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Materiali per Operatori del Benessere Immateriale
Parte 1 - 2 - 3

IVAN ILLICH
LA CONVIVIALITÀ - 2

Le fonti di energia

Attualmente i criteri istituzionali dell'azione umana sono l'opposto dei nostri, compresi quelli vigenti nelle società marxiste, dove la classe operaia si crede al potere. Il pianificatore socialista rivaleggia col cantore della libera impresa, per dimostrare che i suoi principi assicurano a una società il massimo di produttività. La politica economica socialista si definisce molto spesso per l'ansia di accrescere la produttività industriale di ogni paese socialista. Il monopolio dell'interpretazione industriale del marxismo funge da barriera e mezzo di ricatto contro ogni forma di marxismo giudicata eterodossa perché industrialmente poco efficiente. Resta da vedere se anche la Cina, dopo la morte di Mao, abbandonerà la sua attuale tendenza verso la convivialità produttiva per rivolgersi verso la produttività standardizzata. L'interpretazione esclusivamente industriale del socialismo fa sì che comunisti e capitalisti parlino lo stesso linguaggio, misurino in maniera analoga il grado di sviluppo raggiunto da una società. Una società nella quale la maggioranza dipenda, quanto ai beni e servizi che riceve, dalle qualità d'immaginazione, d'amore e di abilità di ciascuno, appartiene alla categoria cosiddetta sottosviluppata; viceversa, una società in cui la vita quotidiana consiste in nient'altro che una serie di ordinazioni dal catalogo del grande magazzino universale, è ritenuta avanzata. E il rivoluzionario non è più che un allenatore sportivo: campione del terzo mondo o portavoce di minoranze sottoconsumatrici, argina la frustrazione delle masse alle quali rivela il loro ritardo; canalizza la violenza popolare e la trasforma in energia di rincorsa.

Ciascun aspetto della società industriale è una componente di un sistema globale che implica l'escalation della produzione e l'aumento della domanda indispensabile per giustificare il costo sociale complessivo. Ecco perché, concentrando la critica sociale sulla cattiva gestione, la corruzione, l'insufficienza della ricerca o il ritardo tecnologico, non si fa che distrarre l'attenzione della gente dal solo problema che conti: la struttura inerente allo strumento preso come mezzo e che determina una crescente carenza generale. Un altro errore consiste nel credere che la frustrazione attuale sia dovuta principalmente alla proprietà privata dei mezzi di produzione e che l'appropriazione pubblica di questi mezzi attraverso un organismo centrale di pianificazione proteggerebbe gli interessi della maggioranza e porterebbe a un'equa ripartizione dell'abbondanza. La struttura anti-umana e manipolatrice dello strumento non sarà trasformata dal rimedio proposto. Finché si attaccherà il trust Ford per la sola ragione che arricchisce il signor Ford, si coltiverà l'illusione che le officine Ford potrebbero arricchire la collettività. Finché la popolazione penserà di poter trarre vantaggio dall'automobile, non rimprovererà a Ford di fabbricare auto. Fino a quando condividerà l'illusione che sia possibile aumentare la velocità di locomozione di chiunque, la società continuerà a criticare il proprio sistema politico anziché immaginare un sistema di circolazione moderno, più efficiente di tutti quelli che si basano su veicoli rapidi. La soluzione, tuttavia, è a portata di mano: non risiede in un certo modo di appropriazione dello strumento, ma nella scoperta del carattere di certi strumenti, e cioè che nessuno potrà mai possederli. Il concetto di appropriazione non vale per gli strumenti incontrollabili. Il problema urgente è invece di determinare quali strumenti possono essere controllati nell'interesse generale, e di comprendere che uno strumento non controllabile rappresenta una minaccia insostenibile. Quanto al sapere come organizzare la partecipazione individuale a un esercizio del controllo che risponda all'interesse generale, è un fatto secondario.

Certi strumenti sono sempre distruttivi, qualunque sia la mano che li governa: la mafia, i capitalisti, una ditta multinazionale, lo Stato o anche un collettivo di lavoratori. Così è, per esempio, per le reti autostradali a corsie multiple, per i sistemi di comunicazione a grandi distanze che utilizzano una larga gamma di frequenza, e così anche per le miniere a cielo aperto o per la scuola. Lo strumento distruttivo accresce l'uniformazione, la dipendenza, lo sfruttamento e l'impotenza; toglie al povero la sua parte di convivialità per rendere i ricchi ancora più ciechi alla perdita della loro.

L'uomo moderno non riesce a pensare lo sviluppo e la modernizzazione in termini di diminuzione anziché d'accrescimento del consumo di energia e di manipolazione ragionata. Per lui, una tecnica avanzata fa rima con un profondo intervento nei processi fisici, mentali e sociali. Se vogliamo concepire lo strumento in maniera esatta, dobbiamo abbandonare l'illusione che un alto grado di cultura implichi un consumo di energia il più elevato possibile. Nelle civiltà antiche le risorse d'energia erano ripartite assai equamente. Ogni essere umano, grazie alla sua costituzione biologica, disponeva di tutta l'energia potenziale necessaria nel corso della sua vita per trasformare coscientemente l'ambiente fisico secondo la propria volontà, dato che la fonte ditale energia era il suo corpo all'unica condizione d'essere conservato in buona salute. In quella situazione, le possibilità per un uomo di controllare quantità maggiori di energia fisica non derivavano che da manipolazioni psichiche o da un dominio politico sugli altri.

Per costruire le piramidi di Teotihuacàn, in Messico, o per sistemare le risaie a terrazze di Ibagué, nelle Filippine, gli uomini non hanno avuto bisogno di strumenti manipolabili. La cupola di San Pietro a Roma e i canali di Angkor Vat sono stati fatti a forza di braccia. I generali di Cesare ricevevano le notizie per mezzo di cavalieri, i Fugger e i capi luca si servivano di corridori. Fino al secolo XVIII, le galere della repubblica di Venezia e tutti i messaggeri facevano meno di 120 chilometri al giorno. L'esercito di Wellington si muoveva ancora al passo di quello d'Alessandro Magno. Era la mano o il piede ad azionare la spola e l'arcolaio, il tornio da vasaio e la sega per il legno. L'energia metabolica dell'uomo alimentava tanto l'agricoltura e l'artigianato quanto la guerra. L'ingegnosità dell'individuo canalizzava l'energia animale in certi compiti sociali. I potenti della terra non avevano altra energia da controllare se non quella fornita, per lealtà oppure per forza, dai loro stessi sudditi.

Ovviamente il metabolismo umano non bastava a procurare tutta la forza desiderabile, ma ne restava, nella maggioranza delle culture, la fonte principale. L'uomo, è vero, sapeva mettere a profitto certe forze naturali: conservava il fuoco per cuocere i suoi alimenti e, più tardi, per forgiare armi, sapeva trarre l'acqua dal suolo, discendere il corso dei fiumi, navigare a vela, utilizzare la forza di gravità, addestrare l'animale a tirargli l'aratro. Ma il complesso di queste risorse, eccezion fatta per l'energia termica, restava secondario e di scarso rendimento. La società ateniese del VI secolo o quella fiorentina del Quattrocento sapevano armoniosamente utilizzare le forze naturali, ma la costruzione dei templi e dei palazzi fu, nell'essenziale, opera della sola energia umana. Oggi per costruire un metro cubo di abitazione urbana si impiega da 100 a 300 volte l'energia utilizzata centocinquant'anni fa per fabbricare case tuttora in uso. Certo, l'uomo preindustriale poteva anche ridurre una città in cenere o fare del Sahara un deserto, ma simili esplosioni di energia, una volta scatenate, sfuggivano al suo potere di controllo.

È possibile calcolare approssimativamente la somma di energia fisica di cui disponevano le società tradizionali. L'essere umano brucia in media 2500 calorie al giorno, di cui i quattro quinti servono unicamente a mantenerlo in vita, a far battere il suo cuore e funzionare il suo cervello. Il resto può essere applicato a compiti diversi, ma non è trasformabile del tutto in lavoro. Bisogna tener conto, infatti, non solo dei giochi dell'infanzia, ma anche e soprattutto delle attività che assicurano la sopravvivenza quotidiana: lavarsi, far da mangiare, proteggersi dal freddo o dalla minaccia altrui. Privato della molla di queste attività, l'uomo diventa inadatto al lavoro; la società può modellarle, ma non sopprimerle per destinare ad altri compiti l'energia che esse assorbono. Il costume, la lingua ed il diritto determinano la forma del vasellame che lo schiavo fabbrica, ma il padrone non può privare lo schiavo di un tetto, salvo a privare se stesso dello schiavo. Grazie alla somma di molteplici piccole cariche di energia individuale messe a disposizione della collettività, si costruivano templi, si spostavano montagne, si tessevano indumenti, si faceva la guerra, si trasportava il monarca e lo si onorava.

L'energia era limitata, dipendeva dal livello demografico, traeva origine dal vigore dei corpi. La sua efficacia dipendeva dal grado di sviluppo, e dalla ripartizione tra la popolazione, degli strumenti maneggiabili. Lo strumento permetteva all'energia metabolica di applicarsi al compito. Giocava con le forze, fosse quella di gravità o quella del vento, ma tutt'al più moltiplicava la forza-lavoro di un uomo per un fattore inferiore a dieci. Per disporre di più potere fisico del vicino, bisognava asservirlo. Se il padrone utilizzava forme di energia non umane, non poteva padroneggiarle se non in quanto regnasse anche su altri uomini. Ogni paio di buoi richiedeva un bovaro, ogni vela cinque marinai. Persino il fuoco della forgia esigeva un guardiano che gli badasse. Il potere politico era dominio della volontà altrui, ed il dominio della forza fisica altrui mediante il timore della frusta oppure di un dio era possesso dell'autorità.

Nelle società preindustriali, il potere politico non poteva controllare che l'energia eccedente fornita dalla popolazione. A ogni incremento di efficienza ottenuto grazie ad un nuovo strumento o ad un nuovo modo di organizzazione, la popolazione rischiava di essere privata del controllo di questo surplus di energia. Ogni accrescimento di efficienza permetteva alla classe dominante di appropriarsi una parte accresciuta dell'energia totale disponibile. Così, all'evoluzione delle tecniche corrispondeva una parallela evoluzione delle classi sociali. Si tassava l'individuo togliendogli una parte del suo prodotto personale, oppure gli si assegnavano delle corvées supplementari. L'ideologia, la struttura dell'economia, l'armamento e il modo di vita favorivano questa concentrazione del dominio dell'energia biologica eccedente nelle mani di alcuni.

Una simile concentrazione non ha però, da una cultura all'altra, le stesse conseguenze sulla ripartizione dei frutti dell'attività sociale. Nel caso migliore, accresce il raggio d'azione delle energie personali. La società contadina dell'Europa centrale, alla fine del Medioevo, ne è un buon esempio. Tre recenti invenzioni, la staffa, la ferratura e il collare, triplicavano il rendimento del cavallo che, così equipaggiato, tirando l'aratro rendeva possibile la rotazione triennale e la messa a coltura di nuove terre; attaccato a un carro, elevava al quadrato il raggio d'azione del contadino, d'onde il movimento di concentrazione dell'habitat in villaggi raggruppati attorno alla chiesa e poi alla scuola. Nel caso peggiore, la concentrazione del potere di disporre dell'energia portava alla costituzione di grandi imperi propagati da eserciti mercenari e alimentati da contadini ridotti in schiavitù.

Verso la fine dell'ultima fase dell'Età del Ferro, cioè dal X al XIX secolo, la massa totale di energia disponibile aumentò rapidamente. In realtà la maggior parte delle grandi mutazioni tecniche precedenti alla scoperta dell'elettricità sono avvenute nell'alto Medioevo. Alla fucina situata nel bosco si sostituisce la fucina in riva al torrente, al grosso martello i pesanti mulinelli dei magli frantumatori di minerale, al paniere portato a spalla l'argano che permette di issare cassoni. La forza idraulica aziona mantici per aerare le gallerie; per mezzo di norie, pompa l'acqua per prosciugare il fondo della miniera, e l'uomo può spingersi a maggiori profondità sottoterra. L'invenzione del trealberi, che consente di sfruttare meglio la forza del vento, rende possibile la circumnavigazione del globo. La costruzione dei canali europei e l'invenzione della chiusa permettono trasporti regolari di carichi pesanti. I birrai, i tintori, i vasai, i fornaciai, gli zuccherieri e i salinai beneficiano del perfezionamento e della diffusione dei mulini ad acqua ed a vento. Poi il carro munito di un avantreno ruotante attorno a un perno e di assali mobili permette di raddoppiare la velocità di locomozione: ne traggono pari profitto la posta e il trasporto dei passeggeri sin dal secolo XVIII. Per la prima volta nella storia dell'uomo, si possono percorrere più di 100 chilometri al giorno. Città e campagne, le une più lentamente delle altre, ne furono trasformate, a poco a poco rimodellate.

Nel suo libro Il mito della macchina Lewis Mumford sottolinea le caratteristiche specifiche che fecero dell'attività mineraria il prototipo delle posteriori forme di meccanizzazione: «indifferenza ai fattori umani, all'inquinamento e alla distruzione dell'ambiente, concentrazione sul processo fisicochimico per ottenere il metallo o il combustibile desiderato e, soprattutto, isolamento topografico e mentale dal mondo organico del contadino e dell'artigiano, e dal mondo spirituale della Chiesa, dell'Università e della Città. Per il suo effetto distruttivo sull'ambiente e il suo disprezzo per i rischi imposti all'uomo, l'attività mineraria è molto simile alla guerra, e come la guerra, attraverso il continuo confronto col pericolo e con la morte, la miniera produce spesso un tipo d'uomo duro e dignitoso,... il soldato nel suo aspetto migliore. Ma l'animus distruttivo della miniera, la sua crudele routine di fatica, il suo alone di miseria e di degradazione del paesaggio, si trasmisero alle nuove industrie che utilizzavano la sua produzione». Il costo sociale superò largamente il guadagno meccanico. Così allo strumento azionato secondo il ritmo dell'uomo succede un uomo che agisce secondo il ritmo dello strumento, e tutti i modi d'agire umani ne vengono trasformati.

L'ideologia che presiede all'organizzazione industriale degli strumenti e all'organizzazione capitalista dell'economia nacque vari secoli prima della cosiddetta Rivoluzione industriale. Fin dall'epoca di Bacone, gli europei cominciarono a compiere delle operazioni che discendevano da uno stato d'animo nuovo: guadagnare tempo, restringere lo spazio, accrescere l'energia, moltiplicare i beni, spregiare le norme della natura, prolungare la durata della vita, sostituire gli organismi viventi con meccanismi in grado di simularne o ampliarne una particolare funzione. Simili imperativi sono divenuti i dogmi della scienza e della tecnica nelle nostre società; non hanno valore di assiomi solo perché non vengono sottoposti ad analisi. Lo stesso mutamento di stato d'animo si manifesta nel passaggio dal ritmo rituale alla regolarità meccanica: si mette l'accento sulla puntualità, sulla misurazione dello spazio, sul computo dei voti, sì che oggetti concreti e fatti complessi vengono trasformati in quanta astratti accumulabili, equiparabili e interscambiabili. Questa passione capitalista per un ordine ripetitivo ha minato l'equilibrio qualitativo tra l'operaio ed i suoi semplici strumenti.

L'emergere di nuove forme di energia e di potere ha cambiato il rapporto che l'uomo aveva col tempo. Il prestito a interesse era condannato dalla Chiesa come una pratica contro natura: il denaro era, per natura, un mezzo di scambio che serviva ad acquistare il necessario, non un capitale in grado di lavorare o portare frutti. Nel secolo XVII, persino la Chiesa abbandonò questa concezione, sia pure con riluttanza, piegandosi al fatto che, per la sua esistenza, doveva ormai appoggiarsi non già a signori feudali ma a mercanti capitalisti. Si generalizzò l'uso dell'orologio e, con esso, l'idea della «mancanza» di tempo. Il tempo divenne denaro: ho guadagnato tempo, mi resta del tempo, come posso spenderlo? Non ho tempo, non posso concedermi il lusso di sprecare il mio tempo, è già un'ora guadagnata, sono espressioni che riflettono il mutato atteggiamento.

Ben presto si cominciò a considerare esplicitamente l'uomo come una fonte di forza misurabile. Si provò a misurare la prestazione quotidiana massima che se ne poteva ottenere, poi a comparare il costo del mantenimento e della forza dell'uomo con quello del cavallo. L'uomo venne ridefinito come fonte di energia meccanica. Si notò allora che i condannati al remo non rendevano molto perché le galere stavano per lunghi periodi ferme nei porti, mentre i condannati alla macina (un supplizio che nelle prigioni inglesi rimase in vigore sino ai primi del secolo XIX) fornivano una potenza rotativa capace di alimentare qualsiasi macchina di quelle recentemente inventate.

Il nuovo rapporto stabilitosi tra l'uomo e i suoi strumenti durante la Rivoluzione industriale nasce, come il capitalismo, nel secolo XVI; a sua volta, esso richiese nuove fonti di energia. La macchina a vapore è più un effetto ditale sete d'energia che una causa della Rivoluzione industriale. Con la ferrovia, questa preziosa macchina divenne mobile e l'uomo diventò utente. A poco a poco la macchina mise l'uomo in movimento: nel 1900, un lavoratore lombardo non addetto all'agricoltura faceva in media un numero di chilometri trenta volte maggiore di quelli che percorreva un suo simile nel 1850. A questo punto finiscono, insieme, l'Età del Ferro e la Rivoluzione industriale. All'abilità nel muoversi si sostituisce il ricorso ai trasporti. Il saper fare cede il posto al fare in serie, l'industrializzazione diventa la norma.

Nel secolo XX, l'uomo mette mano a giganteschi serbatoi naturali di energia. Il livello energetico così raggiunto produce proprie norme, determina i caratteri tecnici dello strumento e, più ancora, il nuovo ruolo dell'uomo. All'opera, al lavoro, viene allora ad aggiungersi il servizio alla macchina: obbligato ad adattarsi al suo ritmo, il lavoratore si trasforma in operatore di macchinari o in impiegato d'ufficio. E il ritmo della produzione esige un consumatore docile che accetti un prodotto standardizzato e preconfezionato. Si ha allora meno bisogno di braccianti nei campi, il servo cessa di essere redditizio. Il lavoratore stesso cessa di essere redditizio non appena l'automazione porta a termine la trasformazione iniziata dall'industrializzazione e continuata dalla produzione di massa. Il fascino discreto del condizionamento astratto a opera della megamacchina sostituisce lo schiocco della frusta nell'orecchio dello schiavo-bracciante, e l'avanzata implacabile della catena di montaggio fa scattare il gesto stereotipato dello schiavo-operaio.

La nascita del mito della macchina si rispecchia nell'atteggiamento dell'uomo verso l'atto produttivo. Possiamo distinguere quattro livelli energetici, a ciascuno dei quali corrispondono una classe di strumenti e uno stile di attività produttiva. Il primo stile è quello dell'opera indipendente realizzata dall'artista, dall'artigiano, da colui che costantemente sceglie un fine al quale applica il mezzo: il risultato dell'attività di quest'uomo è l'opera, l'ergon greco. Il secondo stile è quello della fatica continuamente ripetuta del manovale, imposta dalla necessità di sfruttare la sua energia: è il labor, il ponos greco. L'uomo che produce l'opera tende a fischiare o a canticchiare, mentre il canto propriamente detto, il coro, accompagna il ritmo della fatica nell'uso dello strumento maneggiabile. Questi due stili di attività coesistono in tutte le culture; la prevalenza del secondo sul primo contrassegna, dappertutto, la società schiavista.

Alla fine del Medioevo, il vecchio sogno alchimistico di fabbricare un omuncolo in laboratorio diventa a poco a poco creazione di robot che lavorino per l'uomo e educazione dell'uomo a lavorare al loro fianco. Questo nuovo atteggiamento verso l'attività produttiva si rispecchia nell'introduzione di un nuovo vocabolo. Tripaliare significava torturare sul trepalium, menzionato nel secolo VI per indicare un palo formato da tre spiedi, supplizio che nel mondo cristiano aveva sostituito quello della croce. Nel secolo XII le parole travail in francese, trabajo in spagnolo, designavano un'esperienza dolorosa; bisogna arrivare al secolo XVI perché gli stessi termini vengano usati nel senso di opera, fatica, lavoro.

L'operaio, colui che è complementare alla macchina motorizzata, rappresenta un terzo stile di attività produttiva. Legato alla cadenza della catena, costui si rompe le scatole. Lo strumento manipolabile gli impone il suo ritmo meccanico, lo esaspera e lo provoca a sgranare improperi.

Con lo sviluppo del settore terziario, dell'amministrazione razionale e della cibernetica nasce infine un quarto stile: lo stile dell'impiegato, del funzionario, del burocrate. Il contributo fornito da quest'uomo si è ridotto alla produzione di simboli: non è un'opera, non è labor, non è neppure un fare da complemento energetico di una macchina. Il funzionario funziona come un'operazione matematica. La sua partecipazione consiste nell'essere occupato all'interno della megamacchina che produce. Non fischia, non canta e non osa dire parolacce: si dedica a consumare musica filotrasmessa.

La maniera in cui questi diversi generi di attività partecipano agli scambi dell'economia ed affrontano le leggi del mercato rivela le loro differenze reciproche. Il creatore di un'opera non può offrirsi sul mercato; può soltanto proporre il frutto della sua attività. Il manovale offre il proprio corpo, principalmente, come fonte di energia da lui diretta. L'operaio si offre, tipicamente, come parte che integra ciò che manca alla macchina. Infine il posto del funzionario e dell'operatore è divenuto anch'esso una merce; il diritto di operare su una macchina e di beneficiare dei privilegi che ne derivano è ottenuto al termine d'una serie di trattamenti preliminari: curriculum scolastico, condizionamento professionale, educazione permanente.

Nessun genere di attrezzatura realizzabile in passato poteva rendere possibili un tipo di società e un modo di attività contrassegnati al tempo stesso dall'efficienza e dalla convivialità: non la tecnica tradizionale, in quanto troppo inefficiente, né la tecnica industriale perché è troppo centralizzata. Ma oggi possiamo concepire degli strumenti che permettono di eliminare la schiavitù dell'uomo, senza per questo asservirlo alla macchina. Condizione di questo progresso è il rovesciamento del quadro di istituzioni che governa l'applicazione alla tecnica dei risultati ottenuti dalla scienza. Oggigiorno l'avanzamento scientifico viene identificato con la sostituzione di strumenti programmati all'iniziativa umana; ma ciò che in tal modo si scambia per l'effetto della logica che si crede di aver scoperto nelle cose non è in realtà che la conseguenza di un pregiudizio ideologico. La struttura dello strumento deciderà se l'uomo si avvia verso un nuovo, moderno livello di artigianato, o verso un mondo di funzionariato universale.

La scienza e la tecnica sono alla base del modo di produzione industriale e per questo fatto impongono l'accantonamento di ogni attrezzatura specificamente legata a un lavoro autonomo e creativo. Ma questo processo non è contenuto in germe nelle scoperte scientifiche, e non è neppure una conseguenza necessaria della loro applicazione. E il risultato di un partito preso, di un pregiudizio assoluto in favore del modo di produzione industriale. La cosiddetta ricerca scientifica è spesso organizzata al fine di ridurre, in ogni campo, gli ostacoli secondari che bloccano lo sviluppo di uno specifico processo di produzione. Ognuna delle scoperte così ottenute con una programmazione di lunga data viene salutata come se si trattasse d'un costoso traforo realizzato con grandi sforzi nel pubblico interesse. In realtà, la ricerca al servizio dello sviluppo industriale tende a nascondere o a minimizzare i risultati che non si prestano a una gestione centralizzata. Lo stesso accade nel campo della medicina, dell'agricoltura e dell'edilizia. Una tecnica avanzata potrebbe, altrettanto bene, ridurre il peso della fatica e, in cento modi diversi, promuovere l'espansione dell'attività produttiva personale. Scienze della natura e scienze dell'uomo potrebbero servire a creare strumenti, tracciare il loro quadro di utilizzazione e stabilire le loro norme d'impiego in modo tale da garantire un ricreazione della persona, del gruppo e dell'ambiente, un totale spiegamento dell'iniziativa e dell'immaginazione di ognuno.

Oggi possiamo comprendere la natura in maniera nuova. Tutto sta nel sapere per quali scopi. E l'ora di scegliere tra la costituzione di una società iper-industriale, elettronica e cibernetica, o viceversa una società realmente postindustriale che riunisca un largo ventaglio di strumenti moderni e conviviali. Lo stesso quantitativo di acciaio può servire a produrre una sega per metalli, una macchina per cucire o un elemento industriale: nei primi due casi, l'efficacia di mille persone sarà moltiplicata per tre, per dieci o per cinquanta; nell'ultimo, una larga parte delle loro capacità perderà la propria ragione di essere. Bisogna scegliere tra il distribuire a milioni di persone, nello stesso momento, l'immagine a colori di un pagliaccio che si agita sul piccolo schermo, oil dare a ogni gruppo umano il potere di produrre e distribuire propri programmi nei centri-video. Nella prima ipotesi, la tecnica è messa al servizio della carriera dello specialista diretto da burocrati. Un sempre maggior numero di pianificatori farà ricerche di mercato, stenderà bilanci di previsione e modellerà la domanda di un sempre maggior numero di persone in una serie crescente di settori. Ci saranno sempre più cose utili fornite a degli inutili. Ma si offre sempre l'altra possibilità. La stessa scienza può applicarsi a semplificare l'attrezzatura, a rendere ognuno capace di dar forma al proprio ambiente, cioè capace di caricarsi di senso caricando il mondo di segni.

La deprofessionalizzazione

La medicina

A somiglianza di ciò che fece la Riforma quando strappò il monopolio della scrittura ai chierici, noi possiamo strappare i malati dalle mani dei medici. Non occorre essere troppo dotti per applicare le scoperte fondamentali della medicina moderna, per individuare e curare la maggior parte dei mali curabili, per alleviare la sofferenza del prossimo e accompagnarlo all'incontro con la morte. Stentiamo a crederlo perché il rituale medico, deliberatamente complicato, ci nasconde la semplicità degli atti. Conosco una ragazza negra di diciassette anni che di recente è stata processata, negli Stati Uniti, per aver curato centotrenta compagni di scuola affetti da sifilide primaria. Un dettaglio di ordine tecnico, fatto notare da un esperto, è valso a lei il proscioglimento e ha risparmiato all'Ordine dei medici un penoso imbarazzo: i risultati ottenuti dall'accusata erano statisticamente migliori di quelli del Servizio sanitario americano. Sei settimane dopo la cura, infatti, essa aveva sottoposto a esami di controllo tutti i suoi pazienti, senza eccezione, come il Servizio sanitario di nessuna regione degli Stati Uniti riesce invece a fare. Il progresso nell'efficacia di solito dipende da una maggiore indipendenza, non da un crescente controllo centrale.

La possibilità di affidare cure mediche a non specialisti si scontra con la nostra concezione dello star meglio, dovuta alla vigente organizzazione della medicina. Concepita come un 'impresa industriale, essa è nelle mani di produttori (medici, ospedali, laboratori farmaceutici) che incoraggiano la diffusione di procedimenti d'avanguardia costosi e complicati, e riducono così il malato e i suoi familiari allo stato di docili clienti. Organizzata in sistema di distribuzione sociale di benefici, la medicina incita la popolazione a lottare per ottenere una sempre maggiore quantità di cure, dispensate da professionisti in materia di igiene, prevenzione, anestesia o assistenza ai moribondi. Bisogna rendersi conto che più è alto il livello tecnico di un servizio che si vuol rendere accessibile con giustizia distributiva, più questa deve basarsi sulla fiducia nell'autonomia. La medicina odierna invece, irrigidita nel monopolio di una gerarchia monolitica, si preoccupa di proteggere le sue frontiere incoraggiando la formazione di paraprofessionisti ai quali subappalta le cure che un tempo erano prestate dai familiari e amici del malato. Con questo sistema feudale l'organizzazione medica difende il suo monopolio ortodosso dalla concorrenza sleale delle guarigioni ottenute con metodi eterodossi. In realtà, ogni giorno di più, il profano è in grado di curare il proprio prossimo e, in questo campo, solo una parte di ciò che occorre sapere è necessariamente materia d'insegnamento formale. Semplicemente, in una società dove ognuno potesse e dovesse curare il prossimo, certuni sarebbero più esperti di altri. In una società nella quale si nascesse e si morisse in casa propria, nella quale l'invalido e l'idiota non fossero banditi dalla pubblica piazza, e si sapesse distinguere la vocazione medica dalla professione di stagnino delle vene, non mancherebbero persone per aiutare gli altri a vivere, a soffrire, a morire. Ma l'evidenza che l'uomo nasce capace di occuparsi della salute del corpo oggi scandalizza quanto, al tempo della Riforma, l'idea che l'uomo nascesse con la capacità di interpretare la Scrittura.

La patente complicità del professionista e del suo cliente non basta a spiegare la resistenza che la gente oppone all'idea di deprofessionalizzare le cure. All'origine dell'impotenza dell'uomo industrializzato c'è l'altra funzione della medicina attuale, quella di rituale per scongiurare la morte. Il paziente si affida al medico non solo a causa della sua sofferenza, ma per paura della morte, per esserne protetto. L'identificazione di ogni malattia con una minaccia di morte è di origine abbastanza recente. Smarrendo la distinzione tra la guarigione di una malattia curabile e la preparazione ad accettare il male incurabile, il medico moderno ha perduto il diritto dei suoi predecessori a distinguersi chiaramente dallo stregone e dal ciarlatano; e il suo cliente ha perduto la capacità di distinguere tra l'alleviamento della sofferenza e il ricorso allo scongiuro. Con la celebrazione del suo rituale, il medico maschera la divergenza tra il fatto che professa e la realtà che crea, tra la lotta contro la sofférenza e la morte da una parte e l'allontanamento della morte al prezzo di una sofferenza prolungata dall'altra. Il coraggio di curarsi da solo può averlo soltanto l'uomo che ha il coraggio di riconoscere l'esistenza di una soglia, di accettare la necessità di limiti, di affrontare la morte.

Il sistema dei trasporti

All'inizio degli anni Trenta, sotto la presidenza di Càrdenas, il Messico si dotò di un sistema di trasporti moderno. Nel giro di alcuni anni i quattro quinti della popolazione conobbero i vantaggi del trasporto automobilistico. I principali villaggi furono collegati da piste o strade in terra battuta. Grossi camion, semplici e solidi, cominciarono a percorrere i loro tragitti a velocità non superiori a 30 chilometri l'ora. I passeggeri si ammassavano su panche di legno inchiodate al fondo, mentre i bagagli e le merci erano sistemati sul tetto o nel retro dell'automezzo. Sulle distanze brevi il camion non costituiva un'alternativa per della gente che era abituata a camminare con pesanti carichi, ma tutti ebbero la possibilità di percorrere lunghe distanze. L'uomo non andava più a piedi al mercato spingendosi avanti il suo maiale: se lo caricava con sé sul camion. Chiunque, in Messico, poteva recarsi in qualunque punto del paese in pochi giorni.

Dal 1945, ogni anno non si fa che spendere di più per la rete stradale. Si costruiscono autostrade fra questo e quel centro maggiore. Fragili automobili sfrecciano su strade lucide di asfalto. Grandi autotreni speciali fanno la spola da uno stabilimento all'altro. I vecchi camion buoni per tutti gli usi e per tutti i fondi stradali sono stati respinti in montagna. In quasi tutte le regioni, il contadino deve prendere un pullman per andare al mercato ad acquistare prodotti industrializzati, ma sul pullman non può caricare il maiale e deve perciò venderlo al mercante ambulante di bestiame. Finanzia, con le tasse, la costruzione di strade che recano profitto ai detentori dei vari monopoli specializzati; è obbligato a farlo, col pretesto che in ultima istanza sarà lui a beneficiare del progresso.

In cambio di un tragitto occasionale sul sedile imbottito di un torpedone con aria condizionata, il messicano medio ha perduto gran parte della mobilità che il vecchio sistema gli garantiva, senza peraltro guadagnare in libertà. Uno studio condotto in due grandi Stati tipici del Messico, l'uno desertico, l'altro montagnoso e tropicale, conferma questo giudizio: meno dell'i per cento della popolazione, in ognuno di questi due Stati, ha percorso nel 1970 più di 20 chilometri in meno di un'ora. Un sistema di biciclette e carretti, eventualmente motorizzati, avrebbe costituito, per il 99 per cento della popolazione, una soluzione tecnicamente molto più efficace della tanto vantata rete autostradale. Simili veicoli, la cui costruzione e manutenzione richiederebbe una spesa relativamente bassa, potrebbero circolare su una rete viaria non molto diversa da quella dell'impero Inca. L'argomento che viene portato a sostegno degli investimenti in automobili e strade è che essi sono una condizione dello sviluppo, e che senza di essi una regione rimane esclusa dal mercato mondiale. E vero; ma resta da chiedersi se l'integrazione nel mercato monetario, che ne è oggi il simbolo vistoso, sia davvero lo scopo dello sviluppo.

Da qualche anno, i fautori dello sviluppo cominciano ad ammettere che le automobili, così come vengono utilizzate, non sono efficienti. E non lo sono, dicono, perché i veicoli sono concepiti in vista dell'appropriazione privata anziché del bene pubblico. In realtà il sistema moderno dei trasporti non è efficiente perché si tende a identificare ogni aumento di velocità con un progresso della circolazione. Come la pretesa d'uno «star meglio» a tutti i costi, la corsa alla velocità è una forma di disordine mentale. Come i medici riescono ad aumentare le sofferenze, così i veicoli veloci rubano alla maggioranza più tempo di quanto non ne risparmino ai privilegiati. In un paese capitalista il grande viaggio è una questione di denaro; in un paese socialista, una questione di potere. La velocità è un nuovo fattore di stratificazione sociale nelle società sovrefficienti.

L'intossicazione della velocità è un buon terreno per il controllo sociale sulle condizioni dello sviluppo nell'interesse dell'industria. L'industria dei trasporti, in tutte le sue varie forme, assorbe il 23 per cento della spesa complessiva degli Stati Uniti, consuma il 42 per cento della loro energia, è al tempo stesso la principale fonte di inquinamento e la più importante causa d'indebitamento dei bilanci familiari. Questa stessa industria si divora spesso una fetta proporzionalmente ancora più grossa del bilancio annuale dei comuni latinoamericani; qui ciò che figura sotto la voce «sviluppo», nelle statistiche, è in realtà il costo dell'automobile del medico o del politico, più cara, per l'insieme della popolazione, di quanto non sia stata per gli egiziani la costruzione della più grande piramide.

La Tailandia è celebre nella storia per il suo sistema di canali, i klong. Questi canali suddividevano a scacchiera il territorio del paese e assicuravano la circolazione della gente, del riso e delle imposte. Certi villaggi erano isolati durante la stagione asciutta, ma il ritmo stagionale della vita faceva di questo isolamento periodico un'occasione per meditare e celebrare feste. Un popolo che si concede lunghe vacanze e le riempie di attività non è certo un popolo povero. Negli ultimi cinque anni, i canali più importanti sono stati colmati e trasformati in strade. I conducenti di autobus sono pagati al chilometro e le automobili sono ancora poco numerose; così, per un breve periodo, i tailandesi batteranno probabilmente il record di velocità in autobus. Ma pagheranno cara la distruzione delle millenarie vie d'acqua. Gli economisti dicono che gli autobus e le automobili iniettano moneta nell'economia: è vero, ma a quale prezzo! Quante famiglie perderanno il loro ancestrale battello di riso e, con esso, la libertà? Mai gli automobilisti avrebbero potuto far loro concorrenza, se la Banca Mondiale non avesse finanziato le strade e se il governo tailandese non avesse emanato nuove leggi che autorizzano la profanazione dei canali.

L'industria delle costruzioni

Il Diritto e la Finanza possono anche conferire all'industria il potere di togliere all'uomo la facoltà di costruirsi la propria casa. Recentemente in Messico è stato varato un grande programma che si propone di fornire a ogni lavoratore un alloggio decoroso; come nel campo dell'educazione e della sanità, così anche nell'edilizia il Messico ha oggi una legislazione modello di giustizia distributiva in favore dei lavoratori. Si è cominciato con lo stabilire nuove norme per la costruzione di unità di abitazione; esse miravano a proteggere gli acquirenti di case dagli abusi dell'industria edilizia: ma, paradossalmente, hanno privato ancora più gente della possibilità tradizionale di costruirsi una casa. Infatti il nuovo codice urbanistico impone certe condizioni minime che non possono essere soddisfatte da un lavoratore che voglia costruirsi lui stesso la propria casa nel suo tempo libero. In più, il prezzo d'affitto di un appartamento costruito industrialmente supera il reddito globale dell'80 per cento della popolazione. La cosiddetta «abitazione decorosa» non può dunque essere occupata se non da gente relativamente benestante o da quei pochi che in base alla legge possono ottenere un sussidio per l'alloggio.

Progressivamente in tutta l'America Latina le abitazioni che non soddisfano alle norme industriali vengono facilmente dichiarate pericolanti o insalubri. Si rifiuta un aiuto pubblico alla schiacciante maggioranza della popolazione, che non ha mezzi per acquistare una casa ma potrebbe costruirsela. I fondi pubblici destinati al miglioramento delle condizioni abitative nei quartieri poveri finiscono con l'essere assegnati alla costruzione di nuovi insediamenti residenziali, vicino ai capoluoghi provinciali e regionali, dove potranno vivere i funzionari, gli operai iscritti ai sindacati e quelli che godono di raccomandazioni: tutta gente occupata nel settore moderno dell'economia, gente che ha un lavoro, cioè è impiegata. Si può facilmente riconoscere questa parte del popolo dal fatto che indica la propria attività lavorativa col sostantivo, trabajo; tutti gli altri, quelli che lavorano di tanto in tanto o mai o vivono al limite del livello di sussistenza, usano la forma verbale quando capita loro di trabajar.

Chi è impiegato e dunque ha un lavoro riceve sussidi per comprare la casa: non solo, ma tutti i servizi pubblici sono organizzati per rendergli comoda la vita. A Bogotà, per esempio, il 4 per cento della popolazione consuma circa il 50 per cento dell'acqua corrente: e, là sull'altopiano, l'acqua non abbonda certamente! Il codice urbanistico impone norme molto meno esigenti di quelle dei paesi ricchi, ma, prescrivendo come bisogna costruire, crea una crescente penuria dì abitazioni. La pretesa di una società di fornire alloggi sempre migliori discende dalla stessa aberrazione per cui i medici pretendono di far stare sempre meglio e gli ingegneri di produrre velocità sempre più elevate. Ci si fissa sull'astratto degli scopi impossibili da raggiungere, e poi si prendono i mezzi per finì.

Ciò che è avvenuto in tutta l'America Latina, Cuba compresa, è accaduto anche a Giacarta, a Manila e ad Abidjan, nel corso degli anni Sessanta. E anche accaduto nel Massachusetts: nel 1945, un terzo delle famiglie abitava in case che erano o interamente opera degli occupanti, o costruite su loro progetto e sotto la loro direzione; nel 1970, questo tipo di case non rappresentava ormai più che l'li per cento del totale. Nel frattempo, quello dell'alloggio era divenuto il problema numero uno. Eppure, grazie ai nuovi strumenti e materiali disponibili, costruire una casa è oggi diventato più facile; ma le istituzioni sociali, regolamenti, sindacati, clausole ipotecarie, vi sì oppongono ciascuna a suo modo. La vanità professionale del pianificatore, dell'ingegnere e del sindacalista può imporre il monopolio dell'industria per lo meno con la stessa efficacia con la quale lo impone l'imprenditore capitalista.

La maggior parte della gente non si sente veramente in casa propria se una parte significativa del valore della sua abitazione non è frutto del proprio lavoro. Una politica conviviale dovrebbe cominciare col definire che cosa è impossibile procurarsi da soli quando ci si costruisce una casa e di conseguenza dovrebbe assicurare a ognuno l'accesso a un minimo di spazio, d'acqua, d'elementi prefabbricatì, di strumenti conviviali dal trapano al montacarichi e, probabilmente, anche l'accesso a un minimo di credito. Una sìffatta inversione della politica attuale darebbe a una società postindustriale abitazioni moderne altrettanto attraenti per i suoi membri quanto lo erano, per gli antichi Maya, le case che sono ancora la regola nello Yucatàn.

Così come sono concepiti oggi, le cure, i trasporti, l'alloggio debbono essere i risultati di un'azione che esige l'intervento di professionisti. Questo intervento si concretizza per addizione di quanta successivi, il quantum essendo l'unità di misura minimale. Il costo di ogni quantum è elevato, e meno di un quantum non serve a nulla. Se, per esempio, la scolarità si produce in quanta di quattro anni ciascuno, tre anni di scuola hanno effetti peggiori che l'assenza di scolarizzazione: fanno del bambino che abbandona la scuola uno spostato. Ciò che è vero per la scuola lo è anche per la medicina, i trasporti, l'abitazione, l'agricoltura o la giustizia. I trasporti motorizzati valgono la pena solo da una certa velocità in su. Il ricorso al tribunale è producente solo se l'entità del danno subito giustifica il costo del processo. Seminare nuove colture è redditizio solo se il coltivatore dispone d'una determinata quantità di terra e di capitale. E fatale che degli strumenti superpotenti, concepiti per raggiungere scopi sociali fissati astrattamente, forniscano i loro prodotti in quanta inaccessibili alla maggioranza. Per di più, si tratta di strumenti integrati: è sempre la stessa minoranza che utilizza il loro insieme, cioè tanto la scuola completa di 4 volte 4 anni, quanto l'aereo, la telescrivente e l'aria condizionata. La produttività impone di stabilire dei quanta predeterminati di valori definiti dalle istituzioni, e una gestione produttiva esige che un individuo, per potersi considerare produttivo, abbia accesso a tutti questi pacchetti contemporaneamente. La domanda di ciascun prodotto specifico è governata dalla legge di un complesso attrezzato, che concorre a mantenere l'ambiente prodotto dalle altre professioni. La gente che vive tra la propria automobile e il proprio appartamento in un grattacielo deve poter concludere l'esistenza in una clinica. Per definizione, tutti questi beni sono rari e lo divengono sempre più man mano che le professioni si specializzano ed elevano il livello delle norme che le regolano; di conseguenza, ogni nuovo quantum lanciato sul mercato frustra più individui di quanti ne soddisfi.

Le statistiche che dimostrano la crescita del prodotto e il forte consumo pro capite di quanta specializzati mascherano la grandezza dei costi invisibili. La popolazione è educata meglio, curata meglio, trasportata meglio, divertita e spesso nutrita meglio, ma a condizione che, per ogni unità di misura di questo meglio, si accettino docilmente sia i criteri sia gli obiettivi fissati dagli esperti. Una società conviviale può instaurarsi solo se si riconosce il carattere arbitrario di queste misure e la distruttività dell'imperialismo politico, economico e tecnico che si nasconde dietro di esse. Rendendo obbligatorio e sistematico lo sviluppo della produttività, la nostra generazione mette in pericolo la sopravvivenza dell'umanità. Per tradurre in pratica la possibilità teorica di un modo di vita postindustriale e conviviale, dobbiamo individuare le soglie al di là delle quali l'istituzione produce frustrazione, e i limiti al di là dei quali lo strumento esercita un effetto distruttivo sull'intera società. E più importante, anzi vitale, per una società postindustriale stabilire dei criteri per la concezione dei suoi strumenti, e dei limiti alla loro crescita, che porsi obiettivi di produzione come accade oggi.

III. L'equilibrio multidimensionale

L'equilibrio umano è un equilibrio aperto, suscettibile di modificarsi entro parametri flessibili e tuttavia finiti: gli uomini cioè possono cambiare, ma entro certi limiti. L'attuale sistema industriale, invece, trova nella sua dinamica la propria instabilità: è organizzato in funzione di una crescita indefinita e della creazione illimitata di nuovi bisogni che, nella cornice industriale, divengono ben presto necessità. Una volta divenuto dominante in una società, il modo di produzione industriale fornirà questo o quel bene di consumo, passerà da questa a quell'altra merce, ma non ammetterà limiti all'industrializzazione dei valori. Un simile processo di crescita esige dall'uomo una cosa assurda: trovare la propria soddisfazione nel piegarsi alla logica dello strumento.

Ora, la struttura della tecnica di produzione dà forma alle relazioni sociali. La richiesta che lo strumento fa all'uomo comporta un costo sempre più alto; è il costo dell'adattamento dell'uomo al servizio del suo strumento, rispecchiato dalla crescita del terziario nel prodotto globale. Diventa sempre più necessario manipolare l'uomo per vincere la resistenza opposta dal suo equilibrio vitale alla dinamica industriale; e questa manipolazione prende la forma di molteplici terapie, pedagogica, medica, amministrativa. L'educazione produce consumatori competitivi; la medicina li mantiene in vita nell'ambiente attrezzato che è ormai loro indispensabile; e la burocrazia risponde alla necessità che il complesso sociale eserciti il suo controllo sugli individui applicati a un lavoro insensato. Che attraverso le assicurazioni, la polizia e l'esercito cresca il costo della difesa dei nuovi privilegi, è tipico della situazione connaturata a una società di consumo; è inevitabile che questa comporti due tipi di schiavi: gli intossicati e quelli che vorrebbero esserlo, gli iniziati e i neofiti.

E ora che il dibattito politico si concentri sui vari modi in cui la struttura della tecnica di produzione minaccia l'uomo. Non giova alla chiarezza di questo dibattito chi insiste nel prescrivere palliativi, mascherando così la causa profonda del blocco dei sistemi sanitario, di trasporto, di educazione, di alloggio, un blocco che arriva fino alle istanze giuridica e politica. La crisi ecologica, per esempio, viene trattata superficialmente quando non si sottolinei che gli auspicati dispositivi antinquinamento saranno efficaci solo se accompagnati da una riduzione della produzione globale dell'industria ad una piccola frazione del livello attuale: altrimenti non si fa che trasferire i rifiuti in casa del vicino, metterli in serbo per i nostri bambini, o scaricarli sul terzo mondo. Soffocare l'inquinamento creato localmente da una grande industria esige investimenti, in materiali e in energia, che ricreano altrove lo stesso danno su più vasta scala. Rendendo obbligatori i dispositivi antinquinamento, non si fa che aumentare il costo unitario di produzione. Certo, si conserva un poco d'aria respirabile per la collettività, dato che meno gente può concedersi il lusso di guidare un'automobile, di dormire in una casa climatizzata o di prendere l'aereo per andare a pesca nel weekend; ma anziché degradare l'ambiente fisico, si accentuano le differenze sociali. La struttura della tecnica di produzione incide sui rapporti sociali ancor più direttamente di quanto non incida sul funzionamento biologico. Passare dal carbone all'atomo, significa passare dallo smog di oggi a maggiori livelli di radiazione domani. Quando gli americani trasferiscono le loro raffinerie oltre mare, dove il controllo dell'inquinamento è meno severo, preservano se stessi da odori sgradevoli riservando il puzzo al Venezuela e senza per questo diminuire l'avvelenamento del pianeta.

Benché la discussione pubblica sui limiti ecologici sia importantissima e appena agli inizi, e sia più che opportuno approfondirla e generalizzarla, è ancora più importante prendere coscienza che i limiti posti dall'ambiente fisico rappresentano solo una dimensione di un problema che di dimensioni ne ha almeno cinque. Bisogna evitare che le al tre dimensioni limitanti siano proiettate su questa sola e rese incomprensibili nella loro specificità e indipendenza, con pregiudizio per lo stesso dibattito ecologico.

La supercrescita dello strumento minaccia le persone in una maniera radicalmente nuova, pur se analoga alle forme classiche di nocività e di danno. La minaccia è nuova nel senso che carnefici e vittime sono accomunati nella dualità operatori/clienti di strumenti inesorabilmente distruttivi. In questo gioco, anche se alcuni partono vincenti, alla fine tutti risultano perdenti.

Distinguerò cinque modi in cui la popolazione del pianeta è minacciata dallo sviluppo industriale avanzato.

1.   La supercrescita minaccia il diritto dell'uomo a conservare le sue radici nell'ambiente col quale si è evoluto.

2.      L'industrializzazione minaccia il diritto dell'uomo all'autonomia nell'azione.

3.   La superprogrammazione dell'uomo in funzione del nuovo ambiente minaccia la sua intenzionalità.

4.   La centralizzazione dei processi di produzione minaccia il suo diritto alla parola, cioè alla politica.

5.   Il rafforzamento dei meccanismi di usura (obsolescenza) minaccia il diritto dell'uomo alla propria tradizione, il suo ricorso al precedente attraverso il linguaggio, il mito, il rituale e, anzi tutto, il Diritto.

Esamineremo queste cinque minacce, insieme distinte e connesse, rette da una mortale inversione dei mezzi in fini. Una sesta minaccia è costituita dalla frustrazione profonda generata mediante il soddisfacimento obbligatorio e condizionato; non è la meno sottile, ma non può dar luogo, come le altre cinque, all'estinzione dell'uomo né si può ricondurre ad alcuna precisa offesa d'un diritto già definito. La classificazione che io faccio ha lo scopo di rendere riconoscibile il danno (la nuova minaccia) nella terminologia tradizionale della giurisprudenza anglosassone. Che uno strumento anonimo destinato a soccorrere una parte malata provochi un'infezione, questo è un fatto nuovo; ma il male che minaccia chiunque non è nuovo. Questa prima classificazione può servire come base per azioni giudiziarie con cui le persone lese dal funzionamento degli strumenti volessero far valere i loro diritti. Chiarire queste categorie di danni può essere un mezzo per recuperare dei principi di procedura politico-giuridica che permettano alle popolazioni di capire, mettere sotto accusa e correggere l'attuale squilibrio del complesso istituzionale dell'industria. Concepita in questi termini, l'identificazione della molteplice minaccia non solo favorisce la partecipazione pubblica al processo d'accusa, ma impone inoltre il recupero degli elementi essenziali del procedimento formale giuridico per la vita politica.

Io postulo che i principi che stanno alla base di ogni procedura morale, politica e giuridica sono tre:

a)   il conflitto sollevato dalla persona è legittimo;

b)   il processo decisionale vigente trae la sua autorità dalla dialettica della storia;

c)   il ricorso alla popolazione, ad assemblee di pari scelti tra uguali (e non al giudizio dell'«esperto»), è l'indispensabile suggello di ogni decisione che riguardi la collettività.

Invertire alla radice la struttura tecnica delle nostre istituzioni produttive più importanti: ecco la rivoluzione, ecco l'assalto all'avere o al potere delle classi professionali, in mancanza del quale il trasferimento al pubblico dei titoli di proprietà rimane una mera cerimonia a beneficio di una nuova classe di commissari-gerenti. E una rivoluzione che non si può né progettare né condurre se prima non si recupera (e si accetta) una struttura formale di procedura.

Prima di approfondire la procedura politica che sola può salvaguardare l'equilibrio umano, conviene centrare l'analisi su ciascuna delle dimensioni in cui si presenta la minaccia.

La degradazione dell'ambiente

L'importanza dell'equilibrio tra l'uomo e la biosfera è un fatto accertato, e all'improvviso ha cominciato a preoccupare molta gente. La degradazione dell'ambiente è drammatica ed evidentissima. Per anni, a Città del Messico, la circolazione automobilistica è regolarmente aumentata sotto un cielo azzurro; poi, ad un tratto, è arrivato lo smog e ben presto è diventato peggio che a Los Angeles. Veleni di una potenza sconosciuta vengono iniettati nel nostro biosistema. Non c'è modo di eliminarli, né mezzo di prevedere se, assommandosi, non finiranno un giorno per ridurre di colpo il nostro pianeta a una cosa morta, come è già accaduto al lago Erie e al lago Bajkal. L'uomo è nato e si è evoluto dentro una nicchia cosmica. La Terra è la nostra dimora. E questa dimora che l'uomo adesso minaccia.

Di solito si identificano nel sovrappopolamento, nella sovrabbondanza e nella tecnica indifferente ai suoi sottoprodotti le tre forze che, combinandosi, mettono in pericolo l'equilibrio ecologico. Paul Ehrlich osserva che volendo affrontare onestamente il problema della «bomba demografica» e della stabilizzazione dei consumi, si rischia di essere considerati «nemici del popolo e nemici dei poveri», e tuttavia ribadisce che «certe misure impopolari (che limitino al tempo stesso le nascite e i consumi) sono la sola speranza che l'umanità abbia di evitare una miseria senza precedenti». Seguito da altri sostenitori della crescita demografica zero, Ehrlich vuole sposare il controllo delle nascite con l'efficienza industriale. Da parte sua Barry Commoner, esponendosi alla critica d'essere un demagogo nemico delle macchine, mette l'accento sulla terza incognita dell'equazione, la tecnologia perversa, e afferma che è questa la principale responsabile della recente degradazione dell'ambiente. Come molti altri ecologi, Commoner chiede una riattrezzatura dell'industria, più che una inversione radicale della struttura di base degli strumenti.

La suggestione della crisi ecologica ha limitato il dibattito sulla sopravvivenza all'esame di un solo equilibrio, quello minacciato dallo strumento inquinante. Ma questo dibattito resta unidimensionale, dunque senza oggetto, anche se si fanno intervenire tre variabili, ciascuna caratterizzante uno squilibrio tra l'uomo e il suo ambiente. Il sovrappopolamento accresce il numero degli individui dipendenti da risorse limitate, la sovrabbondanza obbliga ognuno a spendere più energia, e lo strumento distruttivo degrada questa energia senza beneficio.

Se si considerano queste tre forze come le sole minacce, e la biosfera come l'oggetto minacciato, due questioni, non di più, meritano di essere discusse:

a) quale fattore (o quale forza) ha maggiormente degradato le risorse genetiche, e quale è il più minaccioso per il prossimo futuro?

b) quale fattore, nella misura in cui sia riducibile o invertibile, richiede maggiore attenzione da parte nostra? Secondo alcuni è più facile risolvere il problema del sovrappopolamento, secondo altri è più agevole ridurre una produzione generatrice di entropia. Tutti, ovviamente, sono più o meno d'accordo che non si può accrescere il benessere materiale seguendo le predizioni di Rerman Kahn e simili ciarlatani.

Onestà vuole che ognuno di noi riconosca la necessità di porre un limite alla procreazione, al consumo e allo spreco: ma, ancor più, importa abbandonare l'illusione che le macchine possano lavorare per noi o i terapeuti renderci capaci di servircene. L'unica soluzione alla crisi ecologica è che gli uomini capiscano che sarebbero più felici se potessero lavorare insieme e prendersi cura l'uno dell'altro. Un simile rovesciamento delle idee correnti richiede, in chi l'opera, coraggio intellettuale. Egli infatti si espone a una critica che, per non essere molto acuta, non è meno dolorosa: verrà trattato non solo da «nemico del popolo» e «nemico dei poveri», ma anche da oscurantista contrario alla scuola, al sapere e al progresso. Lo squilibrio ecologico è un sovraccarico che si aggiunge ad altri per distorcere, ciascuno in una dimensione particolare, l'equilibrio vitale. Più oltre mostrerò come, in questa prospettiva, il sovrappopolamento è il risultato di uno squilibrio dell'educazione, la sovrabbondanza deriva dalla monopolizzazione industriale dei valori personali, e la cattiva tecnologia è l'inesorabile conseguenza d'una inversione dei mezzi in fini.

Il dibattito unidimensionale condotto dai sostenitori delle varie panacee, i quali ritengono compatibile l'espansione controllata del sistema industriale con la sopravvivenza in equità, può solo alimentare l'illusoria speranza che in qualche modo l'azione umana opportunamente attrezzata possa rispondere alle esigenze del mondo concepito come Totalità-Strumento. Una sopravvivenza garantita burocraticamente in simili condizioni significherebbe un'industrializzazione del terziario talmente accentuata, che tutto il pianeta sarebbe guidato da un unico sistema di produzione e di riproduzione pianificato dal centro.

Secondo i fautori di questa soluzione, dominati da una mentalità industriale, la conservazione dell'ambiente fisico potrebbe divenire la cura principale del leviatano burocratico posto alle leve che regolano i livelli di riproduzione, di domanda, di produzione e di consumo. Una tale risposta tecnocratica alla crescita demografica, all'inquinamento e alla sovrabbondanza, non potrebbe fondarsi che su un accresciuto sviluppo dell'industrializzazione dei valori. La credenza nella possibilità ditale sviluppo si basa a sua volta su un postulato erroneo, e cioè che «il successo storico della scienza e della tecnologia ha reso possibile la traduzione dei valori in compiti tecnici, la materializzazione dei valori. Quel ch'è in gioco è dunque una nuova definizione dei valori in termini tecnici, come elementi del processo tecnologico. I nuovi fini, come fini tecnici, opererebbero così nel progetto e nella costruzione dell'apparato tecnologico, non solo nella sua utilizzazione»[4] .

Il ristabilimento di un equilibrio ecologico dipende dalla capacità del corpo sociale di reagire contro la progressiva materializzazione dei valori, contro la loro riduzione a compiti tecnici.

Se questa reazione non ci sarà, l'uomo si troverà completamente accerchiato dai prodotti dei suoi strumenti, chiuso senza via d'uscita. Avvolto da un ambiente fisico, sociale e psichico da lui stesso fabbricato, sarà prigioniero del suo strumento-guscio, incapace di ritrovare l'antico ambiente col quale si era formato. L'equilibrio ecologico non sarà ristabilito se non riconosceremo che solo la persona ha dei fini e che solo essa può lavorare per realizzarli.

Il monopolio radicale

Gli strumenti sovrefficienti possono estinguere l'uomo distruggendo l'equilibrio tra lui ed il suo ambiente. Ma certi strumenti possono essere sovrefficienti in tutt'altro modo:

alterando il rapporto tra ciò che uno ha bisogno di fare da sé e ciò che può attingere bell'e fatto dall'industria. In questa seconda dimensione di possibile squilibrio, la produzione sovrefficiente dà luogo a un monopolio radicale.

Per monopolio radicale intendo un tipo di dominio di un prodotto, che va molto al di là di ciò che il termine solitamente indica. Generalmente si intende per monopolio il controllo esclusivo, da parte di una ditta, sui mezzi di produzione o di vendita di un bene o d'un servizio. Si dirà che la CocaCola ha il monopolio delle bibite analcoliche del Nicaragua in quanto è l'unica produttrice di simili bevande, in quel paese, che disponga di mezzi pubblicitari moderni. La Nestlé impone la propria marca di cioccolato controllando il mercato della materia prima, una fabbrica di automobili controllando le importazioni dall'estero, una compagnia televisiva assicurandosi una licenza esclusiva. I monopoli di questo tipo, è da un secolo che lo si riconosce, sono dei pericolosi sottoprodotti dello sviluppo industriale; e si sono anche emanate delle leggi nel tentativo, pressoché vano, di tenerli a freno. Normalmente la legislazione con cui si cerca di ostacolare la formazione di monopoli ha mirato a impedire che, tramite loro, s'imponesse un limite alla crescita economica; non c'era alcun intento di proteggere l'individuo.

Questo primo tipo di monopolio restringe le possibilità di scelta del consumatore o addirittura lo fa trovare di fronte a un unico prodotto sul mercato, ma raramente limita in altri sensi la sua libertà. Un uomo assetato può desiderare una bibita analcolica, fresca e gassata, e trovarsi astretto alla scelta di una sola marca, ma resta libero di togliersi la sete bevendo birra o acqua. Solo se e quando la sua sete si traduce senza possibili alternative nel bisogno forzato, nell'acquisto obbligatorio d'una bottiglietta di una certa bibita, soltanto allora s'installa il monopolio radicale. Con questo termine io intendo non il dominio di una marca ma la necessità industrialmente creata di servirsi di un tipo di prodotto. Si ha monopolio radicale quando un processo di produzione industriale esercita un controllo esclusivo sul soddisfacimento di un bisogno pressante, escludendo ogni possibilità di ricorrere, a tal fine, ad attività non industriali.

I trasporti, per esempio, possono monopolizzare la circolazione. Le automobili possono modellare una città a loro immagine, eliminando praticamente la locomozione a piedi o in bicicletta, come a Los Angeles. La costruzione di strade per autobus può annullare la circolazione fluviale, come in Tailandia. Che l'automobile riduca il diritto di camminare, questo è monopolio radicale, e non il fatto che si contino più guidatori di Fiat che di Alfa Romeo. Che la gente sia obbligata a farsi trasportare e divenga incapace di circolare senza motore, questo è monopolio radicale. Il danno che i trasporti motorizzati infliggono alla gente in virtù di questo monopolio radicale è cosa del tutto distinta e indipendente dal danno che producono bruciando della benzina che, in un mondo sovrappopolato, potrebbe essere trasformata in alimenti. E distinto anche dall'omicidio automobilistico. Certo che le automobili bruciano carburante in olocausto, certo che sono costose: certo che dal 1908 a oggi in America si sono registrati cento milioni di vittime dell'automobile. Ma il monopolio radicale stabilito dal veicolo a motore ha un modo tutto suo di distruggere. Le automobili creano distanze, la velocità in tutte le sue forme restringe lo spazio. Si incuneano autostrade attraverso regioni sovrappopolate, e poi si estorce alla gente un pedaggio per «autorizzarla» a superare le distanze che il sistema del trasporto esige di per sé. Questo monopolio dei trasporti, come una bestia mostruosa, divora lo spazio. Anche se gli aerei e gli autobus funzionassero come servizi pubblici senza contaminare l'aria ed il silenzio e senza prosciugare le risorse di energia, la loro velocità inumana degraderebbe ugualmente la mobilità naturale dell'uomo, e lo costringerebbe a dedicare sempre più tempo alla circolazione meccanica.

La scuola può anch'essa esercitare un monopolio radicale sul sapere, ridefinendolo come educazione. Finché si accetta la definizione della realtà fornita dall'insegnante, agli effetti ufficiali gli autodidatti sono «sforniti di educazione». La medicina moderna nega a chi soffre le cure che non siano oggetto di una prescrizione medica. Si ha monopolio radicale quando lo strumento programmato spossessa la capacità innata dell'individuo. Questo dominio dello strumento instaura il consumo obbligatorio e di conseguenza restringe l'autonomia della persona. È un tipo particolare di controllo sociale, rafforzato dal consumo obbligatorio d'una produzione di massa che solo le grandi industrie possono fornire.

Il controllo esercitato sulle sepolture dalle imprese di pompe funebri mostra come sorge e si stabilisce un monopolio radicale e in che cosa si differenzia da altre forme di chiusura culturale. Nel Cile, fino a ma generazione addietro, solo la preparazione della fossa e la benedizione della salma erano opera di specialisti il becchino e il prete. Un lutto in famiglia creava degli obblighi sociali, che potevano essere assolti <dai parenti. la veglia, le esequie e il pranzo servivano a comporre le liti, a dare libero sfogo al dolore, a celebrare lai vita e la fatalità della morte. La maggior parte delle usanze erano di natura rituale, oggetto di minuziose prescrizioni che variavano dal deserto di Atacama all'estremo Sud freddo e tedesco. Poi, nelle principali città sorsero imprese di pompe funebri. All'inizio stentarono a trovare clienti perché, anche in città, la gente sapeva ancora seppellire i propri morti. Negli anni Sessanta ottennero il controllo dei nuovi cimiteri e cominciarono a offrire servizi forfettari comprendenti la bara, la cerimonia e l'imbalsamazione del defunto. Verso il 1970 è stata approvata una legge che impone l'obbligo di servirsi del beccamorto. Quando otterrà il controllo del cadavere, l'impresario delle pompe funebri avrà il monopolio radicale della sepoltura, così come il medico è sul punto di avere il monopolio della morte.

La polemica sui servizi sanitari che in corso negli Stati Uniti illustra chiaramente come si rafforza un monopolio radicale per effetto della lotta tra due tipi di fornitori, entrambi industriali. I repubblicani mettono l'accento sulla prevenzione delle malattie, i democratici sulla cura. L'uno e l'altro partito politico pongono il servizio professionale come uno scottante problema pubblico, relegando così la cura della salute in un ambito dove la politica ha ben poco d'importante da dire. Ogni partito promette più denaro ai medici, agli ospedali ed ai farmacisti. Più denaro vorrà dire meno attenzione ai fattori non terapeutici che determinano lo stato di salute, maggior presa dell'industria della salute sui fondi pubblici, ed aumenti del suo prestigio e del suo potere che non diventa meno arbitrario per il fatto di diventare più complesso. Posto nelle mani di una minoranza, questo potere accrescerà la capacità di sofferenza e ridurrà il potenziale d'iniziativa dei malati e dei sani. Più denaro speso sotto la direzione degli specialisti della salute significa più gente condizionata a sostenere il ruolo dell'ammalato, ruolo che non ha neppure più il diritto d'interpretare per proprio conto: una volta accettato il ruolo, infatti, i suoi bisogni più semplici non possono essere soddisfatti se non attraverso certi rubinetti che, per definizione professionale, sono rari.

Gli uomini possiedono la capacità innata di curare, confortare, spostarsi, apprendere, costruirsi una casa e seppellire i propri morti. Ognuna di queste capacità risponde a un bisogno. I mezzi per soddisfare questi bisogni non mancano fin tanto che gli uomini dipendono da ciò che possono fare da sé e per sé, ricorrendo solo marginalmente a professionisti. Tali attività hanno un valore d'uso, ma non necessariamente hanno assunto valore di scambio: il loro esercizio, spesso, non si definisce culturalmente come lavoro.

Queste soddisfazioni elementari si rarefanno quando l'ambiente sociale viene trasformato in modo tale che i bisogni più semplici non possono più trovare la loro risposta fuori commercio. Così si stabilisce un monopolio radicale allorché gli uomini abbandonano la loro capacità innata di fare quel che possono per sé e per gli altri, in cambio di qualcosa di «meglio» che solo uno strumento dominante può procurargli. Questo monopolio radicale rispecchia l'industrializzazione dei valori. Alla risposta personale sostituisce l'oggetto standardizzato; crea nuove forme di scarsità attraverso l'accettazione di un nuovo criterio di misura, e quindi di classificazione, del livello di consumo della gente. Questa riclassificazione provoca l'aumento del costo unitario di fornitura del servizio, svaluta la prestazione non professionale, modula l'attribuzione dei privilegi, restringe l'accesso alle risorse, rende ostile l'ambiente all'iniziativa autonoma e mette la gente in stato di dipendenza forzosa.

Da questo monopolio radicale è sempre più necessario salvaguardarsi. Bisogna difendere l'uomo dall'infanzia, dalla morte e dalla sepoltura standardizzate, sia che il loro consumo venga imposto sotto il segno della libera impresa, sia che lo esigano i governi nel nome dell'uguaglianza e del progresso. Abbiamo bisogno di questa difesa anche se nella maggior parte abbiamo ormai accettato di sentirci clienti dei servizi specializzati. Se non riconosciamo questa necessità di reagire, il monopolio radicale rafforzerà e affinerà i propri strumenti a un punto tale da superare la soglia della resistenza umana all'inazione e alla passività. L'espansione industriale che impone il consumo obbligatorio ha un limite nel bisogno umano di iniziativa autonoma.

Non sempre è facile determinare che cosa costituisce un consumo forzoso. Il monopolio della scuola non si fonda in primo luogo su una legge che punisca i genitori o i ragazzi colpevoli di diserzione scolastica. Non che tali leggi non esistano, ma la scuola poggia su un'altra tattica: segregazione dei non scolarizzati, accentramento degli strumenti del sapere sotto il controllo degli insegnanti, trattamento sociale privilegiato per gli studenti. Difendersi da leggi che rendano obbligatorie l'educazione, la vaccinazione o il prolungamento della vita umana è importante, ma non basta. Le procedure che già permettono di proteggersi contro la privazione di un bene o di un diritto vanno estese ai casi in cui la parte minacciata voglia difendersi dall'obbligo di consumare, qualunque sia il tipo di consumo in questione. La soglia di intollerabilità di un monopolio radicale non può essere fissata in anticipo, ma se ne può prevenire la minaccia. La legislazione che definisca la natura precisa del monopolio ritenuto intollerabile deve essere frutto di un processo politico.

Difendersi dalla generalizzazione del monopolio è difficile quanto difendersi dal dilagare dell'inquinamento. Si è più pronti a insorgere contro un attentato ai propri interessi privati che non contro i pericoli che minacciano l'insieme del corpo sociale. I nemici dichiarati dell'automobile sono molto più numerosi dei nemici del volante: gli stessi che sono contrari alle automobili in genere perché inquinano l'aria, distruggono il silenzio e schiavizzano l'utente, non esitano poi ad usare la propria macchina convinti che essa non inquini granché, e non hanno alcuna sensazione di alienare la propria libertà quando sono al volante. E qui che si coglie il carattere radicale del monopolio, nel fatto cioè che, in una collettività, la maggioranza dà più peso al vantaggio personale immediato che non al male futuro incombente su tutti. La difesa contro il monopolio è ancora più difficile se si tiene conto dei fattori seguenti. Da una parte la società è già adesso satura di autostrade, scuole e ospedali; dall'altra, l'innata capacità dell'uomo di formulare atti indipendenti è paralizzata da tanto tempo che sembra essersi atrofizzata; infine, le soluzioni che offrono un'altra possibilità, per il fatto d'essere semplici, sembrano escluse dal campo delle cose immaginabili. È difficile sbarazzarsi del monopolio una volta che esso ha gelato la forma del mondo fisico, sclerotizzato il comportamento e mutilato l'immaginazione. Quando il monopolio radicale viene scoperto, in genere è troppo tardi per liberarsene in modo economico.

L'eliminazione di un monopolio commerciale avviene a spese della minoranza che ne trae profitto, cioè a spese di quei pochi che, di solito, riescono a sfuggire ai controlli. La cosa è diversa nel caso del monopolio radicale, dalla cui continuazione dipende non il profitto di alcuni ma il modo di vita della maggioranza. Perché sia possibile spezzarlo occorre che la maggioranza si renda conto che il pericolo incombente non è solo la fine del suo stile di vita, ma la fine del suo mondo. Tuttavia questa minaccia, da sola, forse non basta per indurre la maggioranza ad affrontare il costo della distruzione del monopolio. Essa non accetterà di pagarne il prezzo se non mettendo sulla bilancia da una parte le promesse di una società conviviale e dall'altra i miraggi d'una società di progresso. La gente sceglierà la bicicletta solo dopo aver compreso due cose: da un lato che il costo reale dei veicoli rapidi è diventato incalcolabile; dall'altro, che per ogni ora di vita spesa al servizio della circolazione i veicoli a velocità di bicicletta permettono di fare più chilometri di qualsiasi altro veicolo più veloce. Ben poca gente sarebbe disposta a pagare il costo della sopravvivenza se confondesse la convivialità con l'indigenza.

Certi sintomi del monopolio radicale cominciano ad affiorare nella coscienza sociale, e soprattutto questo: anche nei paesi più altamente sviluppati, e qualunque sia il loro regime politico, il tasso di crescita della frustrazione supera di gran lunga quello della produzione. Certo le politiche di alleviamento della frustrazione riescono facilmente a distrarre l'attenzione dalla natura profonda del monopolio; ma a ogni successo superficiale di queste politiche, che corregge distorsioni e diluisce la critica in vaghe riforme, il monopolio di cui ci occupiamo non fa che radicarsi ancora più saldamente.

Il primo dei palliativi è la difesa del consumatore. Il consumatore non può fare a meno dell'automobile. Passa da questa a quella marca. Scopre che la maggior parte delle vetture sono pericolose, a qualunque velocità. Allora si organizza con altri consumatori per ottenere vetture più sicure, di qualità migliore e più durevoli, nonché strade più larghe e meno pericolose. La vittoria del consumatore è una vittoria di Pirro: un recupero di fiducia individuale nei veicoli superpotenti (pubblici o privati che siano) significa maggior dipendenza collettiva nei loro confronti, e una sempre maggiore frustrazione per chi deve, o vuole, andare a piedi.

L'effetto immediato di simili iniziative per l'autodifesa del consumatore «intossicato»è quello di migliorare la qualità della droga fornita e di accrescere la potenza del fornitore; ma alla lunga esse possono anche mettere lo sviluppo di fronte ai propri limiti: può darsi che un giorno le automobili diventino troppo care da comprare e le medicine troppo costose da provare. Acutizzando le contraddizioni intrinseche a un tale processo di industrializzazione dei valori, le maggioranze possono arrivare a prenderne piena coscienza. E possibile che il consumatore avvertito, quello che seleziona i suoi acquisti, alla fine arrivi a scoprire che gli conviene di più arrangiarsi da solo. Ralph Nader, direttamente, non fa che promuovere e ribadire la dipendenza radicale; ma non è detto che, esasperandola, non contribuisca a farla scoppiare.

Il secondo palliativo, che mira a pareggiare il tasso di crescita della produzione e quello della frustrazione, è l'ideologia della pianificazione. E illusione diffusa che dei pianificatori animati da ideali socialisti potrebbero in qualche modo creare una società socialista, in cui i lavoratori dell'industria formerebbero la maggioranza. I sostenitori di quest'idea trascurano però un fatto, e cioè che il margine di adattabilità degli strumenti anticonviviali (cioè quelli che manipolano la persona) è ridottissimo. Una volta che i trasporti, l'educazione o l'assistenza medica siano disponibili gratuitamente, c'è rischio che il loro consumo venga imposto con maggior forza dai tutori della morale, e che il sottoconsumatore venga accusato di sabotare lo sforzo nazionale. In un'economia di mercato, chi vuole curarsi l'influenza restandosene a letto è penalizzato con una perdita di introiti; in una società che si appella al «popolo» per raggiungere obiettivi di produzione stabiliti al vertice, il rifiuto di consumare assistenza sanitaria equivale a far professione di pubblica immoralità. La difesa contro il monopolio radicale è possibile a una sola condizione: che si esprima, sul piano politico, un accordo unanime sulla necessità di mettere un termine all'aumento del prodotto da consumare. Un tale consenso si situa esattamente all'opposto dell'atteggiamento che è ora comune a tutte le opposizioni politiche e che consiste nel chiedere più cose utili per più gente inutile.

L'equilibrio fra l'uomo e l'ambiente da una parte e, dall'altra, fra la possibilità di esercitare un'attività creativa e la somma dei bisogni elementari da soddisfare in tale maniera, questo duplice equilibrio è ormai vicino al punto di rottura. E tuttavia la maggioranza non ne è preoccupata. A questo punto bisogna spiegare perché i più sono ciechi o impotenti di fronte al pericolo. L'accecamento, io credo, è la conseguenza di un terzo squilibrio, quello del sapere; quanto all'impotenza, essa dipende dal perturbamento di un quarto equilibrio, che io chiamo equilibrio del potere.

La superprogrammazione

L'equilibrio del sapere è determinato dal rapporto di due variabili: da una parte il sapere proveniente da relazioni creative tra l'uomo e il suo ambiente naturale, dall'altra il sapere reificato dell'uomo agito dal suo ambiente attrezzato. Il primo tipo di sapere è l'effetto dei nodi di relazioni che si stabiliscono spontaneamente tra le persone, nell'impiego di strumenti conviviali. Il secondo sapere discende da un addestramento intenzionale e programmato. L'apprendimento della lingua materna rientra nella prima categoria, l'ingestione della matematica a scuola appartiene alla seconda.

Nessuna persona sensata direbbe che parlare, camminare o occuparsi di un bambino siano risultato di una educazione formale come invece è di solito per la matematica, la danza classica o la pittura.

L'equilibrio del sapere, cioè il rapporto tra le due variabili, è diverso a seconda del luogo e del tempo. Il rito vi ha grandissima parte: un musulmano sa un po' d'arabo per via della sua preghiera. Questa acquisizione di sapere avviene per interazione in un contesto delimitato da una tradizione. È in modo analogo che i contadini riprendono il folklore della loro terra. Classi e caste moltiplicano le occasioni di apprendere: il ricco sa stare a tavola e parlare in società (e tiene lui stesso a dire che «queste cose non si imparano»); il povero saprà sopravvivere degnamente là dove nessuna scuola può insegnare al ricco come cavarsela.

Per l'acquisizione del sapere, fondamentale è la struttura dello strumento: lo strumento conviviale favorisce la scoperta personale, quello industriale alimenta l'insegnamento. In certe tribù, piccole e di forte coesione, il sapere è diviso assai equamente tra la maggioranza dei membri della tribù: ognuno sa la maggior parte di ciò che il gruppo sa. Alla tappa successiva del processo di civilizzazione, vengono introdotti nuovi strumenti, più gente sa un maggior numero di cose, ma non tutti sanno più fare ogni cosa ugualmente bene. La maestria, tuttavia, non implica ancora il monopolio della comprensione: si può comprendere ciò che fa un fabbro senza essere fabbro, non c'è bisogno di essere cuoco per sapere come si cucina. Questo gioco combinato di una informazione largamente diffusa e di una attitudine generale a trarne profitto è caratteristico delle società in cui prevale lo strumento conviviale. La tecnica dell'artigiano può essere compresa osservando il suo lavoro, mentre le risorse complesse che egli mette in opera non possono essere acquisite se non al termine di una lunga operazione disciplinata: l'apprendistato. Il sapere globale di una società si espande quando, nello stesso tempo, si sviluppano il sapere acquisito spontaneamente e il sapere trasmesso da un maestro; allora disciplina e libertà si congiungono armoniosamente. L'espansione del campo di equilibrio del sapere non può andare all'infinito; contiene in se stessa il proprio limite. Questo campo è ottimizzabile, non indefinito. Prima di tutto perché l'arco di una vita umana è limitato. Poi (e anche questo è un fatto inesorabile) perché la specializzazione dello strumento e la divisione del lavoro si incrementano reciprocamente e, al di là di un certo punto, richiedono una sovraprogrammazione tanto dell'operatore quanto del cliente. Da questo momento, la maggior parte del sapere di ognuno è effetto del volere e del potere altrui. La cultura di un corpo sociale può fiorire in innumerevoli varietà, ma ci sono dei limiti materiali alla specializzazione che non si possono aggirare.

In quale ambiente il bambino di New York vede la luce? In un insieme complesso di sistemi che significano una cosa per quelli che li progettano e un'altra per chi ne fa uso. Posto a contatto con migliaia di sistemi, ai loro punti terminali, l'uomo di città sa forse servirsi del telefono e del televisore, della legge e delle assicurazioni, ma non sa come funzionano. L'acquisizione spontanea del sapere è limitata ai meccanismi di adattamento a un comfort massificato. L'uomo di città è sempre meno in grado di farsi tanto le sue cose quanto le sue idee. Far da mangiare, far la corte o fare l'amore, tutto diventa materia d'insegnamento. Deviato dall'educazione e verso l'educazione, l'equilibrio del sapere si disgrega. Sappiamo ciò che ci è stato insegnato, ma non impariamo più da noi stessi. Sentiamo d'aver bisogno di essere educati.

Il  sapere diventa così una merce e, come tutte le merci che passano attraverso il mercato, è soggetto alla scarsità. Celare la natura di questa scarsità è la funzione, costosissima, di tutta una multiforme educazione. E educazione infatti la preparazione programmata alla «vita attiva» mediante l'ingurgitazione di istruzioni confezionate in serie, prodotte dalla scuola. Ma è educazione anche il collegamento continuo col flusso delle informazioni emesse dai media (informazioni su quello che accade), come è educazione il «messaggio» di ogni bene manufatto. Qualche volta il messaggio è scritto sulla scatola, e bisogna leggerlo. Se il prodotto è più elaborato, la sua forma, il suo colore, le associazioni provocate dettano all'utente il modo di servirsene. Permanente, l'educazione lo è in particolare, come ricostituente di stagione, per il dirigente, il poliziotto e l'operaio specializzato, periodicamente superati dalle innovazioni nei rispettivi campi. Quando la gente si consuma, e deve continuamente ritornare sui banchi di scuola per prendere un bagno di sapere e di sicurezza, quando l'analista deve essere riprogrammato a ogni nuova generazione di calcolatori, allora, veramente, il sapere è una merce soggetta alla scarsità. Così l'educazione diventa, nella società, il problema più scottante e insieme più mistificante.

Ovunque il tasso di aumento del costo della formazione è superiore a quello del prodotto globale. Di ciò si danno due diverse interpretazioni. Per l'una, l'educazione è un mezzo per raggiungere dei fini economici; l'investimento di sapere nell'uomo è richiesto dalla necessità di accrescere la produttività. In questa prospettiva, l'aumento sproporzionato del terziario terapeutico significa che la produzione globale si avvicina all'asintoto. Per parare il pericolo, occorre trovare il mezzo di migliorare il rapporto spesa-ricavo nell'ortopedia pedagogica. Le scuole saranno le prime a essere colpite dal processo di razionalizzazione dei meccanismi di capitalizzazione del sapere. A mio avviso è un peccato: per quanto distruttiva e inefficace, la scuola, per il suo carattere tradizionalista, assicura un minimo di protezione al bambino; una volta liberati dagli impacci inerenti al sistema scolastico, gli educatori potrebbero rivelarsi dei «condizionatori» mortalmente efficaci.

Il punto di partenza della seconda interpretazione è opposto: il terziario, che non si può peraltro assimilare alla sola educazione, è il prodotto sociale più prezioso dello sviluppo industriale. Pertanto, il declino dell'utilità marginale dell'educazione non è un buon motivo per limitarne la produzione. Al contrario, la sostituzione della domanda di servizi alla domanda di beni segna il passaggio a un'economia stabile e, insieme, un miglioramento della «qualità della vita». Nove volte su dieci, le previsioni su quello che sarà il 2000, nel loro ultimo capitolo, descrivono la felicità come una valanga di consumo terziario.

Queste due interpretazioni spostano entrambe l'equilibrio del sapere: concorrono allo sviluppo delle tecniche di manipolazione educativa, e soffocano ogni curiosità personale. Considerare l'educazione come mezzo di produzione o come prodotto di lusso è la stessa cosa, dal momento che si concorda nel chiederne sempre nuove dosi. Le due posizioni si basano sul medesimo postulato, segnato da un carattere di fatalità: il mondo moderno è talmente artificiale, alienato, arcano, che trascende la capacità dell'uomo comune e non può essere scoperto ma solo conosciuto per via di rivelazione dai grandi iniziati e dai loro discepoli. Sostituire la sveglia meccanica dell'educazione al risveglio del sapere significa soffocare nell'uomo il poeta, gelare il suo potere di dare senso al mondo. Non appena separato dalla natura, privato di lavoro creativo, mutilato nella curiosità, l'uomo perde le sue radici, è paralizzato, appassisce. Sovradeterminare l'ambiente fisico significa renderlo fisiologicamente ostile. Annegare l'uomo nel benessere significa incatenarlo al monopolio radicale. Corrompere l'equilibrio del sapere significa trasformare l'uomo in una marionetta dei suoi strumenti. Invischiato nella sua infelicità climatizzata, l'uomo è castrato: gli resta solo la rabbia, che lo porta a uccidere oppure a uccidersi.

Poeti e buffoni sono sempre insorti contro l'oppressione dogmatica del pensiero creativo. Attraverso le metafore, essi svelano il significato letterale. Nella cornice dell'humour, mettono in mostra l'insensatezza di ciò che pretende d'esser serio. Col loro ingenuo stupore dissolvono le certezze, bandiscono i timori e slegano i corpi paralizzati. Il profeta denuncia le credenze, mette a nudo le superstizioni, sveglia le persone, ne suscita le forze e l'ardore. Che le ingiunzioni della poesia, dell'intuizione, della teoria, contro l'avanzata del dogma sullo spirito riescano a provocare una rivoluzione della consapevolezza, non è impossibile. Ma condizione perché l'equilibrio del sapere possa essere raddrizzato è che Chiesa e Stato siano separati, che burocrazia della verità e burocrazia del benessere siano divise, che il sapere obbligatorio e forzoso e l'azione politica siano distinti. La scrittura poetica non farà esplodere la società se non calandosi nella forma del processo politico.

Già altre volte il Diritto è servito a slegare l'ideologia dalle leggi. Il Diritto che già difese il corpo sociale dalle esorbitanti pretese dei chierici, può ora farlo contro quelle degli educatori. Non corre molta differenza tra l'obbligo di andare a scuola, o altrove, e quello di andare in chiesa. Un giorno il Diritto potrà realizzare la separazione tra educazione e politica, su cui si fonda in linea di principio la società. Ma sin d'ora esso può servire a combattere la proliferazione del terziario ed il suo impiego per la riproduzione di un capitalismo del sapere e di una società di classe fondata sulla reificazione dell'educazione.

Comprendere per davvero l'aumento del costo dell'educazione suppone che siano note le due facce del problema: prima di tutto, che lo strumento non conviviale comporta come inevitabile effetto collaterale un aumento della spesa educativa che presto supera la produttività totale della società; e in secondo luogo, che un'educazione attrezzata in maniera non conviviale è economicamente impraticabile.

Il primo aspetto ci fa capire la necessità di passare a una società in cui lavoro, svago e politica favoriscano l'apprendimento, una società che funzioni con un minor grado di educazione formale. Il secondo aspetto ci fa capire la possibilità di attuare delle soluzioni educative che facilitino un'acquisizione spontanea del sapere, confinando l'insegnamento programmato a casi limitati e chiaramente specificati.

Su tutta la superficie del pianeta, lo strumento altamente capitalizzato richiede un uomo imbottito d'uno stock di sapere. Dopo la seconda guerra mondiale, la razionalizzazione della produzione ha penetrato le regioni cosiddette arretrate e le metastasi industriali hanno preso a esercitare sulla scuola un'intensa domanda di personale programmato. La proliferazione di questo tipo di benessere esige un appropriato condizionamento per viverci insieme. Ciò che la gente impara nelle scuole che si moltiplicano in Malesia o nel Brasile è, innanzi tutto, misurare il tempo con l'orologio del programmatore, stimare l'avanzamento con gli occhiali del burocrate, apprezzare l'accresciuto consumo con il cuore del mercante, considerare il perché del lavoro con gli occhi del responsabile sindacale. Questo non è il maestro di scuola a insegnarglielo, ma il percorso programmato prodotto e nello stesso tempo obliterato dalla struttura scolastica. Ciò che insegna il maestro non ha importanza dal momento che i bambini devono trascorrere centinaia di ore riuniti per classi d'età, assoggettarsi alla routine del programma (il percorso o curriculum), e ricevere un diploma in base alla loro capacità di assoggettarvisi. Che cosa si impara a scuola? Si impara che più ore vi si passano, più aumenta il proprio prezzo sul mercato. Si impara a valorizzare il consumo scaglionato di programmi. Si impara che tutto ciò che è prodotto da un'istituzione dominante vale e costa caro, anche quello che non si vede, come l'educazione o la salute. Si impara a valorizzare l'avanzamento gerarchico, la sottomissione e la passività, e persino la devianza-tipo che il maestro ama interpretare come sintomo di creatività. Si impara a brigare senza indisciplina i favori del burocrate che presiede alle sedute quotidiane, il professore a scuola, il capo in fabbrica. Si impara a definirsi come detentori di un capitale di sapere nella specialità in cui si è investito il proprio tempo. Si impara, infine, ad accettare senza mugugni il proprio posto nella società, cioè la classe e la carriera precise che corrispondono rispettivamente al livello e al campo di specializzazione scolastica.

L'educazione non diventa una necessità soltanto perché occorre diplomare la gente per selezionare quelli a cui si darà lavoro, ma anche per controllare quelli che accedono al consumo. E lo sviluppo industriale stesso che porta l'educazione a esercitare il controllo sociale indispensabile per un uso efficiente dei prodotti. L'industria edilizia nei paesi dell'America Latina è un buon esempio delle disfunzioni educative provocate dagli architetti. In questi paesi, le grandi città sono contornate da vaste zone, favelas, barriadas o poblaciones, dove la gente si costruisce i suoi ripari da sola. Non costerebbe molto prefabbricare degli elementi d'abitazione e per servizi comuni facili da montare: la gente potrebbe costruirsi abitazioni più durevoli, più confortevoli e più salubri, e nello stesso tempo apprenderebbe l'uso di nuovi materiali e di nuovi sistemi. Invece di questo, invece di incoraggiare l'attitudine innata nell'uomo a modellare il proprio ambiente, i governi paracadutano su queste bidonvilles dei servizi comuni concepiti per una popolazione che viva in case di tipo moderno. Con la loro semplice presenza, la superstrada asfaltata, la scuola nuova e il posto di polizia in vetro e acciaio definiscono come modello l'edificio disegnato e costruito da specialisti, e in tal modo appongono sulla casa che ci si costruisce da soli il marchio della bidonville, riducendola a non essere altro che una baracca di latta. Questa definizione è poi consacrata dalla legge, la quale rifiuta il permesso di costruire a chi non può presentare un progetto firmato da un architetto. Così si spoglia la gente della sua attitudine naturale a investire il proprio tempo personale nella creazione di valori d'uso, e la si obbliga a un lavoro salariato: potrà così scambiare il suo salario con lo spazio industrialmente condizionato. E la si spoglia anche della possibilità di imparare facendo. Il tipo di costruzione che la scuola ha reso possibile rende a sua volta necessaria la scuola.

La società industriale esige che alcuni siano programmati per guidare camion, altri per costruire case. Ad altri ancora si deve insegnare a vivere nei grandi complessi. Insegnanti, assistenti sociali e poliziotti lavorano a braccetto per mantenere la popolazione sottopagata o parzialmente disoccupata in case che né si è fatta da sé né può modificare. In tal modo l'economia realizzata nella costruzione di simili complessi abitativi fa aumentare, naturalmente, il costo di manutenzione dell'immobile, ma esige inoltre per spese terziarie un multiplo della somma risparmiata: per istruire, animare, promuovere, ossia per controllare, conformare e condizionare il locatario. Per sistemare più persone su una superficie minore, il Brasile e il Venezuela hanno fatto l'esperimento dei grandi immobili. Dapprima è stato necessario che la polizia sloggiasse la gente dalle «catapecchie» e la rialloggiasse in appartamenti. Poi gli assistenti sociali si sono cimentati nel duro compito di socializzare dei locatari non sufficientemente scolarizzati per comprendere da soli che non si allevano maiali sul balcone di un undicesimo piano e non si coltivano fagiolini rossi nella vasca da bagno.

A New York chi non ha dodici anni di scolarità è considerato alla stregua di un invalido: diventa inoccupabile e cade sotto la tutela di assistenti sociali che decidono come dovrà vivere. Il monopolio radicale dello strumento sovrefficiente estorce al corpo sociale un crescente (e costoso) condizionamento dei suoi clienti. Le automobili prodotte dalla Ford richiedono, per essere riparate, dei meccanici periodicamente riciclati dalla fabbrica stessa. I fautori del «miracolo verde» selezionano delle sementi ad alto rendimento le quali possono essere usate solo da una minoranza che disponga di un duplice concime: quello chimico e quello dell'educatore. Più salute, più velocità e più raccolto significano individui più ricettivi, più passivi, più disciplinati. Le scuole produttrici di controllo sociale, prendendo a proprio carico la maggior parte del costo di queste discutibili conquiste, con ciò stesso lo mascherano.

Cedendo alle pressioni esercitate su di lei in nome del controllo sociale, la scuola tocca e supera la sua seconda soglia critica. I pianificatori fabbricano programmi più variati e più complessi, la cui utilità marginale per ciò stesso diminuisce.

Mentre la scuola allarga il campo delle sue pretese, altri servizi si scoprono una missione educatrice. La stampa, la radio e la televisione non sono più soltanto mezzi di comunicazione, dal momento che le si mette coscientemente al servizio dell'integrazione sociale. I settimanali aumentano la loro diffusione riempiendosi di informazioni stereotipate, diventano dei prodotti finiti che forniscono già bell'e confezionata un'informazione filtrata, asettica, predigerita. Questa «migliore» informazione soppianta l'antica discussione del fòro dei semplici, della plaza; col pretesto di informare, suscita una docile bulimia di alimenti precotti e uccide la capacità naturale di scegliere, padroneggiare, organizzare l'informazione. Si offre al pubblico qualche vedette o qualche specialista volgarizzato dai confezionatori del sapere, mentre la voce dei lettori viene confinata, dopo attenta selezione, nella rubrica delle «lettere al direttore» o nelle docili risposte alle varie inchieste promosse dallo stesso rotocalco.

Ora, gli uomini non hanno bisogno di una maggiore quantità di insegnamento. Hanno bisogno di imparare certe cose. Bisogna che imparino a rinunciare, il che non si apprende a scuola, che imparino a vivere entro certi limiti, come è necessario per esempio per far fronte al problema della natalità. La sopravvivenza umana dipende dalla capacità degli interessati di imparare presto, da loro stessi, quello che non possono fare. Gli uomini devono imparare a controllare la loro riproduzione, il loro consumo e il loro uso delle cose. E impossibile educare la gente alla povertà volontaria, così come l'autocontrollo non può essere il risultato di una manipolazione. E impossibile insegnare la rinuncia gioiosa ed equilibrata, in un mondo strutturalmente tutto orientato a produrre sempre di più ed a creare l'illusione che ciò costi sempre meno.

Bisogna (per scegliere un esempio) che tutti imparino il perché e il come del controllo delle nascite. Il motivo è chiaro: l'uomo si è evoluto su una particella del cosmo; il suo universo, circoscritto dalle risorse dell'ecosfera, non può ammettere che un numero limitato di occupanti. La tecnica ha modificato le caratteristiche di questa nicchia ecologica e l'ecosfera può ora accogliere più abitanti, ciascuno meno adatto vitalmente al proprio ambiente, ciascuno avente in media meno spazio, meno competenza, meno tradizione. Il tentativo di fabbricare un ambiente «migliore» si è rivelato altrettanto presuntuoso quanto quello di «migliorare» la salute, l'educazione o la comunicazione. Il risultato è che oggi c e più gente che si sente sempre meno a proprio agio. I nuovi strumenti che hanno favorito la crescita della popolazione non possono assicurarne la sopravvivenza. L'entrata in funzione di nuovi strumenti ancora più potenti accresce il numero dei frustrati più rapidamente di quanto accresca il totale della popolazione. Su un mercato stracolmo, la carenza si accentua ed esige sempre più la programmazione dei clienti.

Il successo di qualunque pianificazione riposa su un fattore-chiave: il controllo del numero degli individui per i quali si pianifica. Ma, fino a oggi, tutte le pianificazioni demografiche sono fallite: la gente limita le nascite solo quando l'abbia deciso per proprio conto. Il paradosso è che l'uomo oppone la sua più forte resistenza proprio all'insegnamento di cui avrebbe maggiormente bisogno. Qualunque programma di controllo delle nascite condotto sul modello industriale avrà lo stesso decorso che hanno avuto altri sforzi di terapia imposta, come la scuola e l'ospedale. All'inizio giocherà l'effetto di seduzione; poi verrà l'escalation dell'aborto e della sterilizzazione obbligatori; alla fine si avrà l'argomento decisivo per perpetrare genocidi, paupericidi e altre forme di megamorte. L'orrore dell'applicazione della scienza moderna a strutture manipolatrici non si presenta in nessun altro campo con tanta mostruosa evidenza come nel campo demografico.

Senza la pratica di una contraccezione volontaria ed efficace, l'umanità sarà schiacciata dal proprio numero prima ancora d'essere schiacciata dalla potenza dei propri strumenti. Ma la generalizzazione della contraccezione non può in alcun caso esser opera di un'organizzazione manipolatrice dotata di un suo strumento miracoloso. Una nuova pratica, opposta a quella d'oggi, può derivare solo da un nuovo rapporto tra l'uomo e il suo strumento: per essere efficace, la contraccezione esige che si generalizzi quella mentalità conviviale che sola rende possibile il controllo dello strumento in questione.

I sistemi richiesti dal controllo delle nascite sono l'esempio-tipo dello strumento conviviale moderno: integrano i dati della scienza più avanzata con arnesi utilizzabili al prezzo di un minimo di buon senso e di esperienza. Tali sistemi offrono un insieme di nuovi mezzi per esercitare le pratiche millenarie di contraccezione, sterilizzazione e aborto. Grazie al loro basso costo, possono esser resi accessibili a chiunque. Data la loro varietà, si conciliano con le credenze, le occupazioni e le situazioni più diverse. Con ogni evidenza, sono strumenti che strutturano la relazione che ciascuno ha con il proprio corpo e con gli altri. Sono predestinati all'uso conviviale.

Il controllo delle nascite è un'impresa da realizzare entro un tempo ridottissimo. Non potrà essere realizzata se non in modo conviviale. E un controsenso pretendere di imporre a una popolazione l'uso dello strumento conviviale negli atti riguardanti la sfera sessuale, e per un altro verso continuare a condizionarla al solo consumo in tutte le altre sfere (inclusa la fantasia sessuale). E assurdo chiedere a un contadino brasiliano di usare da solo il preservativo, dopo che gli si è insegnato a dipendere dal medico per le iniezioni e le ricette, dall'avvocato per risolvere una lite e dall'insegnante per imparare a leggere e scrivere. E un controsenso oggi legiferare sull'aborto come «atto medico» quando è divenuto più semplice che mai riconoscere l'inizio di una gravidanza o interromperla. Ma non è meno utopistico immaginare che in India l'istituzione medica affidi di sua volontà la sterilizzazione a degli assistenti analfabeti addestrati allo scopo. Il giorno in cui gli interessati prenderanno coscienza che questa delicata operazione può essere eseguita altrettanto bene, se non meglio, da un profano, purché sia capace dell'attenzione e dell'abilità che sono per esempio richieste per la pratica ancestrale della tessitura di un san, quel giorno segnerà la fine del monopolio dei medici su tutta una serie di operazioni non tanto costose da essere escluse per i più. Via via che strumenti postindustriali razionali si diffonderanno, i tabù dello specialista seguiranno l'attrezzatura industriale nella sua caduta come l'avevano accompagnata nella sua gloria. Lo strumento semplice, povero, trasparente è un umile servitore e condizione per interscambi personali; lo strumento elaborato, complesso, arcano è un padrone arrogante e si erge come barriera fra uomo e uomo.

Continua >>>>>