'attenzione si è concentrata semplicemente sui programmi scolastici, così adesso, dappertutto, si dà rilievo ai sintomi della malattia della medicina, senza prendere in considerazione il disordine profondo del sistema che li genera. Negli Stati Uniti i paladini dei poveri danno la colpa all'American Medical Association e ai suoi membri, accusando questi di pensare soltanto al portafogli e quella d'essere un bastione di pregiudizi capitalisti. I portavoce delle minoranze criticano la mancanza di un controllo sociale sull'amministrazione sanitaria e sull'organizzazione dei sistemi di cura; dovremmo credere che partecipando ai consigli di amministrazione degli ospedali essi potrebbero controllare l'attività professionale del corpo medico? I portavoce della comunità negra trovano scandaloso che gli stanziamenti per la ricerca siano concentrati sulle malattie che colpiscono i bianchi anziani e supernutriti, e chiedono invece ricerche su una forma particolare di anemia, che tocca soltanto i negri. L'elettore spera che, «finita» la guerra del Vietnam, siano destinati maggiori mezzi allo sviluppo della produzione medica. Tutte queste accuse e critiche si riferiscono ai sintomi di una medicina che prolifera come un tumore maligno e determina l'aumento dei costi e della domanda, generando non benessere ma un generale esser meno.

La crisi della medicina ha radici assai più profonde di quanto si potrebbe credere guardando unicamente ai sintomi. Essa infatti è parte integrante della crisi di tutte le istituzioni industriali. Nel campo della sanità si è sviluppata un'organizzazione complessa di specialisti che, finanziata e sostenuta dalla collettività, si è assunta l'impresa di produrre una salute migliore. Il risultato è che ora non si ha più il diritto di dirsi né sani né ammalati: occorre esibire un certificato medico che attesti l'una o l'altra cosa.

Addirittura, è al medico, come rappresentante della società, che spetta oggi scegliere l'ora della morte del paziente:

come il condannato alla pena capitale, il malato è sottoposto a rigorosa sorveglianza per impedire che accolga la morte quando essa lo ghermisce.

Le date del 1913 e del 1955, che abbiamo scelto a indicare le due soglie di mutazione dell'istituzione medica, non vanno intese in senso tassativo. Ciò che importa è comprendere questo: all'inizio del secolo la pratica medica si è impegnata nella verifica scientifica dei suoi risultati empirici; il ricorso alla misurazione ha segnato il superamento della sua prima soglia. La seconda è stata raggiunta allorché l'utilità marginale del di più di specializzazione ha cominciato a decrescere, almeno per quello che è quantificabile in termine di benessere per la maggioranza. Questa seconda soglia è stata poi oltrepassata quando la disutilità marginale ha preso a crescere, man mano che lo sviluppo dell'istituzione medica si traduceva in maggiori sofferenze per un maggior numero di persone. Quando in una impresa l'aumento dei costi accresce il male contro cui l'impresa stessa si è costituita, questa cessa di essere analizzabile in termini di economia o razionalità: diventa un rito diabolico celebrato nel solo interesse dei suoi officianti i quali, presi dal rito, non sono più capaci di smascherare l'idolo che l'ispira. Oggi, il costo sociale della medicina non è più calcolabile in termini classici: come misurare le false speranze, il peso del controllo sociale, il prolungamento della sofferenza, la solitudine, la degradazione del patrimonio genetico e il senso di frustrazione generati dall'istituzione medica?

Altre istituzioni industriali hanno superato le stesse due soglie. È il caso, in particolare, delle grandi industrie terziarie e delle attività produttive organizzate scientificamente dalla metà del XIX secolo in poi. L'educazione, le poste, l'assistenza sociale e anche i lavori pubblici hanno avuto tutti la stessa evoluzione. In un primo tempo si applica un nuovo sapere alla soluzione di un problema chiaramente definito e con criteri scientifici si arriva a misurare l'aumento di efficienza ottenuto. Ma, in un secondo tempo, il progresso realizzato diventa un mezzo per sfruttare l'insieme del corpo sociale, mettendolo al servizio dei valori che una élite specializzata, sola garante del proprio valore, stabilisce e rivede senza tregua.

Nel caso dei trasporti, c'è voluto un secolo per passare dalla liberazione grazie ai veicoli motorizzati alla schiavitù dell'automobile. I trasporti a vapore cominciarono a essere utilizzati al tempo della guerra di secessione americana. Il nuovo sistema dette a molta gente la possibilità di viaggiare per ferrovia alla velocità di una carrozza reale, e con una comodità che nessun re avrebbe osato sognare. A poco a poco si cominciò a far confusione tra buona circolazione e grande velocità. Da quando l'industria dei trasporti ha oltrepassato la sua seconda soglia di mutazione, i veicoli creano più distanze di quante non ne eliminino. Il complesso della società spende ogni giorno più tempo per la circolazione, che in teoria dovrebbe fargliene guadagnare. L'americano tipo dedica più di 1500 ore l'anno alla sua automobile: ci sta seduto dentro, fermo o in moto, lavora per comprarla e mantenerla, per pagare la benzina, i pneumatici, i pedaggi, l'assicurazione, le contravvenzioni e le imposte. Dedica cioè quattro ore al giorno alla sua auto, sia che se ne serva, se ne occupi o lavori per lei. E non consideriamo tutti gli altri suoi impegni di tempo regolati dal trasporto:

il tempo passato in ospedale, in garage o in tribunale, il tempo consumato a guardare la televisione e la pubblicità delle automobili, il tempo speso a guadagnare il denaro necessario per viaggiare durante le vacanze, eccetera. A questo americano occorrono dunque 1500 ore per percorrere 10000 chilometri di strada: 6 chilometri gli prendono più di un ora [3] .

L'attuale crisi sociale può diventare chiara solo quando si ammetta l'esistenza delle due soglie sopra descritte. Nel giro di un decennio parecchie istituzioni dominanti hanno, tutte insieme, saltato gagliardamente la seconda soglia. La scuola non è più un valido strumento di educazione, né i mezzi di trasporto veloce buoni strumenti di circolazione, né la catena di montaggio un modo di produzione accettabile. La scuola produce cancro, la velocità divora il tempo, la catena incita al sabotaggio in forme non più controllabili.

La reazione caratteristica degli anni Sessanta alla marea dell'insoddisfazione è stata l'escalation della tecnica e della burocrazia. L'escalation del potere di autodistruggersi è divenuta il rito sacrificale delle società altamente industrializzate. La guerra del Vietnam è stata, a questo riguardo, l'occasione di una rivelazione e di un occultamento. Ha svelato all'intero pianeta il rituale in esercizio: su un piccolo campo di battaglia e sotto la lente della tv, ha celebrato la trasformazione di fiumi di petrolio in carburante e napalm; ma, con questo, ha distolto la nostra attenzione dai settori sedicenti pacifici dove lo stesso rito si ripete in forma più discreta. La storia della guerra dimostra che un esercito «conviviale» di ciclisti e di pedoni può volgere a proprio vantaggio l'escalation di potenza anonima dell'avversario. E tuttavia, ora che la guerra è «terminata», molti americani pensano che col denaro speso annualmente per farsi battere dai vietnamiti sarebbe possibile sconfiggere invece la povertà interna. Altri vorrebbero destinare i venti miliardi di dollari del bilancio di guerra al rafforzamento della cooperazione internazionale, ciò che ne decuplicherebbe le attuali risorse. Né gli uni né gli altri comprendono che un'identica struttura istituzionale è sottesa alla guerra pacifica contro la povertà come alla guerra cruenta contro il dissenso. Tutti portano un gradino più su l'escalation che vorrebbero eliminare.

II. La ricostruzione conviviale

Lo strumento e la crisi

I sintomi di una crisi planetaria in corso di accelerazione sono manifesti. Se ne è ricercato il motivo un po' ovunque. Da parte mia, io avanzo la seguente spiegazione: la crisi ha le sue radici nel fallimento dell'impresa moderna, cioè la sostituzione della macchina all'uomo. Il grande progetto di sostituire la soddisfazione razionale e anonima alla risposta occasionale e personale si è trasformato in un implacabile processo di asservimento del produttore e di intossicazione del consumatore.

La relazione dall'uomo allo strumento è divenuta una relazione dallo strumento all'uomo. Qui bisogna riconoscere il fallimento. E un centinaio d'anni che cerchiamo di far lavorare la macchina per l'uomo e di educare l'uomo a servire la macchina. Adesso ci si accorge che a un certo punto la macchina non «funziona», che l'uomo non riesce a conformarsi alle sue esigenze, a farsi suo servitore a vita. Per un secolo l'umanità si è dedicata a un esperimento basato su questa ipotesi: lo strumento può rimpiazzare lo schiavo. Ora vediamo chiaramente che, impiegato per siffatti scopi, è lo strumento che fa dell'uomo il suo schiavo. La dittatura del proletariato e la dittatura del mercato sono due varianti politiche che celano lo stesso dominio da parte di un'attrezzatura industriale in costante espansione. Il fallimento del grande sogno di razionalizzazione progressiva porta a concludere che l'ipotesi è falsa.

La soluzione della crisi esige un radicale rovesciamento: solo ribaltando la struttura profonda che regola il rapporto tra l'uomo e lo strumento potremo servirci degli strumenti che sappiamo costruire. Lo strumento veramente razionale risponde a tre esigenze: genera efficienza senza degradare l'autonomia personale, non produce né schiavi né padroni, estende il raggio d'azione personale. L'uomo ha bisogno di uno strumento col quale lavorare, non di un'attrezzatura che lavori al suo posto. Ha bisogno di una tecnologia che esalti l'energia e l'immaginazione personali, non di una tecnologia che lo asservisca e lo programmi. L'industrializzazione programmatica ci ha progressivamente privato di tali strumenti.

Io credo che occorra invertire radicalmente le istituzioni industriali, ricostruire la società da cima a fondo. Per essere efficiente e andare incontro ai bisogni umani che pure determina, un nuovo sistema di produzione deve ritrovare la dimensione personale e comunitaria. La persona, la cellula di base congiungono in maniera ottimale l'efficacia e l'autonomia: soltanto sulla loro scala si può determinare il bisogno umano la cui produzione sociale è realizzabile.

Che si sposti o sia fermo, l'uomo ha bisogno di strumenti. Ne ha bisogno per comunicare con gli altri come per curarsi. L'uomo che va a piedi e prende erbe medicinali non è l'uomo che corre a centosessanta sull'autostrada e prende antibiotici; ma tanto l'uno quanto l'altro non possono fare tutto da sé e dipendono da ciò che gli fornisce il loro ambiente naturale e culturale. Lo strumento e quindi la fornitura di oggetti e di servizi variano da una civiltà all'altra.

L'uomo non vive soltanto di beni e di servizi, ma della libertà di modellare gli oggetti che gli stanno attorno, di conformarli al suo gusto, di servirsene con gli altri e per gli altri. Nei paesi ricchi, i carcerati dispongono spesso di beni e servizi in quantità maggiore delle loro famiglie, ma non hanno voce in capitolo riguardo al come le cose sono fatte, né diritto di interloquire sull'uso che se ne fa: degradati al rango di consumatori-utenti allo stato puro, sono privi di convivialità.

Intendo per convivialità il contrario della produttività industriale. Ognuno di noi si definisce nel rapporto con gli altri e con l'ambiente e per la struttura di fondo degli strumenti che utilizza. Questi strumenti si possono ordinare in una serie continua avente a un estremo lo strumento dominante e all'estremo opposto lo strumento conviviale: il passaggio dalla produttività alla convivialità è il passaggio dalla ripetizione della carenza alla spontaneità del dono. Il rapporto industriale è riflesso condizionato, risposta stereotipa dell'individuo ai messaggi emessi da un altro utente, che egli non conoscerà mai, o da un ambiente artificiale, che mai comprenderà; il rapporto conviviale, sempre nuovo, è opera di persone che partecipano alla creazione della vita sociale. Passare dalla produttività alla convivialità significa sostituire a un valore tecnico un valore etico, a un valore materializzato un valore realizzato. La convivialità è la libertà individuale realizzata nel rapporto di produzione in seno a una società dotata di strumenti efficaci. Quando una società, qualunque essa sia, reprime la convivialità al di sotto di un certo livello, diventa preda della carenza; infatti nessuna ipertrofia della produttività riuscirà mai a soddisfare i bisogni creati e moltiplicati a gara.

L'alternativa

L'istituzione industriale ha propri fini astratti che giustificano i mezzi predominanti. Il dogma della crescita accelerata giustifica la sacralizzazione della produttività industriale, a spese della convivialità. La società che ne risulta, recisa dall'intenzione personale, ci appare di conseguenza come una «danza della morte», uno spettacolo d'ombre produttrici di domanda e generatrici di carenza. Soltanto invertendo la logica dell'istituzione diventa possibile rovesciarne il corso. Ribaltare l'istituzione produttiva del 1975 non ha nulla a che fare con le proposte di Rousseau o di Ludd. Per effetto dell'inversione radicale di cui parliamo, la scienza e la tecnologia moderne non saranno annientate ma conferiranno all'attività umana un'efficacia senza precedenti. Da questa inversione l'industria e la burocrazia non saranno distrutte, ma eliminate nella misura in cui ostacolano l'autonomia, l'autarchia e l'autogoverno. E la convivialità sarà restaurata nel cuore di sistemi politici che proteggano, garantiscano e rafforzino l'esercizio ottimale della risorsa meglio distribuita sulla terra: l'energia personale controllata dalla persona. Intendo sostenere che, a cominciare da adesso, bisogna che noi assicuriamo collettivamente la difesa della nostra esistenza e del nostro lavoro contro gli strumenti e le istituzioni che minacciano o misconoscono il diritto delle persone a utilizzare la loro energia in maniera creativa. A questo fine, dobbiamo mettere a nudo la struttura formale comune al processo di decisione etica, giuridica e politica: è essa a garantire che la limitazione e il controllo degli strumenti sociali siano frutto di un processo di partecipazione e non d'un oracolo di esperti. L'ideale proposto dalla tradizione socialista non si tradurrà nella realtà se non si invertono le istituzioni regnanti e se non si sostituisce l'attrezzatura industriale con strumenti conviviali.

Per contro, la ristrumentazione della società ha tutte le probabilità di rimanere un pio desiderio se gli ideali di giustizia socialisti non prevarranno. Perciò la crisi aperta delle istituzioni dominanti va salutata come l'alba di una liberazione rivoluzionaria nei confronti di quelle che mutilano la libertà elementare dell'essere umano al solo scopo di ingozzare un sempre maggior numero di utenti. Questa crisi mondiale delle istituzioni può farci pervenire a un nuovo stato di coscienza circa la natura dello strumento e l'azione da condurre perché la maggioranza della gente ne assuma il controllo. Se gli strumenti non vengono fin d'ora sottoposti a un controllo politico, la cooperazione dei burocrati del benessere e dei burocrati dell'ideologia ci farà crepare di «felicità». La libertà e la dignità dell'essere umano continueranno a degradarsi e si stabilirà un asservimento senza precedenti dell'uomo al suo strumento.

Alla minaccia di una apocalisse tecnocratica, io oppongo la visione di una società conviviale. La società conviviale riposerà su contratti sociali che garantiscano a ognuno il più ampio e libero accesso agli strumenti della comunità, alla sola condizione di non ledere l'uguale libertà altrui.

I valori-base

Al nostri giorni si tende ad affidare a un corpo di specialisti il compito di sondare e leggere il futuro. Si consegna il potere agli uomini politici che promettono di costruire la megamacchina per produrre il futuro. Si accetta una crescente disparità dei livelli di energia e di potere, perché lo sviluppo della produttività esige questa diseguaglianza. Infatti, più la distribuzione del prodotto industriale è egualitaria, più il controllo della produzione dev’essere centralizzato. Le stesse istituzioni politiche funzionano come meccanismi di pressione e di repressione che indirizzano il cittadino e raddrizzano il deviante, per renderli conformi agli obiettivi di produzione. Il Diritto è subordinato al bene dell'istituzione. Il consenso della fede utilitaristica abbassa la giustizia al semplice rango di un'equa distribuzione della merce industriale e (pertanto) misurabile.

Una società che definisce il bene come il soddisfacimento massimo del maggior numero di individui mediante il maggior consumo di prodotti e servizi industriali, logicamente arriva a imporre il consumo e mutila in modo intollerabile l'autonomia della persona. Nella misura in cui il consumo programmato aumenta, l'austerità adottata per scelta personale diventa un'attività antisociale. Una soluzione politica alternativa a questo utilitarismo è quella che definisce il bene come la capacità di ciascuno di modellare l'immagine del proprio avvenire. Questa ridefinizione del bene non diviene operativa se non applicando criteri negativi. Prima di tutto, occorre bandire le attrezzature e le leggi che ostacolano l'esercizio della libertà personale, e limitare le dimensioni degli strumenti in modo da salvaguardare certi valori essenziali che io chiamerei sopravvivenza, equità, autonomia creatrice, ma che si potrebbero anche designare con i tre criteri matematici di vitalità, curva di distribuzione degli input e curva di controllo degli output. Questi valori sono alla base di ogni struttura conviviale, anche se la loro espressione in termini linguistici, legislativi e di costume varia da una cultura all'altra.

Ciascuno di questi valori limita a suo modo lo strumento. La sopravvivenza è condizione necessaria, ma non sufficiente, dell'equità: si può infatti sopravvivere stando in carcere. L'equità, nella distribuzione dei prodotti industriali, è la condizione necessaria, ma non sufficiente per un lavoro conviviale: si può infatti diventare prigionieri dello strumento. L'autonomia, come potere di controllo sull'uso delle risorse e dei programmi, abbraccia i due primi valori e inoltre definisce il lavoro conviviale. Questo ha per presupposto la creazione di strutture che rendano possibile un'equa distribuzione del potere di modellare l'immagine dell'avvenire individuale e del gruppo di base. Noi dobbiamo e, grazie al progresso scientifico, possiamo edificare una società postindustriale in maniera che l'esercizio della creatività di una persona non imponga mai ad altri un lavoro, un sapere o un tipo di consumo obbligatori.

La ricostruzione sociale che rispetti le condizioni di convivialità non è solo necessaria ai fini della giustizia partecipatoria, ma anche perché, per l'uomo contemporaneo, sopravvivere sotto il regime di un contratto sociale hobbesiano è diventato impossibile. Nell'epoca della tecnologia scientifica, solo una struttura conviviale dello strumento può unire sopravvivenza ed equità. L'equità esige che si ripartiscano al tempo stesso sia l'avere sia il potere: mentre infatti la corsa all'energia porta all'olocausto, l'accentramento del controllo dell'energia nelle mani di un leviatano burocratico riduce il controllo egualitario dell'energia alla parvenza di un'equa distribuzione dei prodotti ottenuti. La strutturazione conviviale degli strumenti è una necessità e un'urgenza dal momento che la scienza libera sempre nuove forme di energia. Una struttura conviviale dello strumento rende realizzabile l'equità e praticabile la giustizia ed è la sola garanzia di sopravvivenza.

Il prezzo dell'inversione

Tuttavia il passaggio dall'attuale stato di cose a un modo di produzione conviviale rappresenterà per molti una minaccia alla loro stessa possibilità di sopravvivenza. Secondo l'uomo dall'immaginazione industrializzata, i primi a soffrire e a soccombere a causa dei limiti imposti all'industria sarebbero i poveri. Come vuole un certo modo ipocrita di pensare, l'ulteriore arricchimento delle superpotenze sarebbe condizione necessaria per la protezione e l'alimentazione dei cubani o dei senegalesi. Così si dimentica che il dominio dell'uomo sullo strumento ha già preso una piega di mutuo suicidio: la sopravvivenza del Bangladesh dipende dal frumento che presto il Canada non potrà più produrre, ma anche la salute dei nuovaiorchesi richiede il saccheggio delle risorse planetarie ormai vicine a esaurirsi. Il passaggio ad una società conviviale sarà accompagnato da sofferenze estreme da una parte e dall'altra. Certo, impegnarsi ad accelerare il ribaltamento del sistema di produzione attuale è impossibile per chi non riconosca che questa inversione è il prezzo minore, l'unico modo per sopravvivere. Questa transizione può auspicarla solo chi sa che l'organizzazione industriale dominante si avvia a produrre sofferenze ancor meno immaginabili.

Perché sia possibile, la sopravvivenza nell'equità esige sacrifici che sarebbero insostenibili se non fossero scelti consapevolmente. Esige una rinuncia generale al sovrappopolamento, alla sovrabbondanza e al superpotere, da parte degli individui come dei gruppi. Ciò vuoI dire abbandonare l'illusione che sostituisce all'amore del prossimo, ossia del più vicino, la pretesa di organizzare la vita agli antipodi, di creare istituzioni deputate a far fare il bene. La sopravvivenza nell'equità non sarà né l'opera d'un ukase dei burocrati, né l'effetto d'un calcolo dei tecnocrati. Essa è il risultato del realismo degli umili. La convivialità non ha prezzo, ma non può essere promossa da chi non vuol sapere che cosa comporta per lui e per gli altri lo staccarsi dal modello attuale. L'uomo ritroverà la gioia della sobrietà e l'austerità liberatrice reimparando a convivere, a dipendere dall'iniziativa dell'altro che conosce, anziché farsi schiavo dell'energia e della burocrazia onnipotente.

I limiti della mia dimostrazione

Unico mio scopo qui è di fornire una metodologia che permetta di individuare i mezzi che si sono tramutati in fini. Mi attacco alla corposità dello strumento, non alla sottigliezza dell'intenzione. La rigorosità del proposito m'impedisce dunque di trattare problemi contigui, complementari o subordinati, sei dei quali meritano tuttavia un cenno.

1. Non mi servirebbe a nulla offrire un'immagine dettagliata della società futura. Voglio fornire una guida all'azione e lasciare libero corso all'immaginazione. La vita in una società conviviale e di tipo moderno ci riserverà sorprese superiori alle nostre previsioni e speranze. Non propongo una utopia normativa, ma i presupposti formali di una procedura che permetta a qualunque collettività di scegliersi continuamente la propria utopia realizzabile. La convivialità è multiforme: si basa non sul dogma, ma sull'anatema delle condizioni che la renderebbero impossibile.

2. Io non propongo qui né un trattato di organizzazione delle istituzioni, né un manuale tecnico per la fabbricazione dello strumento giusto, né un modo d'impiego dell'istituzione conviviale. Non sono né il commesso viaggiatore di una tecnologia «migliore» né il propagandista di una ideologia. Voglio solo definire degli indicatori che segnalino ogni qual volta lo strumento manipola l'uomo, per poter bandire le attrezzature e le istituzioni che distruggono il modo di vita conviviale. Questo manifesto è dunque una guida, un rivelatore, e come tale va utilizzato. Il paradosso è che mentre la nostra abilità ad attrezzare l'azione umana ha oggi toccato un livello prima impensabile, nello stesso tempo, è diventato difficile concepire una società dotata di strumenti semplici, in cui la maggioranza degli uomini possa conseguire dei fini immaginati autonomamente. I nostri sogni sono standardizzati, la nostra immaginazione industrializzata, la nostra fantasia programmata. Non siamo capaci di concepire altro che sistemi iper-attrezzati di abitudini sociali, conformi alla logica della produzione di massa. Abbiamo quasi perduto la capacità di sognare un mondo in cui ognuno possa essere ascoltato, nel quale nessuno sia obbligato a limitare la creatività altrui, dove ciascuno abbia uguale potere di modellare l'ambiente che a sua volta poi determina i desideri e le necessità. Siamo chiusi alla prospettiva di un mondo che sia moderno e al tempo stesso libero da condizionamenti clientelari.

Il mondo attuale è diviso in due: ci sono quelli che non hanno abbastanza e quelli che hanno troppo; quelli che le automobili cacciano dalla strada e quelli che guidano le automobili. I poveri sono frustrati e i ricchi sempre insoddisfatti. Una società attrezzata col cuscinetto a sfere e che procedesse al ritmo dell'uomo sarebbe incomparabilmente più efficiente di tutte le rozze società del passato, incomparabilmente più autonoma di tutte le società programmate del presente. Siamo nell'epoca degli uomini-macchina, incapaci di cogliere nella sua ricchezza e concretezza il raggio d'azione offerto dagli strumenti moderni quando fossero mantenuti entro certi limiti. Nella mente dell'uomo-macchina non c'è posto per immaginare il salto qualitativo che deriverebbe da un'economia in equilibrio stabile col mondo in cui agisce. Nel suo cervello non c'è nessuna casella per una società libera dagli orari e dai trattamenti imposti dalla crescita degli strumenti. L'uomo-macchina non conosce la gioia che è a portata di mano, in una povertà voluta; ignora la sobria ebbrezza della vita. Una società in cui ognuno sapesse quanto basta sarebbe forse una società povera, ma anche, non c'è dubbio, libera e ricca di sorprese.

3. Mi soffermo sulla struttura dello strumento, non sulla struttura di carattere dell'individuo e della comunità. Certo, la ricostruzione sociale, specie nei paesi ricchi, implica che lo sguardo acquisti trasparenza, che il sorriso si faccia attento e che i gesti si addolciscano: esige una ricostruzione dell'uomo e del tipo di società. Ma qui non parlo da psicologo, benché sia convinto che dominando lo strumento sarà possibile ridurre le attuali distorsioni del carattere sociale.

Ogni città ha la propria storia e la propria cultura, e tuttavia ogni paesaggio urbano subisce oggi la medesima degradazione. Tutte le autostrade, tutti gli ospedali, tutte le aule scolastiche, tutti gli uffici, tutti i grandi complessi di abitazione e tutti i supermercati si somigliano. Gli stessi strumenti producono i medesimi effetti. Tutti i poliziotti in pattuglia motorizzata e tutti gli specialisti di informatica si somigliano; su tutta la superficie del pianeta hanno lo stesso aspetto e compiono gli stessi gesti, mentre, da una regione all'altra, i poveri sono diversi. Senza una riattrezzatura della società, non sfliggiremo alla progressiva omogeneizzazione di tutti, allo sradicamento culturale e alla standardizzazione delle relazioni personali. Una ricerca complementare a questa sarebbe da condurre sui caratteri dell'uomo «industriale» che ostacolano o minacciano la riattrezzatura. Ma io non fornisco ricette per cambiare l'uomo e rifare una società nuova, e non pretendo di sapere come le personalità e le culture muteranno. Una cosa però è certa: una pluralità di strumenti limitati e di organizzazioni conviviali stimolerebbe una diversità di modi di vita, sia che essa si richiami maggiormente alla «memoria», cioè all'eredità del passato, sia che si rifaccia all'invenzione, cioè alla creazione ex novo.

4. Mi allontanerei ugualmente dal mio tema se mi occupassi di strategia o di tattica politica. A eccezione, forse, della Cina retta da Mao, nessun governo attuale potrebbe ristrutturare il proprio progetto di società secondo un indirizzo conviviale. I dirigenti odierni sono come gli ufficiali d'una nave, assegnati alle leve di comando delle istituzioni dominanti: imprese multinazionali, branche dell'industria di Stato, partiti politici, monopoli professionali ecc. Possono cambiare rotta, carico o equipaggio, ma non tonnellaggio. Possono anche produrre una domanda che vada incontro all'offerta dello strumento, o limitare questa offerta per massimizzare il profitto, ma sono la classe meno capace di riconoscere la natura artificiale dell'offerta. Il presidente di una impresa europea o quello di una comune cinese possono facilitare la partecipazione complice dei lavoratori alla direzione della produzione, ma né da soli né con l'aiuto del sindacato possono invertire la struttura dell'istituzione che dirigono.

Le istituzioni dominanti ottimizzano la produzione della mega-attrezzatura e l'orientano verso un popolo di fantasmi. I dirigenti di oggi formano una nuova classe di uomini; scelti per la loro personalità, il loro sapere e il loro gusto del potere, sono uomini addestrati a garantire nello stesso tempo l'aumento del prodotto lordo e il condizionamento del cliente. Detengono il potere e tengono l'energia, lasciando al pubblico l'illusione di conservare la proprietà legale dell'attrezzatura, ove essa sia nazionalizzata. Sono loro che bisogna liquidare. Ma a nulla servirebbe sterminarli, soprattutto se lo si facesse unicamente per rimpiazzarli: il nuovo gruppo dirigente non farebbe che ritenersi più legittimo, maggiormente autorizzato a manipolare quel potere ereditato con tutta la sua struttura. Il solo modo per eliminare i manager è di rompere il meccanismo che li rende necessari, e con ciò stesso la domanda massiccia che assicura il loro impero. La professione di amministratore delegato non ha avvenire in una società conviviale, come il professore non ha un posto in una società descolarizzata: una specie si estingue quando perde la propria ragione d'essere.

L inverso e un ambiente propizio alla produzione per opera di un popolo anarchico. Ma l'inversione della struttura tecnica non può essere il risultato della vittoria di un partito classico. Il politico che ha conquistato il potere è l'ultima persona capace di comprendere il potere della rinuncia: è arrivato al potere per gestire lo strumento, non per eliminarlo in pro dell'umile autogestione di attrezzi precari. In una società in cui la decisione politica argini l'efficacia dello strumento, non soltanto sbocceranno i destini personali, ma nasceranno nuove forme imprevedibili di partecipazione politica. Cessa la ragione di ogni disciplina di partito. L'uomo fa lo strumento. Si fa mediante lo strumento. Lo strumento conviviale sopprime certe scale di potere, di costrizione e di programmazione, quelle precisamente che sono comuni agli opposti partiti e che tendono a uniformare tutti gli attuali governi. L'adozione di un modo di produzione conviviale non crea pregiudizi a vantaggio di alcuna forma determinata di governo, più di quanto non escluda una federazione mondiale, accordi fra nazioni, fra comuni, o il mantenimento di certi tipi di governo tradizionali. Mi piacerebbe prevedere quella vita politica che non può non esistere nel cuore di una società conviviale, ma qui mi limito a descrivere i criteri strutturali negativi dei mezzi di produzione e la struttura formale su cui fondare un nuovo pluralismo politico.

5. Una metodologia che ci permetta di individuare l'opera distruttiva della mega-attrezzatura postula il riconoscimento della sopravvivenza nell'equità come valore fondamentale. Ciò implica l'elaborazione di una teoria della giustizia. Ma questo manifesto non può essere né un trattato e neppure un compendio di etica. Per le esigenze della mia argomentazione, ho dovuto accontentarmi di enunciare semplicemente i valori fondamentali di tale teoria.

6.  In una società postindustriale e conviviale, i problemi economici non scompariranno da un giorno all'altro, come non si risolveranno da soli. Riconoscere che il Prodotto Nazionale Lordo non misura il benessere o addirittura ammettere che la qualità della vita non è misurabile alla stessa stregua, non elimina il bisogno di una nozione per quantificare il trasferimento ingiusto del potere. L'assegnare alla crescita industriale limiti non-monetari e politicamente definiti comporterà una revisione di molti principi economici consacrati, ma non farà scomparire la diseguaglianza tra gli uomini. Ponendo limiti allo sfruttamento dell'uomo da parte dello strumento si rischia non solo di ricadere in forme preindustriali di sfruttamento, ma di sostituirvi nuove forme più accentuate di sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. In effetti, l'individuo dotato di uno strumento conviviale avrà, più che nell'era industriale o preindustriale, il potere di investirsi nella società, di provocare cambiamenti per lui significativi.

Anche limitato, lo strumento conviviale sarà incomparabilmente più efficace dello strumento primitivo e, a differenza dello strumento industriale, sarà alla portata di tutti. Certi, però, ne trarranno maggiore profitto di altri. La convivialità dello strumento accresce la possibilità di un «trasferimento netto di potere» fra gli individui, anche se, a differenza dello strumento industriale, non l'impone. L'adozione della convivialità comporta un ritorno alla lotta politica contro la concentrazione del potere personale, che adesso si maschera come potere di servizio professionale e sfugge in tal modo alla critica. Questa lotta continua esige una nuova teoria economica che individui scarsità non-finanziarie di vario tipo. Si dirà che la limitazione dell'attrezzatura è destinata a restare lettera morta sino a quando tale nuova teoria economica non divenga operante assicurando la continua ridistribuzione in una società decentralizzata. Ciò è del tutto esatto, ma non è questo il mio intento. Io propongo una teoria sull'efficacia e l'accessibilità dei mezzi di produzione, non una teoria che riguardi direttamente la riorganizzazione finanziaria. Io propongo di identificare cinque classi di confini imponibili alla crescita della produzione: ognuno di essi rappresenta una dimensione naturale, entro la quale le unità di misura dell'economia sono ridotte a una classe di fattori senza dimensione.

L'industrializzazione della carenza

Una metodologia che permetta di individuare la perversione dello strumento divenuto fine a se stesso è destinata a incontrare una forte resistenza fra coloro che sono abituati a misurare il bene in termini di lire o dollari. Platone diceva che il cattivo statista crede di poter misurare ogni cosa e mescola la considerazione dell'inferiore e del superiore con la ricerca di ciò che è più conveniente allo scopo. Il nostro atteggiamento verso la produzione è stato modellato, attraverso i secoli, dal succedersi di simili statisti. Poco alla volta le istituzioni non solo hanno determinato la nostra domanda, ma hanno addirittura plasmato la nostra logica, riducendo il nostro senso delle proporzioni a quello della misura numerica. Si comincia col reclamare ciò che l'istituzione produce, e poi ben presto si pensa di non potere più farne a meno. E meno si gode di ciò che è diventato una necessità, più si sente il bisogno di quantificarlo. Il bisogno personale diventa una carenza misurabile.

L'invenzione dell'«educazione» e un esempio di ciò che sostengo. Di solito si dimentica che il bisogno di educazione, nel significato moderno del termine, è un'invenzione recente. Essa era sconosciuta prima della Riforma, quando significava semplicemente l'addestramento della prima età che gli animali e gli uomini impartiscono ai propri piccoli. La si distingueva chiaramente dall'istruzione, necessaria al bambino, e dallo studio, al quale alcuni si dedicavano più tardi, sotto la guida di un maestro. Per Voltaire, l'educazione era ancora un neologismo presuntuoso, usato da certi maestri di scuola che volevano darsi delle arie.

L'impresa consistente nel far passare tutti gli uomini per gradi successivi di illuminazione ha le sue più profonde origini nell'alchimia, la Grande Arte del Medioevo declinante. Giustamente Giovanni Amos Comenio, vescovo moravo del XVII secolo, pansofista e pedagogo, come lui stesso si definiva, viene considerato uno dei fondatori della scuola moderna. Fu tra i primi a proporre, rispettivamente, sette e dodici gradi di apprendistato obbligatorio. Nella sua Didactica Magna descrive la scuola come uno strumento per «insegnare interamente tutto a tutti» (omnes, omnia, omnino) e abbozza il progetto di una produzione a catena del sapere che diminuisca il costo e accresca il valore dell'educazione, in modo da permettere a ognuno di accedere alla pienezza dell'umanità. Ma Comenio non fu soltanto uno dei primi teorici della produzione di massa, fu anche il grande discepolo dell'alchimista Wolfgang Ratke, e adattò il vocabolario tecnico della trasmutazione degli elementi all'arte di allevare i bambini. L'alchimista si propone di raffinare gli elementi-base purificandone gli spiriti attraverso dodici tappe successive di illuminazione; al termine di questo processo, per il loro maggior bene e per quello dell'universo, gli elementi sono trasformabili in metallo prezioso: il residuo di materia che ha subito sette classi di trattamento fornisce argento, mentre ciò che sussiste dopo dodici prove dà oro. Naturalmente gli alchimisti, nonostante i loro assidui sforzi, non riuscivano mai nell'intento, ma nella loro scienza trovavano sempre nuove ragioni per continuare, e si rimettevano tenacemente al lavoro. Il fallimento dell'alchimia culmina nel fallimento dell'industria.

Il modo di produzione industriale è stato per la prima volta pienamente razionalizzato in occasione della fabbricazione di un nuovo bene di servizio: l'educazione. La pedagogia ha aggiunto un capitolo alla storia della Grande Arte. L'educazione divenne la ricerca del processo alchimistico grazie al quale potesse nascere un nuovo tipo d'uomo, richiesto dall'ambiente plasmato dalla magia scientifica. Ma, nonostante il prezzo pagato dalle varie generazioni, ogni volta risultò che la maggior parte degli allievi non erano degni di accedere ai più alti gradi dell'illuminazione, e dovevano essere esclusi dal gioco perché inadatti a condurre la «vera» vita offerta in questo mondo creato dall'uomo.

La ridefinizione del processo di acquisizione del sapere in termini di scolarizzazione non ha soltanto giustificato la scuola dandole l'apparenza della necessità; ha anche creato una nuova specie di scorie, i non scolarizzati, e una nuova specie di segregazione sociale, la discriminazione di chi è privo di educazione da parte di quelli che sono fieri di averla ricevuta. L'individuo scolarizzato sa esattamente a quale livello della piramide gerarchica del sapere è riuscito ad arrivare, e conosce con precisione la sua distanza dalla vetta. Una volta che ha accettato di lasciarsi definire da una amministrazione in base al proprio consumo di educazione attestato dal suo titolo di studio, accetta poi senza batter ciglio che dei burocrati determinino il suo bisogno di salute, che dei tecnocrati definiscano la sua carenza di mobilità. Modellato in tal modo sulla mentalità del consumatore-utente, non può più scorgere la degenerazione dei mezzi in fini inerente alla struttura stessa della produzione industriale, non è più in grado di distinguere fra il necessario ed il lusso. Condizionato a credere che la scuola può fornirgli uno stock di sapere, arriva a credere anche che i trasporti possono fargli risparmiare tempo o che la fisica atomica, nelle sue applicazioni militari, gli assicura protezione. Si aggrappa all'idea che il livello dei salari corrisponda al livello di vita e che l'espansione del terziario rispecchi un miglioramento della qualità della vita. In realtà l'industrializzazione dei bisogni riduce ogni soddisfazione a un atto di verifica operazionale, sostituisce alla gioia di vivere il piacere di applicare una misura.

Il servizio educazione e l'istituzione scuola si giustificano reciprocamente. La collettività non ha che un modo per uscire da questo circolo vizioso, ed è prendere coscienza che l'istituzione è ormai arrivata a stabilire essa stessa i propri fini: l'istituzione pone dei valori astratti, poi li materializza incatenando l'uomo a meccanismi implacabili. Come uscirne? Occorre interrogare se stessi: chi mi incatena, chi mi assuefà alle sue droghe? Porre la domanda significa già rispondere. Significa liberarsi dall'oppressione del nonsenso e della carenza, riconoscendo ognuno la propria capacità di imparare, muoversi, curarsi, farsi intendere e comprendere. Occorre tempo per uscirne ? Bisogna capire che questa liberazione è obbligatoriamente istantanea, perché non c e via di mezzo tra l'incoscienza e il risveglio. La carenza che la società industriale industriosamente coltiva non sopravvive alla scoperta che persone e comunità possono soddisfare da se stesse i loro bisogni autentici.

Il modo di percezione industriale dei valori rende estremamente arduo per l'utente prendere coscienza della struttura profonda dei mezzi sociali. Non gli è facile capire che esiste una via diversa dall'alienazione del lavoro, dall'industrializzazione della carenza e dalla sovrefficienza dello strumento. Non gli è facile immaginare che si possa acquistare in rendimento sociale ciò che si perde in redditività industriale. Il timore che rifiutando il presente si ritorni alla schiavitù del passato lo chiude nella prigione multinazionale d'oggi, si chiami essa Fiat o Scuola.

Un tempo l'esistenza dorata di alcuni poggiava sull'asservimento degli altri. L'efficienza del singolo era scarsa: la vita agiata di una minoranza esigeva la manomissione del lavoro della maggioranza. A un certo punto, una serie di scoperte, semplicissime ma inconcepibili fino a qualche tempo fa, ha dilatato l'efficienza dell'uomo; il cuscinetto a sfere, la sega e il vomere d'acciaio, la pompa e la bicicletta hanno potenzialmente moltiplicato il rendimento orario dell'uomo e facilitato il suo lavoro. Ma tra l'alto Medioevo e il secolo dei lumi, in Occidente, più di un autentico umanista si è smarrito dietro il sogno alchimistico, e le nuove scoperte, invece di accrescere il potere degli uomini, sono state incorporate alle macchine, nell'illusione che la megamacchina, produttore artificiale al servizio di una umanità astratta, potesse colmare i bisogni esistenti anziché creare, com'è accaduto, sempre nuove carenze a un ritmo più veloce della creazione di valori.

L'altra possibilità: una struttura conviviale

La società conviviale è una società che dà all'uomo la possibilità di esercitare l'azione più autonoma e creativa, con l'ausilio di strumenti meno controllabili da altri. La produttività si coniuga in termini di avere, la convivialità in termini di essere. L'attrezzatura manipolante tende all'esasperazione, l'uso dello strumento conviviale tende all'autolimitazione. Mentre la crescita dell'attrezzatura al di là delle soglie critiche non fa che produrre uniformazione regolamentata, dipendenza, sopraffazione e impotenza, la scelta austera dello strumento conviviale è garanzia d'una libera espansione dell'autonomia e della creatività umane. E chiaro che uso i termini strumento e attrezzatura nel senso più ampio possibile di mezzo, vuoi che sia nato dall'attività costruttrice, organizzatrice o razionalizzante dell'uomo, vuoi che, come la selce preistorica, venga semplicemente appropriato dalla mano per realizzare un compito specifico, cioè messo al servizio di un'intenzionalità.

Una scopa, una penna a sfera, un cacciavite, una siringa, un mattone, un motore, sono strumenti quanto l'automobile o il televisore. Una fabbrica di carne in scatola o una centrale elettrica, che sono istituzioni produttrici di beni, rientrano anch'esse nella categoria degli strumenti. Vanno

inoltre comprese nell'attrezzatura le istituzioni produttrici di servizi, come la scuola, l'organizzazione medica, la ricerca, i mezzi di comunicazione i centri di pianificazione. Le leggi sul matrimonio ed i programmi scolastici modellano la vita sociale alla stessa stregua della rete stradale. Nel senso che do alla parola in questo saggio, la categoria degli strumenti abbraccia tutti i mezzi ragionati dell'azione umana, la macchina e il modo d'impiegarla, il codice e il suo singolo operatore. L'area coperta dal concetto di strumento varia da cultura a cultura; dipende dalla presa che una determinata società esercita sulla sua struttura e sul suo ambiente. Ogni oggetto assunto come mezzo di un fine diviene strumento, ogni mezzo concepito apposta per un fine è uno strumento ragionato.

Lo strumento è inerente al rapporto sociale. Allorché agisco in quanto uomo, mi servo di strumenti. A seconda che io lo padroneggi o che viceversa ne sia dominato, lo strumento mi collega o mi lega al corpo sociale. Nella misura in cui io padroneggio lo strumento, conferisco al mondo un mio significato; nella misura in cui lo strumento mi domina, è la sua struttura che mi plasma e informa la rappresentazione che io ho di me stesso. Lo strumento conviviale è quello che mi lascia il più ampio spazio ed il maggior potere di modificare il mondo secondo le mie intenzioni. Lo strumento industriale mi nega questo potere; di più: attraverso di esso, è un altro diverso da me che determina la mia domanda, restringe il mio margine di controllo e governa il mio senso della vita. La maggior parte degli strumenti che mi circondano oggi non può essere utilizzata in modo conviviale: sono strumenti ragionati nelle mani di altri, e ancora più spesso strumenti ragionati sfuggiti dalle mani di tutti e che esercitano selvaggiamente le funzioni intrinseche alla propria struttura.

Lo strumento è al tempo stesso mezzo di controllo e trasformatore di energia. La scuola è un mezzo di controllo, il veicolo un trasformatore di energia. Come sappiamo, l'uomo dispone di due tipi di energia: quella che trae da se stesso (o energia metabolica) e quella che attinge dall'esterno. Maneggia la prima, manipola la seconda. Perciò distinguerei anche tra lo strumento maneggiabile e lo strumento manipolabile.

Lo strumento maneggiabile adatta l'energia metabolica a un compito specifico. È polivalente, come la selce naturale, il martello o il temperino; o monovalente e altamente elaborato, come il tornio del vasaio, il telaio per tessere, la macchina per cucire a pedale o il trapano del dentista. Lo strumento maneggiabile può raggiungere la complessità dell'organizzazione di trasporti diretta a trarre dall'energia umana il massimo di mobilità, per esempio un sistema di biciclette e tricicli con una corrispondente rete di piste ciclabili magari coperte e dotate di stazioni di servizio. Lo strumento maneggiabile è conduttore di energia metabolica; vi si applica la mano, il piede. L'energia che richiede può essere prodotta dalla maggior parte di chi mangi e respiri.

Lo strumento manipolabile è mosso, almeno in parte, dall'energia esterna. Può servire a moltiplicare l'energia umana: sono i buoi che tirano l'aratro, ma per guidarlo occorre un uomo. Anche un montacarichi o una sega elettrica sposano l'energia metabolica all'energia esogena. Tuttavia lo strumento manipolabile può superare la scala umana. L'energia fornita dal pilota di un aereo supersonico non rappresenta più una parte rilevante dell'energia consumata in volo: il pilota è un semplice operatore, la cui azione è governata dai dati che un computer elabora per lui. Se c'è ancora qualcuno nella cabina è perché il calcolatore è imperfetto o perché il sindacato dei piloti di linea è potente e organizzato.

Lo strumento è conviviale nella misura in cui ognuno può utilizzarlo, senza difficoltà, quando e quanto lo desideri, per scopi determinati da lui stesso. L'uso che ciascuno ne fa non lede l'altrui libertà di fare altrettanto; né occorre un diploma per avere il diritto di servirsene. Tra l'uomo e il mondo, è conduttore di senso, traduttore di intenzionalità.

Certe istituzioni sono, strutturalmente, strumenti conviviali e ciò indipendentemente dal loro livello tecnologico. Per esempio, il telefono. Purché possa acquistare un gettone, chiunque può chiamare chi desidera per comunicargli ciò che vuole: le ultime informazioni sulla borsa, ingiurie o parole d'amore. Nessun burocrate potrà stabilire in anticipo il contenuto di una comunicazione telefonica; tutt'al più potrà violarne il segreto o, al contrario, proteggerlo. Quando infaticabili calcolatori tengono occupata più di metà delle linee californiane limitando così la libertà delle comunicazioni personali, è la compagnia telefonica in difetto, perché distoglie ad altri fini lo sfruttamento di una licenza originariamente concessa per dare la parola alle persone. Quando una intera popolazione si lascia intossicare dall'abuso del telefono e perde così l'abitudine a scambiarsi lettere o visite, il difetto sta nell'uso smodato dello strumento, conviviale nella sua essenza, ma la cui funzione è snaturata da una impropria estensione del suo campo d'azione.

Lo strumento maneggiabile richiama l'uso conviviale. Se non vi si presta dipende dal fatto che l'istituzione ne riserva l'uso a un monopolio professionale, per esempio collocando le biblioteche all'interno delle scuole o decretando che l'estrazione di un dente o altri interventi semplici sono operazioni mediche eseguibili dai soli specialisti. Lo strumento maneggiabile può anche essere sottoposto a controllo burocratico diventando oggetto d'una specie di segregazione, come nel caso di certi motori concepiti in modo che non vi si possano fare piccole riparazioni da soli con pinze e cacciavite. Il monopolio dell'istituzione su questo tipo di strumenti maneggiabili è un abuso, perverte l'uso dello strumento, ma non per tanto esso ne viene snaturato, così come il coltello dell'assassino non cessa di essere un arnese di cucina.

Il carattere conviviale o meno dello strumento non dipende, in linea di principio, dal suo grado di complessità. Ciò che si è detto del telefono potrebbe essere ripetuto punto per punto riguardo al servizio postale, o al sistema dei trasporti fluviali indocinese. Ognuno di questi sistemi è una struttura istituzionale che massimizza la libertà della persona, anche se può essere sviato dal suo fine e pervertito nell'uso pratico. Il telefono è il prodotto di una tecnica avanzata; le poste possono funzionare a diversi livelli tecnici, ma richiedono sempre una notevole organizzazione; la rete dei canali e delle piroghe esige dagli utenti la sola collaborazione alla manutenzione dei klong, nel quadro di una tecnica tradizionale.

L'equilibrio istituzionale

Allorché si avvicina alla sua seconda soglia, l'istituzione non solo perverte l'uso dello strumento maneggiabile, ma subito gli sostituisce lo strumento manipolabile. Comincia allora il regno delle manipolazioni. Sempre di più si scambia il mezzo col fine, mentre l'adattamento dell'uomo al mezzo diventa sempre più costoso. Così, mettere insieme i presupposti dell'insegnamento costa di più che insegnare, e il costo della formazione non è più compensato dal frutto della produzione. I mezzi per il fine perseguito dall'istituzione divengono sempre meno accessibili a una persona autonoma o, più esattamente, diventano parte integrante di una catena di anelli solidali che bisogna accettare in tutta la sua interezza. Negli Stati Uniti, se non si dispone di un'automobile non si viaggia in aereo, e se non si viaggia in aereo non si partecipa ai congressi di specialisti. Gli strumenti che conseguirebbero gli stessi scopi esigendo meno dal fruitore e rispettando la sua libertà d'azione, sono esclusi dal mercato. L'arte di corrispondere fra colleghi scompare. Mentre i marciapiedi spariscono la rete stradale non fa che diventare più complessa.

Può darsi che certi mezzi di produzione non conviviali risultino desiderabili in una società postindustriale. È probabile che, anche in un mondo conviviale, certe collettività scelgano di avere più abbondanza al prezzo di una minore creatività. E praticamente certo che, nel periodo di transizione, l'elettricità non dappertutto sarà prodotta su scala domestica. E evidente che il conduttore di un treno non può né scostarsi dalla strada ferrata né decidere di testa sua le fermate o l'orario. I vascelli d'una volta erano tenuti a seguire una rotta precisa non meno delle petroliere moderne; anzi. La trasmissione dei messaggi telefonici si effettua su una certa banda di frequenza, deve essere diretta da un'amministrazione centrale, anche se riguarda solo una zona limitata. In verità non c'è alcuna ragione per bandire da una società conviviale qualunque strumento potente, qualsiasi strumento ragionato manipolabile e ogni produzione centralizzata. Nell'ottica conviviale, l'equilibrio tra la giustizia nella partecipazione e l'uguaglianza nella distribuzione può variare da una società al l'altra, a seconda della storia, degli ideali e dell'ambiente della società stessa.

Non è essenziale che le istituzioni manipolatrici o i beni e i servizi capaci d'intossicare siano del tutto assenti da una società conviviale. Ciò che conta è che tale società realizzi un equilibrio fra gli strumenti che producono una domanda per creare e soddisfare la quale sono stati concepiti, e gli strumenti che invece stimolano l'invenzione e l'adempimento personali. I primi materializzano programmi astratti che riguardano gli uomini in generale; i secondi favoriscono l'attitudine di ciascuno a perseguire i propri fini, nella maniera propria, inimitabile.

Non è il caso di bandire uno strumento per il solo fatto che, secondo uno dei nostri criteri di classificazione, può definirsi anticonviviale. Questi criteri sono guide per l'azione; una società può servirsene per ristrutturare il complesso della sua attrezzatura, in funzione dello stile e del grado di convivialità che desidera. Una società conviviale non proibisce la scuola: mette al bando il sistema scolastico pervertito in strumento obbligatorio, fondato sulla segregazione e il rifiuto dei bocciati. Una società conviviale non sopprime i trasporti interurbani a grande velocità a meno che la loro esistenza divori il tempo dell'insieme della popolazione, imponendo le sue servitù alla maggioranza per accrescere la mobilità dell'élite. Una società conviviale non è neppure tenuta a rifiutare la televisione, sebbene questa lasci alla discrezione di pochi produttori e abili parlatori la scelta e la confezione di ciò che verrà fatto «ingoiare» alla massa dei telespettatori; ma una società conviviale deve proteggere la persona dall'obbligo di trasformarsi in voyeur. Come si vede, i criteri della convivialità non sono regole da applicare meccanicamente, ma indicatori dell'azione politica, riguardanti ciò che bisogna evitare. Concepiti per rivelare una minaccia, permettono a ciascuno di mettere a frutto la propria libertà.

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