>
Edizioni Arcipelago - Email:
Materiali per Operatori del Benessere Immateriale
Parte 1 - 2 - 3

VAN ILLICH
LA CONVIVIALITÀ - 3

La polarizzazione

L'industrializzazione moltiplica gli uomini e le cose. I sottoprivilegiati crescono di numero, mentre i privilegiati consumano sempre di più. Di conseguenza, tra i poveri aumenta la fame e tra i ricchi la paura. Guidato dal bisogno e dal sentimento d'impotenza, il povero reclama un'industrializzazione accelerata; spinto dalla paura e dal desiderio di proteggere il suo star meglio, il ricco s'impegna in una difesa sempre più rabbiosa e rigida. Mentre il potere si polarizza, l'insoddisfazione si generalizza. La possibilità che pur ci è data di creare per tutti maggiore felicità con meno abbondanza, è relegata al punto cieco della visione sociale.

Questo accecamento nasce dallo squilibrio della bilancia del sapere. Gli intossicati dall'educazione sono buoni consumatori e buoni utenti. Vedono la loro crescita personale sotto forma di una accumulazione di beni e di servizi prodotti dall'industria. Anziché fare le cose da se stessi, preferiscono riceverle bell'e pronte dall'istituzione. Soffocano il loro potere innato di apprendere il reale. Lo squilibrio della bilancia del sapere spiega come l'avanzata del monopolio radicale dei beni e dei servizi non venga quasi affatto percepita dall'utente. Ma non ci dice perché costui si senta tanto impotente a modificare le disfunzioni, nella misura in cui le percepisce.

È qui che interviene l'effetto di un quarto tipo di sconvolgimento: la polarizzazione crescente del potere. Sotto la spinta della megamacchina in espansione, il potere di decidere del destino di tutti si concentra nelle mani di alcuni. E, in questa frenesia di crescita, le innovazioni che migliorano la sorte della minoranza privilegiata crescono ancora più rapidamente del prodotto globale.

Un aumento del 3 per cento del livello di vita americano costa venticinque volte più caro di un uguale aumento del livello di vita in India, paese che pure è più popoloso e prolifico del Nord America. Nella corsa alla crescita industriale, la condizione del povero può essere migliorata se il ricco consuma di meno, mentre quella del ricco non può esserlo se non al prezzo della spoliazione mortale del povero. Il ricco sostiene che sfruttando il povero lo arricchisce perché in ultima analisi egli crea abbondanza per tutti; e le élites dei paesi poveri diffondono questa favola.

Il ricco si arricchirà e spoglierà più d'un povero nel prossimo decennio. Il fatto che il mercato internazionale fornisca loro del frumento, imporrà ai paesi poveri di costruire reti di trasporto e di distribuzione, a un prezzo sociale che sarebbe praticamente bastato a trasformare l'agricoltura locale. Ma l'angoscia che ci stringe nell'osservare la controproduttività delle politiche di «sviluppo» non deve impedirci di comprendere la struttura della ripartizione del potere, che costituisce la quarta dimensione attraverso cui il sovrasviluppo esercita i suoi effetti distruttivi. L'industrializzazione sfrenata fabbrica la povertà moderna. È vero che i poveri hanno un po' più di soldi, ma con quel loro poco denaro possono fare di meno: e non tanto a causa dell'aumento dei prezzi, quanto per la paralisi che colpisce la produzione dei valori che non siano merci. La modernizzazione della povertà va di pari passo con la concentrazione del potere: potere che consiste soprattutto nel decidere quello che si potrà o dovrà produrre. E un punto da comprendere bene, altrimenti non si coglie la natura profonda della polarizzazione.

 

La povertà si modernizza: la sua soglia monetaria si eleva perché nuovi prodotti industriali si presentano come beni di prima necessità, restando tuttavia inaccessibili ai più. Nel terzo mondo, grazie alla «rivoluzione verde», il contadino povero è espulso dalla sua terra. Come salariato agricolo guadagna di più, ma i suoi bambini non mangiano più come una volta. Il cittadino americano che guadagna dieci volte più del salariato agricolo è anche lui disperatamente povero. Entrambi pagano sempre più caro un crescente “essermeno”.

Complementarmente, cresce il divario tra ricchi e poveri, poiché il controllo della produzione è centralizzato al fine di produrre sempre di più per il maggior numero. Mentre la salita delle soglie di povertà è conseguenza della struttura del prodotto industriale, l'aumento del divario tra poveri e potenti dipende dalla struttura dello strumento. Chi vuole risolvere il primo aspetto del problema senza considerare il secondo, non fa che sostituire alla carenza di cose una carenza di voce. La ridistribuzione del prodotto non è il rimedio alla polarizzazione del controllo.

Con lo strumento fiscale si ovvia agli effetti superficiali della concentrazione industriale del potere. L'imposta sul reddito trova il suo complemento nei sistemi di sicurezza sociale, di sussidi e di equa distribuzione del benessere. Può anche accadere che al di là di una certa soglia il capitale venga statalizzato, o che si decida di ridurre il ventaglio dei salari. Ma un simile controllo del reddito privato non può essere efficace se non è accompagnato da un controllo sul consumo dei privilegi attribuiti all'individuo in virtù della sua funzione di produttore. Di per sé il controllo del reddito non ha alcun effetto eguagliatore sui privilegi che contano veramente in una società dove l'impiego è diventato più importante della famiglia. Finché i lavoratori saranno classificati in base al grado di capitalizzazione di forza-lavoro che a ciascuno si imputa, la minoranza detentrice di stock di sapere ad alta quotazione si arrogherà regolarmente tutti i privilegi che permettono di guadagnare tempo. La concentrazione dei privilegi nelle mani di pochi è inerente alla produttività industriale.

Appena un secolo fa, nessuno avrebbe potuto immaginare la concentrazione del potere e dell'energia che oggi ci sembra normale. In una società moderna, l'energia industrializzata supera enormemente l'energia metabolica globale, cioè l'energia di cui dispone il corpo umano per svolgere determinati compiti. Il rapporto tra l'energia meccanica e l'energia umana disponibile è di 15 in Cina e di 300 negli Stati Uniti. E le reti elettriche concentrano il controllo dell'energia e l'esercizio del potere più efficacemente di quanto non ci riuscisse la frusta nelle civiltà antiche. La ripartizione sociale del controllo del consumo di energia si è modificata radicalmente. Il funzionamento e, più ancora, il disegno dell'infrastruttura energetica di una società moderna impongono l'ideologia del gruppo dominante, con una forza e una penetrazione inconcepibili per il sacerdote dell'antico Egitto o per il banchiere del secolo XVII. In quanto mezzo di dominio, la moneta perde il suo valore a vantaggio del carburante. Se per capitale si intende ciò che fornisce l'energia trasformatrice, l'inflazione energetica ha ridotto la maggioranza all'indigenza.

Via via che lo strumento s'ingrossa, il numero degli operatori potenziali diminuisce. Via via che lo strumento diviene più efficiente, l'operatore impiega più beni e servizi costosi. Nei cantieri guatemaltechi, l'ingegnere è il solo ad avere l'aria condizionata nella sua baracca. Il suo tempo è così prezioso che egli prende l'aereo per andare nella capitale, e le sue decisioni sono così importanti che le comunica con una radio trasmittente a onde corte. Ovviamente, l'ingegnere ha guadagnato i suoi privilegi accaparrandosi i fondi pubblici per ottenere i suoi titoli di studio. Il manovale indio non avverte la posizione relativamente privilegiata del suo caposquadra; invece i geometri e i disegnatori, che sono stati scolarizzati ma non sono arrivati fino alla laurea, soffrono tutt'a un tratto più acutamente il caldo del cantiere e la lontananza dalle famiglie. Sono relativamente impoveriti di tutta l'efficienza supplementare guadagnata dal loro capo.

Mai lo strumento è stato tanto potente. E mai è stato a tal punto accaparrato da una élite. Il diritto divino non correva tanto in soccorso dei re d'una volta quanto la crescita dei servizi soccorre i funzionari d'oggi, nell'interesse supremo della produzione.

I sovietici giustificano i trasporti supersonici dicendo che fanno risparmiare tempo ai loro scienziati. I trasporti a grande velocità, le reti di telecomunicazione, le cure mediche speciali e l'assistenza illimitata della burocrazia vengono presentate come necessità per ottenere il massimo dagli individui che sono stati oggetto del massimo di capitalizzazione.

La società del megastrumento dipende per la sua sopravvivenza da molteplici sistemi che impediscono ai più di far valere la loro parola. Quest'ultimo privilegio è riservato agli individui riconosciuti come i più produttivi. Normalmente la produttività di un individuo si misura dall'investimento educativo di cui è stato oggetto, dall'importanza mondo industriale. Si può immaginare che il Nord America cessi di sfruttare la sottoindustrializzazione dell'America Latina, ma non che cessi di destinare le sue donne alle corvées non industrializzabili.

L'espansione dell'industria si arresterebbe se le donne ci forzassero a riconoscere che la società non è più vitale quando un solo modo di produzione eserciti il suo dominio sull'insieme. E urgente prendere coscienza della pluralità dei modi di produzione, ciascuno valido e rispettabile, che una società, per essere vitale, deve far coesistere. Questa presa di coscienza ci renderebbe padroni della crescita industriale. La crescita si arresterebbe se le donne e le altre minoranze tenute lontane dal potere esigessero un lavoro egualmente creativo per tutti, anziché reclamare l'eguaglianza dei diritti sulla mega-attrezzatura manipolata fino ad oggi dall'uomo soltanto. Solo una struttura di produzione che protegga l'eguale ripartizione del potere permette un eguale godimento dell'avere.

L'obsolescenza

La ricostruzione conviviale suppone lo smantellamento dell'attuale monopolio dell'industria, non la soppressione di qualunque produzione industriale. Implica che sia ridotta la polarizzazione sociale dovuta allo strumento, affinché nella forza produttiva coesista una pluralità dinamica di strutture complementari e quindi una pluralità di ambienti e di élite. Richiede l'adozione di strumenti che mettano in opera l'energia del corpo umano, non il regresso verso uno sfruttamento dell'uomo. Esige una considerevole riduzione della serie di trattamenti obbligatori, ma non impedisce a nessuno di farsi insegnare o curare se lo desideri. Una società conviviale non è una società congelata. La sua dinamica dipende dall'ampia ripartizione del controllo dell'energia, cioè del potere di operare un cambiamento reale. Nel sistema attuale di obsolescenza programmata su larga scala, alcuni centri di decisione impongono l'innovazione all'intera società e privano le comunità di base del potere di scegliersi il loro domani; in tal modo è lo strumento a imporre la direzione e il ritmo dell'innovazione. Un processo ininterrotto di ricostruzione conviviale è possibile a condizione che il corpo sociale protegga il potere delle persone e delle collettività di modificare e rinnovare i loro modi di vivere, i loro strumenti, il loro ambiente, in altri termini il potere di dare al reale un volto nuovo. In questa minaccia che l'industria fa incombere sul passato e l'avvenire, sulla tradizione dell'utopia, sta la quinta dimensione in cui va salvaguardato l'equilibrio. La polarizzazione sociale, si è visto, risulta da due fattori combinati: l'aumento del costo dei beni e dei servizi prodotti e confezionati dall'industria, e la rarità crescente degli impieghi considerati altamente produttivi. L'obsolescenza, dal canto suo, produce la svalorizzazione. Questa svalorizzazione non è effetto di un tasso generale di cambiamento, ma del cambiamento che subiscono i prodotti che esercitano un monopolio radicale. La polarizzazione sociale è determinata dal seguente fatto: il costo dei beni e dei servizi standardizzati è divenuto tale che la maggior parte della gente non può accedere al loro insieme; più se ne aumenta la produzione, più si egualizza una distribuzione, più si esclude il consumatore dal controllo su ciò che riceve. L'obsolescenza, da parte sua, può divenire intollerabile anche a chi non è espulso dal mercato: essa obbliga il consumatore a staccarsi continuamente da ciò che è stato costretto a desiderare, pagare e installare nella sua esistenza. La necessità artificiale e l'obsolescenza pianificata sono due dimensioni distinte della sovrefficienza, che sostengono una società in cui il livello di consumo non solo rispecchia ma crea la gerarchia del privilegio.

Ciò che più importa non è che l'obsolescenza forzata distrugga vecchi modelli o vecchi sistemi, che Ford si sbarazzi di un tipo d'auto non fornendo più pezzi di ricambio, o che la polizia escluda dalla circolazione le automobili vecchie, che non rispondono alle ultime norme di sicurezza. Per mancanza di benzina o per desiderio di efficienza, si può anche sostituire l'automobile con l'aerotreno. Il rinnovamento è intrinseco a un modo di produzione industriale accoppiato a un'ideologia di progresso. Il prodotto non può essere migliorato se non riattrezzando la megamacchina; e perché ciò «renda», occorre creare immensi mercati in finzione del nuovo modello. La maniera migliore di aprire un mercato è di assimilare il nuovo prodotto a un importante privilegio. Se l'identificazione riesce, il vecchio modello è svalorizzato e il consumatore si abbandona all'ideologia dello sviluppo illimitato nel quale egli si integra al ritmo della migliorata «qualità» del bene di consumo. Gli individui, ma anche i paesi, si classificano socialmente secondo l'anzianità del loro stock di strumenti e di beni. Alcuni, la minoranza, possono permettersi il lusso di avere sempre l'ultimo modello, gli altri si servono ancora di armi, automobili, lavatrici e medicinali vecchi di cinque o quindici anni; probabilmente passano le vacanze in alberghi altrettanto fuori moda, cioè declassati. Il livello di obsolescenza del loro consumo indica esattamente dove si trovano nella scala sociale.

La classificazione sociale degli individui in base all'età degli oggetti che utilizzano non è appannaggio del solo capitalismo. Ovunque l'economia sia fondata sulla produzione e confezione massive di beni e servizi soggetti a usura, solo pochi privilegiati hanno accesso alle ultime novità. Solo poche infermiere partecipano ai corsi di anestesia più moderni, e solo alcuni burocrati possono viaggiare a bordo dell'ultimo modello di auto o aereo. Ognuno, nell'élite costituita in seno alla minoranza, riconosce e classifica l'altro secondo l'età dei suoi strumenti, se non dell'equipaggiamento domestico, per lo meno del materiale d'ufficio.

L'innovazione costa cara, e per giustificare la spesa il dirigente deve provare che essa è un fattore di progresso. Per tradurre in cifre questo progresso, in una economia pianificata il dipartimento di ricerca e sviluppo chiama in proprio aiuto la pseudo-scienza, mentre in una economia di mercato l'ufficio vendite fa ricorso a ricerche di mercato. In ogni caso, l'innovazione periodica alimenta la credenza che l'ha generata, l'illusione che il nuovo corrisponda al meglio. Questa credenza è divenuta parte integrante della mentalità moderna. Si dimentica soltanto che tutte le volte che una società industriale si nutre di tale illusione, ogni nuova unità lanciata sul mercato crea più bisogni di quanti non ne soddisfi. Se ciò che è nuovo è migliore, ciò che è vecchio non è realmente buono; la sorte dell'umanità, nella sua schiacciante maggioranza, è allora ben triste. Il nuovo modello produce una nuova povertà. Il consumatore, l'utente, risente duramente la distanza tra ciò che ha e ciò che sarebbe meglio avere. Misura il valore di un prodotto dalla sua novità, e si presta a un'educazione permanente, ai fini del consumo e dell'uso dell'innovazione. Niente sfugge all'obsolescenza, neppure i concetti. La logica del «sempre meglio» sostituisce quella del bene come norma strutturante dell'azione.

Una società impegnata nella corsa allo «star meglio» sente come una minaccia l'idea stessa di una qualsiasi limitazione del progresso. È così che l'individuo che non cambia oggetti o terapie conosce il rancore del fallimento e chi ne cambia scopre la vertigine della carenza. Ciò che ha lo nausea, e ciò che vuole avere lo fa soffrire. Il cambiamento accelerato produce su di lui gli stessi effetti che l'assuefazione a una droga: si prova, si ricomincia, ci si abitua, si crede di potersi controllare, ci si ammala, si crolla. La dialettica della storia va in frantumi. Il rapporto tra il presente e la tradizione svanisce. Il linguaggio perde le sue radici, la memoria sociale si raggela, il precedente cessa di avere influenza sul Diritto. L'accordo sull'azione legale, sociale e politica si orienta così verso l'alchimia futurologica.

Ma se si stabilissero confini alla crescita, si obietta, e se ci si mettesse a produrre una somma finita e durevole di beni industrializzati, sarebbe la fine per la libertà di sperimentare e di innovare. L'obiezione sarebbe giustificata se qui mi stessi occupando di un nuovo modello di economia di sviluppo. Oggi il modello ultima moda è appunto una produzione pulita e limitata di beni, e uno sviluppo illimitato di servizi. Ma non è questo che mi interessa, perché non parlo dell'avvenire della società industriale, ma del passaggio ad una società in cui i modi di produzione siano diversificati. La limitazione del prodotto industriale ha, per noi, lo scopo di liberare l'avvenire, di aprirlo alla sorpresa delle azioni personali.

L'innovazione industriale è programmata, banale, reazionaria. Il rinnovamento fondato sull'uso di strumenti conviviali avrà la spontaneità e la freschezza degli esseri che li maneggeranno. Oggi il progresso del saper fare è inceppato dall'assimilazione della ricerca scientifica allo sviluppo industriale. La maggior parte degli strumenti di ricerca è riservata a ricercatori programmati perché interpretino il mondo in termini di profitto e di potere. E la maggior parte degli scopi della ricerca è determinata da moventi di potenza e di efficienza. La maggior parte del costo della ricerca è dovuta al suo carattere segreto, competitivo, impersonale. Al contrario, niente impedisce che la ricerca conviviale sia anche una ricerca fondamentale. La ricerca condotta per passione ci riserva, ne sono convinto, più sorprese che quella del granello di sabbia che blocca la grossa macchina. L'innovazione del sapere, come quella del potere, può fiorire soltanto là dove sia protetta dall'obsolescenza industriale. Una società stagnante sarebbe altrettanto insopportabile per l'uomo quanto la società dell'accelerazione: tra le due si colloca la società di innovazione conviviale. Il cambiamento accelerato toglie ogni senso all'idea di una società retta dal Diritto. La ragione è che il Diritto si fonda sul precedente. Al di là di una certa soglia di accelerazione, non c'è più posto per questo riferimento al precedente, e quindi per il giudizio. Perdendo la possibilità del ricorso al Diritto, la società si condanna all'educazione. L'esercizio del controllo sociale al servizio di un piano diventa compito da specialisti. L'ideologo rimpiazza il giurista. L'educatore dispone l'individuo ad essere addestrato e riaddestrato lungo tutta la sua esistenza. Cento volte si rimette quest'opera sul telaio, per produrre un individuo affascinato dal profitto e sempre più adatto alle esigenze dell'industria. La produzione di strumenti allo scopo di adattare l'uomo al suo contesto diventa l'industria dominante quando il ritmo di cambiamento dell'ambiente supera una certa soglia. La ricostruzione conviviale esige che sia limitato il tasso di obsolescenza e di innovazione obbligatoria. L'uomo e un essere fragile. Nasce nel linguaggio, vive nel diritto e muore nel mito. Sottoposto a un cambiamento smisurato, perde la sua dignità di uomo.

L'insoddisfazione

Abbiamo passato in rassegna cinque circuiti diversi. In ognuno di essi, lo strumento sovrefficiente minaccia un equilibrio. Minaccia l'equilibrio del corpo, minaccia l'equilibrio dell'energia, minaccia l'equilibrio del sapere, minaccia l'equilibrio del potere, minaccia infine il diritto alla storia.

La perversione dello strumento minaccia di devastare l'ambiente fisico. Il monopolio radicale minaccia di gelare la creatività. La superprogrammazione minaccia di trasformare il pianeta in una vasta area di servizi. La polarizzazione minaccia di instaurare un dispotismo strutturale e irreversibile. Infine, l'obsolescenza minaccia di sradicare la specie umana. In ciascuno di questi circuiti, e ogni volta secondo una dimensione diversa, lo strumento sovrefficiente intacca il rapporto dell'uomo col suo ambiente: minaccia di provocare un fatale corto circuito.

La nostra analisi sarebbe incompleta se riguardasse un solo circuito con esclusione degli altri. Ognuno di questi equilibri deve essere protetto. Gli output di una energia pulita possono essere equamente distribuiti da un monopolio radicale intollerabile. La scuola obbligatoria o i media onnipresenti possono intaccare l'equilibrio del sapere e aprire la strada a una polarizzazione della società, cioè a un dispotismo del sapere. Qualsiasi industria può generare un'accelerazione insopportabile dei ritmi di obsolescenza. Le culture sono fiorite nel cuore di una molteplicità geografica oggi minacciata; ma, attualmente, anche l'ambiente sociale e quello psichico rischiano la distruzione. La specie umana sarà forse avvelenata dall'inquinamento; ma può anche dissolversi e sparire per mancanza di linguaggio, di diritto o di mito. Il monopolio radicale degrada l'uomo e la polarizzazione lo minaccia; ma lo shock del futuro può disintegrarlo.

In ognuno dei circuiti considerati, come si è visto, si possono determinare dei criteri e reperire delle soglie, che permettono di verificare la degradazione dei diversi equilibri. E possibile designare queste soglie in un linguaggio comprensibile a tutti. Nel corso di un processo politico, la popolazione può servirsi ditali criteri per mantenere lo sviluppo dello strumento al di qua delle soglie critiche. I limiti così tracciati circoscriverebbero i tipi di strutture delle forze produttive che restano controllabili dalla popolazione: il potere di indicare tali limiti costituisce l'appendice tecnopolitica necessaria ad ogni costituzione contemporanea. Al di là, lo strumento sfugge a ogni controllo politico. Il potere che l'uomo ha di far valere il proprio diritto sparisce allorché egli si lega a dei processi nei quali non ha più alcuna voce in capitolo. Nella misura in cui può ancora goderne, i] suo corpo, il tempo libero, la libertà e gli affetti, in breve il senso della sua vita, gli vengono concessi in quanto fattori che ottimizzano la logica dello strumento. In questo stadio l'uomo è diventato materia prima per la megamacchina, la più malleabile delle materie prime. Le soglie critiche delimitano uno spazio che è quello della sopravvivenza umana. Se questo spazio non è segnato dal Diritto, dignità e libertà della persona saranno schiacciate.

Attualmente la ricerca scientifica si orienta in modo massiccio verso questa riduzione dell'uomo, perseguendo due obiettivi: da una parte assicurare l'avanzata tecnologica che permetta di produrre meglio prodotti migliori, dall'altra applicare l'analisi dei sistemi alla manipolazione della sopravvivenza della specie umana per preservarne meglio il consumo. Per permettere all'uomo di espandersi, la ricerca futura deve andare in un senso radicalmente opposto, deve andare alla radice del male. Chiamiamola ricerca radicale. Anche la ricerca radicale persegue due obiettivi: da una parte fornire i criteri che consentano di determinare quando uno strumento tocca la soglia di nocività; dall'altra inventare degli strumenti che ottimizzino

l'equilibrio della vita, e quindi massimizzino la libertà di ~ ognuno. Il primo obiettivo mira alla formulazione delle cinque classi di soglie identificate precedentemente; il secondo mira alle limitazioni delle tecniche del benessere.

La ricerca radicale non è né una nuova disciplina scientifica, né un'impresa interdisciplinare. E l'analisi dimensionale della relazione dell'uomo col suo strumento.

Nessuno potrà negare che la sua esistenza sociale si sviluppa su diverse scale, in diversi ambienti concentrici: la cellula di base, l'unità di produzione, la città, lo Stato, infine la Terra. Ognuno di questi ambienti ha il suo spazio ed il suo tempo, i suoi livelli di popolazione e le sue risorse energetiche. C'è disfunzione dello strumento in uno di questi ambienti quando lo spazio, il tempo e l'energia richiesti dall'insieme degli strumenti eccedono la scala naturale corrispondente. Queste scale naturali possono essere identificate, senza con ciò pretendere di poter dire qualcosa circa la natura dell'uomo o della società. Esse definiscono in termini negativi e di proscrizione lo spazio all'interno del quale il fenomeno umano può essere osservato: ma non contribuiscono affatto a stabilire di quale natura tale fenomeno sia, non più di quanto formulino prescrizioni. In questo senso, si può parlare dell'omeostasi dell'uomo nel suo ambiente, che ogni disfunzione dello strumento mette in pericolo, e definire la politica come il processo attraverso il quale gli uomini assumono la responsabilità di questa omeostasi. E tempo di smetterla di definire i bisogni umani in termini astratti per poi sottoporli, come problemi, al trattamento della tecnocrazia, che pratica il metodo dell'escalation. E tempo di cominciare a cercare all'interno di quali confini determinate collettività di uomini concreti possono servirsi della tecnica per soddisfare i loro bisogni senza recare pregiudizio agli altri. Identificare l'anatema segna il primo passo della ricerca radicale.

Le soglie al di là delle quali si profila la distruzione sono tutt'altra cosa dai mobili limiti cui una società assoggetta volontariamente l'uso dei propri strumenti. Le soglie marcano il campo della sopravvivenza possibile, i limiti opzionali disegnano il recinto di una cultura. Le soglie naturali sono imposte dalla necessità, i limiti culturali sono frutto della libertà. Le soglie configurano il diritto costitutivo di qualunque società, i limiti prefigurano la giustizia conviviale di una società determinata. La necessità di stabilire delle soglie e di non superare i confini così definiti è uguale per tutte le società; la fissazione dei limiti dipende dal modo di vita e dal grado di libertà desiderati da ciascuna collettività.

C'è una forma di disfunzione nella quale lo sviluppo non distrugge ancora la vita, ma già perverte l'uso dello strumento. Lo strumento non è ottimale, ma neppure intollerabile; ancora tollerabile ma già sovrefficiente, degrada un equilibrio di carattere più soggettivo e più sottile di quelli sopra descritti: l'equilibrio dell'azione, cioè l'equilibrio tra il prezzo personale pagato e il risultato ottenuto, la coscienza che mezzi e fini si equilibrano. Quando lo strumento asservisce il fine che dovrebbe servire, l'utente cade in preda a una profonda insoddisfazione. Se non molla 10 strumento, o se lo strumento non molla lui, impazzisce. Nell'Ade il castigo più spaventoso era riservato al blasfemo: il giudice degli inferi lo condannava a un'attività frenetica. La pietra di Sisifo è lo strumento pervertito. Il col­mo è che, in una società dove questo tipo di attività è la re­gola, gli uomini vengono educati a rivaleggiare tra loro per conquistare il diritto di autofrustrarsi. Resi muti dalla ri­valità, accecati dal desiderio, fanno a chi arriverà per pri­mo a essere intossicato dallo strumento.

Come ho dimostrato altrove[5] , il predominio del trasporto sulla circolazione della gente può servire a illustrare la dif­ferenza tra ciò che è confine dell'equilibrio e quello che è invece un limite scelto per far fiorire l'uguaglianza nel go­dimento della libertà. Proteggere l'ambiente può significa­re divieto dei trasporti supersonici. Evitare che la polariz­zazione sociale diventi intollerabile, può significare divieto dei trasporti aerei. Difendersi contro il monopolio radicale può significare divieto dell'automobile. In assenza di tali misure, il trasporto minaccia la società. L'equilibrio tra fini e mezzi che qui sottolineo ci fornisce un nuovo criterio di selezione dello strumento. La considerazione di questo nuovo equilibrio ci condurrà forse a bandire tutti i traspor­ti pubblici a velocità superiore a quella della bicicletta. Ogni veicolo, quale che sia, la cui velocità massima supe­ri una certa soglia, accresce la perdita di tempo e di denaro dell'utente medio. Ogni volta che in un punto del sistema di circolazione la velocità massima sopravanza una certa soglia, più persone dovranno passare più tempo alla fer­mata dell'autobus, agli sbocchi ingorgati, o in un letto d'ospedale. Ciò significa anche che passeranno più tempo a pagare il sistema di trasporto che sono costretti a usare. La soglia critica di una velocità dipende da una moltepli­cità di fattori: condizioni geografiche, culturali, economi­che, tecniche, finanziarie. Con tante variabili per una inco­gnita, si potrebbe pensare che la forbice di valutazione del­la soglia critica di velocità sia molto larga.

 

Niente affatto. È anzi talmente bassa e talmente stretta da sembrare improbabile alla maggior parte degli speciali­sti della circolazione.

Si ha disfunzione nella circolazione non appena questa ammette, in un punto qualunque del sistema, una veloci­tà superiore a quella di una bicicletta, che può pertanto servire da criterio per determinare la soglia critica di ve­locità. Ogni volta che si supera questa barriera in un punto qualsiasi del sistema, aumenta la somma di tempo de­dicata dall'insieme degli utenti al servizio dell'industria dei trasporti.

La sovrabbondanza di beni genera scarsità di tempo. Il tempo diventa scarso un po' perché ci vuole tempo per consumare e farsi curare, e un po' perché, una volta assuefatti alla produzione, farne a meno diventa ancora più costoso Quanto più il consumatore si arricchisce, tanto più è cosciente dei gradini che ha scalato, sul lavoro come in casa. Più sta in alto nella piramide produttiva, meno ha tempo per abbandonarsi ad attività non traducibili in termini contabili. Diventa difficile guadagnare tempo quando s accendono troppe ipoteche sull'avvenire. Come ha rilevato Staffan Linder, noi tendiamo a sovraimpiegare il futuro; I quando il futuro diventa presente, si ha continuamente i senso di non avere abbastanza tempo, semplicemente per che si sono previste giornate di trenta ore. Quasi non bastasse che il tempo costa più o meno caro e, in generale sempre più caro in una società d'abbondanza, il sovraimpiego del futuro genera uno stress devastante.

L'industria dei trasporti produce scarsità di tempo. Il una società in cui molta gente impiega veicoli rapidi, tutti debbono dedicarvi più tempo e più denaro. Una volta rotti l'equilibrio e superata la soglia di velocità, la rivalità fra l'industria del trasporto e le altre industrie per controllare gli spazi e l'energia disponibili diventa feroce; e mentre li velocità aumenta in modo lineare, la zuffa cresce in misuri esponenziale. Il tempo dedicato alla circolazione usurpi l'attività lavorativa come divora il tempo libero.

I veicoli più grossi non devono mai essere vuoti, i più rapi di devono muoversi senza sosta. Le capsule individuali diventano sproporzionatamente costose. I trasporti pubblici non possono più servire altro che i grandi assi. Bisogna che la macchina giri, sempre più velocemente. Man mano che l: sua velocità aumenta, il veicolo diventa il tiranno dell'esistenza quotidiana. Si prevede un certo tempo, e poi ne occorre il doppio. Si prendono impegni con mesi e persino anni d anticipo. Alcuni di questi impegni, presi a caro prezzo, noi possono essere mantenuti. Si è dominati dal senso dell'impotenza. Si vive sotto tensione. L 'uomo non è programmabile a volontà. Quando la soglia critica per l'equilibrio dell'azione viene oltrepassata, è il momento del grande duello tra l'industria della velocità e le altre per decidere chi spoglierà l'uomo della parte di umanità che ancora gli rimane. La velocità è il vettore-chiave per palesare come l'industria del trasporto intacca l'equilibrio vitale. Se si considerano le prime cinque dimensioni, ne occorre molto meno di quanto si potrebbe credere perché i trasporti si rivolgano contro l'uomo spezzando le scale naturali. Ma c'è un altro fatto ancora più sorprendente. La velocità che, applicando l'insieme dei primi cinque criteri definiti, appare tollerabile, è dello stesso ordine di grandezza della velocità che ottimizza la circolazione desiderabile, cioè della velocità che, col minor costo di tempo sociale, assicura insieme l'equità del raggio d'azione e delle possibilità di accesso massimalizzate dalla tecnica La grande varietà delle gamme d'ordine tecnico che contrassegnano le rispettive cerchie delle diverse civiltà si iscrive perfettamente nello spazio della tecnologia tollerabile. I confini del tollerabile coincidono, nell'ordine di grandezza, col limite superiore della gamma del desiderabile. Questa constatazione del controsenso rappresentato dalla sovrapproduzione non vale soltanto per i trasporti. Lo stesso tipo di risultati negativi si ritrova esaminando gli investimenti per la medicina. Si è calcolato che negli Stati Uniti più del 95 per cento delle spese sanitarie per malati vicini a morire non ha alcun effetto benefico sulla loro salute, ma tende a intensificare le loro sofferenze, a renderli completamente dipendenti da cure impersonali, senza prolungare la durata della loro esistenza. La redditività massima di un servizio si situa all'interno di certi limiti: superata una certa soglia, la salute di un paziente finisce col misurarsi dal suo conto d'ospedale, allo stesso modo che la ricchezza di una nazione si misura dalla sua nota-spese globale che è il Prodotto Nazionale Lordo. Alla scala dell'individuo come a quella della collettività, bisogna sempre pagare. Bisogna pagare per remunerare il capitale, e bisogna pagare i cocci rotti dallo sviluppo. Praticando l'escalation della tecnica, la medicina prima cessa di guarire, poi cessa di prolungare la vita umana. Si trasforma in rituale di negazione della morte: l'individuo sovradattato alla macchina compie il suo ultimo spettacolare giro di pista, segnando il tempo migliore.

Il primo passo di una ricerca radicale sta nello studio delle crescenti disutilità marginali e delle minacce generate dallo sviluppo. In una seconda fase, si applica a scoprire i sistemi e le istituzioni che ottimizzano i modi di produzione conviviali. Una simile ricerca si scontra con molteplici resistenze, fra cui non sono le meno forti quelle d'ordine psicologico. L'uomo sovrattrezzato è come il morfinomane: l'assuefazione deforma l'intero suo sistema di valori e mutila la sua capacità di giudizio. I drogati di ogni genere sono pronti a pagare sempre di più per godere sempre meno. Tollerano l'escalation della disutilità marginale. Non c'è nulla che possa scuoterli perché uno solo è il pensiero che li assorbe: far salire la posta. Una mentalità di questo tipo considera lo strumento di trasporto come un mezzo per procurarsi il piacere della velocità, non per fruire di maggiore libertà e gioia nella circolazione. Difficilmente ammetterà l'evidenza che la mobilità dell'uomo èd'ordine naturale e che nessuna accelerazione del veicolo può far salire la mobilità di una società al di là di un certo ordine di grandezza.

La ricerca radicale evidenzia il rapporto tra l'uomo e lo strumento, lo rende trasparente, identifica le risorse di cui disponiamo e gli effetti che possiamo attenderci dai loro diversi impieghi possibili.

Evidenziare la degradazione degli equilibri su cui si fonda la sopravvivenza, è questo il compito immediato della ricerca radicale. Essa identifica le categorie di popolazione più minacciate e le aiuta a discernere la minaccia. A individui o a gruppi fino allora divisi fa prendere coscienza che le stesse minacce pesano sulle loro libertà fondamentali. Mostra come qualunque richiesta di libertà reale, da chiunque sia formulata, coincide sempre con l'interesse dei più.

La disassuefazione dallo sviluppo sarà dolorosa. Lo sarà per la generazione di passaggio, e soprattutto per i più intossicati tra i suoi membri. Possa il ricordo di tali sofferenze preservare dai nostri errori le generazioni future.

IV. I tre ostacoli all'inversione politica

Abbiamo visto come l'equilibrio della vita si dispieghi in cinque dimensioni. In ognuna di esse, solo il mantenimento dello specifico equilibrio che la caratterizza garantisce l'omeostasi costitutiva della vita umana: l'intervento nell'ecosfera rimane razionale solo a patto di non superare i limiti genetici; l'istituzione suscita cultura solo se consente e realizza un equilibrio sottile tra l'autonoma azione personale e le direzioni obbligate che da parte sua impone; l'annullamento delle barriere geografiche e culturali può promuovere l'originalità sociale solo se si accompagna a una riduzione dello scarto energetico tra i privilegiati e la maggioranza; un aumento del tasso di innovazione ha valore solo se lascia spazio per un più profondo radicamento nella tradizione e nella pienezza del senso.

Da mezzo, lo strumento può diventare padrone e poi carnefice dell'uomo. Il rapporto si rovescia più rapidamente che non s'immagini: l'aratro fa dell'uomo prima il signore di un giardino, poi, ben presto, un nomade in un sahel polveroso. Il vaccino che seleziona le sue vittime genera una razza capace di sopravvivere solo in un ambiente preconfezionato. I nostri bambini nascono più deboli in un mondo inumano. L'Homo faber, da apprendista stregone, si trasforma in vorace pattumiera.

Lo strumento può svilupparsi in due modi: accrescendo il potere dell'uomo o sostituendosi a lui. Nel primo caso, la persona conduce la propria esistenza, ne assume il controllo e la responsabilità. Nel secondo caso, è la macchina che finisce col prevalere: dapprima riducendo le possibilità di scelta sia dell'operatore sia dell'utente-consumatore, poi imponendo a entrambi la sua logica e le sue esigenze. La sopravvivenza della specie, minacciata dall'onnipotenza dello strumento, dipende dall'instaurazione di procedure che permettano a tutti di distinguere chiaramente tra questi due modi di razionalizzare e impiegare lo strumento e, in tal modo, incitino a scegliere la sopravvivenza nella libertà. Questa esigenza si scontra però con tre ostacoli:

l'idolatria della scienza, la corruzione del linguaggio quotidiano e la svalutazione delle procedure formali mediante le quali vengono prese le decisioni sociali.

La demitizzazione della scienza

Innanzi tutto, il dibattito politico è soggiogato da una illusione riguardo alla scienza. Con questo termine si è finito per designare non tanto un'attività personale quanto un'impresa istituzionale, la soluzione di una serie di rompicapo anziché l'imprevedibile dispiegarsi della creatività umana. La scienza oggi è un'agenzia di servizi fantasma e onnipresente, che produce del sapere migliore, così come la medicina produce una migliore salute. Il danno causato da questo misconoscimento della natura del sapere è ancora più radicale del male prodotto dalla mercantilizzazione dell'educazione, della salute e del movimento. Il miraggio della salute migliore corrompe il corpo sociale in quanto ognuno si preoccupa sempre meno della qualità dell'ambiente, dell'igiene del modo di vivere o della propria capacità di curare gli altri. L'istituzionalizzazione del sapere, invece, provoca una degradazione globale più profonda perché determina la struttura comune degli altri prodotti. In una società che si definisce dal consumo del sapere, la creatività è mutilata, l'immaginazione si atrofizza.

Questa perversione della scienza nasce dalla credenza in due specie di sapere: quello, inferiore, dell'individuo e quello, superiore, della scienza. Il primo apparterrebbe alla sfera dell'opinione, sarebbe l'espressione di una soggettività, e non avrebbe nulla a che fare col progresso. Il secondo sarebbe obiettivo, definito scientificamente e diffuso da portavoce competenti. Questo sapere obiettivo è considerato come un bene che può essere accumulato e continuamente perfezionato. Costituisce una risorsa strategica, un capitale, la più preziosa delle materie prime, l'elemento-base del cosiddetto decision-making, di quella «presa di decisione» che a sua volta è concepita come un processo impersonale e tecnico. Sotto il nuovo regno del calcolatore e della dinamica di gruppo, il cittadino abdica a ogni potere in favore dell'esperto, unico competente.

Il mondo non è portatore di nessun messaggio, di nessuna informazione. E quello che è. Ogni messaggio concernente il mondo è prodotto da un organismo vivente che agisce su di esso. Quando si parla di informazioni accumulate al di fuori dell'organismo umano si cade in una trappola semantica. I libri e i calcolatori fanno parte del mondo: forniscono dati quando c'è un occhio che li legga. Confondendo il medium con il messaggio, il veicolo con l'informazione, i dati con la decisione, noi releghiamo disinvoltamente il problema del sapere e della conoscenza nel punto cieco della nostra visione intellettuale.

Intossicati dalla credenza in un avvenire migliore, gli individui cessano di fidarsi del proprio giudizio e chiedono che gli si dica la verità su ciò che «sanno». Intossicati dalla credenza in un migliore decision-making, stentano a decidere da soli e ben presto perdono fiducia nella propria capacità di farlo. La crescente impotenza dell'individuo a decidere da solo incide sulla stessa struttura delle sue aspettazioni. Mentre una volta gli uomini si disputavano delle risorse realmente scarse, oggi reclamano un meccanismo distributore per colmare una carenza che è solo illusoria. Il rituale burocratico organizza il consumo frenetico del menù sociale: programma d'educazione, trattamento medico o azione giudiziaria. Il conflitto personale non ha più alcuna legittimità, dal momento che la scienza promette l'abbondanza per tutti e pretende di dare a ciascuno secondo le sue esigenze personali e sociali, obiettivamente identificate. Gli individui, che hanno disimparato a riconoscere i propri bisogni come a reclamare i propri diritti, divengono preda della megamacchina che definisce in vece loro le loro esigenze e rivendicazioni. La persona non può più contribuire di suo al continuo rinnovamento della vita sociale. L'uomo arriva a diffidare della parola, pende da un sapere presunto. Il voto rimpiazza la discussione, la cabina elettorale il tavolino del caffè. Il cittadino si siede dinanzi allo schermo e tace.

Le regole del senso comune che permettevano alla gente di unire e scambiarsi le proprie esperienze sono distrutte. Il consumatore-utente ha bisogno della sua dose di sapere garantito, accuratamente preconfezionato. Trova la propria sicurezza nella certezza di leggere lo stesso giornale del vicino, di guardare la stessa trasmissione televisiva del suo padrone. Si accontenta di avere accesso allo stesso rubinetto di sapere del suo superiore, anziché perseguire l'uguaglianza di condizioni che darebbe alla sua parola lo stesso peso di quella del suo padrone. La dipendenza, che tutti accettano come ovvia, nei confronti del sapere altamente qualificato prodotto dalla scienza, dalla tecnica e dalla politica, erode la fiducia tradizionale nella veracità del testimone e svuota di senso i modi con cui gli uomini possono scambiarsi le proprie certezze. Persino davanti ai tribunali, la perizia rivaleggia in importanza con le testimonianze: l'esperto è considerato quasi come un testimone patentato, ci si dimentica che la sua deposizione non rappresenta altro che un sentito dire, l'opinione di una professione. Sociologi e psichiatri concedono o negano il diritto alla parola, a una parola udibile. Riponendo la propria fede nell'esperto, l'uomo si spoglia prima della sua competenza giuridica e poi di quella politica. La fiducia nell’onnipotere della scienza induce i governi e i loro amministrati a cullarsi nell'illusione di poter eliminare i conflitti suscitati da un'evidente rarefazione dell'acqua, dell'aria o dell'energia, a credere ciecamente agli oracoli degli esperti che promettono miracolose moltiplicazioni.

Nutrita del mito della scienza, la società abbandona agli esperti persino la cura di fissare i limiti dello sviluppo. Una simile delega di potere distrugge l'intero funzionamento politico; alla parola come misura di tutte le cose sostituisce l'obbedienza a un mito, e alla fine legittima in un certo senso anche la conduzione di esperimenti sull'uomo. L'esperto non rappresenta il cittadino, fa parte di una élite la cui autorità si fonda sul possesso esclusivo di un sapere non comunicabile; ma questo sapere, in realtà, non gli conferisce alcuna particolare attitudine a definire i confini dell'equilibrio della vita. L'esperto non potrà mai dire dove si colloca la soglia della tolleranza umana: è la persona che la determina, nella comunità; e questo suo diritto è inalienabile. Certo, è possibile fare esperimenti su esseri umani. I medici nazisti hanno esplorato i limiti di sopportazione dell'organismo. Hanno scoperto quanto tempo l'individuo medio può reggere alla tortura, ma questo non gli ha affatto rivelato ciò che qualcuno può ritenere tollerabile. Significativamente, quei medici furono condannati in base a un patto firmato a Norimberga due giorni dopo la distruzione di Hiroshima e il giorno prima di quella di Nagasaki.

Quanto un popolo possa patire è un calcolo che nessun esperimento permette di fare. Si può dire che cosa accade a un gruppo di individui particolari posti in una situazione estrema: prigionieri, naufraghi o cavie; ma ciò non può servire a determinare il grado di sofferenza e di frustrazione che una data società accetterà di subire a causa degli strumenti che essa stessa si è procurata. Indubbiamente, determinate misurazioni scientifiche possono indicare che un certo tipo di comportamento minaccia un equilibrio vitale maggiore; ma solo una maggioranza di uomini di giudizio, che conoscono la complessa realtà quotidiana e che ne tengono conto nelle loro azioni, può stabilire come vanno limitati i fini perseguiti dagli individui e dalla società. La scienza può chiarire le dimensioni del regno dell'uomo nel cosmo; ma occorre una comunità politica di uomini coscienti della forza della loro ragione, del peso della loro parola, della serietà dei loro atti per scegliere, liberamente, l'austerità capace di garantire la loro vitalità.

La riscoperta del linguaggio

Tra il 1830 e il 1850, una dozzina di scienziati scopri e formulò la legge della conservazione dell'energia. La maggior parte di essi era costituita da ingegneri che, ognuno per conto proprio, ridefinirono l'energia cosmica in termini di peso sollevabile da una macchina. Grazie alle operazioni di misura effettuate in laboratorio, si credette infine di poter ridurre a un denominatore comune l'energia primordiale, la vis viva della tradizione. Fu allora che le scienze esatte presero a dominare la ricerca.

Durante lo stesso periodo, e in maniera analoga, l'industria cominciò ad affermarsi sugli altri modi di produzione.

I risultati industriali divennero misura e regola dell'intera economia, e ben presto tutte le attività produttive alle quali non potevano applicarsi le regole di misura e i criteri di efficienza validi per la produzione in serie furono considerate sussidiarie: così i lavori domestici, l'artigianato e l'agricoltura di sussistenza. Il modo di produzione industriale cominciò dapprima col degradare la rete dei rapporti produttivi che erano fino allora coesistiti nella società, e poi la paralizzò.

Questo monopolio esercitato da un unico modo di produzione su tutte le relazioni produttive è più insidioso e pericoloso della concorrenza tra imprese rivali, ma è anche meno visibile. Conoscere il vincitore nella concorrenza di superficie è facile: è la fabbrica a forte intensità di capitale, l'azienda meglio organizzata, il ramo industriale più schiavistico e meglio protetto, l'impresa che sa meglio contenere gli sprechi o quella che ha maggiori commesse di armamenti. Su più vasta scala, questa gara prende la forma di una concorrenza tra imprese multinazionali e paesi in via d'industrializzazione. Ma questa mortale partita fra titani distoglie l'attenzione da quella che è la sua funzione rituale: man mano che il campo di concorrenza si estende, una medesima struttura industriale si diffonde p~ il mondo e polarizza la società. Il modo di produzione industriale afferma il proprio dominio non soltanto sulle risorse e sulle attrezzature, ma anche sull'immaginazione e sui desideri d'un sempre maggior numero di individui. E il monopolio radicale generalizzato, non più quello di un singolo ramo d'industria ma quello del modo di produzione industriale. Si può dire che l'uomo stesso è industrializzato. I sistemi politici gareggiano in ingegnosità e agilità semantica per battezzare con nomi opposti questa medesima struttura industriale ovunque in espansione, senza comprendere che essa sfugge ovunque al loro controllo. Anzi, l'antagonismo tra paesi poveri e ricchi, tra nazioni sottoposte a una pianificazione centrale e nazioni in cui regna la legge del mercato, è la maschera necessaria perché il monopolio appaia benefico.

Estesa al mondo intero, questa industrializzazione dell'uomo provoca la degradazione di tutte le lingne, e diventa difficilissimo trovare le parole che parlino di un mondo opposto a quello che le ha generate. La lingua riflette il monopolio che il modo di produzione industriale esercita sulla percezione e la motivazione. Nei paesi industriali, quando l'uomo parla del suo fare, usa parole che designano i prodotti dell'industria. La lingua rispecchia la materializzazione della coscienza. L'individuo che impara qualcosa leggendo un libro dice di aver acquisito educazione. Lo slittamento funzionale dal verbo al sostantivo sottolinea l'impoverimento della immaginazione sociale. L'uso nominalistico della lingua esprime dei rapporti di proprietà: la gente parla del lavoro che ha. In tutta l'America Latina solo i salariati dicono che hanno (o non hanno) lavoro, a differenza dei contadini che invece lo fanno: «Van a trabajar, pero no tienen trabajo». I lavoratori moderni e sindacalizzati reclamano dall'industria non soltanto più beni e servizi, ma anche più posti di lavoro. Non soltanto il fare ma anche il volere è sostantivato. L'«abitazione» è più una merce che un'attività; l'alloggio diventa un prodotto che ci si procura o si rivendica perché si è privi del potere di dargli forma da se stessi. Si acquista sapere, mobilità, persino sensibilità o salute. Si ha lavoro o salute, come si hanno divertimenti.

Il   passaggio dal verbo al sostantivo rispecchia l'impoverimento del concetto di proprietà. Termini come possesso, appropriazione, abuso non servono più per definire il rapporto dell'individuo o del gruppo con una istituzione come la scuola: nella sua funzione essenziale, infatti, un simile strumento sfugge a ogni controllo. Le affermazioni di proprietà nei riguardi dello strumento passano a indicare la capacità di disporre dei suoi prodotti, si tratti dell'interesse sul capitale o delle merci, o anche del prestigio d'ogni sorta legato all'una o all'altra di queste operazioni. Il consumatore-utente integrale, l'uomo pienamente industrializzato, non ha infatti altro di suo se non ciò che consuma. Dice: la mia educazione, i miei movimenti, i miei divertimenti, la mia salute. Man mano che l'ambito del suo fare si restringe, egli richiede dei prodotti di cui si dice proprietario. Assoggettato al monopolio di un unico modo di produzione, l'utente ha perduto ogni senso della pluralità dei modi di avere. Nelle parlate polinesiane ci sono forme verbali distinte per esprimere la relazione che io ho con i miei atti (che non possono più essere separati dalla mia persona), con il mio naso (che mi può essere strappato), con i miei parenti (che non sono stato io a scegliere), con la mia piroga (senza la quale non sarei un vero uomo), con una bevanda (che vi offro) e con la stessa bevanda (mentre mi appresto a berla).

In una società in cui la lingua si è sostantivata, i predicati sono formulati in termini di lotta concorrenziale contro la scarsità. «Voglio imparare» diventa «voglio procurarmi un titolo di studio». La decisione di agire è sostituita dalla richiesta di un biglietto della lotteria scolastica. «Ho voglia di muovermi» si trasforma in «ho bisogno di un mezzo di trasporto». All'insistenza sul diritto di agire si sostituisce l'insistenza sul diritto di avere. Nel primo caso il soggetto è attore, nel secondo utente. Il cambiamento linguistico sorregge l'espansione del modo di produzione industriale: la concorrenza regolata da valori industrializzati si riflette nella nominalizzazione della lingua. La lotta concorrenziale prende inevitabilmente la forma di un gioco (a somma zero) in cui la perdita di un giocatore si risolve in guadagno per gli altri giocatori. Nella mischia, gli individui giocano per i nomi così come li percepiscono: valorizzando unicamente l'apprendimento che si svolge tra le sue mura, la scuola definisce l'educazione come oggetto di competizione. L'alma mater ha troppi piccoli attaccati alle sue mammelle: quello che poppa la sua razione di educazione ne priva un fratello di latte. Il conflitto personale non è necessariamente una lotta per impadronirsi di un bene raro; può anche esprimere un disaccordo sui mezzi più idonei ad assicurare l'autonomia della persona: in tal caso, diventa creatore di libertà. Ma il linguaggio nominalistico ha oscurato questa profonda verità, che il conflitto può essere creatore di diritto per tutti e due gli avversari, creatore del diritto di far cose che, per definizione, non sono né beni né oggetti rari. Il conflitto porterà al diritto di muoversi, di parlare, di leggere, di scrivere o di registrare su un piede di eguaglianza, di partecipare al mutamento sociale, di respirare un'aria pura e di impiegare strumenti conviviali. Con questo, priverà le due parti di un bene determinato, per amore di un guadagno inestimabile: una nuova libertà condivisa da tutti. Limitando il consumo forzato, si libera il campo dell'azione.

Il codice operativo dello strumento industriale trascina nel proprio ingranaggio il parlare quotidiano, e l'espressione umana ancorata a una visione poetica della vita è tollerata appena, come una protesta marginale e finché non disturbi la folla che fa la coda davanti all'apparecchio che distribuisce i prodotti. Se non ci eleviamo a un nuovo grado di coscienza, che ci permetta di ritrovare la funzione conviviale del linguaggio, non arriveremo mai a rovesciare questo processo di industrializzazione dell'uomo. Ma se ognuno si serve della lingua per rivendicare il proprio diritto all'azione sociale anziché al consumo, il linguaggio diverrà il mezzo per restituire trasparenza al rapporto tra l'uomo e lo strumento.

Il recupero del Diritto

Lo scopo di gran lunga predominante dell'attività legislativa e del Diritto, nelle loro forme attuali, è di sorreggere una società tesa verso l'espansione indefinita. Il processo mediante il quale gli uomini decidono che cosa si deve fare è oggi asservito all'ideologia della produttività: bisogna produrre di più, più sapere e decisioni, più beni e servizi. Dopo la perversione del sapere e della lingna, la perversione del Diritto è il terzo ostacolo a una attualizzazione politica dei limiti.

I partiti, le sedi legislative e l'apparato giudiziario sono stati sempre più adibiti a promuovere e tutelare la crescita delle scuole, dei sindacati, degli ospedali e delle autostrade, per non parlare delle fabbriche. A poco a poco, non soltanto la polizia ma anche gli organi legislativi e i tribunali hanno finito per essere considerati strumenti al servizio dello Stato industriale. Il fatto che talvolta difendano l'individuo dalle pretese dell'industria è l'alibi che maschera la loro docilità a servire il monopolio radicale e a legittimare una sempre maggiore concentrazione dei poteri. A loro modo, i magistrati diventano un corpo di ingegneri dello sviluppo. In regime di democrazia popolare o capitalista, sono gli alleati «obiettivi» dello strumento contro l'uomo.

Con l'idolatria della scienza e la corruzione del linguaggio, questa degradazione del Diritto è un ostacolo di prim'ordine alla ristrutturazione degli strumenti della società.

Si comprende che un'altra società è possibile quando si arriva a esprimerlo chiaramente. Se ne provoca l'apparizione quando si scopre il procedimento mediante il quale la società esistente prende le sue decisioni. Se ne organizza la struttura quando si utilizzano la lingua materna e le procedure tradizionali del Diritto per scopi opposti a quelli che si prefigge il loro uso attuale. In ogni società, infatti, c'è una struttura profonda che organizza la presa di decisioni. Questa struttura esiste ovunque degli uomini si riuniscano. Il medesimo processo può dar luogo a decisioni contraddittorie, perché la struttura non serve solo alla definizione dei valori personali, ma anche alla sopravvivenza di un comportamento istituzionalizzato. L'esistenza di contraddizioni non contraddice l'esistenza di una struttura coerente che le genera, al contrario. Io posso decidere di acquisire un'educazione, anche se per un altro verso ho deciso che sarebbe meglio imparare partecipando alla vita quotidiana. Posso lasciarmi portare all'ospedale, anche se ho deciso che soffrirei meno e morirei più tranquillamente restandomene a casa. Come l'intuizione di dissonanze cognitive è il fondamento della poesia, così la coesistenza di norme contraddittorie manifesta l'esistenza di procedure normative.

Gli uomini non hanno più fiducia nelle procedure disponibili, non perché siano state intrinsecamente pervertite, ma perché se ne fa un abuso continuo. Le si usa per imbottire la gente di argomenti etici, politici o legali; sono diventate rotelle della produzione illimitata. Le Chiese predicano l'umiltà, la carità e la povertà, e finanziano programmi di sviluppo industriale. I socialisti sono diventati i difensori senza riserve del monopolio industriale. La burocrazia del Diritto si è alleata con quelle dell'ideologia e del benessere generale, per difendere la crescita dello strumento. Ben presto sarà il calcolatore a decidere le idee, le leggi e le tecniche indispensabili per lo sviluppo.

Se non ci si mette d'accordo su una procedura efficace, durevole e conviviale, diretta a controllare gli strumenti della società, l'inversione della struttura istituzionale esistente non potrà essere né iniziata né, soprattutto, portata avanti. Ci saranno sempre dei manager che vorranno aumentare la produttività dell'istituzione, e dei tribuni che prometteranno la luna alle folle avide.

Ogni volta che si propone di utilizzare il Diritto come strumento d'inversione della società, vengono avanzate tre obiezioni. La prima è superficiale: non tutti possono essere giuristi e dunque non tutti possono utilizzare il Diritto in proprio. Naturalmente ciò è vero solo in una certa misura. Potrebbero infatti stabilirsi, in particolari comunità, dei sistemi paragiuridici, che potrebbero poi essere incorporati nella struttura generale. Inoltre si potrebbe dare maggiore spazio alla partecipazione dei non professionisti, che riuscirebbe certamente preziosa nelle procedure di mediazione, di conciliazione o di arbitrato. Ma questa obiezione, per fondata che sia, non coglie il punto. Poiché il Diritto regola gli strumenti che governano la vita quotidiana, non c'è alcun motivo per cui la maggior parte dei processi non possa essere decentrata, demistificata e sburocratizzata. Resta il fatto che certi problemi sociali si pongono su grande scala, sono complessi e tali resteranno a lungo; richiedono perciò un'attrezzatura giuridica a loro misura. Dovendo servire a vaste collettività umane, ciascuna delle quali portatrice di una tradizione secolare, per negoziare proscrizioni su scala mondiale il Diritto, in quanto processo di regolazione di questi problemi sociali, è di fatto un'attrezzatura che richiede l'opera di esperti. Ma ciò non significa che questi esperti debbano essere dottori in legge o costituire un mandarinato.

La seconda obiezione, invece, tocca direttamente il nostro discorso, e va molto più lontano: gli attuali operatori dell'attrezzatura giuridica della società sono profondamente intossicati dalla mitologia dello sviluppo. La loro visione del possibile e del fattibile è supinamente conforme all'indottrinamento industriale. Sarebbe follia sperare che i dirigenti di una società produttivista si trasformino in vestali della società conviviale. La portata di questa osservazione è completata e sottolineata da una terza obiezione: il sistema giuridico non è soltanto un insieme di regole scritte, è un processo continuo attraverso il quale le leggi si adattano e si applicano a situazioni reali. Attraverso la serie degli atti giuridici, la collettività si dà un certo quadro mentale. Ne risulta un contenuto del Diritto che riflette l'ideologia dei legislatori e dei giudici. Il modo in cui questi percepiscono l'ideologia che soggiace a ogni cultura diviene una mitologia ufficiale che si concretizza nelle leggi che essi formulano e applicano. Il corpo delle leggi che regola una società industriale ne riflette inevitabilmente l'ideologia, le caratteristiche sociali e la struttura di classe, nello stesso tempo in cui le rafforza e ne assicura la riproduzione. Quale che sia la sua etichetta ideologica, ogni società moderna situa sempre il bene comune nell'ordine del più: più potere alle imprese e agli esperti, più consumo agli utenti.

 

Queste obiezioni, pur se sottolineano una difficoltà fondamentale per l'uso del Diritto al fine di rovesciare la società, non colpiscono però il centro della questione. Io faccio una distinzione precisa tra il corpo delle leggi e la struttura formale che lo elabora, così come ho distinto tra l'uso degli slogan, ai quali le istituzioni ricorrono, e la pratica del linguaggio quotidiano, e come distinguerò poi tra l'insieme delle politiche e il processo formale che le origina. È evidente che quando si tratta del Diritto, come del sapere o del linguaggio, noi ci riferiamo alla struttura che governa nel profondo l'attribuzione del senso. E dal pieno recupero e dal libero uso ditale struttura che dipende il risveglio delle forze capaci di trasfigurare «l'alleanza per il progresso».

In un tempo in cui l'operazione è divenuta fine a se stessa, non si insisterà mai abbastanza sulla distinzione tra i fini e i mezzi, tra il procedimento e la sostanza. Noi viviamo in questo mondo, in cui il linguaggio ci parla, il sapere ci pensa e il Diritto ci agisce. Il linguaggio si riduce all'emissione e alla ricezione di messaggi; il pensiero all'accumulazione delle informazioni; il Diritto al regolamento del piano. Per ritrovare la distinzione cruciale tra il procedimento e la sostanza, l'analisi del procedimento giuridico può servirci da paradigma. Questa distinzione è infatti alla radice di qualunque Diritto, anche se ogni esempio di Diritto si caratterizzi per lo stile particolare del suo processo formale. Per sostenere la mia argomentazione farò ricorso al diritto angloamericano.

L'esempio del Diritto consuetudinario

La struttura formale della Common Law presenta due caratteri dominanti e complementari che la rendono particolarmente adatta al bisogni di un'epoca di crisi. Il sistema si fonda sulla continuità e sulla opposizione antagonistica o contraddittoria delle parti (adversary nature of the Common Law).

La continuità inerente al processo di elaborazione del Diritto conserva, in un certo senso, la sostanza del corpo delle leggi. Ciò non è così evidente nella fase legislativa: il legislatore ha infatti la più ampia libertà di innovare, purché resti all'interno del quadro costituzionale. Ma ogni nuova legge deve iscriversi nel contesto della legislazione esistente, e pertanto non può scostarsi troppo dal diritto vigente.

È chiaro che la funzione della giurisprudenza è di assicurare la continuità della sostanza del Diritto, attualizzandola. I tribunali applicano il Diritto a situazioni reali. La giurisprudenza giudica allo stesso modo due casi identici o viceversa stabilisce che lo stesso fatto, oggi, non significhi ciò che significava ieri. Il Diritto rappresenta l'autorità sovrana che il passato esercita sul conflitto presente, la continuità di un processo dialettico. Il tribunale riconosce nella controversia una questione d'interesse sociale, e quindi incorpora il giudizio pronunciato nel corpo del Diritto. Nel processo giuridico, l'esperienza sociale del passato viene riattualizzata ai fini dei bisogni presenti; in avvenire, il giudizio di oggi servirà a sua volta come precedente per regolare altre vertenze.

La continuità della struttura formale che regge il processo giuridico non si riduce alla semplice incorporazione di un insieme di giudicati in un insieme dileggi. Dal punto di vista meramente formale, questo modo di continuità non mira a preservare il contenuto di questa o quella legge: al contrario, potrebbe servire a preservare lo sviluppo continuo del Diritto di una società retta da principi inversi. Nulla vieta, nella maggior parte delle costituzioni, di legiferare su una limitazione della produttività, dei privilegi burocratici, della specializzazione o del monopolio radicale. In linea di principio, purché sia orientata in senso inverso, la procedura legislativa e giurisprudenziale potrebbe servire a formulare questo nuovo Diritto e a farlo rispettare.

Altrettanto importante è il carattere contraddittorio della procedura della Common Law. Da un punto di vista formale, la Common Law non ha niente a che fare con la definizione di ciò che è bene in materia etica o tecnica. E uno strumento per comprendere delle relazioni, allorché queste esplodono sotto forma di conflitti reali. Tocca alle parti interessate reclamare il loro diritto o rivendicare ciò che esse giudicano buono. Così funziona la struttura, al livello legislativo come a quello giurisprudenziale. Equilibrando interessi opposti, la decisione dovrebbe ricavare ciò che teoricamente è preferibile per tutti.

Nelle ultime generazioni questo equilibrio, sempre deformato dall'uno o dall'altro pregiudizio, è stato complessivamente distorto a favore della società fondata sullo sviluppo. Ma il fatto che la struttura giuridica venga correntemente pervertita non significa che non possa essere usata per scoPi inversi. Nulla impedisce che questo strumento venga utilizzato da delle parti globalmente opposte alla società produttivista, libere dall'illusione che lo sviluppo possa sopprimere l'ingiustizia sociale e coscienti della necessità dei limiti. Certo non basta che compaia un nuovo tipo di attore; occorre anche che il legislatore si disintossichi dallo sviluppo, che le parti appellanti si battano per la tutela dei loro interessi e che, a questo scopo, sottopongano a un sistematico riesame le evidenze e le certezze troppo assodate.

La legge come la giurisprudenza suppone che le parti sottopongano i conflitti di interessi sociali al giudizio di un tribunale imparziale. Questo tribunale, o camera che sia, opera in modo continuo. Il giudice ideale è una persona comune, prudente, indifferente alla materia del contendere, esperta nell'esercizio della procedura. Ma, nella realtà della vita, il giudice è un uomo del suo tempo e del suo ambiente. In pratica, anche i tribunali hanno finito per dar mano alla concentrazione del potere e alla crescita della produzione industriale. Non soltanto il giudice e il legislatore sono spinti a credere che una causa sia ben giudicata e la controversia convenientemente risolta quando la bilancia della giustizia penda a favore dell'interesse globale delle industrie, ma anche la società, da parte sua, ha condizionato il ricorrente a esigere che esse crescano. Si rivendica una più sostanziosa fetta della torta istituzionale più che la difesa da un'istituzione che mutila la libertà. Tuttavia l'uso distorto dello strumento giuridico non ne corrompe l'intrinseca natura.

C'è un'obiezione che viene spesso sollevata quando si afferma che le procedure a contraddittorio sono uno strumento-chiave per limitare la crescita industriale: e cioè che le società fanno già troppo affidamento su questi giudizi, senza grandi risultati. Negli Stati Uniti, per esempio, i riformatori rivendicano il diritto all'opposizione legale per tutti i gruppi svantaggiati: negri, indiani, donne, lavoratori, invalidi, consumatori. Di conseguenza i giudizi tendono a diventare lunghi, scomodi, costosi, e la maggior parte degli interessati non è in grado di andare fino in fondo. Le cause si trascinano e le sentenze arrivano quando hanno perso rilevanza. La procedura diventa un gioco, che crea nuovi antagonismi, nuove competizioni. E distolta dal suo fine, la decisione diventa un bene raro. La società di sviluppo recupera così l'utente della procedura formale.

L'obiezione che si oppone a questo moltiplicarsi dei procedimenti non è affatto fuori posto se riguarda la loro proliferazione come mezzo per risolvere dei conflitti personali. Ma qui io non mi occupo dei conflitti tra persone o delle lotte dei gruppi fra loro. Ciò che mi interessa non è l'opposizione tra una classe di sfruttati e un'altra classe proprietaria degli strumenti, ma l'opposizione che si situa anzi tutto tra l'uomo e la struttura tecnica dello strumento, poi, e di conseguenza, tra l'uomo e certe professioni il cui interesse consiste nel mantenere tale struttura tecnica. Nella società, il conflitto fondamentale riguarda atti, fatti o oggetti sui quali delle persone entrano in opposizione formale con le imprese e le istituzioni manipolatrici. Formalmente la procedura contraddittoria è il modello dello strumento di cui i cittadini dispongono per opporsi alle minacce che l'industria fa pesare sulla loro libertà.

Tranne rare eccezioni, le leggi e i corpi legislativi, i tribunali e i giudizi, i querelanti e le loro richieste sono profondamente pervertiti dall'accordo unanime e schiacciante che accetta senza riserve il modo di produzione industriale e i suoi slogan: sempre di più, è sempre meglio, e d'altra parte le imprese e le istituzioni sanno meglio delle persone quale sia l'interesse pubblico e come servirlo. Ma questa obnubilante unanimità non inficia per niente la mia tesi:

una rivoluzione che trascuri di utilizzare le procedure giuridiche e politiche si condanna al fallimento.

Solo un'attiva maggioranza di individui e di gruppi che cerchino, con una procedura conviviale comune, di recuperare i propri diritti, può strappare al leviatano il potere di stabilire i confini che, per sopravvivere, bisogna imporre alla crescita, e quello di scegliere i limiti che ottimizzano una civiltà.

Per avviare la lotta contro i pregiudizi regnanti, per condurre all'inversione, alcuni tra quelli che appartengono alle grandi professioni possono svolgere un ruolo illuminante. Di solito gli educatori, quando prendono coscienza della crisi della scuola, si mettono alla ricerca di una qualche soluzione miracolosa che permetta di insegnare più cose a più persone. I loro sforzi e le loro pretese amplificano l'importanza di quella minoranza di pedagogisti che insiste sui limiti pedagogici della crescita industriale. Allo stesso modo, i medici tendono a credere che almeno una parte del loro sapere non può essere espresso se non in termini esoterici; e per loro un confratello che secolarizzi gli atti medici non è che un profanatore. E inutile attendersi che l'Ordine dei medici, i sindacati degli insegnanti o l'associazione degli ingegneri del traffico spieghino in termini semplici, tratti dal linguaggio corrente, il gangsterismo professionale dei loro colleghi. Altrettanto inutile pensare che i deputati, i giuristi e i magistrati riconoscano improvvisamente l'indipendenza del Diritto nei riguardi della loro nozione preconcetta del bene, che si confonde con la fornitura della maggiore quantità di prodotti al maggior numero di persone. Tutti sono infatti addestrati ad arbitrare i conflitti in favore della propria branca di attività, sia che parlino in nome dei padroni, dei salariati, degli utenti o dei loro stessi colleghi. Ma come è possibile trovare qua e là, eccezionalmente, un medico che aiuta gli altri a vivere in modo responsabile, ad accettare la sofferenza, ad affrontare la morte, così, per eccezione, si troverà qualche uomo di legge che aiuti le persone a utilizzare la struttura formale del Diritto per difendere i loro interessi nel quadro di una società conviviale. Anche se, probabilmente, il giudizio finale non soddisferà le loro richieste, l'azione giudiziaria servirà pur sempre a mettere in luce la sostanza del contrasto.

 

Nessuno dubita che il ricorso al procedimento legale per immobilizzare e invertire le nostre istituzioni dominanti non appaia ai più potenti tra i loro dirigenti, o ai più intossicati dei loro utenti, come una distorsione del Diritto e una sovversione del solo ordine che essi riconoscono. In sé, il ricorso a una procedura conviviale in buona e debita forma è una mostruosità e un crimine per il burocrate, anche se si dice giudice.

V. L’inversione politica

Se, in un futuro molto prossimo, il genere umano non riuscirà a limitare l'impatto dei suoi strumenti sull'ambiente e ad attuare un efficace controllo delle nascite, i nostri discendenti conosceranno la spaventosa apocalisse predetta da molti ecologi. Dinanzi al disastro incombente, la società può adagiarsi a sopravvivere entro i limiti fissati e imposti da una dittatura burocratica, ma può anche reagire politicamente ricorrendo alle procedure giuridiche e politiche. La falsificazione ideologica del passato ci vela l'esistenza e la possibilità di questa scelta.

La gestione burocratica della sopravvivenza umana è una scelta inaccettabile da un punto di vista sia morale sia politico, e per di più non servirebbe. Può darsi che gli uomini, terrorizzati dall'evidenza crescente del sovrappopolamento, dall'assottigliarsi delle risorse e dall'organizzazione insensata della vita quotidiana, rimettano spontaneamente i loro destini nelle mani di un Grande Fratello e dei suoi anonimi agenti. Può darsi che i tecnocrati siano incaricati di condurre il gregge sull'orlo dell'abisso, cioè di fissare dei limiti pluridimensionali allo sviluppo, immediatamente al di qua della soglia dell'autodistruzione. Una tale fantasia suicida manterrebbe il sistema industriale al più alto grado di produttività sostenibile. L'uomo vivrebbe in una bolla protettiva di plastica che l'obbligherebbe a sopravvivere come un condannato a morte in attesa di esecuzione. Ben presto la sua soglia di tolleranza in fatto di programmazione e manipolazione diverrebbe l'ostacolo più serio allo sviluppo, e l'impresa alchimistica rinascendo dalle sue ceneri cercherebbe di produrre e tenere sotto controllo il mostruoso mutante concepito dall'incubo della ragione. Per garantire la sopravvivenza dell'essere umano in un mondo razionale e artificiale, la scienza e la tecnica si applicherebbero ad attrezzare opportunamente la sua psiche: l'umanità sarebbe confinata dalla nascita alla morte nella scuola permanente estesa su scala mondiale, sarebbe sottoposta a vita al trattamento del grande ospedale planetario, collegata notte e giorno a implacabili catene di comunicazione. Così funzionerebbe il mondo della Grande Organizzazione. Tuttavia i precedenti insuccessi delle terapie di massa lasciano sperare nel fallimento anche di quest'ultimo progetto di controllo planetario.

L'avvento del fascismo tecno-burocratico non è scritto negli astri. Esiste un'altra possibilità: un processo politico che permetta alla popolazione di stabilire il massimo che ciascuno può esigere, in un mondo dalle risorse manifestamente limitate; un processo che porti a concordare entro quali limiti va tenuta la crescita degli strumenti; un processo che incoraggi la ricerca radicale intesa a far sì che un numero crescente di persone possa fare sempre di più con sempre meno. Un programma del genere può ancora apparire utopistico al punto in cui siamo: se si lascia aggravare la crisi, lo si troverà ben presto di un realismo estremo.

I miti e le maggioranze

L'ultimo impedimento alla ristrutturazione della società non è né la mancanza d'informazione sui limiti necessari né la mancanza di uomini risoluti ad accettarli se divenissero inevitabili, ma è il potere della mitologia politica.

In una società ricca, ognuno è più o meno consumatore-utente; in qualche modo, ognuno fa la sua parte nella distruzione dell'ambiente. Grazie al mito, questa molteplicità di depredatori si tramuta in una maggioranza politica. La somma degli individui atomizzati diventa un blocco mitico di elettori concordi su un problema inesistente: la maggioranza silenziosa, guardiana invisibile e invincibile degli interessi investiti nello sviluppo, e che paralizza ogni reale azione politica. Vista più da vicino, questa maggioranza è un insieme fittizio di persone teoricamente dotate di ragione che in realtà comprende una molteplicità di individui: l'esperto in ecologia che si reca in Boeing a una conferenza contro l'inquinamento, l'economista consapevole che l'aumento della produttività genera scarsità di lavoro e che cerca perciò di creare nuovi impieghi ecc. Né l'uno né l'altro hanno nulla a che fare con l'operaio di Detroit che compra a rate un televisore a colori, o col contadino messicano che in ossequio alla «rivoluzione verde» usa l'insetticida da cinque anni vietato negli Stati Uniti. Ma nonostante la loro diversità, una comune adesione allo sviluppo li unisce perché da essa dipende la loro soddisfazione. Tuttavia solo il mito conferisce loro l'omogeneità di una maggioranza politica contraria ai limiti. Ognuno ha il proprio motivo per desiderare la crescita industriale e il proprio motivo per sentirne la minaccia. Per il momento, un voto contro lo sviluppo puro e semplice sarebbe altrettanto privo di senso quanto un voto a favore del Prodotto Nazionale Lordo.

Una ideologia comune non crea una maggioranza; è efficace solo se ha le sue radici nell'interpretazione dell'interesse razionale di ciascuno e se dà a questo interesse una forma politica. L'azione politica della persona dinanzi a un conflitto sociale essenziale non dipende dall'ideologia preliminarmente accettata, ma da due fattori: (a) il modo in cui il conflitto latente tra l'uomo e lo strumento si trasformerà in una crisi aperta, esigendo una reazione globale e senza precedenti; (b) il sorgere di una molteplicità di nuove élite che forniscano un quadro interpretativo per riformulare i valori e riconsiderare gli interessi.

Dalla catastrofe alla crisi

Io posso solo congetturare in che modo si arriverà alla crisi; ma non ho dubbi sulla condotta da tenere dinanzi a essa e nel suo corso. Credo che lo sviluppo si arresterà da solo. La paralisi sinergetica dei sistemi che l'alimentano provocherà il crollo generale del modo di produzione industriale. Le amministrazioni credono di stabilizzare e armonizzare lo sviluppo affinando i meccanismi e i sistemi di controllo, ma non fanno che precipitare la megamacchina istituzionale verso la sua seconda soglia di mutazione. In un tempo brevissimo, la popolazione perderà fiducia non soltanto nelle istituzioni dominanti, ma anche in quelle specifica mente addette a gestire la crisi. Il potere, proprio delle attuali istituzioni, di definire valori (come l'educazione, la velocità di movimento, la salute, il benessere, l'informazione ecc.), si dissolverà di colpo allorché diverrà palese il suo carattere illusorio. A fare da detonatore alla crisi sarà un avvenimento imprevedibile e magari di poco conto, come il panico di Wall Street che precipitò la Grande Depressione. Una coincidenza fortuita renderà manifesta la contraddizione strutturale tra gli scopi dichiarati delle nostre istituzioni e i loro veri risultati. Ciò che è già evidente per qualcuno salterà di colpo agli occhi della maggioranza: l'organizzazione dell'intera economia in funzione dello «star meglio» è il principale ostacolo allo «star bene».

Al pari di altre intuizioni largamente condivise, questa avrà la virtù di rivoltare completamente l'immaginazione popolare. Da un giorno all'altro importanti istituzioni perderanno ogni rispettabilità, qualunque legittimità, insieme alla loro reputazione di servire il bene pubblico. È proprio ciò che accadde alla Chiesa romana al tempo della Riforma e alla monarchia francese nel 1793. Nello spazio di una notte l'impensabile divenne evidenza.

Una mutazione improvvisa è qualcosa che non ha nulla a che fare con la correzione automatica o con l'evoluzione. Si pensi ai bianchi vortici ai piedi d'una cascata di montagna:

le stagioni si succedono, l'acqua sovrabbonda oppure scorre in un filo sottile, ma le spirali di schiuma sembrano sempre uguali; basta però che un sasso cada in fondo al bacino, ed ecco che il disegno ne è tutto modificato, irreversibilmente. Allo stesso modo il risveglio della coscienza avviene di colpo. La maggioranza silenziosa oggi aderisce totalmente alla tesi dello sviluppo, ma nessuno può prevedere il suo comportamento quando la crisi esploderà. Quando un popolo perde fiducia nella produttività industriale, e non più solamente nella cartamoneta, tutto può succedere. L'inversione diventa realmente possibile.

Oggi si prova ancora a turare le falle dei singoli sistemi. Nessun rimedio funziona, ma si dispone ancora dei mezzi per permetterseli tutti, uno dopo l'altro. I governi si applicano alla crisi dei servizi pubblici, a quella dell'educazione, dei trasporti, del sistema giudiziario, della gioventù. Ciascun aspetto della crisi globale è separato dagli altri, spiegato in maniera autonoma e trattato a sé. Si propongono soluzioni di ricambio che danno credito alle riforme settoriali: e le scuole d'avanguardia contrapposte alle scuole tradizionali raddoppiano la domanda di educazione, le città-satelliti contrapposte all'aerotreno rafforzano la convinzione che lo sviluppo delle città sia fatale, una migliore formazione dei medici contrapposta alla proliferazione delle professioni parasanitarie alimenta l'industria della salute. E poiché ciascun termine del dilemma ha i suoi sostenitori, si finisce per non scegliere, ossia per provare entrambe le vie. In conclusione, si cerca di fare una torta sempre più grossa, che però è in pura perdita.

Si fa come Coolidge dinanzi ai primi segni della Grande Depressione, fraintendendo in maniera analoga l'annuncio di una crisi che è ben più radicale. Si presume che l'analisi generale dei sistemi colleghi tra loro le varie crisi istituzionali, ma essa non fa che portare a una maggiore pianificazione, centralizzazione e burocratizzazione, allo scopo di perfezionare il controllo della popolazione, dell'abbondanza e dell'industria distruttrice e inefficace. Si suppone che l'aumento della produzione di decisioni, controlli e terapie possa compensare l'estendersi della disoccupazione nei settori della fabbricazione. Affascinata dalla produzione industriale, la popolazione resta incapace di immaginare una società postindustriale in cui coesistano diversi modi di produzione complementari tra loro. Cercando di suscitare un'era che sia al tempo stesso iperindustriale ed ecologicamente ammissibile, si accelera la degradazione degli altri fattori che compongono l'equilibrio multidimensionale della vita. Il costo della difesa dello status quo sale vertiginosamente.

Bisognerebbe essere indovini per predire quale serie di eventi svolgerà il ruolo del crollo di Wall Street e scatenerà la crisi incombente; ma non occorre essere geni per prevedere che si tratterà della prima crisi mondiale non più localizzata dentro il sistema industriale, ma che metterà in gioco il sistema in sé. Assai presto accadrà un fatto che avrà la conseguenza di congelare la crescita dell'attrezzatura. Venuto quel momento, il fragore del crollo obnubilerà gli spiriti e impedirà di comprenderne il senso.

Ci resta ancora una possibilità di capire le cause della crisi globale che ci minaccia e di prepararci appunto a non confonderla con una crisi parziale, interna al sistema. Se vogliamo anticiparne gli effetti, dobbiamo indagare in che modo una brusca trasformazione potrà condurre al potere gruppi sociali fino a quel momento soffocati. Non sarà la catastrofe in quanto tale a trarre questi gruppi dal niente e a portarli alla ribalta; ma la catastrofe indebolirà le potenze dominanti che, schiacciando questi gruppi, impedivano loro di partecipare al processo sociale. L'effetto-sorpresa allenta il controllo, scompiglia i controllori e spinge in prima fila quelli che conservano sangue freddo.

Una volta indebolito il controllo, i controllori si cercano nuovi alleati. Nello Stato industriale indebolito dalla Grande Depressione, laclasse dirigente non poté fare a meno dei lavoratori organizzati, che ottennero perciò una parte di potere strutturale. Sul mercato del lavoro indebolito dalla seconda guerra mondiale, l'industria non poté fare a meno dei lavoratori negri, che cominciarono così ad affermare un loro potere. Attualmente, essendosi fatta una posizione, l'élite negra tende a diventare un pilastro del sistema costituito, così com'era accaduto precedentemente ai sindacati. In realtà l'uscita dalla crisi imminente dipende dalla comparsa di élite che non si lascino recuperare.

Dentro la crisi

Le forze che tendono a porre limiti alla produzione sono già in opera all'interno del corpo sociale. Una ricerca pubblica e radicale può aiutare in maniera rilevante questi uomini e queste donne ad acquistare maggiore coesione e lucidità nella loro condanna d'uno sviluppo che essi giudicano pernicioso. Non c'è dubbio che le loro voci avranno una diversa risonanza quando la crisi della società superproduttiva si aggraverà. Essi non costituiscono un partito, ma sono i porta-parola di una maggioranza di cui ognuno potenzialmente fa parte. Più inattesa sarà la crisi, più improvvisamente i loro appelli all'austerità equilibrata e gioiosa potranno assumere il valore di un programma. Per essere in grado di controllare la situazione quando sarà il momento, queste minoranze debbono comprendere la natura profonda della crisi e saperla esporre in un linguaggio che tocchi il segno, spiegando chiaramente che cosa vogliono, che cosa possono e di che cosa non hanno bisogno. Sin d'ora, esse già possono identificare le cose a cui rinunciare. La riconquista della lingua quotidiana è il primo perno dell'inversione politica. Ne occorre un secondo.

Un ulteriore sviluppo non può che portare al disastro, ma questo presenta una doppia faccia. L'evento catastrofico può segnare la fine della civiltà politica o addirittura della specie «uomo»; ma può essere anche la Grande Crisi, cioè l'occasione di una scelta senza precedenti. Prevedibile e inattesa, la catastrofe sarà una crisis, nel senso proprio del termine, solo se, nel momento in cui essa colpisce, i prigionieri del progresso chiederanno di scappare dal paradiso industriale, se chiederanno che nel recinto della prigione dorata si apra una porta. Bisognerà allora saper dimostrare che la dissoluzione del miraggio industriale offre l'occasione per scegliere un modo di produzione conviviale ed efficace. La preparazione a questo compito è il cardine di una nuova pratica politica.

Saranno necessari gruppi capaci di analizzare coerentemente la catastrofe e di esprimerla con un linguaggio semplice. Essi dovranno saper patrocinare la causa di una società che si pone dei confini, e farlo in termini concreti, comprensibili da tutti, desiderabili in generale e immediatamente applicabili. Il sacrificio è lo scotto della scelta, prezzo inevitabile da pagare per ottenere quello che si vuole o, per lo meno, per liberarsi da ciò che è intollerabile. Ma non basta servirsi delle parole di tutti i giorni come buoni strumenti per mettere in luce il vero volto della realtà; bisognerà anche saper maneggiare uno strumento sociale che sia adatto a determinare il bene pubblico.

Come ho spiegato più sopra, tale strumento è la struttura formale della politica e del Diritto. Nell'ora del disastro, la catastrofe si muterà in crisi se un gruppo di persone lucide che conservano il proprio sangue freddo saprà ispirare fiducia nei concittadini. La loro credibilità dipenderà dall'abilità nel dimostrare che non solo è necessario ma è possibile instaurare una società conviviale, a condizione di utilizzare coscientemente una procedura regolata, che riconosca al conflitto d'interessi la sua legittimità, dia valore al precedente storico, e attribuisca un carattere esecutivo alle decisioni prese da uomini comuni, dai quali la comunità si riconosca rappresentata. Nell'ora del disastro, solo se si resta radicati nella storia si può avere la fiducia necessaria per sconvolgere il presente. L'uso conviviale della procedura garantisce che una rivoluzione istituzionale rimanga uno strumento che trova nella pratica i propri fini. Un ricorso lucido alla procedura, fatto in uno spirito di opposizione continua alla burocrazia, è la sola maniera possibile per evitare che la rivoluzione si tramuti essa stessa in istituzione. Che l'applicazione di questa procedura all'inversione radicale delle istituzioni sia denominata «rivoluzione culturale», recupero della struttura formale del Diritto, socialismo partecipatorio o ritorno allo spirito dei Fueros de Espana, è un mero problema di etichette.

La mutazione improvvisa

Parlando della nascita di gruppi d'interessi e della loro preparazione, non mi riferisco né a nuclei di terroristi né a sette di devoti né a esperti di un nuovo tipo. Più in particolare, non mi riferisco a un partito politico destinato a prendere il potere nel momento della crisi. Gestire la crisi vorrebbe dire precipitare la soluzione fatale. Un partito compatto e addestrato può imporre il proprio potere nel momento in cui la scelta da compiere è interna a un sistema inglobante: fu così che gli Stati Uniti dovettero «scegliere» il controllo degli strumenti di produzione durante la Grande Depressione; fu così che i paesi dell'Europa orientale dovettero «scegliere» lo stalinismo all'indomani della seconda guerra mondiale. Ma la crisi di cui io descrivo la prossima venuta non è interna alla società industriale, bensì riguarda il modo di produzione industriale in se stesso. Questa crisi obbligherà l'uomo a scegliere tra gli strumenti conviviali e l'essere stritolato dalla megamacchina, tra la crescita indefinita e l'accettazione di limiti multidimensionali. La sola risposta possibile consiste nel riconoscere la profondità della crisi e nell'accettare l'unico principio di soluzione che si offra: stabilire, per accordo politico, un'autolimitazione. Quanto più numerosi e diversi saranno coloro che esprimeranno questa esigenza, tanto più profondamente si comprenderà che il sacrificio è necessario, che tutela interessi molteplici e che è la base di un nuovo pluralismo culturale.

Neppure intendo riferirmi a una maggioranza che si opponga allo sviluppo in nome di principi astratti. Sarebbe un'altra maggioranza-fantasma. In verità la formazione di una élite organizzata che decanti l'ortodossia dell'antisviluppo non è un'ipotesi inconcepibile; forse questa élite si sta già costituendo. Ma un coro del genere, con l'antisviluppo come unico e solo programma, è l'antidoto industriale all'immaginazione rivoluzionaria. Incitando la gente ad accettare una limitazione volontaria della produzione senza mettere in questione la struttura-base della società industriale, non si farebbe che conferire maggior potere ai burocrati che ottimizzano lo sviluppo, e ci si consegnerebbe come ostaggi nelle loro mani.

La produzione stabilizzata di beni e servizi ultra-razionalizzati e standardizzati allontanerebbe dalla produzione conviviale ancor più, se possibile, di quanto non faccia la società industriale di sviluppo.

I fautori di una società capace di porsi limiti non hanno bisogno di riunire una maggioranza. In democrazia una maggioranza elettorale non si fonda sull'adesione esplicita di tutti i suoi membri a un'ideologia o ad un valore determinato. Una maggioranza elettorale favorevole alla limitazione delle istituzioni sarebbe molto eterogenea: comprenderebbe le vittime di un particolare aspetto della sovrapproduzione, gli esclusi dalla festa industriale e coloro che rifiutano in blocco i caratteri della società totalmente razionalizzata. L'esempio della scuola può illustrare il funzionamento di una maggioranza elettorale nella prassi politica tradizionale: le persone senza figli sono insofferenti della spesa per la pubblica istruzione; alcuni ritengono di pagare troppe tasse per il servizio che ricevono; altri sostengono le scuole confessionali; alcuni altri non accettano la scuola dell'obbligo perché la giudicano nociva per i ragazzi; altri ancora la combattono perché rafforza la segregazione sociale. Tutte queste persone potrebbero formare una maggioranza elettorale, ma non costituiscono né una setta né un partito. Attualmente potrebbero certo ridimensionare le pretese della scuola, ma così facendo rafforzerebbero la legittimità del prodotto scolastico che èl'«educazione». Quando le cose continuano ad andare per il loro verso, l'assoggettare a limiti una istituzione dominante mediante un voto di maggioranza assume sempre un senso reazionario.

Ma una maggioranza può invece sortire un effetto rivoluzionario nel momento di una crisi che colpisca la società in maniera radicale. L'arrivo simultaneo di parecchie istituzioni alla loro seconda soglia di mutazione dà il segnale d'allarme. La crisi non può tardare. È già cominciata. Il disastro che seguirà mostrerà chiaramente che la società industriale in quanto tale, e non soltanto i suoi vari organi, ha oltrepassato i limiti.

Lo Stato-nazione è diventato guardiano di strumenti così potenti che non può più svolgere il suo ruolo di quadro politico. Come Giap ha saputo utilizzare la macchina bellica americana per vincere la sua guerra, così le imprese multinazionali e le professioni transnazionali possono servirsi del Diritto e del sistema democratico per consolidare il loro impero. Ma mentre la democrazia americana può sopravvivere alla vittoria di Giap, certo non sopravvivrà a quella dell'ITT e consimili. Man mano che la crisi totale si avvicina, diventa chiaro che lo Stato-nazione moderno è un conglomerato di società anonime in cui ogni attrezzatura mira a promuovere il proprio prodotto, a servire i propri interessi. L'insieme produce del benessere, sotto forma di educazione, salute ecc., e il successo si misura in base alla crescita del capitale di tutte le suddette società. Quando è il momento, i partiti politici radunano la massa degli azionisti per eleggere un consiglio di amministrazione. Essi sostengono il diritto dell'elettore a pretendere un più alto livello di consumo individuale, il che significa un più alto grado di consumo industriale. La popolazione può sempre reclamare trasporti più rapidi, ma il giudizio sulla convenienza di un sistema di trasporto basato sull'automobile oppure sul treno, e che assorbe una larga parte del reddito nazionale, è lasciato alla discrezione degli esperti. I partiti sostengono uno Stato il cui scopo dichiarato è la crescita del Prodotto Nazionale Lordo: è inutile contare su di essi quando arriverà il peggio.

Quando gli affari procedono normalmente, la procedura a contraddittorio per dirimere un conflitto tra l'impresa e l'individuo finisce di solito col dare un ulteriore crisma di legittimità alla dipendenza di quest'ultimo. Ma nel momento della crisi strutturale, neppure la riduzione volontaria della sovrefficienza potrà risparmiare alle istituzioni dominanti di andare in rovina. Una crisi generalizzata apre la strada a una ricostruzione della società. La perdita di legittimità dello Stato come società per azioni non infirma ma rafforza la necessità di una procedura costituzionale. La perdita di credibilità dei partiti divenuti fazioni rivali di azionisti non fa che sottolineare l'importanza del ricorso a procedure contraddittorie in politica. La perdita di credibilità delle rivendicazioni antagonistiche per ottenere maggior consumo individuale sottolinea l'importanza del ricorso a queste stesse procedure contraddittorie, quando si tratta di armonizzare serie opposte di limitazioni concernenti l'insieme della società. La medesima crisi generale può sancire durevolmente un contratto sociale che consegni al dispotismo tecno-burocratico e all'ortodossia ideologica il potere di prescrivere il benessere, oppure può esser l'occasione per costruire una società conviviale, in continua trasformazione all'interno di un quadro materiale definito da proscrizioni razionali e politiche.

Nella loro struttura, la procedura politica e quella giuridica si integrano reciprocamente. Entrambe modellano ed esprimono la struttura della libertà nella storia. Se si ammette questo, la procedura formale può costituire il migliore strumento drammatico, simbolico e conviviale per l'azione politica. Il Diritto conserva tutta la sua forza anche quando una società riservi a dei privilegiati l'accesso alla macchina giuridica, anche quando si faccia beffe sistematicamente della giustizia e mascheri il dispotismo sotto il mantello di finti tribunali. Anche quando colui che si appella al linguaggio ordinario ed alla procedura formale viene irriso e messo sotto accusa dai suoi compagni di rivoluzione, anche allora il ricorso dell'individuo alla struttura formale iscritta nella storia di un popolo resta lo strumento più potente per dire il vero, per denunciare l'ipertrofia cancerosa e il dominio del modo di produzione industriale come l'ultima forma di idolatria. Si è presi dall'angoscia quando si constata che l'unico nostro potere per arginare l'ondata mortale sta nella parola e, più esattamente, nel verbo, giunto sino a noi e ritrovato nella nostra storia. Solo il verbo, con tutta la sua fragilità, può raccogliere la moltitudine degli uomini perché il dilagare della violenza si trasformi in ricostruzione conviviale.

Se sapranno stabilire dei criteri di limitazione dell'attrezzatura, i paesi poveri avvieranno più facilmente la loro ricostruzione sociale e, soprattutto, accederanno direttamente a un modo di produzione postindustriale e conviviale. I limiti che dovranno adottare sono dello stesso ordine di quelli che le nazioni industrializzate dovranno accettare per sopravvivere: la convivialità accessibile fin d'ora ai «sottosviluppati» costerà un prezzo inaudito agli «sviluppati».

Un'ultima obiezione viene spesso avanzata quando a una società povera si propone l'orientamento conviviale:

per scegliere una vita austera con strumenti conviviali bisogna difendersi dall'imperialismo dei megastrumenti in espansione; tale difesa non sarebbe possibile senza un esercito moderno, che a sua volta richiede un'industria in pieno sviluppo. In realtà, la ricostruzione della società non può essere protetta per mezzo di un esercito, innanzi tutto perché sarebbe una contraddizione in termini, e poi perché nessun esercito moderno d'un paese povero potrebbe essere una valida difesa contro un tale potere. La convivialità sarà opera esclusiva di persone che usino un'attrezzatura da loro effettivamente controllata. I mercenari dell'imperialismo possono avvelenare una società conviviale, possono distruggerla, ma non conquistarla.

Torna a Indice >>>>>



[1] Mondadori, Milano, 1972.

[2] « Austeritas secunduin quod est virtus non escludit onines delectationes sed superfluas et inordinatas: unde videtur pertinere ad affabilitatem: quam Philosophus, lib. 4Ethic. cap. VI amicitiam nominat, vei ad eutrapeliani, sive jocunditatem. » (Somma Theologica, ha IIae, q. 168, art. 4, ad 3 m.)

[3] Ho sviluppato ulteriormente le osservazioni riguardanti i trasporti nel volumetto Energy and Equity (Calder & Boyars, Londra 1974) scritto 18 mesi più tardi e nel quale ho potuto precisare e anche correggere alcuni dettagli del presente saggio.

[4] H. Marcuse L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1967.

[5] Illich  Energy and equity, cit.

 

I