IVAN ILLICH
LA
CONVIVIALITÀ - 1
L'idea
di una analisi multidimensionale del sovrasviluppo industriale l'ho
formulata per la prima volta nel 1971 in un documento di lavoro
redatto insieme a Valentina Borremans come testo-base per un convegno
latinoamericano tenuto al Centro intercultural de documentaciòn
(Cidoc) nel gennaio 1972.
Una
versione francese, rielaborata in occasione dello Zeno Symposium
organizzato a Cipro dal professor Richard Wollheim, fu pubblicata
nel marzo 1972 nella rivista 'Esprit; dove fu oggetto
di un dibattito.
La
stesura di questo libro fii occasionata dalla mia partecipazione
a una conferenza di giuristi e parlamentari canadesi tenutasi a
Ottawa nel gennaio 1972 per discutere l'orientamento della legislazione
canadese nel prossimo decennio. Questo fatto, e la collaborazione
dell'amico Greer Taylor, spiegano il costante riferimento e l'importanza
attribuita alla Common Law in tutta la trattazione.
Lo
stesso servì poi come base per una serie di seminari tenuti al Cidoc
e in India, e dai quali mi vennero numerose critiche e preziosi
suggerimenti, in particolare da J. P. Naik. I partecipanti a questi
seminari riconosceranno le loro idee, talvolta riprese alla lettera,
e ad essi esprimo qui la mia viva gratitudine, specialmente per
i loro contributi scritti.
Le
bibliografie, gli appunti di lavoro, le analisi critiche eccetera,
che, a vari gradi di completezza e utilità, sono servite da materiali
e punti di riferimento per questo studio, sono disponibili presso
la biblioteca del Cidoc e nella serie di documenti che il Centro
pubblica regolarmente.
A
distanza di nove mesi ho poi scritto due versioni destinate alla
pubblicazione: una in inglese l'altra in francese.
Questo testo italiano non un è un nuovo rifacimento, ma neppure
una semplice versione del testo francese: incorpora infatti le mie
risposte alle osservazioni puntuali, rispettose e congeniali del
mio editore italiano, Donato Barbone.
Ivan Illich, Centro intercultural de documentacion,
Cuernavaca (Messico)
Introduzione
Nel corso
dei prossimi anni mi propongo di lavorare a un epilogo dell'età
industriale. Vorrei tracciare il profilo delle storture e delle
ipertrofie intervenute nel linguaggio, nel diritto, nei miti e nei
riti, in quest'epoca nella quale uomini e prodotti sono stati assoggettati
alla pianificazione razionale. Vorrei ritrarre come è venuto declinando
il monopolio del modo di produzione industriale, e la metamorfosi
subita dalle professioni che esso genera e nutre.
Soprattutto
intendo dimostrare questo: che i due terzi dell'umanità possono
ancora evitare di passare per l'età industriale se sceglieranno
sin d'ora un modo di produzione fondato su un equilibrio postindustriale,
quello stesso al quale i paesi sovraindustrializzati dovranno ricorrere
di fronte alla minaccia del caos. E nella prospettiva di un tale
lavoro che io sottopongo questo abbozzo di analisi all'attenzione
e alla critica del pubblico.
Sono parecchi
anni che mi occupo di una ricerca critica sul monopolio del modo
di produzione industriale, e sulla possibilità di definire concettualmente
altri modi di produzione, postindustriali. In un primo tempo ho
concentrato la mia attenzione sull'attrezzatura educativa; i risultati,
pubblicati in Descolarizzare la società[1]
, stabilivano i seguenti punti:
1.
L'educazione universale mediante la scuola obbligatoria è
impossibile.
2.
Il condizionamento delle masse attraverso l'educazione permanente
non presenta grossi problemi tecnici ma, moralmente, è ancor
meno accettabile della scuola di vecchio tipo. Nuovi sistemi
educativi sono ormai prossimi a soppiantare i sistemi scolastici
tradizionali, nei paesi ricchi come in quelli poveri. Si tratta
di strumenti di condizionamento massicci ed efficaci, capaci di
produrre in serie manodopera specializzata, consumatori di cultura
docili e disciplinati, utenti rassegnati. Sono sistemi che rendono
redditizio il processo educativo, generalizzandolo al livello di
tutta una società. Possiedono indubbie attrattive, ma sotto queste
attrattive celano una profonda distruttività: tendono infatti a
dissolvere, in maniera ancor più sottile e implacabile della scuola,
i valori più essenziali.
3.
Una società che voglia ripartire equamente tra i suoi membri l'accesso
al sapere, e consentire loro una reale partecipazione al processo
produttivo, deve stabilire dei limiti pedagogici alla crescita industriale,
mantenendo tale crescita al di qua di determinate soglie psicologicamente
critiche.
L'analisi
dell'apparato educativo di ogni società fondata sull'espansione
del modo di produzione industriale mi ha aperto la strada alla scoperta
dei limiti non-ecologici di questa espansione. Lo sviluppo del sistema
scolastico obbligatorio mi è parso infatti l'esempio-tipo di una
situazione che si ritrova anche in altri ambiti della società industriale,
dovunque si tratti di produrre un servizio, cosiddetto di pubblica
utilità, per soddisfare un bisogno cosiddetto elementare. Sono così
passato ad analizzare il sistema di assistenza medica obbligatoria
e quello dei trasporti che, oltrepassata una certa soglia, divengono
anch'essi, a loro modo, forzosi; e sono arrivato a convincermi che
la sovrapproduzione industriale di un servizio ha, inevitabilmente,
effetti secondari non meno catastrofici e distruttivi della sovrapproduzione
di un bene di consumo. Esiste cioè una serie di limiti alla crescita
dei servizi di una società: come nel caso delle merci, questi limiti
sono inerenti al processo di crescita e quindi inesorabili. La riorganizzazione
del sistema industriale di produzione e di distribuzione che si
preannuncia per il prossimo decennio, e che si ispira principalmente
a limitazioni nell'uso di carburanti e ad analoghe considerazioni
ecologiche, è destinata a fallire.
Bisogna
prender coscienza al più presto che i limiti da porre allo
sviluppo devono riguardare tanto i beni quanto i servizi, prodotti
industrialmente. Ed è la serie di questi limiti che bisogna scoprire
e rendere manifesta.
Per analizzare
il rapporto tra l'uomo e il suo strumento, io propongo qui il concetto
di equilibrio multidimensionale della vita umana. In ognuna
delle sue dimensioni, questo equilibrio corrisponde a una certa
scala naturale. Quando un attività umana esplicata mediante strumenti
supera una certa soglia definita dalla sua scala specifica,
dapprima si rivolge contro il proprio scopo, poi minaccia di distruggere
l'intero corpo sociale. Occorre dunque determinare con chiarezza
queste scale naturali e riconoscere le soglie che delimitano il
campo della sopravvivenza umana.
La società,
una volta raggiunto lo stadio avanzato della produzione di massa,
produce la propria distruzione. La natura viene snaturata. Sradicato,
castrato nella sua creatività, l'uomo è rinserrato nella propria
capsula individuale. La collettività è governata dal gioco combinato
di una polarizzazione estrema e di una specializzazione a oltranza.
L'affannosa ricerca di modelli e prodotti sempre nuovi, cancro del
tessuto sociale, accelera a tal punto il mutamento da escludere
ogni ricorso ai precedenti come guida per l'azione. Il monopolio
del modo di produzione industriale riduce gli uomini a materia prima
lavorata dagli strumenti. E tutto questo in misura non più tollerabile.
Poco importa che si tratti di un monopolio privato o pubblico: la
degradazione della natura, la distruzione dei legami sociali, la
disintegrazione dell'uomo non potranno mai servire a uno scopo sociale.
Le ideologie
oggi correnti mettono in luce le contraddizioni della società capitalista,
ma non forniscono il quadro necessario per analizzare la crisi del
modo di produzione industriale. Mi auguro che un giorno si arrivi
a formulare una teoria generale dell'industrializzazione abbastanza
rigorosa da reggere all'assalto della critica. Per poter funzionare,
questa teoria dovrà esprimere i propri concetti in un linguaggio
comune a tutte le parti in causa, in modo che i criteri da essa
definiti concettualmente siano altrettanti parametri su scala umana:
strumenti di misura, mezzi di controllo, guide per l'azione. Si
potranno allora valutare le tecniche disponibili e le diverse programmazioni
che esse implicano. Si determineranno le soglie di nocività dell'attrezzatura
sociale, il punto in cui questa si rivolge contro il proprio fine
o minaccia l'uomo; si limiterà il potere dello strumento. Si inventeranno
le forme e i ritmi di un modo di produzione postindustriale e di
un nuovo mondo sociale.
Vorrei
che questo saggio contribuisse alla formulazione di una tale teoria
chiarendo almeno un punto: come esistano delle tecniche ipertrofiche
nell'uso di energia o d'informazione, la cui stessa struttura ingenera
rapporti di sfruttamento e di dominio nelle società che le adottano.
Non è facile immaginare una società in cui l'organizzazione industriale
sia equilibrata e compensata da modi di produzione complementari,
distinti e ad alto rendimento. Siamo talmente deformati dalle abitudini
industriali che non osiamo più scrutare il campo del possibile,
e l'idea di rinunciare alla produzione di massa di tutti gli articoli
e servizi è per noi come un ritorno alle catene del passato o al
mito del buon selvaggio. Ma se vogliamo ampliare il nostro angolo
di visuale, adeguandolo alle dimensioni della realtà, dobbiamo ammettere
che non esiste un unico modo di utilizzare le scoperte scientifiche,
ma per lo meno due, tra loro antinomici.
C'è un
uso della scoperta che conduce alla specializzazione dei compiti,
alla istituzionalizzazione dei valori, alla centralizzazione del
potere: l'uomo diviene l'accessorio della megamacchina, un ingranaggio
della burocrazia. Ma c'è un secondo modo di mettere a frutto I invenzione,
che accresce il potere e il sapere di ognuno, consentendo a ognuno
di esercitare la propria creatività senza per questo negare lo stesso
spazio d'iniziativa e di produttività agli altri.
Se vogliamo
poter dire qualcosa sul mondo futuro, disegnare i contorni di una
società a venire che non sia iperindustriale, dobbiamo riconoscere
l'esistenza di scale e limiti naturali. L'equilibrio della
vita si dispiega in varie dimensioni; fragile e complesso, non oltrepassa
certi limiti. Esistono delle soglie che non si possono superare.
La macchina non ha soppresso la schiavitù umana, ma le ha dato una
diversa configurazione. Infatti, superato il limite, lo strumento
da servitore diviene despota. Oltrepassata la soglia, la società
diventa scuola, ospedale, prigione, e comincia la grande reclusione.
Occorre individuare esattamente dove si trova, per ogni componente
dell'equilibrio globale, questo limite critico. Sarà allora possibile
articolare in modo nuovo la millenaria triade dell'uomo, dello strumento
e della società. Chiamo società conviviale una società in
cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona integrata
con la collettività, e non riservato a un corpo di specialisti che
lo tiene sotto il proprio controllo. Conviviale è la società in
cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per
realizzare le proprie intenzioni.
Parlando
di «convivialità» dello strumento mi rendo conto di dare un senso
in parte nuovo al significato corrente della parola. Lo faccio perché
ho bisogno di un termine tecnico per indicare lo strumento che sia
scientificamente razionale e destinato all'uomo austeramente anarchico.
L'uomo che trova la propria gioia nell'impiego dello strumento conviviale
io lo chiamo austero. Egli conosce ciò che lo spagnolo chiama la
convivencialidad, vive in quella che il tedesco definisce
Mitmenschlichkeit. L'austerità non significa infatti isolamento
o chiusura in se stessi. Per Aristotele come per Tommaso d'Aquino,
è il fondamento dell'amicizia. Trattando del gioco ordinato e creatore,
Tommaso definisce l'austerità[2] come una virtù
che non esclude tutti i piaceri, ma soltanto quelli che degradano
o ostacolano le relazioni personali. L'austerità fa parte di una
virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia,
l'eutrapelia, l'amicizia.
I.
Due soglie di mutazione
L'anno
1913 segna una svolta nella storia della medicina moderna. All'incirca
da quella data, il paziente ha più di una probabilità su due che
un medico laureato gli somministri una cura efficace, purché ovviamente
il suo male sia registrato dalla scienza medica dell'epoca. Gli
sciamani e i guaritori, con la loro pratica dell'ambiente naturale,
non avevano aspettato tanto per ottenere risultati analoghi, in
un mondo dove la salute era concepita diversamente.
Da allora,
la medicina non ha fatto che perfezionare la definizione delle malattie
e la somministrazione delle cure. La popolazione dell'Occidente
ha imparato a sentirsi malata e a farsi curare conformemente alle
categorie di moda nell'ambiente medico. La clinica è stata sempre
più dominata dall'ossessione quantitativa, ciò che ha permesso ai
medici di misurare la portata dei loro successi con criteri da essi
stessi stabiliti. La salute è divenuta così una merce in una economia
di sviluppo. Questa trasformazione della salute in prodotto di consumo
sociale ha trovato riscontro nell'importanza attribuita alle statistiche
sanitarie.
Ma i dati
statistici sui quali sempre più si fonda il prestigio della professione
medica non dipendono, per la parte essenziale, dalla sua attività.
La riduzione a volte spettacolare della morbilità e della mortalità
all'inizio del processo di industrializzazione di un paese è dovuta
soprattutto alle modificazioni dell'habitat e del regime alimentare,
e all'adozione di elementari misure d'igiene. Le fognature, il trattamento
dell'acqua col cloro, la carta moschicida, l'asepsi e i certificati
sanitari richiesti per viaggiare, prostituirsi o lavare i piatti
hanno avuto un'influenza benefica assai maggiore dell'insieme dei
complessi «metodi» di cure specialistiche. Nell'Honduras come in
Olanda, il progresso della medicina si è espresso più nel controllo
dei tassi di incidenza che nell'aumento della vitalità degli individui.
In un
certo senso, più che l'uomo è stata l'industrializzazione a trarre
profitto dai progressi della medicina: si è infatti riusciti a far
lavorare la gente più regolarmente in condizioni più disumanizzanti.
Nascondendo il carattere profondamente distruttivo delle nuove attrezzature,
del lavoro alla catena e del regno dell'automobile, si sono esaltate
certe cure spettacolari che si applicano alle vittime dell'aggressione
industriale nelle sue varie forme: velocità, tensione nervosa, avvelenamento
dell'ambiente. E il medico si è trasformato in mago, unico essere
in grado di compiere miracoli che esorcizzino la paura nascente
dal sopravvivere in un mondo divenuto minaccioso.
Contemporaneamente,
i mezzi per diagnosticare la necessità di certe cure e lo strumento
terapeutico corrispondente si venivano semplificando. Ormai chiunque
potrebbe accertare da solo una gravidanza e praticare un aborto,
riconoscere e curare quelle malattie veneree che un secolo fa erano
incurabili, apprendere nella pratica come evitare sia una gravidanza
sia un'infezione. Il paradosso è che quanto più lo strumento diventa
semplice, tanto più la professione medica si sforza di conservarne
il monopolio. Più l'iniziazione del terapeuta si prolunga, più la
popolazione dipende da lui per l'applicazione cosciente delle scoperte
importanti e per il miglioramento della vita quotidiana. L'igiene,
che l'antichità considerava una virtù, diviene il rituale che un
corpo di specialisti celebra sull'altare della scienza.
Dopo la
seconda guerra mondiale, cominciò a divenire chiaro che la medicina
moderna ha pericolosi effetti secondari sulla salute individuale.
Ma c'è voluto del tempo perché i medici identificassero la nuova
minaccia rappresentata dai microbi divenuti resistenti alla chemioterapia,
o studiassero gli effetti cancerogeni degli insetticidi, o riconoscessero
un nuovo genere di epidemie nei disordini genetici dovuti all'impiego
degli ormoni o dei raggi X durante la gravidanza. Trent'anni prima,
Bernard Shaw già lo rilevava: i medici, diceva, hanno smesso di
guarire per impadronirsi dell'intera vita dei loro pazienti. Si
è dovuto attendere gli anni Cinquanta perché questo rilievo divenisse
evidenza manifesta: producendo nuovi tipi di malattie, la medicina
aveva superato una seconda soglia di mutazione. Nel 1972 il sottosegretario
alla Sanità degli Stati Uniti d'America poteva affermare che quattro
quinti della spesa federale servivano o ad accrescere la sofferenza
o a curare malattie che non sarebbero insorte senza un precedente
intervento medico.
Al primo
posto fra i guasti causati dalla professione, bisogna collocare
quella vera e propria malattia «mentale» consistente nella pretesa
di fabbricare una salute «migliore». Le prime vittime di questo
male iatrogeno (generato cioè dai medici) sono stati i pianificatori
e i medici. Ben presto l'aberrazione si è diffusa nell'intero corpo
sociale, e nel corso degli ultimi quindici anni la medicina specialistica
è divenuta la più concreta minaccia per la salute. Quando infatti
non la danneggia, razionalizza e giustifica l'aggressività. Mi è
capitato di esaminare una bibliografia tedesca di circa 13000 contributi
recenti nel campo della «medicina del traffico»: non contiene un
solo studio che mostri dal punto di vista della scienza medica come
questo genere specifico di mali, che nei paesi sviluppati costituisce
la causa più generale di mortalità in età adulta-produttiva, potrebbe
essere virtualmente eliminato se le velocità veicolari venissero
limitate al di sotto di un certo livello. D'altra parte, somme colossali
vengono spese al solo scopo di tamponare i danni incommensurabili
prodotti dalle cure mediche. Ciò che costa non è tanto la guarigione,
quanto il prolungarsi della malattia: ammalati ormai morenti possono
vegetare a lungo imprigionati in un polmone d'acciaio, attaccati
a un tubo di perfusione o sospesi al funzionamento di un rene artificiale.
Sopravvivere in città insalubri, in condizioni di lavoro debilitanti,
costa sempre più caro. Il monopolio medico estende la sua azione
a un numero sempre crescente di situazioni della vita quotidiana.
E non soltanto il trattamento medico, ma anche la ricerca biologica
ha contribuito a questa proliferazione delle malattie. Gente che
in passato aveva imparato a vivere con le proprie malattie,
oggi viene imbottita di medicine. Ogni invenzione di un nuovo modo
di vivere e.di morire ha portato con sé la parallela definizione
di una nuova norma e, in corrispondenza con questa, la definizione
di una nuova devianza, di una nuova malignità.
Infine,
reso impossibile alla nonna, alla zia o alla vicina di prendersi
cura della donna incinta, del ferito, del malato, dell'invalido
o del morente, si è creata una domanda impossibile da soddisfare.
Man mano che il prezzo del servizio aumenta, la cura personale diventa
più difficile e spesso impossibile. Nello stesso tempo, il ricorso
al medico viene ritenuto necessario per una serie sempre più vasta
di indisposizioni comuni, sicché si moltiplicano specializzazioni
e paraprofessioni il cui unico scopo è di mantenere l'esercizio
terapeutico sotto il controllo della corporazione. Quando, per l'azione
del medico, l'incapacità della popolazione in generale di provvedere
alla propria igiene comincia a crescere, si arriva a una nuova svolta
dell'istituzione medica.
Giunti
a questa seconda soglia, è la vita che appare malata, in
un ambiente deleterio. Attività principale, e grosso affare, della
professione medica diventa quella di preservare una popolazione
sottomessa e dipendente. Per il loro alto costo, la prevenzione
e la cura diventano un privilegio, al quale hanno diritto soltanto
i grandi consumatori di servizi medici. Le persone che possono farsi
visitare da uno specialista, essere ammesse in un grande ospedale,
beneficiare dell'attrezzatura per la cura della vita sono i malati
il cui caso sia giudicato interessante oppure gli abitanti delle
grandi città, dove il costo della prevenzione sanitaria, della purificazione
dell'acqua e del controllo dell'inquinamento è altissimo. Paradossalmente,
le cure per abitante risultano tanto più care quanto più il costo
della prevenzione è già elevato. E necessario aver consumato prevenzione
e assistenza per aver diritto a cure eccezionali. L'ospedale, come
la scuola, si basa sul principio che si fa credito solo ai ricchi:
come nel campo dell'educazione i grandi consumatori di insegnamento
otterranno borse di ricerca mentre gli altri avranno solo il diritto
di apprendere il proprio fallimento, così, per la medicina, più
cure daranno luogo a più sofferenze: il ricco sarà curato sempre
più per i mali indotti dalla medicina, mentre il povero deve accontentarsi
di soffrirne.
Oltrepassata
la seconda soglia, i sottoprodotti dell'industria medica affliggono
non singoli individui ma popolazioni intere. Nei paesi ricchi, la
gente sta diventando più vecchia. Da quando si mette piede sul mercato
del lavoro, si comincia a versare risparmi e contributi per assicurazioni
che garantiscano, per una durata sempre più lunga, la possibilità
di utilizzare i servizi di una costosa geriatria. Negli Stati Uniti,
il 27 per cento delle spese mediche va a favore dei vecchi, che
rappresentano il 9 per cento della popolazione. Fatto significativo,
il primo terreno di collaborazione scientifica scelto da Nixon e
Breznev riguarda le ricerche sulle malattie proprie degli anziani.
Da tutte le parti del globo i vecchi benestanti accorrono nelle
cliniche di Boston, di Houston, di Denver per sottoporsi ai restauri
più raffinati e costosi, mentre negli Stati Uniti stessi, tra le
classi povere, la mortalità infantile resta paragonabile a quella
di certe regioni dell'Asia o dell'Africa tropicale. Negli Stati
Uniti bisogna essere ricchissimi per pagarsi il lusso che tutti
si permettono nei paesi poveri: essere assistiti sul letto di morte.
In due giorni d'ospedale, un americano spende una cifra pari al
reddito medio annuo in contante della popolazione mondiale. Nei
paesi poveri, grazie alla medicina moderna, un maggior numero di
bambini arriva all'adolescenza, e un maggior numero di donne sopravvive
a gravidanze più numerose. La popolazione aumenta, supera la capacità
di ricezione dell'ambiente naturale, rompe gli argini e le strutture
della cultura tradizionale. Il male che ne deriva è ben peggiore
di quello sanato, poiché si generano nuove specie di malattie che
né la tecnica moderna né l'immunità naturale né la cultura tradizionale
riescono a sconfiggere. Su scala mondiale, e in particolare negli
Stati Uniti, la medicina fabbrica una razza di individui dipendenti
per la loro sopravvivenza da un ambiente sempre più costoso, sempre
più artificiale, sempre più igienicamente programmato. Al congresso
dell'American Medical Association del 1970, il presidente, senza
sollevare opposizione alcuna, esortava i colleghi pediatri a considerare
ogni neonato alla stregua di un paziente fino a che non se
ne fosse certificato lo stato di buona salute. I piccoli nati all'ospedale,
nutriti su prescrizione, rimpinzati di antibiotici, divengono poi
adulti che respirano un'aria viziata, si nutrono di cibi avvelenati
e vivono un'esistenza di spettri nella grande città moderna. Sarà
per loro ancora più costoso allevare i propri figli i quali, a loro
volta, saranno ancora più dipendenti dal monopolio medico. Il mondo
intero diventa un ospedale, popolato da gente che, per tutta la
vita, deve attenersi scrupolosamente ai regolamenti d'igiene e alle
prescrizioni sanitarie.
Questa
medicina burocratizzata sta conquistando l'intero pianeta. Nel 1968,
vent'anni dopo la rivoluzione, il Collegio di medicina di Shangai
si è dovuto arrendere all'evidenza: «Produciamo dei cosiddetti medici
di prima classe... che ignorano l'esistenza di 500 milioni di contadini
e servono solo le minoranze urbane,... Assorbono ingenti spese di
laboratorio per esami di routine,.. prescrivono senza necessità
enormi quantità di antibiotici... e, in mancanza di ospedali e laboratori,
si trovano ridotti a spiegare i meccanismi della malattia a persone
per le quali non possono fare altro e alle quali quella spiegazione
non reca utilità alcuna». Questa presa di coscienza, durante la
«rivoluzione culturale», ha condotto a una inversione dell'istituzione
e nel 1971, come riferisce lo stesso Collegio, si erano ormai formati
un milione di «lavoratori della salute» dotati di un accettabile
livello di competenza. Si tratta di operai o contadini che durante
la stagione morta seguono dei corsi accelerati: imparano la dissezione
su un maiale, eseguono le analisi di laboratorio più comuni, apprendono
nozioni elementari di batteriologia, patologia, clinica medica,
igiene e agopuntura. Poi fanno un tirocinio pratico con medici o
«lavoratori della salute» già provetti. Dopo questa prima formazione,
questi «medici scalzi» riprendono il loro consueto mestiere, assentandosi
dal lavoro dei campi solo quando è necessario per occuparsi dei
loro compagni. I compiti affidati alla loro responsabilità includono
l'igiene dell'ambiente di vita e di lavoro, l'educazione sanitaria,
le vaccinazioni, il pronto soccorso, l'assistenza dei convalescenti,
il trattamento dei rifiuti, i parti, il controllo delle nascite
e i metodi di aborto.
Dieci
anni dopo che la medicina occidentale aveva oltrepassato la seconda
soglia, la Cina si metteva a formare un lavoratore sanitario competente
per ogni cento cittadini. L'esempio prova che invertire di colpo
il funzionamento di una grande istituzione è impresa possibile.
Resta da vedere fino a che punto questa deprofessionalizzazione
può resistere alla trionfante ideologia dello sviluppo illimitato
e alla pressione dei medici classici che oggi, a soli cinque anni
dalla «rivoluzione culturale», già tendono a incorporare i loro
omonimi scalzi al livello più basso della gerarchia medica, come
una fanteria di lavoranti a parttime.
Come nella
seconda metà degli anni Sessanta in tutto il mondo è scoppiata una
crisi di fiducia nel sistema scolastico, così si possono ormai avvertire
i presagi di una analoga crisi nei confronti del complesso medico-industriale.
Ma allo stesso modo che nell'altra crisi l'attenzione si è concentrata
semplicemente sui programmi scolastici, così adesso, dappertutto,
si dà rilievo ai sintomi della malattia della medicina, senza prendere
in considerazione il disordine profondo del sistema che li genera.
Negli Stati Uniti i paladini dei poveri danno la colpa all'American
Medical Association e ai suoi membri, accusando questi di pensare
soltanto al portafogli e quella d'essere un bastione di pregiudizi
capitalisti. I portavoce delle minoranze criticano la mancanza di
un controllo sociale sull'amministrazione sanitaria e sull'organizzazione
dei sistemi di cura; dovremmo credere che partecipando ai consigli
di amministrazione degli ospedali essi potrebbero controllare l'attività
professionale del corpo medico? I portavoce della comunità negra
trovano scandaloso che gli stanziamenti per la ricerca siano concentrati
sulle malattie che colpiscono i bianchi anziani e supernutriti,
e chiedono invece ricerche su una forma particolare di anemia, che
tocca soltanto i negri. L'elettore spera che, «finita» la guerra
del Vietnam, siano destinati maggiori mezzi allo sviluppo della
produzione medica. Tutte queste accuse e critiche si riferiscono
ai sintomi di una medicina che prolifera come un tumore maligno
e determina l'aumento dei costi e della domanda, generando non benessere
ma un generale esser meno.
La crisi
della medicina ha radici assai più profonde di quanto si potrebbe
credere guardando unicamente ai sintomi. Essa infatti è parte integrante
della crisi di tutte le istituzioni industriali. Nel campo della
sanità si è sviluppata un'organizzazione complessa di specialisti
che, finanziata e sostenuta dalla collettività, si è assunta l'impresa
di produrre una salute migliore. Il risultato è che ora non
si ha più il diritto di dirsi né sani né ammalati: occorre esibire
un certificato medico che attesti l'una o l'altra cosa.
Addirittura,
è al medico, come rappresentante della società, che spetta oggi
scegliere l'ora della morte del paziente:
come il
condannato alla pena capitale, il malato è sottoposto a rigorosa
sorveglianza per impedire che accolga la morte quando essa lo ghermisce.
Le date
del 1913 e del 1955, che abbiamo scelto a indicare le due soglie
di mutazione dell'istituzione medica, non vanno intese in senso
tassativo. Ciò che importa è comprendere questo: all'inizio del
secolo la pratica medica si è impegnata nella verifica scientifica
dei suoi risultati empirici; il ricorso alla misurazione ha segnato
il superamento della sua prima soglia. La seconda è stata raggiunta
allorché l'utilità marginale del di più di specializzazione
ha cominciato a decrescere, almeno per quello che è quantificabile
in termine di benessere per la maggioranza. Questa seconda soglia
è stata poi oltrepassata quando la disutilità marginale
ha preso a crescere, man mano che lo sviluppo dell'istituzione medica
si traduceva in maggiori sofferenze per un maggior numero di persone.
Quando in una impresa l'aumento dei costi accresce il male contro
cui l'impresa stessa si è costituita, questa cessa di essere analizzabile
in termini di economia o razionalità: diventa un rito diabolico
celebrato nel solo interesse dei suoi officianti i quali, presi
dal rito, non sono più capaci di smascherare l'idolo che l'ispira.
Oggi, il costo sociale della medicina non è più calcolabile in termini
classici: come misurare le false speranze, il peso del controllo
sociale, il prolungamento della sofferenza, la solitudine, la degradazione
del patrimonio genetico e il senso di frustrazione generati dall'istituzione
medica?
Altre
istituzioni industriali hanno superato le stesse due soglie. È il
caso, in particolare, delle grandi industrie terziarie e delle attività
produttive organizzate scientificamente dalla metà del XIX
secolo in poi. L'educazione, le poste, l'assistenza sociale e anche
i lavori pubblici hanno avuto tutti la stessa evoluzione. In un
primo tempo si applica un nuovo sapere alla soluzione di un problema
chiaramente definito e con criteri scientifici si arriva a misurare
l'aumento di efficienza ottenuto. Ma, in un secondo tempo, il progresso
realizzato diventa un mezzo per sfruttare l'insieme del corpo sociale,
mettendolo al servizio dei valori che una élite specializzata, sola
garante del proprio valore, stabilisce e rivede senza tregua.
Nel caso
dei trasporti, c'è voluto un secolo per passare dalla liberazione
grazie ai veicoli motorizzati alla schiavitù dell'automobile. I
trasporti a vapore cominciarono a essere utilizzati al tempo della
guerra di secessione americana. Il nuovo sistema dette a molta gente
la possibilità di viaggiare per ferrovia alla velocità di una carrozza
reale, e con una comodità che nessun re avrebbe osato sognare. A
poco a poco si cominciò a far confusione tra buona circolazione
e grande velocità. Da quando l'industria dei trasporti ha oltrepassato
la sua seconda soglia di mutazione, i veicoli creano più distanze
di quante non ne eliminino. Il complesso della società spende ogni
giorno più tempo per la circolazione, che in teoria dovrebbe fargliene
guadagnare. L'americano tipo dedica più di 1500 ore l'anno alla
sua automobile: ci sta seduto dentro, fermo o in moto, lavora per
comprarla e mantenerla, per pagare la benzina, i pneumatici, i pedaggi,
l'assicurazione, le contravvenzioni e le imposte. Dedica cioè quattro
ore al giorno alla sua auto, sia che se ne serva, se ne occupi o
lavori per lei. E non consideriamo tutti gli altri suoi impegni
di tempo regolati dal trasporto:
il tempo
passato in ospedale, in garage o in tribunale, il tempo consumato
a guardare la televisione e la pubblicità delle automobili, il tempo
speso a guadagnare il denaro necessario per viaggiare durante le
vacanze, eccetera. A questo americano occorrono dunque 1500 ore
per percorrere 10000 chilometri di strada: 6 chilometri gli prendono
più di un ora
[3] .
L'attuale
crisi sociale può diventare chiara solo quando si ammetta l'esistenza
delle due soglie sopra descritte. Nel giro di un decennio parecchie
istituzioni dominanti hanno, tutte insieme, saltato gagliardamente
la seconda soglia. La scuola non è più un valido strumento di educazione,
né i mezzi di trasporto veloce buoni strumenti di circolazione,
né la catena di montaggio un modo di produzione accettabile. La
scuola produce cancro, la velocità divora il tempo, la catena incita
al sabotaggio in forme non più controllabili.
La reazione
caratteristica degli anni Sessanta alla marea dell'insoddisfazione
è stata l'escalation della tecnica e della burocrazia. L'escalation
del potere di autodistruggersi è divenuta il rito sacrificale delle
società altamente industrializzate. La guerra del Vietnam è stata,
a questo riguardo, l'occasione di una rivelazione e di un occultamento.
Ha svelato all'intero pianeta il rituale in esercizio: su
un piccolo campo di battaglia e sotto la lente della tv, ha celebrato
la trasformazione di fiumi di petrolio in carburante e napalm; ma,
con questo, ha distolto la nostra attenzione dai settori sedicenti
pacifici dove lo stesso rito si ripete in forma più discreta. La
storia della guerra dimostra che un esercito «conviviale» di ciclisti
e di pedoni può volgere a proprio vantaggio l'escalation di potenza
anonima dell'avversario. E tuttavia, ora che la guerra è «terminata»,
molti americani pensano che col denaro speso annualmente per farsi
battere dai vietnamiti sarebbe possibile sconfiggere invece la povertà
interna. Altri vorrebbero destinare i venti miliardi di dollari
del bilancio di guerra al rafforzamento della cooperazione internazionale,
ciò che ne decuplicherebbe le attuali risorse. Né gli uni né gli
altri comprendono che un'identica struttura istituzionale è sottesa
alla guerra pacifica contro la povertà come alla guerra cruenta
contro il dissenso. Tutti portano un gradino più su l'escalation
che vorrebbero eliminare.
II.
La ricostruzione conviviale
Lo
strumento e la crisi
I sintomi
di una crisi planetaria in corso di accelerazione sono manifesti.
Se ne è ricercato il motivo un po' ovunque. Da parte mia, io avanzo
la seguente spiegazione: la crisi ha le sue radici nel fallimento
dell'impresa moderna, cioè la sostituzione della macchina all'uomo.
Il grande progetto di sostituire la soddisfazione razionale e anonima
alla risposta occasionale e personale si è trasformato in un implacabile
processo di asservimento del produttore e di intossicazione del
consumatore.
La relazione
dall'uomo allo strumento è divenuta una relazione dallo strumento
all'uomo. Qui bisogna riconoscere il fallimento. E un centinaio
d'anni che cerchiamo di far lavorare la macchina per l'uomo e
di educare l'uomo a servire la macchina. Adesso ci si accorge
che a un certo punto la macchina non «funziona», che l'uomo non
riesce a conformarsi alle sue esigenze, a farsi suo servitore a
vita. Per un secolo l'umanità si è dedicata a un esperimento basato
su questa ipotesi: lo strumento può rimpiazzare lo schiavo. Ora
vediamo chiaramente che, impiegato per siffatti scopi, è lo strumento
che fa dell'uomo il suo schiavo. La dittatura del proletariato e
la dittatura del mercato sono due varianti politiche che celano
lo stesso dominio da parte di un'attrezzatura industriale in costante
espansione. Il fallimento del grande sogno di razionalizzazione
progressiva porta a concludere che l'ipotesi è falsa.
La soluzione
della crisi esige un radicale rovesciamento: solo ribaltando la
struttura profonda che regola il rapporto tra l'uomo e lo strumento
potremo servirci degli strumenti che sappiamo costruire. Lo strumento
veramente razionale risponde a tre esigenze: genera efficienza senza
degradare l'autonomia personale, non produce né schiavi né padroni,
estende il raggio d'azione personale. L'uomo ha bisogno di uno strumento
col quale lavorare, non di un'attrezzatura che lavori
al suo posto. Ha bisogno di una tecnologia che esalti l'energia
e l'immaginazione personali, non di una tecnologia che lo asservisca
e lo programmi. L'industrializzazione programmatica ci ha progressivamente
privato di tali strumenti.
Io credo
che occorra invertire radicalmente le istituzioni industriali,
ricostruire la società da cima a fondo. Per essere efficiente
e andare incontro ai bisogni umani che pure determina, un nuovo
sistema di produzione deve ritrovare la dimensione personale e comunitaria.
La persona, la cellula di base congiungono in maniera ottimale l'efficacia
e l'autonomia: soltanto sulla loro scala si può determinare il bisogno
umano la cui produzione sociale è realizzabile.
Che si
sposti o sia fermo, l'uomo ha bisogno di strumenti. Ne ha bisogno
per comunicare con gli altri come per curarsi. L'uomo che va a piedi
e prende erbe medicinali non è l'uomo che corre a centosessanta
sull'autostrada e prende antibiotici; ma tanto l'uno quanto l'altro
non possono fare tutto da sé e dipendono da ciò che gli fornisce
il loro ambiente naturale e culturale. Lo strumento e quindi la
fornitura di oggetti e di servizi variano da una civiltà all'altra.
L'uomo
non vive soltanto di beni e di servizi, ma della libertà di modellare
gli oggetti che gli stanno attorno, di conformarli al suo gusto,
di servirsene con gli altri e per gli altri. Nei paesi ricchi, i
carcerati dispongono spesso di beni e servizi in quantità maggiore
delle loro famiglie, ma non hanno voce in capitolo riguardo al come
le cose sono fatte, né diritto di interloquire sull'uso che se ne
fa: degradati al rango di consumatori-utenti allo stato puro, sono
privi di convivialità.
Intendo
per convivialità il contrario della produttività industriale.
Ognuno di noi si definisce nel rapporto con gli altri e con l'ambiente
e per la struttura di fondo degli strumenti che utilizza. Questi
strumenti si possono ordinare in una serie continua avente a un
estremo lo strumento dominante e all'estremo opposto lo strumento
conviviale: il passaggio dalla produttività alla convivialità è
il passaggio dalla ripetizione della carenza alla spontaneità del
dono. Il rapporto industriale è riflesso condizionato, risposta
stereotipa dell'individuo ai messaggi emessi da un altro utente,
che egli non conoscerà mai, o da un ambiente artificiale, che mai
comprenderà; il rapporto conviviale, sempre nuovo, è opera di persone
che partecipano alla creazione della vita sociale. Passare dalla
produttività alla convivialità significa sostituire a un valore
tecnico un valore etico, a un valore materializzato un valore realizzato.
La convivialità è la libertà individuale realizzata nel rapporto
di produzione in seno a una società dotata di strumenti efficaci.
Quando una società, qualunque essa sia, reprime la convivialità
al di sotto di un certo livello, diventa preda della carenza; infatti
nessuna ipertrofia della produttività riuscirà mai a soddisfare
i bisogni creati e moltiplicati a gara.
L'alternativa
L'istituzione
industriale ha propri fini astratti che giustificano i mezzi predominanti.
Il dogma della crescita accelerata giustifica la sacralizzazione
della produttività industriale, a spese della convivialità. La società
che ne risulta, recisa dall'intenzione personale, ci appare di conseguenza
come una «danza della morte», uno spettacolo d'ombre produttrici
di domanda e generatrici di carenza. Soltanto invertendo la logica
dell'istituzione diventa possibile rovesciarne il corso. Ribaltare
l'istituzione produttiva del 1975 non ha nulla a che fare con le
proposte di Rousseau o di Ludd. Per effetto dell'inversione radicale
di cui parliamo, la scienza e la tecnologia moderne non saranno
annientate ma conferiranno all'attività umana un'efficacia senza
precedenti. Da questa inversione l'industria e la burocrazia non
saranno distrutte, ma eliminate nella misura in cui ostacolano l'autonomia,
l'autarchia e l'autogoverno. E la convivialità sarà restaurata nel
cuore di sistemi politici che proteggano, garantiscano e rafforzino
l'esercizio ottimale della risorsa meglio distribuita sulla terra:
l'energia personale controllata dalla persona. Intendo sostenere
che, a cominciare da adesso, bisogna che noi assicuriamo collettivamente
la difesa della nostra esistenza e del nostro lavoro contro gli
strumenti e le istituzioni che minacciano o misconoscono il diritto
delle persone a utilizzare la loro energia in maniera creativa.
A questo fine, dobbiamo mettere a nudo la struttura formale comune
al processo di decisione etica, giuridica e politica: è essa a garantire
che la limitazione e il controllo degli strumenti sociali siano
frutto di un processo di partecipazione e non d'un oracolo di esperti.
L'ideale proposto dalla tradizione socialista non si tradurrà nella
realtà se non si invertono le istituzioni regnanti e se non si sostituisce
l'attrezzatura industriale con strumenti conviviali.
Per contro,
la ristrumentazione della società ha tutte le probabilità di rimanere
un pio desiderio se gli ideali di giustizia socialisti non prevarranno.
Perciò la crisi aperta delle istituzioni dominanti va salutata come
l'alba di una liberazione rivoluzionaria nei confronti di
quelle che mutilano la libertà elementare dell'essere umano al solo
scopo di ingozzare un sempre maggior numero di utenti. Questa crisi
mondiale delle istituzioni può farci pervenire a un nuovo stato
di coscienza circa la natura dello strumento e l'azione da condurre
perché la maggioranza della gente ne assuma il controllo. Se gli
strumenti non vengono fin d'ora sottoposti a un controllo politico,
la cooperazione dei burocrati del benessere e dei burocrati dell'ideologia
ci farà crepare di «felicità». La libertà e la dignità dell'essere
umano continueranno a degradarsi e si stabilirà un asservimento
senza precedenti dell'uomo al suo strumento.
Alla minaccia
di una apocalisse tecnocratica, io oppongo la visione di una società
conviviale. La società conviviale riposerà su contratti sociali
che garantiscano a ognuno il più ampio e libero accesso agli strumenti
della comunità, alla sola condizione di non ledere l'uguale libertà
altrui.
I valori-base
Al nostri
giorni si tende ad affidare a un corpo di specialisti il compito
di sondare e leggere il futuro. Si consegna il potere agli uomini
politici che promettono di costruire la megamacchina per produrre
il futuro. Si accetta una crescente disparità dei livelli di energia
e di potere, perché lo sviluppo della produttività esige questa
diseguaglianza. Infatti, più la distribuzione del prodotto industriale
è egualitaria, più il controllo della produzione devessere
centralizzato. Le stesse istituzioni politiche funzionano come meccanismi
di pressione e di repressione che indirizzano il cittadino e raddrizzano
il deviante, per renderli conformi agli obiettivi di produzione.
Il Diritto è subordinato al bene dell'istituzione. Il consenso della
fede utilitaristica abbassa la giustizia al semplice rango di un'equa
distribuzione della merce industriale e (pertanto) misurabile.
Una società
che definisce il bene come il soddisfacimento massimo del maggior
numero di individui mediante il maggior consumo di prodotti e servizi
industriali, logicamente arriva a imporre il consumo e mutila
in modo intollerabile l'autonomia della persona. Nella misura in
cui il consumo programmato aumenta, l'austerità adottata per scelta
personale diventa un'attività antisociale. Una soluzione politica
alternativa a questo utilitarismo è quella che definisce il bene
come la capacità di ciascuno di modellare l'immagine del proprio
avvenire. Questa ridefinizione del bene non diviene operativa se
non applicando criteri negativi. Prima di tutto, occorre bandire
le attrezzature e le leggi che ostacolano l'esercizio della libertà
personale, e limitare le dimensioni degli strumenti in modo da salvaguardare
certi valori essenziali che io chiamerei sopravvivenza, equità,
autonomia creatrice, ma che si potrebbero anche designare con
i tre criteri matematici di vitalità, curva di distribuzione
degli input e curva di controllo degli output. Questi
valori sono alla base di ogni struttura conviviale, anche se la
loro espressione in termini linguistici, legislativi e di costume
varia da una cultura all'altra.
Ciascuno
di questi valori limita a suo modo lo strumento. La sopravvivenza
è condizione necessaria, ma non sufficiente, dell'equità: si
può infatti sopravvivere stando in carcere. L'equità, nella
distribuzione dei prodotti industriali, è la condizione necessaria,
ma non sufficiente per un lavoro conviviale: si può infatti diventare
prigionieri dello strumento. L'autonomia, come potere di
controllo sull'uso delle risorse e dei programmi, abbraccia i due
primi valori e inoltre definisce il lavoro conviviale. Questo
ha per presupposto la creazione di strutture che rendano possibile
un'equa distribuzione del potere di modellare l'immagine dell'avvenire
individuale e del gruppo di base. Noi dobbiamo e, grazie al progresso
scientifico, possiamo edificare una società postindustriale in maniera
che l'esercizio della creatività di una persona non imponga mai
ad altri un lavoro, un sapere o un tipo di consumo obbligatori.
La ricostruzione
sociale che rispetti le condizioni di convivialità non è solo necessaria
ai fini della giustizia partecipatoria, ma anche perché, per l'uomo
contemporaneo, sopravvivere sotto il regime di un contratto sociale
hobbesiano è diventato impossibile. Nell'epoca della tecnologia
scientifica, solo una struttura conviviale dello strumento può
unire sopravvivenza ed equità. L'equità esige che si ripartiscano
al tempo stesso sia l'avere sia il potere: mentre infatti la corsa
all'energia porta all'olocausto, l'accentramento del controllo dell'energia
nelle mani di un leviatano burocratico riduce il controllo egualitario
dell'energia alla parvenza di un'equa distribuzione dei prodotti
ottenuti. La strutturazione conviviale degli strumenti è una necessità
e un'urgenza dal momento che la scienza libera sempre nuove forme
di energia. Una struttura conviviale dello strumento rende realizzabile
l'equità e praticabile la giustizia ed è la sola garanzia di sopravvivenza.
Il prezzo
dell'inversione
Tuttavia
il passaggio dall'attuale stato di cose a un modo di produzione
conviviale rappresenterà per molti una minaccia alla loro stessa
possibilità di sopravvivenza. Secondo l'uomo dall'immaginazione
industrializzata, i primi a soffrire e a soccombere a causa dei
limiti imposti all'industria sarebbero i poveri. Come vuole un certo
modo ipocrita di pensare, l'ulteriore arricchimento delle superpotenze
sarebbe condizione necessaria per la protezione e l'alimentazione
dei cubani o dei senegalesi. Così si dimentica che il dominio dell'uomo
sullo strumento ha già preso una piega di mutuo suicidio: la sopravvivenza
del Bangladesh dipende dal frumento che presto il Canada non potrà
più produrre, ma anche la salute dei nuovaiorchesi richiede il saccheggio
delle risorse planetarie ormai vicine a esaurirsi. Il passaggio
ad una società conviviale sarà accompagnato da sofferenze estreme
da una parte e dall'altra. Certo, impegnarsi ad accelerare il ribaltamento
del sistema di produzione attuale è impossibile per chi non riconosca
che questa inversione è il prezzo minore, l'unico modo per sopravvivere.
Questa transizione può auspicarla solo chi sa che l'organizzazione
industriale dominante si avvia a produrre sofferenze ancor meno
immaginabili.
Perché
sia possibile, la sopravvivenza nell'equità esige sacrifici che
sarebbero insostenibili se non fossero scelti consapevolmente. Esige
una rinuncia generale al sovrappopolamento, alla sovrabbondanza
e al superpotere, da parte degli individui come dei gruppi. Ciò
vuoI dire abbandonare l'illusione che sostituisce all'amore del
prossimo, ossia del più vicino, la pretesa di organizzare
la vita agli antipodi, di creare istituzioni deputate a far fare
il bene. La sopravvivenza nell'equità non sarà né l'opera d'un ukase
dei burocrati, né l'effetto d'un calcolo dei tecnocrati. Essa è
il risultato del realismo degli umili. La convivialità non ha prezzo,
ma non può essere promossa da chi non vuol sapere che cosa comporta
per lui e per gli altri lo staccarsi dal modello attuale. L'uomo
ritroverà la gioia della sobrietà e l'austerità liberatrice reimparando
a convivere, a dipendere dall'iniziativa dell'altro che conosce,
anziché farsi schiavo dell'energia e della burocrazia onnipotente.
I limiti
della mia dimostrazione
Unico
mio scopo qui è di fornire una metodologia che permetta di individuare
i mezzi che si sono tramutati in fini. Mi attacco alla corposità
dello strumento, non alla sottigliezza dell'intenzione. La rigorosità
del proposito m'impedisce dunque di trattare problemi contigui,
complementari o subordinati, sei dei quali meritano tuttavia
un cenno.
1. Non
mi servirebbe a nulla offrire un'immagine dettagliata della società
futura. Voglio fornire una guida all'azione e lasciare libero corso
all'immaginazione. La vita in una società conviviale e di
tipo moderno ci riserverà sorprese superiori alle nostre previsioni
e speranze. Non propongo una utopia normativa, ma i presupposti
formali di una procedura che permetta a qualunque collettività di
scegliersi continuamente la propria utopia realizzabile. La convivialità
è multiforme: si basa non sul dogma, ma sull'anatema delle condizioni
che la renderebbero impossibile.
2. Io non
propongo qui né un trattato di organizzazione delle istituzioni,
né un manuale tecnico per la fabbricazione dello strumento
giusto, né un modo d'impiego dell'istituzione conviviale.
Non sono né il commesso viaggiatore di una tecnologia «migliore»
né il propagandista di una ideologia. Voglio solo definire degli
indicatori che segnalino ogni qual volta lo strumento manipola l'uomo,
per poter bandire le attrezzature e le istituzioni che distruggono
il modo di vita conviviale. Questo manifesto è dunque una guida,
un rivelatore, e come tale va utilizzato. Il paradosso è che mentre
la nostra abilità ad attrezzare l'azione umana ha oggi toccato un
livello prima impensabile, nello stesso tempo, è diventato difficile
concepire una società dotata di strumenti semplici, in cui la maggioranza
degli uomini possa conseguire dei fini immaginati autonomamente.
I nostri sogni sono standardizzati, la nostra immaginazione industrializzata,
la nostra fantasia programmata. Non siamo capaci di concepire altro
che sistemi iper-attrezzati di abitudini sociali, conformi alla
logica della produzione di massa. Abbiamo quasi perduto la capacità
di sognare un mondo in cui ognuno possa essere ascoltato, nel quale
nessuno sia obbligato a limitare la creatività altrui, dove ciascuno
abbia uguale potere di modellare l'ambiente che a sua volta poi
determina i desideri e le necessità. Siamo chiusi alla prospettiva
di un mondo che sia moderno e al tempo stesso libero da condizionamenti
clientelari.
Il mondo
attuale è diviso in due: ci sono quelli che non hanno abbastanza
e quelli che hanno troppo; quelli che le automobili cacciano dalla
strada e quelli che guidano le automobili. I poveri sono frustrati
e i ricchi sempre insoddisfatti. Una società attrezzata col cuscinetto
a sfere e che procedesse al ritmo dell'uomo sarebbe incomparabilmente
più efficiente di tutte le rozze società del passato, incomparabilmente
più autonoma di tutte le società programmate del presente. Siamo
nell'epoca degli uomini-macchina, incapaci di cogliere nella sua
ricchezza e concretezza il raggio d'azione offerto dagli strumenti
moderni quando fossero mantenuti entro certi limiti. Nella mente
dell'uomo-macchina non c'è posto per immaginare il salto qualitativo
che deriverebbe da un'economia in equilibrio stabile col mondo in
cui agisce. Nel suo cervello non c'è nessuna casella per una società
libera dagli orari e dai trattamenti imposti dalla crescita degli
strumenti. L'uomo-macchina non conosce la gioia che è a portata
di mano, in una povertà voluta; ignora la sobria ebbrezza della
vita. Una società in cui ognuno sapesse quanto basta sarebbe forse
una società povera, ma anche, non c'è dubbio, libera e ricca di
sorprese.
3. Mi soffermo
sulla struttura dello strumento, non sulla struttura di carattere
dell'individuo e della comunità. Certo, la ricostruzione sociale,
specie nei paesi ricchi, implica che lo sguardo acquisti trasparenza,
che il sorriso si faccia attento e che i gesti si addolciscano:
esige una ricostruzione dell'uomo e del tipo di società. Ma qui
non parlo da psicologo, benché sia convinto che dominando lo strumento
sarà possibile ridurre le attuali distorsioni del carattere sociale.
Ogni città
ha la propria storia e la propria cultura, e tuttavia ogni paesaggio
urbano subisce oggi la medesima degradazione. Tutte le autostrade,
tutti gli ospedali, tutte le aule scolastiche, tutti gli uffici,
tutti i grandi complessi di abitazione e tutti i supermercati si
somigliano. Gli stessi strumenti producono i medesimi effetti. Tutti
i poliziotti in pattuglia motorizzata e tutti gli specialisti di
informatica si somigliano; su tutta la superficie del pianeta hanno
lo stesso aspetto e compiono gli stessi gesti, mentre, da una regione
all'altra, i poveri sono diversi. Senza una riattrezzatura della
società, non sfliggiremo alla progressiva omogeneizzazione di tutti,
allo sradicamento culturale e alla standardizzazione delle relazioni
personali. Una ricerca complementare a questa sarebbe da condurre
sui caratteri dell'uomo «industriale» che ostacolano o minacciano
la riattrezzatura. Ma io non fornisco ricette per cambiare l'uomo
e rifare una società nuova, e non pretendo di sapere come le personalità
e le culture muteranno. Una cosa però è certa: una pluralità di
strumenti limitati e di organizzazioni conviviali stimolerebbe una
diversità di modi di vita, sia che essa si richiami maggiormente
alla «memoria», cioè all'eredità del passato, sia che si rifaccia
all'invenzione, cioè alla creazione ex novo.
4. Mi allontanerei
ugualmente dal mio tema se mi occupassi di strategia o di tattica
politica. A eccezione, forse, della Cina retta da Mao, nessun
governo attuale potrebbe ristrutturare il proprio progetto di società
secondo un indirizzo conviviale. I dirigenti odierni sono come gli
ufficiali d'una nave, assegnati alle leve di comando delle istituzioni
dominanti: imprese multinazionali, branche dell'industria di Stato,
partiti politici, monopoli professionali ecc. Possono cambiare rotta,
carico o equipaggio, ma non tonnellaggio. Possono anche produrre
una domanda che vada incontro all'offerta dello strumento, o limitare
questa offerta per massimizzare il profitto, ma sono la classe meno
capace di riconoscere la natura artificiale dell'offerta. Il presidente
di una impresa europea o quello di una comune cinese possono facilitare
la partecipazione complice dei lavoratori alla direzione della produzione,
ma né da soli né con l'aiuto del sindacato possono invertire la
struttura dell'istituzione che dirigono.
Le istituzioni
dominanti ottimizzano la produzione della mega-attrezzatura e l'orientano
verso un popolo di fantasmi. I dirigenti di oggi formano una nuova
classe di uomini; scelti per la loro personalità, il loro sapere
e il loro gusto del potere, sono uomini addestrati a garantire nello
stesso tempo l'aumento del prodotto lordo e il condizionamento del
cliente. Detengono il potere e tengono l'energia, lasciando al pubblico
l'illusione di conservare la proprietà legale dell'attrezzatura,
ove essa sia nazionalizzata. Sono loro che bisogna liquidare. Ma
a nulla servirebbe sterminarli, soprattutto se lo si facesse unicamente
per rimpiazzarli: il nuovo gruppo dirigente non farebbe che ritenersi
più legittimo, maggiormente autorizzato a manipolare quel potere
ereditato con tutta la sua struttura. Il solo modo per eliminare
i manager è di rompere il meccanismo che li rende necessari, e con
ciò stesso la domanda massiccia che assicura il loro impero. La
professione di amministratore delegato non ha avvenire in una società
conviviale, come il professore non ha un posto in una società descolarizzata:
una specie si estingue quando perde la propria ragione d'essere.
L inverso
e un ambiente propizio alla produzione per opera di un popolo anarchico.
Ma l'inversione della struttura tecnica non può essere il risultato
della vittoria di un partito classico. Il politico che ha conquistato
il potere è l'ultima persona capace di comprendere il potere della
rinuncia: è arrivato al potere per gestire lo strumento, non per
eliminarlo in pro dell'umile autogestione di attrezzi precari. In
una società in cui la decisione politica argini l'efficacia dello
strumento, non soltanto sbocceranno i destini personali, ma nasceranno
nuove forme imprevedibili di partecipazione politica. Cessa la ragione
di ogni disciplina di partito. L'uomo fa lo strumento. Si fa mediante
lo strumento. Lo strumento conviviale sopprime certe scale di potere,
di costrizione e di programmazione, quelle precisamente che sono
comuni agli opposti partiti e che tendono a uniformare tutti gli
attuali governi. L'adozione di un modo di produzione conviviale
non crea pregiudizi a vantaggio di alcuna forma determinata di governo,
più di quanto non escluda una federazione mondiale, accordi fra
nazioni, fra comuni, o il mantenimento di certi tipi di governo
tradizionali. Mi piacerebbe prevedere quella vita politica che non
può non esistere nel cuore di una società conviviale, ma qui mi
limito a descrivere i criteri strutturali negativi dei mezzi di
produzione e la struttura formale su cui fondare un nuovo pluralismo
politico.
5. Una
metodologia che ci permetta di individuare l'opera distruttiva della
mega-attrezzatura postula il riconoscimento della sopravvivenza
nell'equità come valore fondamentale. Ciò implica l'elaborazione
di una teoria della giustizia. Ma questo manifesto non può essere
né un trattato e neppure un compendio di etica. Per le esigenze
della mia argomentazione, ho dovuto accontentarmi di enunciare semplicemente
i valori fondamentali di tale teoria.
6. In
una società postindustriale e conviviale, i problemi economici non
scompariranno da un giorno all'altro, come non si risolveranno da
soli. Riconoscere che il Prodotto Nazionale Lordo non misura il
benessere o addirittura ammettere che la qualità della vita non
è misurabile alla stessa stregua, non elimina il bisogno di una
nozione per quantificare il trasferimento ingiusto del potere. L'assegnare
alla crescita industriale limiti non-monetari e politicamente definiti
comporterà una revisione di molti principi economici consacrati,
ma non farà scomparire la diseguaglianza tra gli uomini. Ponendo
limiti allo sfruttamento dell'uomo da parte dello strumento si rischia
non solo di ricadere in forme preindustriali di sfruttamento, ma
di sostituirvi nuove forme più accentuate di sfruttamento dell'uomo
da parte dell'uomo. In effetti, l'individuo dotato di uno strumento
conviviale avrà, più che nell'era industriale o preindustriale,
il potere di investirsi nella società, di provocare cambiamenti
per lui significativi.
Anche limitato,
lo strumento conviviale sarà incomparabilmente più efficace dello
strumento primitivo e, a differenza dello strumento industriale,
sarà alla portata di tutti. Certi, però, ne trarranno maggiore profitto
di altri. La convivialità dello strumento accresce la possibilità
di un «trasferimento netto di potere» fra gli individui, anche se,
a differenza dello strumento industriale, non l'impone. L'adozione
della convivialità comporta un ritorno alla lotta politica contro
la concentrazione del potere personale, che adesso si maschera come
potere di servizio professionale e sfugge in tal modo alla critica.
Questa lotta continua esige una nuova teoria economica che
individui scarsità non-finanziarie di vario tipo. Si dirà che la
limitazione dell'attrezzatura è destinata a restare lettera morta
sino a quando tale nuova teoria economica non divenga operante assicurando
la continua ridistribuzione in una società decentralizzata. Ciò
è del tutto esatto, ma non è questo il mio intento. Io propongo
una teoria sull'efficacia e l'accessibilità dei mezzi di produzione,
non una teoria che riguardi direttamente la riorganizzazione finanziaria.
Io propongo di identificare cinque classi di confini imponibili
alla crescita della produzione: ognuno di essi rappresenta una dimensione
naturale, entro la quale le unità di misura dell'economia sono ridotte
a una classe di fattori senza dimensione.
L'industrializzazione
della carenza
Una metodologia
che permetta di individuare la perversione dello strumento divenuto
fine a se stesso è destinata a incontrare una forte resistenza fra
coloro che sono abituati a misurare il bene in termini di lire o
dollari. Platone diceva che il cattivo statista crede di poter misurare
ogni cosa e mescola
la considerazione dell'inferiore e del superiore con la ricerca
di ciò che è più conveniente allo scopo. Il nostro atteggiamento
verso la produzione è stato modellato, attraverso i secoli, dal
succedersi di simili statisti. Poco alla volta le istituzioni non
solo hanno determinato la nostra domanda, ma hanno addirittura plasmato
la nostra logica, riducendo il nostro senso delle proporzioni a
quello della misura numerica. Si comincia col reclamare ciò che
l'istituzione produce, e poi ben presto si pensa di non potere più
farne a meno. E meno si gode di ciò che è diventato una necessità,
più si sente il bisogno di quantificarlo. Il bisogno personale diventa
una carenza misurabile.
L'invenzione
dell'«educazione» e un esempio di ciò che sostengo. Di solito si
dimentica che il bisogno di educazione, nel significato moderno
del termine, è un'invenzione recente. Essa era sconosciuta prima
della Riforma, quando significava semplicemente l'addestramento
della prima età che gli animali e gli uomini impartiscono ai propri
piccoli. La si distingueva chiaramente dall'istruzione, necessaria
al bambino, e dallo studio, al quale alcuni si dedicavano più tardi,
sotto la guida di un maestro. Per Voltaire, l'educazione era ancora
un neologismo presuntuoso, usato da certi maestri di scuola che
volevano darsi delle arie.
L'impresa
consistente nel far passare tutti gli uomini per gradi successivi
di illuminazione ha le sue più profonde origini nell'alchimia, la
Grande Arte del Medioevo declinante. Giustamente Giovanni Amos Comenio,
vescovo moravo del XVII secolo, pansofista e pedagogo, come lui
stesso si definiva, viene considerato uno dei fondatori della scuola
moderna. Fu tra i primi a proporre, rispettivamente, sette e dodici
gradi di apprendistato obbligatorio. Nella sua Didactica Magna
descrive la scuola come uno strumento per «insegnare interamente
tutto a tutti» (omnes, omnia, omnino) e abbozza il progetto
di una produzione a catena del sapere che diminuisca il costo e
accresca il valore dell'educazione, in modo da permettere a ognuno
di accedere alla pienezza dell'umanità. Ma Comenio non fu soltanto
uno dei primi teorici della produzione di massa, fu anche il grande
discepolo dell'alchimista Wolfgang Ratke, e adattò il vocabolario
tecnico della trasmutazione degli elementi all'arte di allevare
i bambini. L'alchimista si propone di raffinare gli elementi-base
purificandone gli spiriti attraverso dodici tappe successive di
illuminazione; al termine di questo processo, per il loro maggior
bene e per quello dell'universo, gli elementi sono trasformabili
in metallo prezioso: il residuo di materia che ha subito sette classi
di trattamento fornisce argento, mentre ciò che sussiste dopo dodici
prove dà oro. Naturalmente gli alchimisti, nonostante i loro assidui
sforzi, non riuscivano mai nell'intento, ma nella loro scienza trovavano
sempre nuove ragioni per continuare, e si rimettevano tenacemente
al lavoro. Il fallimento dell'alchimia culmina nel fallimento dell'industria.
Il modo
di produzione industriale è stato per la prima volta pienamente
razionalizzato in occasione della fabbricazione di un nuovo bene
di servizio: l'educazione. La pedagogia ha aggiunto un capitolo
alla storia della Grande Arte. L'educazione divenne la ricerca del
processo alchimistico grazie al quale potesse nascere un nuovo tipo
d'uomo, richiesto dall'ambiente plasmato dalla magia scientifica.
Ma, nonostante il prezzo pagato dalle varie generazioni, ogni volta
risultò che la maggior parte degli allievi non erano degni di accedere
ai più alti gradi dell'illuminazione, e dovevano essere esclusi
dal gioco perché inadatti a condurre la «vera» vita offerta in questo
mondo creato dall'uomo.
La ridefinizione
del processo di acquisizione del sapere in termini di scolarizzazione
non ha soltanto giustificato la scuola dandole l'apparenza della
necessità; ha anche creato una nuova specie di scorie, i non scolarizzati,
e una nuova specie di segregazione sociale, la discriminazione di
chi è privo di educazione da parte di quelli che sono fieri di averla
ricevuta. L'individuo scolarizzato sa esattamente a quale livello
della piramide gerarchica del sapere è riuscito ad arrivare, e conosce
con precisione la sua distanza dalla vetta. Una volta che ha accettato
di lasciarsi definire da una amministrazione in base al proprio
consumo di educazione attestato dal suo titolo di studio, accetta
poi senza batter ciglio che dei burocrati determinino il suo bisogno
di salute, che dei tecnocrati definiscano la sua carenza di mobilità.
Modellato in tal modo sulla mentalità del consumatore-utente, non
può più scorgere la degenerazione dei mezzi in fini inerente alla
struttura stessa della produzione industriale, non è più in grado
di distinguere fra il necessario ed il lusso. Condizionato a credere
che la scuola può fornirgli uno stock di sapere, arriva a credere
anche che i trasporti possono fargli risparmiare tempo o che la
fisica atomica, nelle sue applicazioni militari, gli assicura protezione.
Si aggrappa all'idea che il livello dei salari corrisponda al livello
di vita e che l'espansione del terziario rispecchi un miglioramento
della qualità della vita. In realtà l'industrializzazione dei bisogni
riduce ogni soddisfazione a un atto di verifica operazionale, sostituisce
alla gioia di vivere il piacere di applicare una misura.
Il servizio
educazione e l'istituzione scuola si giustificano
reciprocamente. La collettività non ha che un modo per uscire da
questo circolo vizioso, ed è prendere coscienza che l'istituzione
è ormai arrivata a stabilire essa stessa i propri fini: l'istituzione
pone dei valori astratti, poi li materializza incatenando l'uomo
a meccanismi implacabili. Come uscirne? Occorre interrogare se stessi:
chi mi incatena, chi mi assuefà alle sue droghe? Porre la domanda
significa già rispondere. Significa liberarsi dall'oppressione del
nonsenso e della carenza, riconoscendo ognuno la propria capacità
di imparare, muoversi, curarsi, farsi intendere e comprendere. Occorre
tempo per uscirne ? Bisogna capire che questa liberazione è obbligatoriamente
istantanea, perché non c e via di mezzo tra l'incoscienza e il risveglio.
La carenza che la società industriale industriosamente coltiva non
sopravvive alla scoperta che persone e comunità possono soddisfare
da se stesse i loro bisogni autentici.
Il
modo di percezione industriale dei valori rende estremamente arduo
per l'utente prendere coscienza della struttura profonda dei mezzi
sociali. Non gli è facile capire che esiste una via diversa dall'alienazione
del lavoro, dall'industrializzazione della carenza e dalla sovrefficienza
dello strumento. Non gli è facile immaginare che si possa acquistare
in rendimento sociale ciò che si perde in redditività industriale.
Il timore che rifiutando il presente si ritorni alla schiavitù del
passato lo chiude nella prigione multinazionale d'oggi, si chiami
essa Fiat o Scuola.
Un
tempo l'esistenza dorata di alcuni poggiava sull'asservimento degli
altri. L'efficienza del singolo era scarsa: la vita agiata di una
minoranza esigeva la manomissione del lavoro della maggioranza.
A un certo punto, una serie di scoperte, semplicissime ma inconcepibili
fino a qualche tempo fa, ha dilatato l'efficienza dell'uomo; il
cuscinetto a sfere, la sega e il vomere d'acciaio, la pompa e la
bicicletta hanno potenzialmente moltiplicato il rendimento orario
dell'uomo e facilitato il suo lavoro. Ma tra l'alto Medioevo e il
secolo dei lumi, in Occidente, più di un autentico umanista si è
smarrito dietro il sogno alchimistico, e le nuove scoperte, invece
di accrescere il potere degli uomini, sono state incorporate alle
macchine, nell'illusione che la megamacchina, produttore artificiale
al servizio di una umanità astratta, potesse colmare i bisogni esistenti
anziché creare, com'è accaduto, sempre nuove carenze a un ritmo
più veloce della creazione di valori.
L'altra
possibilità: una struttura conviviale
La società conviviale è una società che dà all'uomo
la possibilità di esercitare l'azione più autonoma e creativa, con
l'ausilio di strumenti meno controllabili da altri. La produttività
si coniuga in termini di avere, la convivialità in termini di essere.
L'attrezzatura manipolante tende all'esasperazione, l'uso dello
strumento conviviale tende all'autolimitazione. Mentre la crescita
dell'attrezzatura al di là delle soglie critiche non fa che produrre
uniformazione regolamentata, dipendenza, sopraffazione e impotenza,
la scelta austera dello strumento conviviale è garanzia d'una libera
espansione dell'autonomia e della creatività umane. E chiaro che
uso i termini strumento e attrezzatura nel senso più
ampio possibile di mezzo, vuoi che sia nato dall'attività costruttrice,
organizzatrice o razionalizzante dell'uomo, vuoi che, come la selce
preistorica, venga semplicemente appropriato dalla mano per realizzare
un compito specifico, cioè messo al servizio di un'intenzionalità.
Una
scopa, una penna a sfera, un cacciavite, una siringa, un mattone,
un motore, sono strumenti quanto l'automobile o il televisore. Una
fabbrica di carne in scatola o una centrale elettrica, che sono
istituzioni produttrici di beni, rientrano anch'esse nella categoria
degli strumenti. Vanno
inoltre comprese nell'attrezzatura le istituzioni produttrici di
servizi, come la scuola, l'organizzazione medica, la ricerca, i
mezzi di comunicazione i centri di pianificazione. Le leggi sul
matrimonio ed i programmi scolastici modellano la vita sociale alla
stessa stregua della rete stradale. Nel senso che do alla parola
in questo saggio, la categoria degli strumenti abbraccia tutti i
mezzi ragionati dell'azione umana, la macchina e il modo
d'impiegarla, il codice e il suo singolo operatore. L'area coperta
dal concetto di strumento varia da cultura a cultura; dipende dalla
presa che una determinata società esercita sulla sua struttura e
sul suo ambiente. Ogni oggetto assunto come mezzo di un fine diviene
strumento, ogni mezzo concepito apposta per un fine è uno strumento
ragionato.
Lo
strumento è inerente al rapporto sociale. Allorché agisco in quanto
uomo, mi servo di strumenti. A seconda che io lo padroneggi o che
viceversa ne sia dominato, lo strumento mi collega o mi lega al
corpo sociale. Nella misura in cui io padroneggio lo strumento,
conferisco al mondo un mio significato; nella misura in cui lo strumento
mi domina, è la sua struttura che mi plasma e informa la rappresentazione
che io ho di me stesso. Lo strumento conviviale è quello che mi
lascia il più ampio spazio ed il maggior potere di modificare il
mondo secondo le mie intenzioni. Lo strumento industriale mi nega
questo potere; di più: attraverso di esso, è un altro diverso da
me che determina la mia domanda, restringe il mio margine di controllo
e governa il mio senso della vita. La maggior parte degli strumenti
che mi circondano oggi non può essere utilizzata in modo conviviale:
sono strumenti ragionati nelle mani di altri, e ancora più spesso
strumenti ragionati sfuggiti dalle mani di tutti e che esercitano
selvaggiamente le funzioni intrinseche alla propria struttura.
Lo
strumento è al tempo stesso mezzo di controllo e trasformatore di
energia. La scuola è un mezzo di controllo, il veicolo un trasformatore
di energia. Come sappiamo, l'uomo dispone di due tipi di energia:
quella che trae da se stesso (o energia metabolica) e quella che
attinge dall'esterno. Maneggia la prima, manipola la seconda. Perciò
distinguerei anche tra lo strumento maneggiabile e lo strumento
manipolabile.
Lo
strumento maneggiabile adatta l'energia metabolica a un compito
specifico. È polivalente, come la selce naturale, il martello o
il temperino; o monovalente e altamente elaborato, come il tornio
del vasaio, il telaio per tessere, la macchina per cucire a pedale
o il trapano del dentista. Lo strumento maneggiabile può raggiungere
la complessità dell'organizzazione di trasporti diretta a trarre
dall'energia umana il massimo di mobilità, per esempio un sistema
di biciclette e tricicli con una corrispondente rete di piste ciclabili
magari coperte e dotate di stazioni di servizio. Lo strumento maneggiabile
è conduttore di energia metabolica; vi si applica la mano, il piede.
L'energia che richiede può essere prodotta dalla maggior parte di
chi mangi e respiri.
Lo
strumento manipolabile è mosso, almeno in parte, dall'energia
esterna. Può servire a moltiplicare l'energia umana: sono i buoi
che tirano l'aratro, ma per guidarlo occorre un uomo. Anche un montacarichi
o una sega elettrica sposano l'energia metabolica all'energia esogena.
Tuttavia lo strumento manipolabile può superare la scala umana.
L'energia fornita dal pilota di un aereo supersonico non rappresenta
più una parte rilevante dell'energia consumata in volo: il pilota
è un semplice operatore, la cui azione è governata dai dati che
un computer elabora per lui. Se c'è ancora qualcuno nella cabina
è perché il calcolatore è imperfetto o perché il sindacato dei piloti
di linea è potente e organizzato.
Lo
strumento è conviviale nella misura in cui ognuno può utilizzarlo,
senza difficoltà, quando e quanto lo desideri, per scopi determinati
da lui stesso. L'uso che ciascuno ne fa non lede l'altrui libertà
di fare altrettanto; né occorre un diploma per avere il diritto
di servirsene. Tra l'uomo e il mondo, è conduttore di senso, traduttore
di intenzionalità.
Certe
istituzioni sono, strutturalmente, strumenti conviviali e ciò indipendentemente
dal loro livello tecnologico. Per esempio, il telefono. Purché possa
acquistare un gettone, chiunque può chiamare chi desidera per comunicargli
ciò che vuole: le ultime informazioni sulla borsa, ingiurie o parole
d'amore. Nessun burocrate potrà stabilire in anticipo il contenuto
di una comunicazione telefonica; tutt'al più potrà violarne il segreto
o, al contrario, proteggerlo. Quando infaticabili calcolatori tengono
occupata più di metà delle linee californiane limitando così la
libertà delle comunicazioni personali, è la compagnia telefonica
in difetto, perché distoglie ad altri fini lo sfruttamento di una
licenza originariamente concessa per dare la parola alle persone.
Quando una intera popolazione si lascia intossicare dall'abuso del
telefono e perde così l'abitudine a scambiarsi lettere o visite,
il difetto sta nell'uso smodato dello strumento, conviviale nella
sua essenza, ma la cui funzione è snaturata da una impropria estensione
del suo campo d'azione.
Lo
strumento maneggiabile richiama l'uso conviviale. Se non vi si presta
dipende dal fatto che l'istituzione ne riserva l'uso a un monopolio
professionale, per esempio collocando le biblioteche all'interno
delle scuole o decretando che l'estrazione di un dente o altri interventi
semplici sono operazioni mediche eseguibili dai soli specialisti.
Lo strumento maneggiabile può anche essere sottoposto a controllo
burocratico diventando oggetto d'una specie di segregazione, come
nel caso di certi motori concepiti in modo che non vi si possano
fare piccole riparazioni da soli con pinze e cacciavite. Il monopolio
dell'istituzione su questo tipo di strumenti maneggiabili è un abuso,
perverte l'uso dello strumento, ma non per tanto esso ne viene snaturato,
così come il coltello dell'assassino non cessa di essere un arnese
di cucina.
Il
carattere conviviale o meno dello strumento non dipende, in linea
di principio, dal suo grado di complessità. Ciò che si è detto del
telefono potrebbe essere ripetuto punto per punto riguardo al servizio
postale, o al sistema dei trasporti fluviali indocinese. Ognuno
di questi sistemi è una struttura istituzionale che massimizza la
libertà della persona, anche se può essere sviato dal suo fine e
pervertito nell'uso pratico. Il telefono è il prodotto di una tecnica
avanzata; le poste possono funzionare a diversi livelli tecnici,
ma richiedono sempre una notevole organizzazione; la rete dei canali
e delle piroghe esige dagli utenti la sola collaborazione alla manutenzione
dei klong, nel quadro di una tecnica tradizionale.
L'equilibrio
istituzionale
Allorché si avvicina alla sua seconda soglia, l'istituzione
non solo perverte l'uso dello strumento maneggiabile, ma subito
gli sostituisce lo strumento manipolabile. Comincia allora il regno
delle manipolazioni. Sempre di più si scambia il mezzo col fine,
mentre l'adattamento dell'uomo al mezzo diventa sempre più costoso.
Così, mettere insieme i presupposti dell'insegnamento costa di più
che insegnare, e il costo della formazione non è più compensato
dal frutto della produzione. I mezzi per il fine perseguito dall'istituzione
divengono sempre meno accessibili a una persona autonoma o, più
esattamente, diventano parte integrante di una catena di anelli
solidali che bisogna accettare in tutta la sua interezza. Negli
Stati Uniti, se non si dispone di un'automobile non si viaggia in
aereo, e se non si viaggia in aereo non si partecipa ai congressi
di specialisti. Gli strumenti che conseguirebbero gli stessi scopi
esigendo meno dal fruitore e rispettando la sua libertà d'azione,
sono esclusi dal mercato. L'arte di corrispondere fra colleghi scompare.
Mentre i marciapiedi spariscono la rete stradale non fa che diventare
più complessa.
Può
darsi che certi mezzi di produzione non conviviali risultino desiderabili
in una società postindustriale. È probabile che, anche in un mondo
conviviale, certe collettività scelgano di avere più abbondanza
al prezzo di una minore creatività. E praticamente certo che, nel
periodo di transizione, l'elettricità non dappertutto sarà prodotta
su scala domestica. E evidente che il conduttore di un treno non
può né scostarsi dalla strada ferrata né decidere di testa sua le
fermate o l'orario. I vascelli d'una volta erano tenuti a seguire
una rotta precisa non meno delle petroliere moderne; anzi. La trasmissione
dei messaggi telefonici si effettua su una certa banda di frequenza,
deve essere diretta da un'amministrazione centrale, anche se riguarda
solo una zona limitata. In verità non c'è alcuna ragione per bandire
da una società conviviale qualunque strumento potente, qualsiasi
strumento ragionato manipolabile e ogni produzione centralizzata.
Nell'ottica conviviale, l'equilibrio tra la giustizia nella partecipazione
e l'uguaglianza nella distribuzione può variare da una società al
l'altra, a seconda della storia, degli ideali e dell'ambiente della
società stessa.
Non
è essenziale che le istituzioni manipolatrici o i beni e i servizi
capaci d'intossicare siano del tutto assenti da una società conviviale.
Ciò che conta è che tale società realizzi un equilibrio fra gli
strumenti che producono una domanda per creare e soddisfare la quale
sono stati concepiti, e gli strumenti che invece stimolano l'invenzione
e l'adempimento personali. I primi materializzano programmi astratti
che riguardano gli uomini in generale; i secondi favoriscono l'attitudine
di ciascuno a perseguire i propri fini, nella maniera propria, inimitabile.
Non
è il caso di bandire uno strumento per il solo fatto che, secondo
uno dei nostri criteri di classificazione, può definirsi anticonviviale.
Questi criteri sono guide per l'azione; una società può servirsene
per ristrutturare il complesso della sua attrezzatura, in funzione
dello stile e del grado di convivialità che desidera. Una società
conviviale non proibisce la scuola: mette al bando il sistema scolastico
pervertito in strumento obbligatorio, fondato sulla segregazione
e il rifiuto dei bocciati. Una società conviviale non sopprime i
trasporti interurbani a grande velocità a meno che la loro esistenza
divori il tempo dell'insieme della popolazione, imponendo le sue
servitù alla maggioranza per accrescere la mobilità dell'élite.
Una società conviviale non è neppure tenuta a rifiutare la televisione,
sebbene questa lasci alla discrezione di pochi produttori e abili
parlatori la scelta e la confezione di ciò che verrà fatto «ingoiare»
alla massa dei telespettatori; ma una società conviviale deve proteggere
la persona dall'obbligo di trasformarsi in voyeur. Come si
vede, i criteri della convivialità non sono regole da applicare
meccanicamente, ma indicatori dell'azione politica, riguardanti
ciò che bisogna evitare. Concepiti per rivelare una minaccia, permettono
a ciascuno di mettere a frutto la propria libertà.