La polarizzazione
L'industrializzazione
moltiplica gli uomini e le cose. I sottoprivilegiati crescono di
numero, mentre i privilegiati consumano sempre di più. Di conseguenza,
tra i poveri aumenta la fame e tra i ricchi la paura. Guidato dal
bisogno e dal sentimento d'impotenza, il povero reclama un'industrializzazione
accelerata; spinto dalla paura e dal desiderio di proteggere il
suo star meglio, il ricco s'impegna in una difesa sempre più rabbiosa
e rigida. Mentre il potere si polarizza, l'insoddisfazione si generalizza.
La possibilità che pur ci è data di creare per tutti maggiore felicità
con meno abbondanza, è relegata al punto cieco della visione sociale.
Questo accecamento nasce dallo squilibrio della bilancia del sapere.
Gli intossicati dall'educazione sono buoni consumatori e buoni utenti.
Vedono la loro crescita personale sotto forma di una accumulazione
di beni e di servizi prodotti dall'industria. Anziché fare le cose
da se stessi, preferiscono riceverle bell'e pronte dall'istituzione.
Soffocano il loro potere innato di apprendere il reale. Lo squilibrio
della bilancia del sapere spiega come l'avanzata del monopolio radicale
dei beni e dei servizi non venga quasi affatto percepita dall'utente.
Ma non ci dice perché costui si senta tanto impotente a modificare
le disfunzioni, nella misura in cui le percepisce.
È qui che interviene l'effetto di un quarto tipo di sconvolgimento:
la polarizzazione crescente del potere. Sotto la spinta della megamacchina
in espansione, il potere di decidere del destino di tutti si concentra
nelle mani di alcuni. E, in questa frenesia di crescita, le innovazioni
che migliorano la sorte della minoranza privilegiata crescono ancora
più rapidamente del prodotto globale.
Un aumento del 3 per cento del livello di vita americano costa venticinque
volte più caro di un uguale aumento del livello di vita in India,
paese che pure è più popoloso e prolifico del Nord America. Nella
corsa alla crescita industriale, la condizione del povero può essere
migliorata se il ricco consuma di meno, mentre quella del ricco
non può esserlo se non al prezzo della spoliazione mortale del povero.
Il ricco sostiene che sfruttando il povero lo arricchisce perché
in ultima analisi egli crea abbondanza per tutti; e le élites dei
paesi poveri diffondono questa favola.
Il ricco si arricchirà e spoglierà più d'un povero nel prossimo
decennio. Il fatto che il mercato internazionale fornisca loro del
frumento, imporrà ai paesi poveri di costruire reti di trasporto
e di distribuzione, a un prezzo sociale che sarebbe praticamente
bastato a trasformare l'agricoltura locale. Ma l'angoscia che ci
stringe nell'osservare la controproduttività delle politiche di
«sviluppo» non deve impedirci di comprendere la struttura della
ripartizione del potere, che costituisce la quarta dimensione attraverso
cui il sovrasviluppo esercita i suoi effetti distruttivi. L'industrializzazione
sfrenata fabbrica la povertà moderna. È vero che i poveri hanno
un po' più di soldi, ma con quel loro poco denaro possono fare di
meno: e non tanto a causa dell'aumento dei prezzi, quanto per la
paralisi che colpisce la produzione dei valori che non siano merci.
La modernizzazione della povertà va di pari passo con la concentrazione
del potere: potere che consiste soprattutto nel decidere quello
che si potrà o dovrà produrre. E un punto da comprendere bene, altrimenti
non si coglie la natura profonda della polarizzazione.
La povertà si modernizza: la sua soglia monetaria si eleva perché
nuovi prodotti industriali si presentano come beni di prima necessità,
restando tuttavia inaccessibili ai più. Nel terzo mondo, grazie
alla «rivoluzione verde», il contadino povero è espulso dalla
sua terra. Come salariato agricolo guadagna di più, ma i suoi
bambini non mangiano più come una volta. Il cittadino americano
che guadagna dieci volte più del salariato agricolo è anche lui
disperatamente povero. Entrambi pagano sempre più caro un crescente
essermeno.
Complementarmente, cresce il divario tra ricchi e poveri, poiché
il controllo della produzione è centralizzato al fine di produrre
sempre di più per il maggior numero. Mentre la salita delle soglie
di povertà è conseguenza della struttura del prodotto industriale,
l'aumento del divario tra poveri e potenti dipende dalla struttura
dello strumento. Chi vuole risolvere il primo aspetto del problema
senza considerare il secondo, non fa che sostituire alla carenza
di cose una carenza di voce. La ridistribuzione del prodotto non
è il rimedio alla polarizzazione del controllo.
Con lo strumento fiscale si ovvia agli effetti superficiali della
concentrazione industriale del potere. L'imposta sul reddito trova
il suo complemento nei sistemi di sicurezza sociale, di sussidi
e di equa distribuzione del benessere. Può anche accadere che al
di là di una certa soglia il capitale venga statalizzato, o che
si decida di ridurre il ventaglio dei salari. Ma un simile controllo
del reddito privato non può essere efficace se non è accompagnato
da un controllo sul consumo dei privilegi attribuiti all'individuo
in virtù della sua funzione di produttore. Di per sé il controllo
del reddito non ha alcun effetto eguagliatore sui privilegi che
contano veramente in una società dove l'impiego è diventato più
importante della famiglia. Finché i lavoratori saranno classificati
in base al grado di capitalizzazione di forza-lavoro che a ciascuno
si imputa, la minoranza detentrice di stock di sapere ad alta quotazione
si arrogherà regolarmente tutti i privilegi che permettono di guadagnare
tempo. La concentrazione dei privilegi nelle mani di pochi è
inerente alla produttività industriale.
Appena un secolo fa, nessuno avrebbe potuto immaginare la concentrazione
del potere e dell'energia che oggi ci sembra normale. In una società
moderna, l'energia industrializzata supera enormemente l'energia
metabolica globale, cioè l'energia di cui dispone il corpo umano
per svolgere determinati compiti. Il rapporto tra l'energia meccanica
e l'energia umana disponibile è di 15 in Cina e di 300 negli Stati
Uniti. E le reti elettriche concentrano il controllo dell'energia
e l'esercizio del potere più efficacemente di quanto non ci riuscisse
la frusta nelle civiltà antiche. La ripartizione sociale del controllo
del consumo di energia si è modificata radicalmente. Il funzionamento
e, più ancora, il disegno dell'infrastruttura energetica di una
società moderna impongono l'ideologia del gruppo dominante, con
una forza e una penetrazione inconcepibili per il sacerdote dell'antico
Egitto o per il banchiere del secolo XVII. In quanto mezzo di dominio,
la moneta perde il suo valore a vantaggio del carburante. Se per
capitale si intende ciò che fornisce l'energia trasformatrice, l'inflazione
energetica ha ridotto la maggioranza all'indigenza.
Via via che lo strumento s'ingrossa, il numero degli operatori potenziali
diminuisce. Via via che lo strumento diviene più efficiente, l'operatore
impiega più beni e servizi costosi. Nei cantieri guatemaltechi,
l'ingegnere è il solo ad avere l'aria condizionata nella sua baracca.
Il suo tempo è così prezioso che egli prende l'aereo per andare
nella capitale, e le sue decisioni sono così importanti che le comunica
con una radio trasmittente a onde corte. Ovviamente, l'ingegnere
ha guadagnato i suoi privilegi accaparrandosi i fondi pubblici per
ottenere i suoi titoli di studio. Il manovale indio non avverte
la posizione relativamente privilegiata del suo caposquadra; invece
i geometri e i disegnatori, che sono stati scolarizzati ma non sono
arrivati fino alla laurea, soffrono tutt'a un tratto più acutamente
il caldo del cantiere e la lontananza dalle famiglie. Sono relativamente
impoveriti di tutta l'efficienza supplementare guadagnata dal loro
capo.
Mai lo strumento è stato tanto potente. E mai è stato a tal punto
accaparrato da una élite. Il diritto divino non correva tanto in
soccorso dei re d'una volta quanto la crescita dei servizi soccorre
i funzionari d'oggi, nell'interesse supremo della produzione.
I sovietici giustificano i trasporti supersonici dicendo che fanno
risparmiare tempo ai loro scienziati. I trasporti a grande velocità,
le reti di telecomunicazione, le cure mediche speciali e l'assistenza
illimitata della burocrazia vengono presentate come necessità per
ottenere il massimo dagli individui che sono stati oggetto del massimo
di capitalizzazione.
La società del megastrumento dipende per la sua sopravvivenza da
molteplici sistemi che impediscono ai più di far valere la loro
parola. Quest'ultimo privilegio è riservato agli individui riconosciuti
come i più produttivi. Normalmente la produttività di un individuo
si misura dall'investimento educativo di cui è stato oggetto, dall'importanza
mondo industriale. Si può immaginare che il Nord America cessi di
sfruttare la sottoindustrializzazione dell'America Latina, ma non
che cessi di destinare le sue donne alle corvées non industrializzabili.
L'espansione dell'industria si arresterebbe se le donne ci forzassero
a riconoscere che la società non è più vitale quando un solo modo
di produzione eserciti il suo dominio sull'insieme. E urgente prendere
coscienza della pluralità dei modi di produzione, ciascuno valido
e rispettabile, che una società, per essere vitale, deve far coesistere.
Questa presa di coscienza ci renderebbe padroni della crescita industriale.
La crescita si arresterebbe se le donne e le altre minoranze tenute
lontane dal potere esigessero un lavoro egualmente creativo per
tutti, anziché reclamare l'eguaglianza dei diritti sulla mega-attrezzatura
manipolata fino ad oggi dall'uomo soltanto. Solo una struttura di
produzione che protegga l'eguale ripartizione del potere permette
un eguale godimento dell'avere.
L'obsolescenza
La ricostruzione conviviale suppone lo smantellamento dell'attuale
monopolio dell'industria, non la soppressione di qualunque produzione
industriale. Implica che sia ridotta la polarizzazione sociale dovuta
allo strumento, affinché nella forza produttiva coesista una pluralità
dinamica di strutture complementari e quindi una pluralità di ambienti
e di élite. Richiede l'adozione di strumenti che mettano in opera
l'energia del corpo umano, non il regresso verso uno sfruttamento
dell'uomo. Esige una considerevole riduzione della serie di trattamenti
obbligatori, ma non impedisce a nessuno di farsi insegnare o curare
se lo desideri. Una società conviviale non è una società congelata.
La sua dinamica dipende dall'ampia ripartizione del controllo dell'energia,
cioè del potere di operare un cambiamento reale. Nel sistema attuale
di obsolescenza programmata su larga scala, alcuni centri di decisione
impongono l'innovazione all'intera società e privano le comunità
di base del potere di scegliersi il loro domani; in tal modo è lo
strumento a imporre la direzione e il ritmo dell'innovazione. Un
processo ininterrotto di ricostruzione conviviale è possibile a
condizione che il corpo sociale protegga il potere delle persone
e delle collettività di modificare e rinnovare i loro modi di vivere,
i loro strumenti, il loro ambiente, in altri termini il potere di
dare al reale un volto nuovo. In questa minaccia che l'industria
fa incombere sul passato e l'avvenire, sulla tradizione dell'utopia,
sta la quinta dimensione in cui va salvaguardato l'equilibrio. La
polarizzazione sociale, si è visto, risulta da due fattori combinati:
l'aumento del costo dei beni e dei servizi prodotti e confezionati
dall'industria, e la rarità crescente degli impieghi considerati
altamente produttivi. L'obsolescenza, dal canto suo, produce la
svalorizzazione. Questa svalorizzazione non è effetto di
un tasso generale di cambiamento, ma del cambiamento che subiscono
i prodotti che esercitano un monopolio radicale. La polarizzazione
sociale è determinata dal seguente fatto: il costo dei beni
e dei servizi standardizzati è divenuto tale che la maggior parte
della gente non può accedere al loro insieme; più se ne aumenta
la produzione, più si egualizza una distribuzione, più si esclude
il consumatore dal controllo su ciò che riceve. L'obsolescenza,
da parte sua, può divenire intollerabile anche a chi non è espulso
dal mercato: essa obbliga il consumatore a staccarsi continuamente
da ciò che è stato costretto a desiderare, pagare e installare nella
sua esistenza. La necessità artificiale e l'obsolescenza pianificata
sono due dimensioni distinte della sovrefficienza, che sostengono
una società in cui il livello di consumo non solo rispecchia ma
crea la gerarchia del privilegio.
Ciò che più importa non è che l'obsolescenza forzata distrugga vecchi
modelli o vecchi sistemi, che Ford si sbarazzi di un tipo d'auto
non fornendo più pezzi di ricambio, o che la polizia escluda dalla
circolazione le automobili vecchie, che non rispondono alle ultime
norme di sicurezza. Per mancanza di benzina o per desiderio di efficienza,
si può anche sostituire l'automobile con l'aerotreno. Il rinnovamento
è intrinseco a un modo di produzione industriale accoppiato a un'ideologia
di progresso. Il prodotto non può essere migliorato se non riattrezzando
la megamacchina; e perché ciò «renda», occorre creare immensi
mercati in finzione del nuovo modello. La maniera migliore
di aprire un mercato è di assimilare il nuovo prodotto a un importante
privilegio. Se l'identificazione riesce, il vecchio modello è svalorizzato
e il consumatore si abbandona all'ideologia dello sviluppo illimitato
nel quale egli si integra al ritmo della migliorata «qualità» del
bene di consumo. Gli individui, ma anche i paesi, si classificano
socialmente secondo l'anzianità del loro stock di strumenti e di
beni. Alcuni, la minoranza, possono permettersi il lusso di avere
sempre l'ultimo modello, gli altri si servono ancora di armi, automobili,
lavatrici e medicinali vecchi di cinque o quindici anni; probabilmente
passano le vacanze in alberghi altrettanto fuori moda, cioè declassati.
Il livello di obsolescenza del loro consumo indica esattamente dove
si trovano nella scala sociale.
La classificazione sociale degli individui in base all'età degli
oggetti che utilizzano non è appannaggio del solo capitalismo. Ovunque
l'economia sia fondata sulla produzione e confezione massive di
beni e servizi soggetti a usura, solo pochi privilegiati hanno accesso
alle ultime novità. Solo poche infermiere partecipano ai corsi di
anestesia più moderni, e solo alcuni burocrati possono viaggiare
a bordo dell'ultimo modello di auto o aereo. Ognuno, nell'élite
costituita in seno alla minoranza, riconosce e classifica l'altro
secondo l'età dei suoi strumenti, se non dell'equipaggiamento domestico,
per lo meno del materiale d'ufficio.
L'innovazione costa cara, e per giustificare la spesa il dirigente
deve provare che essa è un fattore di progresso. Per tradurre in
cifre questo progresso, in una economia pianificata il dipartimento
di ricerca e sviluppo chiama in proprio aiuto la pseudo-scienza,
mentre in una economia di mercato l'ufficio vendite fa ricorso a
ricerche di mercato. In ogni caso, l'innovazione periodica alimenta
la credenza che l'ha generata, l'illusione che il nuovo corrisponda
al meglio. Questa credenza è divenuta parte integrante della mentalità
moderna. Si dimentica soltanto che tutte le volte che una società
industriale si nutre di tale illusione, ogni nuova unità lanciata
sul mercato crea più bisogni di quanti non ne soddisfi. Se ciò che
è nuovo è migliore, ciò che è vecchio non è realmente buono; la
sorte dell'umanità, nella sua schiacciante maggioranza, è allora
ben triste. Il nuovo modello produce una nuova povertà. Il consumatore,
l'utente, risente duramente la distanza tra ciò che ha e ciò che
sarebbe meglio avere. Misura il valore di un prodotto dalla sua
novità, e si presta a un'educazione permanente, ai fini del consumo
e dell'uso dell'innovazione. Niente sfugge all'obsolescenza, neppure
i concetti. La logica del «sempre meglio» sostituisce quella del
bene come norma strutturante dell'azione.
Una società impegnata nella corsa allo «star meglio» sente come
una minaccia l'idea stessa di una qualsiasi limitazione del progresso.
È così che l'individuo che non cambia oggetti o terapie conosce
il rancore del fallimento e chi ne cambia scopre la vertigine della
carenza. Ciò che ha lo nausea, e ciò che vuole avere lo fa soffrire.
Il cambiamento accelerato produce su di lui gli stessi effetti che
l'assuefazione a una droga: si prova, si ricomincia, ci si abitua,
si crede di potersi controllare, ci si ammala, si crolla. La dialettica
della storia va in frantumi. Il rapporto tra il presente e la tradizione
svanisce. Il linguaggio perde le sue radici, la memoria sociale
si raggela, il precedente cessa di avere influenza sul Diritto.
L'accordo sull'azione legale, sociale e politica si orienta così
verso l'alchimia futurologica.
Ma se si stabilissero confini alla crescita, si obietta, e se ci
si mettesse a produrre una somma finita e durevole di beni industrializzati,
sarebbe la fine per la libertà di sperimentare e di innovare. L'obiezione
sarebbe giustificata se qui mi stessi occupando di un nuovo modello
di economia di sviluppo. Oggi il modello ultima moda è appunto una
produzione pulita e limitata di beni, e uno sviluppo illimitato
di servizi. Ma non è questo che mi interessa, perché non parlo dell'avvenire
della società industriale, ma del passaggio ad una società in cui
i modi di produzione siano diversificati. La limitazione del prodotto
industriale ha, per noi, lo scopo di liberare l'avvenire, di aprirlo
alla sorpresa delle azioni personali.
L'innovazione industriale è programmata, banale, reazionaria. Il
rinnovamento fondato sull'uso di strumenti conviviali avrà la spontaneità
e la freschezza degli esseri che li maneggeranno. Oggi il progresso
del saper fare è inceppato dall'assimilazione della ricerca scientifica
allo sviluppo industriale. La maggior parte degli strumenti di ricerca
è riservata a ricercatori programmati perché interpretino il mondo
in termini di profitto e di potere. E la maggior parte degli scopi
della ricerca è determinata da moventi di potenza e di efficienza.
La maggior parte del costo della ricerca è dovuta al suo carattere
segreto, competitivo, impersonale. Al contrario, niente impedisce
che la ricerca conviviale sia anche una ricerca fondamentale. La
ricerca condotta per passione ci riserva, ne sono convinto, più
sorprese che quella del granello di sabbia che blocca la grossa
macchina. L'innovazione del sapere, come quella del potere, può
fiorire soltanto là dove sia protetta dall'obsolescenza industriale.
Una società stagnante sarebbe altrettanto insopportabile per l'uomo
quanto la società dell'accelerazione: tra le due si colloca la società
di innovazione conviviale. Il cambiamento accelerato toglie ogni
senso all'idea di una società retta dal Diritto. La ragione è che
il Diritto si fonda sul precedente. Al di là di una certa soglia
di accelerazione, non c'è più posto per questo riferimento al precedente,
e quindi per il giudizio. Perdendo la possibilità del ricorso al
Diritto, la società si condanna all'educazione. L'esercizio del
controllo sociale al servizio di un piano diventa compito
da specialisti. L'ideologo rimpiazza il giurista. L'educatore dispone
l'individuo ad essere addestrato e riaddestrato lungo tutta la sua
esistenza. Cento volte si rimette quest'opera sul telaio, per produrre
un individuo affascinato dal profitto e sempre più adatto alle esigenze
dell'industria. La produzione di strumenti allo scopo di adattare
l'uomo al suo contesto diventa l'industria dominante quando il ritmo
di cambiamento dell'ambiente supera una certa soglia. La ricostruzione
conviviale esige che sia limitato il tasso di obsolescenza e di
innovazione obbligatoria. L'uomo e un essere fragile. Nasce nel
linguaggio, vive nel diritto e muore nel mito. Sottoposto a un cambiamento
smisurato, perde la sua dignità di uomo.
L'insoddisfazione
Abbiamo passato in rassegna cinque circuiti diversi. In ognuno di
essi, lo strumento sovrefficiente minaccia un equilibrio. Minaccia
l'equilibrio del corpo, minaccia l'equilibrio dell'energia,
minaccia l'equilibrio del sapere, minaccia l'equilibrio
del potere, minaccia infine il diritto alla storia.
La perversione dello strumento minaccia di devastare l'ambiente
fisico. Il monopolio radicale minaccia di gelare la creatività.
La superprogrammazione minaccia di trasformare il pianeta in una
vasta area di servizi. La polarizzazione minaccia di instaurare
un dispotismo strutturale e irreversibile. Infine, l'obsolescenza
minaccia di sradicare la specie umana. In ciascuno di questi circuiti,
e ogni volta secondo una dimensione diversa, lo strumento sovrefficiente
intacca il rapporto dell'uomo col suo ambiente: minaccia di provocare
un fatale corto circuito.
La nostra analisi sarebbe incompleta se riguardasse un solo circuito
con esclusione degli altri. Ognuno di questi equilibri deve essere
protetto. Gli output di una energia pulita possono essere
equamente distribuiti da un monopolio radicale intollerabile. La
scuola obbligatoria o i media onnipresenti possono intaccare
l'equilibrio del sapere e aprire la strada a una polarizzazione
della società, cioè a un dispotismo del sapere. Qualsiasi industria
può generare un'accelerazione insopportabile dei ritmi di obsolescenza.
Le culture sono fiorite nel cuore di una molteplicità geografica
oggi minacciata; ma, attualmente, anche l'ambiente sociale e quello
psichico rischiano la distruzione. La specie umana sarà forse avvelenata
dall'inquinamento; ma può anche dissolversi e sparire per mancanza
di linguaggio, di diritto o di mito. Il monopolio radicale degrada
l'uomo e la polarizzazione lo minaccia; ma lo shock del futuro può
disintegrarlo.
In
ognuno dei circuiti considerati, come si è visto, si possono determinare
dei criteri e reperire delle soglie, che permettono di verificare
la degradazione dei diversi equilibri. E possibile designare queste
soglie in un linguaggio comprensibile a tutti. Nel corso di un processo
politico, la popolazione può servirsi ditali criteri per mantenere
lo sviluppo dello strumento al di qua delle soglie critiche. I limiti
così tracciati circoscriverebbero i tipi di strutture delle forze
produttive che restano controllabili dalla popolazione: il potere
di indicare tali limiti costituisce l'appendice tecnopolitica necessaria
ad ogni costituzione contemporanea. Al di là, lo strumento sfugge
a ogni controllo politico. Il potere che l'uomo ha di far valere
il proprio diritto sparisce allorché egli si lega a dei processi
nei quali non ha più alcuna voce in capitolo. Nella misura in cui
può ancora goderne, i] suo corpo, il tempo libero, la libertà e
gli affetti, in breve il senso della sua vita, gli vengono concessi
in quanto fattori che ottimizzano la logica dello strumento. In
questo stadio l'uomo è diventato materia prima per la megamacchina,
la più malleabile delle materie prime. Le soglie critiche delimitano
uno spazio che è quello della sopravvivenza umana. Se questo spazio
non è segnato dal Diritto, dignità e libertà della persona saranno
schiacciate.
Attualmente la ricerca scientifica si orienta in modo massiccio
verso questa riduzione dell'uomo, perseguendo due obiettivi: da
una parte assicurare l'avanzata tecnologica che permetta di produrre
meglio prodotti migliori, dall'altra applicare l'analisi dei sistemi
alla manipolazione della sopravvivenza della specie umana per preservarne
meglio il consumo. Per permettere all'uomo di espandersi, la ricerca
futura deve andare in un senso radicalmente opposto, deve andare
alla radice del male. Chiamiamola ricerca radicale. Anche
la ricerca radicale persegue due obiettivi: da una parte fornire
i criteri che consentano di determinare quando uno strumento tocca
la soglia di nocività; dall'altra inventare degli strumenti che
ottimizzino
l'equilibrio della vita, e quindi massimizzino la libertà di ~ ognuno.
Il primo obiettivo mira alla formulazione delle cinque classi di
soglie identificate precedentemente; il secondo mira alle limitazioni
delle tecniche del benessere.
La ricerca radicale non è né una nuova disciplina scientifica, né
un'impresa interdisciplinare. E l'analisi dimensionale della relazione
dell'uomo col suo strumento.
Nessuno potrà negare che la sua esistenza sociale si sviluppa su
diverse scale, in diversi ambienti concentrici: la cellula di base,
l'unità di produzione, la città, lo Stato, infine la Terra. Ognuno
di questi ambienti ha il suo spazio ed il suo tempo, i suoi livelli
di popolazione e le sue risorse energetiche. C'è disfunzione dello
strumento in uno di questi ambienti quando lo spazio, il tempo e
l'energia richiesti dall'insieme degli strumenti eccedono la scala
naturale corrispondente. Queste scale naturali possono essere
identificate, senza con ciò pretendere di poter dire qualcosa circa
la natura dell'uomo o della società. Esse definiscono in termini
negativi e di proscrizione lo spazio all'interno del quale
il fenomeno umano può essere osservato: ma non contribuiscono affatto
a stabilire di quale natura tale fenomeno sia, non più di quanto
formulino prescrizioni. In questo senso, si può parlare dell'omeostasi
dell'uomo nel suo ambiente, che ogni disfunzione dello strumento
mette in pericolo, e definire la politica come il processo attraverso
il quale gli uomini assumono la responsabilità di questa omeostasi.
E tempo di smetterla di definire i bisogni umani in termini astratti
per poi sottoporli, come problemi, al trattamento della tecnocrazia,
che pratica il metodo dell'escalation. E tempo di cominciare a cercare
all'interno di quali confini determinate collettività di uomini
concreti possono servirsi della tecnica per soddisfare i loro bisogni
senza recare pregiudizio agli altri. Identificare l'anatema segna
il primo passo della ricerca radicale.
Le
soglie al di là delle quali si profila la distruzione sono tutt'altra
cosa dai mobili limiti cui una società assoggetta volontariamente
l'uso dei propri strumenti. Le soglie marcano il campo della sopravvivenza
possibile, i limiti opzionali disegnano il recinto di una cultura.
Le soglie naturali sono imposte dalla necessità, i limiti culturali
sono frutto della libertà. Le soglie configurano il diritto costitutivo
di qualunque società, i limiti prefigurano la giustizia conviviale
di una società determinata. La necessità di stabilire delle soglie
e di non superare i confini così definiti è uguale per tutte le
società; la fissazione dei limiti dipende dal modo di vita e dal
grado di libertà desiderati da ciascuna collettività.
C'è una forma di disfunzione nella quale lo sviluppo non distrugge
ancora la vita, ma già perverte l'uso dello strumento. Lo strumento
non è ottimale, ma neppure intollerabile; ancora tollerabile ma
già sovrefficiente, degrada un equilibrio di carattere più soggettivo
e più sottile di quelli sopra descritti: l'equilibrio dell'azione,
cioè l'equilibrio tra il prezzo personale pagato e il risultato
ottenuto, la coscienza che mezzi e fini si equilibrano. Quando
lo strumento asservisce il fine che dovrebbe servire, l'utente cade
in preda a una profonda insoddisfazione. Se non molla 10 strumento,
o se lo strumento non molla lui, impazzisce. Nell'Ade il castigo
più spaventoso era riservato al blasfemo: il giudice degli inferi
lo condannava a un'attività frenetica. La pietra di Sisifo è lo
strumento pervertito. Il colmo è che, in una società dove questo
tipo di attività è la regola, gli uomini vengono educati a rivaleggiare
tra loro per conquistare il diritto di autofrustrarsi. Resi muti
dalla rivalità, accecati dal desiderio, fanno a chi arriverà per
primo a essere intossicato dallo strumento.
Come
ho dimostrato altrove[5]
, il predominio del trasporto sulla circolazione della gente
può servire a illustrare la differenza tra ciò che è confine dell'equilibrio
e quello che è invece un limite scelto per far fiorire l'uguaglianza
nel godimento della libertà. Proteggere l'ambiente può significare
divieto dei trasporti supersonici. Evitare che la polarizzazione
sociale diventi intollerabile, può significare divieto dei trasporti
aerei. Difendersi contro il monopolio radicale può significare divieto
dell'automobile. In assenza di tali misure, il trasporto minaccia
la società. L'equilibrio tra fini e mezzi che qui sottolineo ci
fornisce un nuovo criterio di selezione dello strumento. La considerazione
di questo nuovo equilibrio ci condurrà forse a bandire tutti i trasporti
pubblici a velocità superiore a quella della bicicletta. Ogni veicolo,
quale che sia, la cui velocità massima superi una certa soglia,
accresce la perdita di tempo e di denaro dell'utente medio. Ogni
volta che in un punto del sistema di circolazione la velocità massima
sopravanza una certa soglia, più persone dovranno passare più tempo
alla fermata dell'autobus, agli sbocchi ingorgati, o in un letto
d'ospedale. Ciò significa anche che passeranno più tempo a pagare
il sistema di trasporto che sono costretti a usare. La soglia critica
di una velocità dipende da una molteplicità di fattori: condizioni
geografiche, culturali, economiche, tecniche, finanziarie. Con
tante variabili per una incognita, si potrebbe pensare che la forbice
di valutazione della soglia critica di velocità sia molto larga.
Niente
affatto. È anzi talmente bassa e talmente stretta da sembrare
improbabile alla maggior parte degli specialisti della circolazione.
Si
ha disfunzione nella circolazione non appena questa ammette, in
un punto qualunque del sistema, una velocità superiore a quella
di una bicicletta, che può pertanto servire da criterio per determinare
la soglia critica di velocità. Ogni volta che si supera questa
barriera in un punto qualsiasi del sistema, aumenta la somma di
tempo dedicata dall'insieme degli utenti al servizio dell'industria
dei trasporti.
La
sovrabbondanza di beni genera scarsità di tempo. Il tempo diventa
scarso un po' perché ci vuole tempo per consumare e farsi curare,
e un po' perché, una volta assuefatti alla produzione, farne a meno
diventa ancora più costoso Quanto più il consumatore si arricchisce,
tanto più è cosciente dei gradini che ha scalato, sul lavoro come
in casa. Più sta in alto nella piramide produttiva, meno ha tempo
per abbandonarsi ad attività non traducibili in termini contabili.
Diventa difficile guadagnare tempo quando s accendono troppe ipoteche
sull'avvenire. Come ha rilevato Staffan Linder, noi tendiamo a sovraimpiegare
il futuro; I quando il futuro diventa presente, si ha continuamente
i senso di non avere abbastanza tempo, semplicemente per che si
sono previste giornate di trenta ore. Quasi non bastasse che il
tempo costa più o meno caro e, in generale sempre più caro in una
società d'abbondanza, il sovraimpiego del futuro genera uno stress
devastante.
L'industria
dei trasporti produce scarsità di tempo. Il una società in cui molta
gente impiega veicoli rapidi, tutti debbono dedicarvi più
tempo e più denaro. Una volta rotti l'equilibrio e superata la soglia
di velocità, la rivalità fra l'industria del trasporto e le altre
industrie per controllare gli spazi e l'energia disponibili diventa
feroce; e mentre li velocità aumenta in modo lineare, la zuffa cresce
in misuri esponenziale. Il tempo dedicato alla circolazione usurpi
l'attività lavorativa come divora il tempo libero.
I
veicoli più grossi non devono mai essere vuoti, i più rapi di devono
muoversi senza sosta. Le capsule individuali diventano sproporzionatamente
costose. I trasporti pubblici non possono più servire altro che
i grandi assi. Bisogna che la macchina giri, sempre più velocemente.
Man mano che l: sua velocità aumenta, il veicolo diventa il tiranno
dell'esistenza quotidiana. Si prevede un certo tempo, e poi ne occorre
il doppio. Si prendono impegni con mesi e persino anni d anticipo.
Alcuni di questi impegni, presi a caro prezzo, noi possono essere
mantenuti. Si è dominati dal senso dell'impotenza. Si vive sotto
tensione. L 'uomo non è programmabile a volontà. Quando la soglia
critica per l'equilibrio dell'azione viene oltrepassata, è il momento
del grande duello tra l'industria della velocità e le altre per
decidere chi spoglierà l'uomo della parte di umanità che ancora
gli rimane. La velocità è il vettore-chiave per palesare come l'industria
del trasporto intacca l'equilibrio vitale. Se si considerano le
prime cinque dimensioni, ne occorre molto meno di quanto si potrebbe
credere perché i trasporti si rivolgano contro l'uomo spezzando
le scale naturali. Ma c'è un altro fatto ancora più sorprendente.
La velocità che, applicando l'insieme dei primi cinque criteri definiti,
appare tollerabile, è dello stesso ordine di grandezza della velocità
che ottimizza la circolazione desiderabile, cioè della velocità
che, col minor costo di tempo sociale, assicura insieme l'equità
del raggio d'azione e delle possibilità di accesso massimalizzate
dalla tecnica La grande varietà delle gamme d'ordine tecnico che
contrassegnano le rispettive cerchie delle diverse civiltà si iscrive
perfettamente nello spazio della tecnologia tollerabile. I confini
del tollerabile coincidono, nell'ordine di grandezza, col limite
superiore della gamma del desiderabile. Questa constatazione del
controsenso rappresentato dalla sovrapproduzione non vale soltanto
per i trasporti. Lo stesso tipo di risultati negativi si ritrova
esaminando gli investimenti per la medicina. Si è calcolato che
negli Stati Uniti più del 95 per cento delle spese sanitarie per
malati vicini a morire non ha alcun effetto benefico sulla loro
salute, ma tende a intensificare le loro sofferenze, a renderli
completamente dipendenti da cure impersonali, senza prolungare la
durata della loro esistenza. La redditività massima di un servizio
si situa all'interno di certi limiti: superata una certa soglia,
la salute di un paziente finisce col misurarsi dal suo conto d'ospedale,
allo stesso modo che la ricchezza di una nazione si misura dalla
sua nota-spese globale che è il Prodotto Nazionale Lordo. Alla scala
dell'individuo come a quella della collettività, bisogna sempre
pagare. Bisogna pagare per remunerare il capitale, e bisogna pagare
i cocci rotti dallo sviluppo. Praticando l'escalation della
tecnica, la medicina prima cessa di guarire, poi cessa di prolungare
la vita umana. Si trasforma in rituale di negazione della morte:
l'individuo sovradattato alla macchina compie il suo ultimo spettacolare
giro di pista, segnando il tempo migliore.
Il
primo passo di una ricerca radicale sta nello studio delle crescenti
disutilità marginali e delle minacce generate dallo sviluppo. In
una seconda fase, si applica a scoprire i sistemi e le istituzioni
che ottimizzano i modi di produzione conviviali. Una simile ricerca
si scontra con molteplici resistenze, fra cui non sono le meno forti
quelle d'ordine psicologico. L'uomo sovrattrezzato è come il morfinomane:
l'assuefazione deforma l'intero suo sistema di valori e mutila la
sua capacità di giudizio. I drogati di ogni genere sono pronti a
pagare sempre di più per godere sempre meno. Tollerano l'escalation
della disutilità marginale. Non c'è nulla che possa scuoterli perché
uno solo è il pensiero che li assorbe: far salire la posta. Una
mentalità di questo tipo considera lo strumento di trasporto come
un mezzo per procurarsi il piacere della velocità, non per fruire
di maggiore libertà e gioia nella circolazione. Difficilmente ammetterà
l'evidenza che la mobilità dell'uomo èd'ordine naturale e che nessuna
accelerazione del veicolo può far salire la mobilità di una società
al di là di un certo ordine di grandezza.
La
ricerca radicale evidenzia il rapporto tra l'uomo e lo strumento,
lo rende trasparente, identifica le risorse di cui disponiamo e
gli effetti che possiamo attenderci dai loro diversi impieghi possibili.
Evidenziare
la degradazione degli equilibri su cui si fonda la sopravvivenza,
è questo il compito immediato della ricerca radicale. Essa identifica
le categorie di popolazione più minacciate e le aiuta a discernere
la minaccia. A individui o a gruppi fino allora divisi fa prendere
coscienza che le stesse minacce pesano sulle loro libertà fondamentali.
Mostra come qualunque richiesta di libertà reale, da chiunque sia
formulata, coincide sempre con l'interesse dei più.
La
disassuefazione dallo sviluppo sarà dolorosa. Lo sarà per la generazione
di passaggio, e soprattutto per i più intossicati tra i suoi membri.
Possa il ricordo di tali sofferenze preservare dai nostri errori
le generazioni future.
IV.
I tre ostacoli all'inversione politica
Abbiamo
visto come l'equilibrio della vita si dispieghi in cinque dimensioni.
In ognuna di esse, solo il mantenimento dello specifico equilibrio
che la caratterizza garantisce l'omeostasi costitutiva della vita
umana: l'intervento nell'ecosfera rimane razionale solo a patto
di non superare i limiti genetici; l'istituzione suscita cultura
solo se consente e realizza un equilibrio sottile tra l'autonoma
azione personale e le direzioni obbligate che da parte sua impone;
l'annullamento delle barriere geografiche e culturali può promuovere
l'originalità sociale solo se si accompagna a una riduzione dello
scarto energetico tra i privilegiati e la maggioranza; un aumento
del tasso di innovazione ha valore solo se lascia spazio per un
più profondo radicamento nella tradizione e nella pienezza del senso.
Da
mezzo, lo strumento può diventare padrone e poi carnefice dell'uomo.
Il rapporto si rovescia più rapidamente che non s'immagini: l'aratro
fa dell'uomo prima il signore di un giardino, poi, ben presto, un
nomade in un sahel polveroso. Il vaccino che seleziona le
sue vittime genera una razza capace di sopravvivere solo in un ambiente
preconfezionato. I nostri bambini nascono più deboli in un mondo
inumano. L'Homo faber, da apprendista stregone, si trasforma
in vorace pattumiera.
Lo
strumento può svilupparsi in due modi: accrescendo il potere dell'uomo
o sostituendosi a lui. Nel primo caso, la persona conduce la propria
esistenza, ne assume il controllo e la responsabilità. Nel secondo
caso, è la macchina che finisce col prevalere: dapprima riducendo
le possibilità di scelta sia dell'operatore sia dell'utente-consumatore,
poi imponendo a entrambi la sua logica e le sue esigenze. La sopravvivenza
della specie, minacciata dall'onnipotenza dello strumento, dipende
dall'instaurazione di procedure che permettano a tutti di distinguere
chiaramente tra questi due modi di razionalizzare e impiegare lo
strumento e, in tal modo, incitino a scegliere la sopravvivenza
nella libertà. Questa esigenza si scontra però con tre ostacoli:
l'idolatria
della scienza, la corruzione del linguaggio quotidiano e la svalutazione
delle procedure formali mediante le quali vengono prese le decisioni
sociali.
La
demitizzazione della scienza
Innanzi
tutto, il dibattito politico è soggiogato da una illusione riguardo
alla scienza. Con questo termine si è finito per designare
non tanto un'attività personale quanto un'impresa istituzionale,
la soluzione di una serie di rompicapo anziché l'imprevedibile dispiegarsi
della creatività umana. La scienza oggi è un'agenzia di servizi
fantasma e onnipresente, che produce del sapere migliore, così
come la medicina produce una migliore salute. Il danno causato da
questo misconoscimento della natura del sapere è ancora più radicale
del male prodotto dalla mercantilizzazione dell'educazione, della
salute e del movimento. Il miraggio della salute migliore corrompe
il corpo sociale in quanto ognuno si preoccupa sempre meno della
qualità dell'ambiente, dell'igiene del modo di vivere o della propria
capacità di curare gli altri. L'istituzionalizzazione del sapere,
invece, provoca una degradazione globale più profonda perché determina
la struttura comune degli altri prodotti. In una società che si
definisce dal consumo del sapere, la creatività è mutilata, l'immaginazione
si atrofizza.
Questa perversione della scienza nasce dalla credenza in due specie
di sapere: quello, inferiore, dell'individuo e quello, superiore,
della scienza. Il primo apparterrebbe alla sfera dell'opinione,
sarebbe l'espressione di una soggettività, e non avrebbe nulla a
che fare col progresso. Il secondo sarebbe obiettivo, definito scientificamente
e diffuso da portavoce competenti. Questo sapere obiettivo è
considerato come un bene che può essere accumulato e continuamente
perfezionato. Costituisce una risorsa strategica, un capitale, la
più preziosa delle materie prime, l'elemento-base del cosiddetto
decision-making, di quella «presa di decisione» che a sua
volta è concepita come un processo impersonale e tecnico. Sotto
il nuovo regno del calcolatore e della dinamica di gruppo, il cittadino
abdica a ogni potere in favore dell'esperto, unico competente.
Il
mondo non è portatore di nessun messaggio, di nessuna informazione.
E quello che è. Ogni messaggio concernente il mondo è prodotto da
un organismo vivente che agisce su di esso. Quando si parla di informazioni
accumulate al di fuori dell'organismo umano si cade in una trappola
semantica. I libri e i calcolatori fanno parte del mondo: forniscono
dati quando c'è un occhio che li legga. Confondendo il medium
con il messaggio, il veicolo con l'informazione, i dati con
la decisione, noi releghiamo disinvoltamente il problema del sapere
e della conoscenza nel punto cieco della nostra visione intellettuale.
Intossicati
dalla credenza in un avvenire migliore, gli individui cessano di
fidarsi del proprio giudizio e chiedono che gli si dica la verità
su ciò che «sanno». Intossicati dalla credenza in un migliore decision-making,
stentano a decidere da soli e ben presto perdono fiducia nella
propria capacità di farlo. La crescente impotenza dell'individuo
a decidere da solo incide sulla stessa struttura delle sue aspettazioni.
Mentre una volta gli uomini si disputavano delle risorse realmente
scarse, oggi reclamano un meccanismo distributore per colmare una
carenza che è solo illusoria. Il rituale burocratico organizza il
consumo frenetico del menù sociale: programma d'educazione, trattamento
medico o azione giudiziaria. Il conflitto personale non ha più alcuna
legittimità, dal momento che la scienza promette l'abbondanza per
tutti e pretende di dare a ciascuno secondo le sue esigenze personali
e sociali, obiettivamente identificate. Gli individui, che hanno
disimparato a riconoscere i propri bisogni come a reclamare i propri
diritti, divengono preda della megamacchina che definisce in vece
loro le loro esigenze e rivendicazioni. La persona non può più contribuire
di suo al continuo rinnovamento della vita sociale. L'uomo arriva
a diffidare della parola, pende da un sapere presunto. Il voto rimpiazza
la discussione, la cabina elettorale il tavolino del caffè. Il cittadino
si siede dinanzi allo schermo e tace.
Le
regole del senso comune che permettevano alla gente di unire e scambiarsi
le proprie esperienze sono distrutte. Il consumatore-utente ha bisogno
della sua dose di sapere garantito, accuratamente preconfezionato.
Trova la propria sicurezza nella certezza di leggere lo stesso giornale
del vicino, di guardare la stessa trasmissione televisiva del suo
padrone. Si accontenta di avere accesso allo stesso rubinetto di
sapere del suo superiore, anziché perseguire l'uguaglianza di condizioni
che darebbe alla sua parola lo stesso peso di quella del suo padrone.
La dipendenza, che tutti accettano come ovvia, nei confronti del
sapere altamente qualificato prodotto dalla scienza, dalla tecnica
e dalla politica, erode la fiducia tradizionale nella veracità del
testimone e svuota di senso i modi con cui gli uomini possono scambiarsi
le proprie certezze. Persino davanti ai tribunali, la perizia rivaleggia
in importanza con le testimonianze: l'esperto è considerato quasi
come un testimone patentato, ci si dimentica che la sua deposizione
non rappresenta altro che un sentito dire, l'opinione di una professione.
Sociologi e psichiatri concedono o negano il diritto alla parola,
a una parola udibile. Riponendo la propria fede nell'esperto, l'uomo
si spoglia prima della sua competenza giuridica e poi di quella
politica. La fiducia nellonnipotere della scienza induce i
governi e i loro amministrati a cullarsi nell'illusione di poter
eliminare i conflitti suscitati da un'evidente rarefazione dell'acqua,
dell'aria o dell'energia, a credere ciecamente agli oracoli degli
esperti che promettono miracolose moltiplicazioni.
Nutrita del mito della scienza, la società abbandona agli esperti
persino la cura di fissare i limiti dello sviluppo. Una simile delega
di potere distrugge l'intero funzionamento politico; alla parola
come misura di tutte le cose sostituisce l'obbedienza a un mito,
e alla fine legittima in un certo senso anche la conduzione di esperimenti
sull'uomo. L'esperto non rappresenta il cittadino, fa parte di una
élite la cui autorità si fonda sul possesso esclusivo di un sapere
non comunicabile; ma questo sapere, in realtà, non gli conferisce
alcuna particolare attitudine a definire i confini dell'equilibrio
della vita. L'esperto non potrà mai dire dove si colloca la soglia
della tolleranza umana: è la persona che la determina, nella comunità;
e questo suo diritto è inalienabile. Certo, è possibile fare esperimenti
su esseri umani. I medici nazisti hanno esplorato i limiti di sopportazione
dell'organismo. Hanno scoperto quanto tempo l'individuo medio può
reggere alla tortura, ma questo non gli ha affatto rivelato ciò
che qualcuno può ritenere tollerabile. Significativamente, quei
medici furono condannati in base a un patto firmato a Norimberga
due giorni dopo la distruzione di Hiroshima e il giorno prima di
quella di Nagasaki.
Quanto
un popolo possa patire è un calcolo che nessun esperimento permette
di fare. Si può dire che cosa accade a un gruppo di individui particolari
posti in una situazione estrema: prigionieri, naufraghi o cavie;
ma ciò non può servire a determinare il grado di sofferenza e di
frustrazione che una data società accetterà di subire a causa degli
strumenti che essa stessa si è procurata. Indubbiamente, determinate
misurazioni scientifiche possono indicare che un certo tipo di comportamento
minaccia un equilibrio vitale maggiore; ma solo una maggioranza
di uomini di giudizio, che conoscono la complessa realtà quotidiana
e che ne tengono conto nelle loro azioni, può stabilire come vanno
limitati i fini perseguiti dagli individui e dalla società. La scienza
può chiarire le dimensioni del regno dell'uomo nel cosmo; ma occorre
una comunità politica di uomini coscienti della forza della loro
ragione, del peso della loro parola, della serietà dei loro atti
per scegliere, liberamente, l'austerità capace di garantire la loro
vitalità.
La
riscoperta del linguaggio
Tra
il 1830 e il 1850, una dozzina di scienziati scopri e formulò la
legge della conservazione dell'energia. La maggior parte di essi
era costituita da ingegneri che, ognuno per conto proprio, ridefinirono
l'energia cosmica in termini di peso sollevabile da una macchina.
Grazie alle operazioni di misura effettuate in laboratorio, si credette
infine di poter ridurre a un denominatore comune l'energia primordiale,
la vis viva della tradizione. Fu allora che le scienze esatte
presero a dominare la ricerca.
Durante
lo stesso periodo, e in maniera analoga, l'industria cominciò ad
affermarsi sugli altri modi di produzione.
I
risultati industriali divennero misura e regola dell'intera economia,
e ben presto tutte le attività produttive alle quali non potevano
applicarsi le regole di misura e i criteri di efficienza validi
per la produzione in serie furono considerate sussidiarie: così
i lavori domestici, l'artigianato e l'agricoltura di sussistenza.
Il modo di produzione industriale cominciò dapprima col degradare
la rete dei rapporti produttivi che erano fino allora coesistiti
nella società, e poi la paralizzò.
Questo
monopolio esercitato da un unico modo di produzione su tutte le
relazioni produttive è più insidioso e pericoloso della concorrenza
tra imprese rivali, ma è anche meno visibile. Conoscere il vincitore
nella concorrenza di superficie è facile: è la fabbrica a forte
intensità di capitale, l'azienda meglio organizzata, il ramo industriale
più schiavistico e meglio protetto, l'impresa che sa meglio contenere
gli sprechi o quella che ha maggiori commesse di armamenti. Su più
vasta scala, questa gara prende la forma di una concorrenza tra
imprese multinazionali e paesi in via d'industrializzazione. Ma
questa mortale partita fra titani distoglie l'attenzione da quella
che è la sua funzione rituale: man mano che il campo di concorrenza
si estende, una medesima struttura industriale si diffonde p~ il
mondo e polarizza la società. Il modo di produzione industriale
afferma il proprio dominio non soltanto sulle risorse e sulle attrezzature,
ma anche sull'immaginazione e sui desideri d'un sempre maggior numero
di individui. E il monopolio radicale generalizzato, non più quello
di un singolo ramo d'industria ma quello del modo di produzione
industriale. Si può dire che l'uomo stesso è industrializzato.
I sistemi politici gareggiano in ingegnosità e agilità semantica
per battezzare con nomi opposti questa medesima struttura industriale
ovunque in espansione, senza comprendere che essa sfugge ovunque
al loro controllo. Anzi, l'antagonismo tra paesi poveri e ricchi,
tra nazioni sottoposte a una pianificazione centrale e nazioni in
cui regna la legge del mercato, è la maschera necessaria perché
il monopolio appaia benefico.
Estesa al mondo intero, questa industrializzazione dell'uomo provoca
la degradazione di tutte le lingne, e diventa difficilissimo trovare
le parole che parlino di un mondo opposto a quello che le ha generate.
La lingua riflette il monopolio che il modo di produzione industriale
esercita sulla percezione e la motivazione. Nei paesi industriali,
quando l'uomo parla del suo fare, usa parole che designano i prodotti
dell'industria. La lingua rispecchia la materializzazione della
coscienza. L'individuo che impara qualcosa leggendo un libro dice
di aver acquisito educazione. Lo slittamento funzionale dal
verbo al sostantivo sottolinea l'impoverimento della immaginazione
sociale. L'uso nominalistico della lingua esprime dei rapporti di
proprietà: la gente parla del lavoro che ha. In tutta
l'America Latina solo i salariati dicono che hanno (o non
hanno) lavoro, a differenza dei contadini che invece lo fanno:
«Van a trabajar, pero no tienen trabajo». I lavoratori moderni
e sindacalizzati reclamano dall'industria non soltanto più beni
e servizi, ma anche più posti di lavoro. Non soltanto il fare ma
anche il volere è sostantivato. L'«abitazione» è più una merce che
un'attività; l'alloggio diventa un prodotto che ci si procura o
si rivendica perché si è privi del potere di dargli forma da se
stessi. Si acquista sapere, mobilità, persino sensibilità o salute.
Si ha lavoro o salute, come si hanno divertimenti.
Il
passaggio dal verbo al sostantivo rispecchia l'impoverimento del
concetto di proprietà. Termini come possesso, appropriazione,
abuso non servono più per definire il rapporto dell'individuo
o del gruppo con una istituzione come la scuola: nella sua funzione
essenziale, infatti, un simile strumento sfugge a ogni controllo.
Le affermazioni di proprietà nei riguardi dello strumento passano
a indicare la capacità di disporre dei suoi prodotti, si tratti
dell'interesse sul capitale o delle merci, o anche del prestigio
d'ogni sorta legato all'una o all'altra di queste operazioni. Il
consumatore-utente integrale, l'uomo pienamente industrializzato,
non ha infatti altro di suo se non ciò che consuma. Dice: la
mia educazione, i miei movimenti, i miei divertimenti, la mia salute.
Man mano che l'ambito del suo fare si restringe, egli richiede
dei prodotti di cui si dice proprietario. Assoggettato al
monopolio di un unico modo di produzione, l'utente ha perduto ogni
senso della pluralità dei modi di avere. Nelle parlate polinesiane
ci sono forme verbali distinte per esprimere la relazione che io
ho con i miei atti (che non possono più essere separati dalla mia
persona), con il mio naso (che mi può essere strappato), con i miei
parenti (che non sono stato io a scegliere), con la mia piroga (senza
la quale non sarei un vero uomo), con una bevanda (che vi offro)
e con la stessa bevanda (mentre mi appresto a berla).
In
una società in cui la lingua si è sostantivata, i predicati sono
formulati in termini di lotta concorrenziale contro la scarsità.
«Voglio imparare» diventa «voglio procurarmi un titolo di studio».
La decisione di agire è sostituita dalla richiesta di un biglietto
della lotteria scolastica. «Ho voglia di muovermi» si trasforma
in «ho bisogno di un mezzo di trasporto». All'insistenza sul diritto
di agire si sostituisce l'insistenza sul diritto di avere. Nel primo
caso il soggetto è attore, nel secondo utente. Il cambiamento linguistico
sorregge l'espansione del modo di produzione industriale: la concorrenza
regolata da valori industrializzati si riflette nella nominalizzazione
della lingua. La lotta concorrenziale prende inevitabilmente la
forma di un gioco (a somma zero) in cui la perdita di un giocatore
si risolve in guadagno per gli altri giocatori. Nella mischia, gli
individui giocano per i nomi così come li percepiscono: valorizzando
unicamente l'apprendimento che si svolge tra le sue mura, la scuola
definisce l'educazione come oggetto di competizione. L'alma
mater ha troppi piccoli attaccati alle sue mammelle: quello
che poppa la sua razione di educazione ne priva un fratello di latte.
Il conflitto personale non è necessariamente una lotta per impadronirsi
di un bene raro; può anche esprimere un disaccordo sui mezzi più
idonei ad assicurare l'autonomia della persona: in tal caso, diventa
creatore di libertà. Ma il linguaggio nominalistico ha oscurato
questa profonda verità, che il conflitto può essere creatore di
diritto per tutti e due gli avversari, creatore del diritto di far
cose che, per definizione, non sono né beni né oggetti rari. Il
conflitto porterà al diritto di muoversi, di parlare, di leggere,
di scrivere o di registrare su un piede di eguaglianza, di partecipare
al mutamento sociale, di respirare un'aria pura e di impiegare strumenti
conviviali. Con questo, priverà le due parti di un bene determinato,
per amore di un guadagno inestimabile: una nuova libertà condivisa
da tutti. Limitando il consumo forzato, si libera il campo dell'azione.
Il
codice operativo dello strumento industriale trascina nel proprio
ingranaggio il parlare quotidiano, e l'espressione umana ancorata
a una visione poetica della vita è tollerata appena, come una protesta
marginale e finché non disturbi la folla che fa la coda davanti
all'apparecchio che distribuisce i prodotti. Se non ci eleviamo
a un nuovo grado di coscienza, che ci permetta di ritrovare la funzione
conviviale del linguaggio, non arriveremo mai a rovesciare questo
processo di industrializzazione dell'uomo. Ma se ognuno si serve
della lingua per rivendicare il proprio diritto all'azione sociale
anziché al consumo, il linguaggio diverrà il mezzo per restituire
trasparenza al rapporto tra l'uomo e lo strumento.
Il
recupero del Diritto
Lo
scopo di gran lunga predominante dell'attività legislativa e del
Diritto, nelle loro forme attuali, è di sorreggere una società tesa
verso l'espansione indefinita. Il processo mediante il quale gli
uomini decidono che cosa si deve fare è oggi asservito all'ideologia
della produttività: bisogna produrre di più, più sapere e decisioni,
più beni e servizi. Dopo la perversione del sapere e della lingna,
la perversione del Diritto è il terzo ostacolo a una attualizzazione
politica dei limiti.
I
partiti, le sedi legislative e l'apparato giudiziario sono stati
sempre più adibiti a promuovere e tutelare la crescita delle scuole,
dei sindacati, degli ospedali e delle autostrade, per non parlare
delle fabbriche. A poco a poco, non soltanto la polizia ma anche
gli organi legislativi e i tribunali hanno finito per essere considerati
strumenti al servizio dello Stato industriale. Il fatto che talvolta
difendano l'individuo dalle pretese dell'industria è l'alibi che
maschera la loro docilità a servire il monopolio radicale e a legittimare
una sempre maggiore concentrazione dei poteri. A loro modo, i magistrati
diventano un corpo di ingegneri dello sviluppo. In regime di democrazia
popolare o capitalista, sono gli alleati «obiettivi» dello strumento
contro l'uomo.
Con
l'idolatria della scienza e la corruzione del linguaggio, questa
degradazione del Diritto è un ostacolo di prim'ordine alla ristrutturazione
degli strumenti della società.
Si
comprende che un'altra società è possibile quando si arriva a esprimerlo
chiaramente. Se ne provoca l'apparizione quando si scopre il procedimento
mediante il quale la società esistente prende le sue decisioni.
Se ne organizza la struttura quando si utilizzano la lingua materna
e le procedure tradizionali del Diritto per scopi opposti a quelli
che si prefigge il loro uso attuale. In ogni società, infatti, c'è
una struttura profonda che organizza la presa di decisioni. Questa
struttura esiste ovunque degli uomini si riuniscano. Il medesimo
processo può dar luogo a decisioni contraddittorie, perché la struttura
non serve solo alla definizione dei valori personali, ma anche alla
sopravvivenza di un comportamento istituzionalizzato. L'esistenza
di contraddizioni non contraddice l'esistenza di una struttura coerente
che le genera, al contrario. Io posso decidere di acquisire un'educazione,
anche se per un altro verso ho deciso che sarebbe meglio imparare
partecipando alla vita quotidiana. Posso lasciarmi portare all'ospedale,
anche se ho deciso che soffrirei meno e morirei più tranquillamente
restandomene a casa. Come l'intuizione di dissonanze cognitive è
il fondamento della poesia, così la coesistenza di norme contraddittorie
manifesta l'esistenza di procedure normative.
Gli
uomini non hanno più fiducia nelle procedure disponibili, non perché
siano state intrinsecamente pervertite, ma perché se ne fa un abuso
continuo. Le si usa per imbottire la gente di argomenti etici, politici
o legali; sono diventate rotelle della produzione illimitata. Le
Chiese predicano l'umiltà, la carità e la povertà, e finanziano
programmi di sviluppo industriale. I socialisti sono diventati i
difensori senza riserve del monopolio industriale. La burocrazia
del Diritto si è alleata con quelle dell'ideologia e del benessere
generale, per difendere la crescita dello strumento. Ben presto
sarà il calcolatore a decidere le idee, le leggi e le tecniche indispensabili
per lo sviluppo.
Se non ci si mette d'accordo su una procedura efficace, durevole
e conviviale, diretta a controllare gli strumenti della società,
l'inversione della struttura istituzionale esistente non potrà essere
né iniziata né, soprattutto, portata avanti. Ci saranno sempre dei
manager che vorranno aumentare la produttività dell'istituzione,
e dei tribuni che prometteranno la luna alle folle avide.
Ogni
volta che si propone di utilizzare il Diritto come strumento d'inversione
della società, vengono avanzate tre obiezioni. La prima è superficiale:
non tutti possono essere giuristi e dunque non tutti possono utilizzare
il Diritto in proprio. Naturalmente ciò è vero solo in una certa
misura. Potrebbero infatti stabilirsi, in particolari comunità,
dei sistemi paragiuridici, che potrebbero poi essere incorporati
nella struttura generale. Inoltre si potrebbe dare maggiore spazio
alla partecipazione dei non professionisti, che riuscirebbe certamente
preziosa nelle procedure di mediazione, di conciliazione o di arbitrato.
Ma questa obiezione, per fondata che sia, non coglie il punto. Poiché
il Diritto regola gli strumenti che governano la vita quotidiana,
non c'è alcun motivo per cui la maggior parte dei processi non possa
essere decentrata, demistificata e sburocratizzata. Resta il fatto
che certi problemi sociali si pongono su grande scala, sono complessi
e tali resteranno a lungo; richiedono perciò un'attrezzatura giuridica
a loro misura. Dovendo servire a vaste collettività umane, ciascuna
delle quali portatrice di una tradizione secolare, per negoziare
proscrizioni su scala mondiale il Diritto, in quanto processo di
regolazione di questi problemi sociali, è di fatto un'attrezzatura
che richiede l'opera di esperti. Ma ciò non significa che questi
esperti debbano essere dottori in legge o costituire un mandarinato.
La
seconda obiezione, invece, tocca direttamente il nostro discorso,
e va molto più lontano: gli attuali operatori dell'attrezzatura
giuridica della società sono profondamente intossicati dalla mitologia
dello sviluppo. La loro visione del possibile e del fattibile è
supinamente conforme all'indottrinamento industriale. Sarebbe follia
sperare che i dirigenti di una società produttivista si trasformino
in vestali della società conviviale. La portata di questa osservazione
è completata e sottolineata da una terza obiezione: il sistema giuridico
non è soltanto un insieme di regole scritte, è un processo continuo
attraverso il quale le leggi si adattano e si applicano a situazioni
reali. Attraverso la serie degli atti giuridici, la collettività
si dà un certo quadro mentale. Ne risulta un contenuto del Diritto
che riflette l'ideologia dei legislatori e dei giudici. Il modo
in cui questi percepiscono l'ideologia che soggiace a ogni cultura
diviene una mitologia ufficiale che si concretizza nelle leggi che
essi formulano e applicano. Il corpo delle leggi che regola una
società industriale ne riflette inevitabilmente l'ideologia, le
caratteristiche sociali e la struttura di classe, nello stesso tempo
in cui le rafforza e ne assicura la riproduzione. Quale che sia
la sua etichetta ideologica, ogni società moderna situa sempre il
bene comune nell'ordine del più: più potere alle imprese e agli
esperti, più consumo agli utenti.
Queste
obiezioni, pur se sottolineano una difficoltà fondamentale per
l'uso del Diritto al fine di rovesciare la società, non colpiscono
però il centro della questione. Io faccio una distinzione precisa
tra il corpo delle leggi e la struttura formale che lo elabora,
così come ho distinto tra l'uso degli slogan, ai quali le istituzioni
ricorrono, e la pratica del linguaggio quotidiano, e come distinguerò
poi tra l'insieme delle politiche e il processo formale che le
origina. È evidente che quando si tratta del Diritto, come del
sapere o del linguaggio, noi ci riferiamo alla struttura che governa
nel profondo l'attribuzione del senso. E dal pieno recupero e
dal libero uso ditale struttura che dipende il risveglio delle
forze capaci di trasfigurare «l'alleanza per il progresso».
In
un tempo in cui l'operazione è divenuta fine a se stessa,
non si insisterà mai abbastanza sulla distinzione tra i fini e i
mezzi, tra il procedimento e la sostanza. Noi viviamo in questo
mondo, in cui il linguaggio ci parla, il sapere ci pensa e il Diritto
ci agisce. Il linguaggio si riduce all'emissione e alla ricezione
di messaggi; il pensiero all'accumulazione delle informazioni; il
Diritto al regolamento del piano. Per ritrovare la distinzione cruciale
tra il procedimento e la sostanza, l'analisi del procedimento giuridico
può servirci da paradigma. Questa distinzione è infatti alla radice
di qualunque Diritto, anche se ogni esempio di Diritto si caratterizzi
per lo stile particolare del suo processo formale. Per sostenere
la mia argomentazione farò ricorso al diritto angloamericano.
L'esempio
del Diritto consuetudinario
La struttura formale della Common Law presenta due caratteri
dominanti e complementari che la rendono particolarmente adatta
al bisogni di un'epoca di crisi. Il sistema si fonda sulla continuità
e sulla opposizione antagonistica o contraddittoria delle parti
(adversary nature of the Common Law).
La
continuità inerente al processo di elaborazione del Diritto conserva,
in un certo senso, la sostanza del corpo delle leggi. Ciò non è
così evidente nella fase legislativa: il legislatore ha infatti
la più ampia libertà di innovare, purché resti all'interno del quadro
costituzionale. Ma ogni nuova legge deve iscriversi nel contesto
della legislazione esistente, e pertanto non può scostarsi troppo
dal diritto vigente.
È
chiaro che la funzione della giurisprudenza è di assicurare la continuità
della sostanza del Diritto, attualizzandola. I tribunali applicano
il Diritto a situazioni reali. La giurisprudenza giudica allo stesso
modo due casi identici o viceversa stabilisce che lo stesso fatto,
oggi, non significhi ciò che significava ieri. Il Diritto rappresenta
l'autorità sovrana che il passato esercita sul conflitto presente,
la continuità di un processo dialettico. Il tribunale riconosce
nella controversia una questione d'interesse sociale, e quindi incorpora
il giudizio pronunciato nel corpo del Diritto. Nel processo giuridico,
l'esperienza sociale del passato viene riattualizzata ai fini dei
bisogni presenti; in avvenire, il giudizio di oggi servirà a sua
volta come precedente per regolare altre vertenze.
La
continuità della struttura formale che regge il processo giuridico
non si riduce alla semplice incorporazione di un insieme di giudicati
in un insieme dileggi. Dal punto di vista meramente formale, questo
modo di continuità non mira a preservare il contenuto di questa
o quella legge: al contrario, potrebbe servire a preservare lo sviluppo
continuo del Diritto di una società retta da principi inversi. Nulla
vieta, nella maggior parte delle costituzioni, di legiferare su
una limitazione della produttività, dei privilegi burocratici, della
specializzazione o del monopolio radicale. In linea di principio,
purché sia orientata in senso inverso, la procedura legislativa
e giurisprudenziale potrebbe servire a formulare questo nuovo Diritto
e a farlo rispettare.
Altrettanto importante è il carattere contraddittorio della procedura
della Common Law. Da un punto di vista formale, la Common
Law non ha niente a che fare con la definizione di ciò che è
bene in materia etica o tecnica. E uno strumento per comprendere
delle relazioni, allorché queste esplodono sotto forma di conflitti
reali. Tocca alle parti interessate reclamare il loro diritto o
rivendicare ciò che esse giudicano buono. Così funziona la struttura,
al livello legislativo come a quello giurisprudenziale. Equilibrando
interessi opposti, la decisione dovrebbe ricavare ciò che teoricamente
è preferibile per tutti.
Nelle
ultime generazioni questo equilibrio, sempre deformato dall'uno
o dall'altro pregiudizio, è stato complessivamente distorto a favore
della società fondata sullo sviluppo. Ma il fatto che la struttura
giuridica venga correntemente pervertita non significa che non possa
essere usata per scoPi inversi. Nulla impedisce che questo strumento
venga utilizzato da delle parti globalmente opposte alla società
produttivista, libere dall'illusione che lo sviluppo possa sopprimere
l'ingiustizia sociale e coscienti della necessità dei limiti. Certo
non basta che compaia un nuovo tipo di attore; occorre anche che
il legislatore si disintossichi dallo sviluppo, che le parti appellanti
si battano per la tutela dei loro interessi e che, a questo scopo,
sottopongano a un sistematico riesame le evidenze e le certezze
troppo assodate.
La
legge come la giurisprudenza suppone che le parti sottopongano i
conflitti di interessi sociali al giudizio di un tribunale imparziale.
Questo tribunale, o camera che sia, opera in modo continuo. Il giudice
ideale è una persona comune, prudente, indifferente alla materia
del contendere, esperta nell'esercizio della procedura. Ma, nella
realtà della vita, il giudice è un uomo del suo tempo e del suo
ambiente. In pratica, anche i tribunali hanno finito per dar mano
alla concentrazione del potere e alla crescita della produzione
industriale. Non soltanto il giudice e il legislatore sono spinti
a credere che una causa sia ben giudicata e la controversia convenientemente
risolta quando la bilancia della giustizia penda a favore dell'interesse
globale delle industrie, ma anche la società, da parte sua, ha condizionato
il ricorrente a esigere che esse crescano. Si rivendica una più
sostanziosa fetta della torta istituzionale più che la difesa da
un'istituzione che mutila la libertà. Tuttavia l'uso distorto dello
strumento giuridico non ne corrompe l'intrinseca natura.
C'è
un'obiezione che viene spesso sollevata quando si afferma che le
procedure a contraddittorio sono uno strumento-chiave per limitare
la crescita industriale: e cioè che le società fanno già troppo
affidamento su questi giudizi, senza grandi risultati. Negli Stati
Uniti, per esempio, i riformatori rivendicano il diritto all'opposizione
legale per tutti i gruppi svantaggiati: negri, indiani, donne, lavoratori,
invalidi, consumatori. Di conseguenza i giudizi tendono a diventare
lunghi, scomodi, costosi, e la maggior parte degli interessati non
è in grado di andare fino in fondo. Le cause si trascinano e le
sentenze arrivano quando hanno perso rilevanza. La procedura diventa
un gioco, che crea nuovi antagonismi, nuove competizioni. E distolta
dal suo fine, la decisione diventa un bene raro. La società di sviluppo
recupera così l'utente della procedura formale.
L'obiezione
che si oppone a questo moltiplicarsi dei procedimenti non è affatto
fuori posto se riguarda la loro proliferazione come mezzo per risolvere
dei conflitti personali. Ma qui io non mi occupo dei conflitti tra
persone o delle lotte dei gruppi fra loro. Ciò che mi interessa
non è l'opposizione tra una classe di sfruttati e un'altra classe
proprietaria degli strumenti, ma l'opposizione che si situa anzi
tutto tra l'uomo e la struttura tecnica dello strumento, poi, e
di conseguenza, tra l'uomo e certe professioni il cui interesse
consiste nel mantenere tale struttura tecnica. Nella società, il
conflitto fondamentale riguarda atti, fatti o oggetti sui quali
delle persone entrano in opposizione formale con le imprese e le
istituzioni manipolatrici. Formalmente la procedura contraddittoria
è il modello dello strumento di cui i cittadini dispongono per opporsi
alle minacce che l'industria fa pesare sulla loro libertà.
Tranne
rare eccezioni, le leggi e i corpi legislativi, i tribunali e i
giudizi, i querelanti e le loro richieste sono profondamente pervertiti
dall'accordo unanime e schiacciante che accetta senza riserve il
modo di produzione industriale e i suoi slogan: sempre di più,
è sempre meglio, e d'altra parte le imprese e le istituzioni
sanno meglio delle persone quale sia l'interesse pubblico e come
servirlo. Ma questa obnubilante unanimità non inficia per niente
la mia tesi:
una
rivoluzione che trascuri di utilizzare le procedure giuridiche e
politiche si condanna al fallimento.
Solo
un'attiva maggioranza di individui e di gruppi che cerchino, con
una procedura conviviale comune, di recuperare i propri diritti,
può strappare al leviatano il potere di stabilire i confini che,
per sopravvivere, bisogna imporre alla crescita, e quello di scegliere
i limiti che ottimizzano una civiltà.
Per
avviare la lotta contro i pregiudizi regnanti, per condurre all'inversione,
alcuni tra quelli che appartengono alle grandi professioni possono
svolgere un ruolo illuminante. Di solito gli educatori, quando prendono
coscienza della crisi della scuola, si mettono alla ricerca di una
qualche soluzione miracolosa che permetta di insegnare più cose
a più persone. I loro sforzi e le loro pretese amplificano l'importanza
di quella minoranza di pedagogisti che insiste sui limiti pedagogici
della crescita industriale. Allo stesso modo, i medici tendono
a credere che almeno una parte del loro sapere non può essere espresso
se non in termini esoterici; e per loro un confratello che secolarizzi
gli atti medici non è che un profanatore. E inutile attendersi che
l'Ordine dei medici, i sindacati degli insegnanti o l'associazione
degli ingegneri del traffico spieghino in termini semplici, tratti
dal linguaggio corrente, il gangsterismo professionale dei loro
colleghi. Altrettanto inutile pensare che i deputati, i giuristi
e i magistrati riconoscano improvvisamente l'indipendenza del Diritto
nei riguardi della loro nozione preconcetta del bene, che si confonde
con la fornitura della maggiore quantità di prodotti al maggior
numero di persone. Tutti sono infatti addestrati ad arbitrare i
conflitti in favore della propria branca di attività, sia che parlino
in nome dei padroni, dei salariati, degli utenti o dei loro stessi
colleghi. Ma come è possibile trovare qua e là, eccezionalmente,
un medico che aiuta gli altri a vivere in modo responsabile, ad
accettare la sofferenza, ad affrontare la morte, così, per eccezione,
si troverà qualche uomo di legge che aiuti le persone a utilizzare
la struttura formale del Diritto per difendere i loro interessi
nel quadro di una società conviviale. Anche se, probabilmente, il
giudizio finale non soddisferà le loro richieste, l'azione giudiziaria
servirà pur sempre a mettere in luce la sostanza del contrasto.
Nessuno
dubita che il ricorso al procedimento legale per immobilizzare
e invertire le nostre istituzioni dominanti non appaia ai più
potenti tra i loro dirigenti, o ai più intossicati dei loro utenti,
come una distorsione del Diritto e una sovversione del solo ordine
che essi riconoscono. In sé, il ricorso a una procedura conviviale
in buona e debita forma è una mostruosità e un crimine per il
burocrate, anche se si dice giudice.
V.
Linversione politica
Se, in un futuro molto prossimo, il genere umano non riuscirà a
limitare l'impatto dei suoi strumenti sull'ambiente e ad attuare
un efficace controllo delle nascite, i nostri discendenti conosceranno
la spaventosa apocalisse predetta da molti ecologi. Dinanzi al disastro
incombente, la società può adagiarsi a sopravvivere entro i limiti
fissati e imposti da una dittatura burocratica, ma può anche reagire
politicamente ricorrendo alle procedure giuridiche e politiche.
La falsificazione ideologica del passato ci vela l'esistenza e la
possibilità di questa scelta.
La
gestione burocratica della sopravvivenza umana è una scelta inaccettabile
da un punto di vista sia morale sia politico, e per di più non servirebbe.
Può darsi che gli uomini, terrorizzati dall'evidenza crescente del
sovrappopolamento, dall'assottigliarsi delle risorse e dall'organizzazione
insensata della vita quotidiana, rimettano spontaneamente i loro
destini nelle mani di un Grande Fratello e dei suoi anonimi agenti.
Può darsi che i tecnocrati siano incaricati di condurre il gregge
sull'orlo dell'abisso, cioè di fissare dei limiti pluridimensionali
allo sviluppo, immediatamente al di qua della soglia dell'autodistruzione.
Una tale fantasia suicida manterrebbe il sistema industriale al
più alto grado di produttività sostenibile. L'uomo vivrebbe in una
bolla protettiva di plastica che l'obbligherebbe a sopravvivere
come un condannato a morte in attesa di esecuzione. Ben presto la
sua soglia di tolleranza in fatto di programmazione e manipolazione
diverrebbe l'ostacolo più serio allo sviluppo, e l'impresa alchimistica
rinascendo dalle sue ceneri cercherebbe di produrre e tenere sotto
controllo il mostruoso mutante concepito dall'incubo della ragione.
Per garantire la sopravvivenza dell'essere umano in un mondo razionale
e artificiale, la scienza e la tecnica si applicherebbero ad attrezzare
opportunamente la sua psiche: l'umanità sarebbe confinata dalla
nascita alla morte nella scuola permanente estesa su scala mondiale,
sarebbe sottoposta a vita al trattamento del grande ospedale planetario,
collegata notte e giorno a implacabili catene di comunicazione.
Così funzionerebbe il mondo della Grande Organizzazione. Tuttavia
i precedenti insuccessi delle terapie di massa lasciano sperare
nel fallimento anche di quest'ultimo progetto di controllo planetario.
L'avvento
del fascismo tecno-burocratico non è scritto negli astri. Esiste
un'altra possibilità: un processo politico che permetta alla popolazione
di stabilire il massimo che ciascuno può esigere, in un mondo dalle
risorse manifestamente limitate; un processo che porti a concordare
entro quali limiti va tenuta la crescita degli strumenti; un processo
che incoraggi la ricerca radicale intesa a far sì che un numero
crescente di persone possa fare sempre di più con sempre meno.
Un programma del genere può ancora apparire utopistico al punto
in cui siamo: se si lascia aggravare la crisi, lo si troverà ben
presto di un realismo estremo.
I
miti e le maggioranze
L'ultimo impedimento alla ristrutturazione della società non è né
la mancanza d'informazione sui limiti necessari né la mancanza di
uomini risoluti ad accettarli se divenissero inevitabili, ma è il
potere della mitologia politica.
In
una società ricca, ognuno è più o meno consumatore-utente; in qualche
modo, ognuno fa la sua parte nella distruzione dell'ambiente. Grazie
al mito, questa molteplicità di depredatori si tramuta in una maggioranza
politica. La somma degli individui atomizzati diventa un blocco
mitico di elettori concordi su un problema inesistente: la maggioranza
silenziosa, guardiana invisibile e invincibile degli interessi investiti
nello sviluppo, e che paralizza ogni reale azione politica. Vista
più da vicino, questa maggioranza è un insieme fittizio di persone
teoricamente dotate di ragione che in realtà comprende una molteplicità
di individui: l'esperto in ecologia che si reca in Boeing a una
conferenza contro l'inquinamento, l'economista consapevole che l'aumento
della produttività genera scarsità di lavoro e che cerca perciò
di creare nuovi impieghi ecc. Né l'uno né l'altro hanno nulla a
che fare con l'operaio di Detroit che compra a rate un televisore
a colori, o col contadino messicano che in ossequio alla «rivoluzione
verde» usa l'insetticida da cinque anni vietato negli Stati Uniti.
Ma nonostante la loro diversità, una comune adesione allo sviluppo
li unisce perché da essa dipende la loro soddisfazione. Tuttavia
solo il mito conferisce loro l'omogeneità di una maggioranza politica
contraria ai limiti. Ognuno ha il proprio motivo per desiderare
la crescita industriale e il proprio motivo per sentirne la minaccia.
Per il momento, un voto contro lo sviluppo puro e semplice sarebbe
altrettanto privo di senso quanto un voto a favore del Prodotto
Nazionale Lordo.
Una
ideologia comune non crea una maggioranza; è efficace solo se ha
le sue radici nell'interpretazione dell'interesse razionale di ciascuno
e se dà a questo interesse una forma politica. L'azione politica
della persona dinanzi a un conflitto sociale essenziale non dipende
dall'ideologia preliminarmente accettata, ma da due fattori: (a)
il modo in cui il conflitto latente tra l'uomo e lo strumento
si trasformerà in una crisi aperta, esigendo una reazione globale
e senza precedenti; (b) il sorgere di una molteplicità di
nuove élite che forniscano un quadro interpretativo per riformulare
i valori e riconsiderare gli interessi.
Dalla
catastrofe alla crisi
Io posso solo congetturare in che modo si arriverà alla crisi; ma
non ho dubbi sulla condotta da tenere dinanzi a essa e nel suo corso.
Credo che lo sviluppo si arresterà da solo. La paralisi sinergetica
dei sistemi che l'alimentano provocherà il crollo generale del modo
di produzione industriale. Le amministrazioni credono di stabilizzare
e armonizzare lo sviluppo affinando i meccanismi e i sistemi di
controllo, ma non fanno che precipitare la megamacchina istituzionale
verso la sua seconda soglia di mutazione. In un tempo brevissimo,
la popolazione perderà fiducia non soltanto nelle istituzioni dominanti,
ma anche in quelle specifica mente addette a gestire la crisi. Il
potere, proprio delle attuali istituzioni, di definire valori (come
l'educazione, la velocità di movimento, la salute, il benessere,
l'informazione ecc.), si dissolverà di colpo allorché diverrà palese
il suo carattere illusorio. A fare da detonatore alla crisi sarà
un avvenimento imprevedibile e magari di poco conto, come il panico
di Wall Street che precipitò la Grande Depressione. Una coincidenza
fortuita renderà manifesta la contraddizione strutturale tra gli
scopi dichiarati delle nostre istituzioni e i loro veri risultati.
Ciò che è già evidente per qualcuno salterà di colpo agli occhi
della maggioranza: l'organizzazione dell'intera economia in funzione
dello «star meglio» è il principale ostacolo allo «star bene».
Al
pari di altre intuizioni largamente condivise, questa avrà la virtù
di rivoltare completamente l'immaginazione popolare. Da un giorno
all'altro importanti istituzioni perderanno ogni rispettabilità,
qualunque legittimità, insieme alla loro reputazione di servire
il bene pubblico. È proprio ciò che accadde alla Chiesa romana al
tempo della Riforma e alla monarchia francese nel 1793. Nello spazio
di una notte l'impensabile divenne evidenza.
Una
mutazione improvvisa è qualcosa che non ha nulla a che fare con
la correzione automatica o con l'evoluzione. Si pensi ai bianchi
vortici ai piedi d'una cascata di montagna:
le stagioni si succedono, l'acqua sovrabbonda oppure scorre in un
filo sottile, ma le spirali di schiuma sembrano sempre uguali; basta
però che un sasso cada in fondo al bacino, ed ecco che il disegno
ne è tutto modificato, irreversibilmente. Allo stesso modo il risveglio
della coscienza avviene di colpo. La maggioranza silenziosa oggi
aderisce totalmente alla tesi dello sviluppo, ma nessuno può prevedere
il suo comportamento quando la crisi esploderà. Quando un popolo
perde fiducia nella produttività industriale, e non più solamente
nella cartamoneta, tutto può succedere. L'inversione diventa realmente
possibile.
Oggi
si prova ancora a turare le falle dei singoli sistemi. Nessun rimedio
funziona, ma si dispone ancora dei mezzi per permetterseli tutti,
uno dopo l'altro. I governi si applicano alla crisi dei servizi
pubblici, a quella dell'educazione, dei trasporti, del sistema giudiziario,
della gioventù. Ciascun aspetto della crisi globale è separato dagli
altri, spiegato in maniera autonoma e trattato a sé. Si propongono
soluzioni di ricambio che danno credito alle riforme settoriali:
e le scuole d'avanguardia contrapposte alle scuole tradizionali
raddoppiano la domanda di educazione, le città-satelliti contrapposte
all'aerotreno rafforzano la convinzione che lo sviluppo delle città
sia fatale, una migliore formazione dei medici contrapposta alla
proliferazione delle professioni parasanitarie alimenta l'industria
della salute. E poiché ciascun termine del dilemma ha i suoi sostenitori,
si finisce per non scegliere, ossia per provare entrambe le vie.
In conclusione, si cerca di fare una torta sempre più grossa, che
però è in pura perdita.
Si
fa come Coolidge dinanzi ai primi segni della Grande Depressione,
fraintendendo in maniera analoga l'annuncio di una crisi che è ben
più radicale. Si presume che l'analisi generale dei sistemi colleghi
tra loro le varie crisi istituzionali, ma essa non fa che portare
a una maggiore pianificazione, centralizzazione e burocratizzazione,
allo scopo di perfezionare il controllo della popolazione, dell'abbondanza
e dell'industria distruttrice e inefficace. Si suppone che l'aumento
della produzione di decisioni, controlli e terapie possa compensare
l'estendersi della disoccupazione nei settori della fabbricazione.
Affascinata dalla produzione industriale, la popolazione resta incapace
di immaginare una società postindustriale in cui coesistano diversi
modi di produzione complementari tra loro. Cercando di suscitare
un'era che sia al tempo stesso iperindustriale ed ecologicamente
ammissibile, si accelera la degradazione degli altri fattori che
compongono l'equilibrio multidimensionale della vita. Il costo della
difesa dello status quo sale vertiginosamente.
Bisognerebbe
essere indovini per predire quale serie di eventi svolgerà il ruolo
del crollo di Wall Street e scatenerà la crisi incombente; ma non
occorre essere geni per prevedere che si tratterà della prima crisi
mondiale non più localizzata dentro il sistema industriale, ma che
metterà in gioco il sistema in sé. Assai presto accadrà un fatto
che avrà la conseguenza di congelare la crescita dell'attrezzatura.
Venuto quel momento, il fragore del crollo obnubilerà gli spiriti
e impedirà di comprenderne il senso.
Ci
resta ancora una possibilità di capire le cause della crisi globale
che ci minaccia e di prepararci appunto a non confonderla con una
crisi parziale, interna al sistema. Se vogliamo anticiparne gli
effetti, dobbiamo indagare in che modo una brusca trasformazione
potrà condurre al potere gruppi sociali fino a quel momento soffocati.
Non sarà la catastrofe in quanto tale a trarre questi gruppi dal
niente e a portarli alla ribalta; ma la catastrofe indebolirà le
potenze dominanti che, schiacciando questi gruppi, impedivano loro
di partecipare al processo sociale. L'effetto-sorpresa allenta il
controllo, scompiglia i controllori e spinge in prima fila quelli
che conservano sangue freddo.
Una
volta indebolito il controllo, i controllori si cercano nuovi alleati.
Nello Stato industriale indebolito dalla Grande Depressione, laclasse
dirigente non poté fare a meno dei lavoratori organizzati, che ottennero
perciò una parte di potere strutturale. Sul mercato del lavoro indebolito
dalla seconda guerra mondiale, l'industria non poté fare a meno
dei lavoratori negri, che cominciarono così ad affermare un loro
potere. Attualmente, essendosi fatta una posizione, l'élite negra
tende a diventare un pilastro del sistema costituito, così com'era
accaduto precedentemente ai sindacati. In realtà l'uscita dalla
crisi imminente dipende dalla comparsa di élite che non si lascino
recuperare.
Dentro
la crisi
Le forze che tendono a porre limiti alla produzione sono già in
opera all'interno del corpo sociale. Una ricerca pubblica e radicale
può aiutare in maniera rilevante questi uomini e queste donne ad
acquistare maggiore coesione e lucidità nella loro condanna d'uno
sviluppo che essi giudicano pernicioso. Non c'è dubbio che le loro
voci avranno una diversa risonanza quando la crisi della società
superproduttiva si aggraverà. Essi non costituiscono un partito,
ma sono i porta-parola di una maggioranza di cui ognuno potenzialmente
fa parte. Più inattesa sarà la crisi, più improvvisamente i loro
appelli all'austerità equilibrata e gioiosa potranno assumere il
valore di un programma. Per essere in grado di controllare la situazione
quando sarà il momento, queste minoranze debbono comprendere la
natura profonda della crisi e saperla esporre in un linguaggio che
tocchi il segno, spiegando chiaramente che cosa vogliono, che cosa
possono e di che cosa non hanno bisogno. Sin d'ora, esse già possono
identificare le cose a cui rinunciare. La riconquista della lingua
quotidiana è il primo perno dell'inversione politica. Ne occorre
un secondo.
Un
ulteriore sviluppo non può che portare al disastro, ma questo presenta
una doppia faccia. L'evento catastrofico può segnare la fine della
civiltà politica o addirittura della specie «uomo»; ma può essere
anche la Grande Crisi, cioè l'occasione di una scelta senza precedenti.
Prevedibile e inattesa, la catastrofe sarà una crisis, nel
senso proprio del termine, solo se, nel momento in cui essa colpisce,
i prigionieri del progresso chiederanno di scappare dal paradiso
industriale, se chiederanno che nel recinto della prigione dorata
si apra una porta. Bisognerà allora saper dimostrare che la dissoluzione
del miraggio industriale offre l'occasione per scegliere un modo
di produzione conviviale ed efficace. La preparazione a questo compito
è il cardine di una nuova pratica politica.
Saranno
necessari gruppi capaci di analizzare coerentemente la catastrofe
e di esprimerla con un linguaggio semplice. Essi dovranno saper
patrocinare la causa di una società che si pone dei confini, e farlo
in termini concreti, comprensibili da tutti, desiderabili in generale
e immediatamente applicabili. Il sacrificio è lo scotto della scelta,
prezzo inevitabile da pagare per ottenere quello che si vuole o,
per lo meno, per liberarsi da ciò che è intollerabile. Ma non basta
servirsi delle parole di tutti i giorni come buoni strumenti per
mettere in luce il vero volto della realtà; bisognerà anche saper
maneggiare uno strumento sociale che sia adatto a determinare il
bene pubblico.
Come
ho spiegato più sopra, tale strumento è la struttura formale della
politica e del Diritto. Nell'ora del disastro, la catastrofe si
muterà in crisi se un gruppo di persone lucide che conservano il
proprio sangue freddo saprà ispirare fiducia nei concittadini. La
loro credibilità dipenderà dall'abilità nel dimostrare che non solo
è necessario ma è possibile instaurare una società conviviale, a
condizione di utilizzare coscientemente una procedura regolata,
che riconosca al conflitto d'interessi la sua legittimità, dia valore
al precedente storico, e attribuisca un carattere esecutivo alle
decisioni prese da uomini comuni, dai quali la comunità si riconosca
rappresentata. Nell'ora del disastro, solo se si resta radicati
nella storia si può avere la fiducia necessaria per sconvolgere
il presente. L'uso conviviale della procedura garantisce che una
rivoluzione istituzionale rimanga uno strumento che trova nella
pratica i propri fini. Un ricorso lucido alla procedura, fatto in
uno spirito di opposizione continua alla burocrazia, è la sola maniera
possibile per evitare che la rivoluzione si tramuti essa stessa
in istituzione. Che l'applicazione di questa procedura all'inversione
radicale delle istituzioni sia denominata «rivoluzione culturale»,
recupero della struttura formale del Diritto, socialismo partecipatorio
o ritorno allo spirito dei Fueros de Espana, è un mero problema
di etichette.
La
mutazione improvvisa
Parlando della nascita di gruppi d'interessi e della loro preparazione,
non mi riferisco né a nuclei di terroristi né a sette di devoti
né a esperti di un nuovo tipo. Più in particolare, non mi riferisco
a un partito politico destinato a prendere il potere nel momento
della crisi. Gestire la crisi vorrebbe dire precipitare la soluzione
fatale. Un partito compatto e addestrato può imporre il proprio
potere nel momento in cui la scelta da compiere è interna a un sistema
inglobante: fu così che gli Stati Uniti dovettero «scegliere» il
controllo degli strumenti di produzione durante la Grande Depressione;
fu così che i paesi dell'Europa orientale dovettero «scegliere»
lo stalinismo all'indomani della seconda guerra mondiale. Ma la
crisi di cui io descrivo la prossima venuta non è interna alla società
industriale, bensì riguarda il modo di produzione industriale in
se stesso. Questa crisi obbligherà l'uomo a scegliere tra gli strumenti
conviviali e l'essere stritolato dalla megamacchina, tra la crescita
indefinita e l'accettazione di limiti multidimensionali. La sola
risposta possibile consiste nel riconoscere la profondità della
crisi e nell'accettare l'unico principio di soluzione che si offra:
stabilire, per accordo politico, un'autolimitazione. Quanto più
numerosi e diversi saranno coloro che esprimeranno questa esigenza,
tanto più profondamente si comprenderà che il sacrificio è necessario,
che tutela interessi molteplici e che è la base di un nuovo pluralismo
culturale.
Neppure
intendo riferirmi a una maggioranza che si opponga allo sviluppo
in nome di principi astratti. Sarebbe un'altra maggioranza-fantasma.
In verità la formazione di una élite organizzata che decanti l'ortodossia
dell'antisviluppo non è un'ipotesi inconcepibile; forse questa élite
si sta già costituendo. Ma un coro del genere, con l'antisviluppo
come unico e solo programma, è l'antidoto industriale all'immaginazione
rivoluzionaria. Incitando la gente ad accettare una limitazione
volontaria della produzione senza mettere in questione la struttura-base
della società industriale, non si farebbe che conferire maggior
potere ai burocrati che ottimizzano lo sviluppo, e ci si consegnerebbe
come ostaggi nelle loro mani.
La
produzione stabilizzata di beni e servizi ultra-razionalizzati e
standardizzati allontanerebbe dalla produzione conviviale ancor
più, se possibile, di quanto non faccia la società industriale di
sviluppo.
I fautori di una società capace di porsi limiti non hanno bisogno
di riunire una maggioranza. In democrazia una maggioranza elettorale
non si fonda sull'adesione esplicita di tutti i suoi membri a un'ideologia
o ad un valore determinato. Una maggioranza elettorale favorevole
alla limitazione delle istituzioni sarebbe molto eterogenea: comprenderebbe
le vittime di un particolare aspetto della sovrapproduzione, gli
esclusi dalla festa industriale e coloro che rifiutano in blocco
i caratteri della società totalmente razionalizzata. L'esempio della
scuola può illustrare il funzionamento di una maggioranza elettorale
nella prassi politica tradizionale: le persone senza figli sono
insofferenti della spesa per la pubblica istruzione; alcuni ritengono
di pagare troppe tasse per il servizio che ricevono; altri sostengono
le scuole confessionali; alcuni altri non accettano la scuola dell'obbligo
perché la giudicano nociva per i ragazzi; altri ancora la combattono
perché rafforza la segregazione sociale. Tutte queste persone potrebbero
formare una maggioranza elettorale, ma non costituiscono né una
setta né un partito. Attualmente potrebbero certo ridimensionare
le pretese della scuola, ma così facendo rafforzerebbero la legittimità
del prodotto scolastico che èl'«educazione». Quando le cose continuano
ad andare per il loro verso, l'assoggettare a limiti una istituzione
dominante mediante un voto di maggioranza assume sempre un senso
reazionario.
Ma
una maggioranza può invece sortire un effetto rivoluzionario nel
momento di una crisi che colpisca la società in maniera radicale.
L'arrivo simultaneo di parecchie istituzioni alla loro seconda soglia
di mutazione dà il segnale d'allarme. La crisi non può tardare.
È già cominciata. Il disastro che seguirà mostrerà chiaramente che
la società industriale in quanto tale, e non soltanto i suoi vari
organi, ha oltrepassato i limiti.
Lo
Stato-nazione è diventato guardiano di strumenti così potenti che
non può più svolgere il suo ruolo di quadro politico. Come Giap
ha saputo utilizzare la macchina bellica americana per vincere la
sua guerra, così le imprese multinazionali e le professioni transnazionali
possono servirsi del Diritto e del sistema democratico per consolidare
il loro impero. Ma mentre la democrazia americana può sopravvivere
alla vittoria di Giap, certo non sopravvivrà a quella dell'ITT e
consimili. Man mano che la crisi totale si avvicina, diventa chiaro
che lo Stato-nazione moderno è un conglomerato di società anonime
in cui ogni attrezzatura mira a promuovere il proprio prodotto,
a servire i propri interessi. L'insieme produce del benessere,
sotto forma di educazione, salute ecc., e il successo si misura
in base alla crescita del capitale di tutte le suddette società.
Quando è il momento, i partiti politici radunano la massa degli
azionisti per eleggere un consiglio di amministrazione. Essi sostengono
il diritto dell'elettore a pretendere un più alto livello di consumo
individuale, il che significa un più alto grado di consumo
industriale. La popolazione può sempre reclamare trasporti
più rapidi, ma il giudizio sulla convenienza di un sistema di trasporto
basato sull'automobile oppure sul treno, e che assorbe una larga
parte del reddito nazionale, è lasciato alla discrezione degli esperti.
I partiti sostengono uno Stato il cui scopo dichiarato è la crescita
del Prodotto Nazionale Lordo: è inutile contare su di essi quando
arriverà il peggio.
Quando
gli affari procedono normalmente, la procedura a contraddittorio
per dirimere un conflitto tra l'impresa e l'individuo finisce di
solito col dare un ulteriore crisma di legittimità alla dipendenza
di quest'ultimo. Ma nel momento della crisi strutturale, neppure
la riduzione volontaria della sovrefficienza potrà risparmiare alle
istituzioni dominanti di andare in rovina. Una crisi generalizzata
apre la strada a una ricostruzione della società. La perdita di
legittimità dello Stato come società per azioni non infirma ma rafforza
la necessità di una procedura costituzionale. La perdita di credibilità
dei partiti divenuti fazioni rivali di azionisti non fa che sottolineare
l'importanza del ricorso a procedure contraddittorie in politica.
La perdita di credibilità delle rivendicazioni antagonistiche per
ottenere maggior consumo individuale sottolinea l'importanza del
ricorso a queste stesse procedure contraddittorie, quando si tratta
di armonizzare serie opposte di limitazioni concernenti l'insieme
della società. La medesima crisi generale può sancire durevolmente
un contratto sociale che consegni al dispotismo tecno-burocratico
e all'ortodossia ideologica il potere di prescrivere il benessere,
oppure può esser l'occasione per costruire una società conviviale,
in continua trasformazione all'interno di un quadro materiale definito
da proscrizioni razionali e politiche.
Nella
loro struttura, la procedura politica e quella giuridica si integrano
reciprocamente. Entrambe modellano ed esprimono la struttura della
libertà nella storia. Se si ammette questo, la procedura formale
può costituire il migliore strumento drammatico, simbolico e conviviale
per l'azione politica. Il Diritto conserva tutta la sua forza anche
quando una società riservi a dei privilegiati l'accesso alla macchina
giuridica, anche quando si faccia beffe sistematicamente della giustizia
e mascheri il dispotismo sotto il mantello di finti tribunali. Anche
quando colui che si appella al linguaggio ordinario ed alla procedura
formale viene irriso e messo sotto accusa dai suoi compagni di rivoluzione,
anche allora il ricorso dell'individuo alla struttura formale iscritta
nella storia di un popolo resta lo strumento più potente per dire
il vero, per denunciare l'ipertrofia cancerosa e il dominio del
modo di produzione industriale come l'ultima forma di idolatria.
Si è presi dall'angoscia quando si constata che l'unico nostro potere
per arginare l'ondata mortale sta nella parola e, più esattamente,
nel verbo, giunto sino a noi e ritrovato nella nostra storia.
Solo il verbo, con tutta la sua fragilità, può raccogliere la moltitudine
degli uomini perché il dilagare della violenza si trasformi in ricostruzione
conviviale.
Se
sapranno stabilire dei criteri di limitazione dell'attrezzatura,
i paesi poveri avvieranno più facilmente la loro ricostruzione sociale
e, soprattutto, accederanno direttamente a un modo di produzione
postindustriale e conviviale. I limiti che dovranno adottare sono
dello stesso ordine di quelli che le nazioni industrializzate dovranno
accettare per sopravvivere: la convivialità accessibile fin d'ora
ai «sottosviluppati» costerà un prezzo inaudito agli «sviluppati».
Un'ultima
obiezione viene spesso avanzata quando a una società povera si propone
l'orientamento conviviale:
per scegliere una vita austera con strumenti conviviali bisogna
difendersi dall'imperialismo dei megastrumenti in espansione; tale
difesa non sarebbe possibile senza un esercito moderno, che a sua
volta richiede un'industria in pieno sviluppo. In realtà, la ricostruzione
della società non può essere protetta per mezzo di un esercito,
innanzi tutto perché sarebbe una contraddizione in termini, e poi
perché nessun esercito moderno d'un paese povero potrebbe essere
una valida difesa contro un tale potere. La convivialità sarà opera
esclusiva di persone che usino un'attrezzatura da loro effettivamente
controllata. I mercenari dell'imperialismo possono avvelenare una
società conviviale, possono distruggerla, ma non conquistarla.