IVAN ILLICH
LA
CONVIVIALITÀ - 2
Le fonti di energia
Attualmente
i criteri istituzionali dell'azione umana sono l'opposto dei nostri,
compresi quelli vigenti nelle società marxiste, dove la classe operaia
si crede al potere. Il pianificatore socialista rivaleggia col cantore
della libera impresa, per dimostrare che i suoi principi assicurano
a una società il massimo di produttività. La politica economica
socialista si definisce molto spesso per l'ansia di accrescere la
produttività industriale di ogni paese socialista. Il monopolio
dell'interpretazione industriale del marxismo funge da barriera
e mezzo di ricatto contro ogni forma di marxismo giudicata eterodossa
perché industrialmente poco efficiente. Resta da vedere se anche
la Cina, dopo la morte di Mao, abbandonerà la sua attuale tendenza
verso la convivialità produttiva per rivolgersi verso la produttività
standardizzata. L'interpretazione esclusivamente industriale del
socialismo fa sì che comunisti e capitalisti parlino lo stesso linguaggio,
misurino in maniera analoga il grado di sviluppo raggiunto da una
società. Una società nella quale la maggioranza dipenda, quanto
ai beni e servizi che riceve, dalle qualità d'immaginazione, d'amore
e di abilità di ciascuno, appartiene alla categoria cosiddetta sottosviluppata;
viceversa, una società in cui la vita quotidiana consiste in nient'altro
che una serie di ordinazioni dal catalogo del grande magazzino universale,
è ritenuta avanzata. E il rivoluzionario non è più che un allenatore
sportivo: campione del terzo mondo o portavoce di minoranze sottoconsumatrici,
argina la frustrazione delle masse alle quali rivela il loro ritardo;
canalizza la violenza popolare e la trasforma in energia
di rincorsa.
Ciascun
aspetto della società industriale è una componente di un sistema
globale che implica l'escalation della produzione e l'aumento della
domanda indispensabile per giustificare il costo sociale complessivo.
Ecco perché, concentrando la critica sociale sulla cattiva gestione,
la corruzione, l'insufficienza della ricerca o il ritardo tecnologico,
non si fa che distrarre l'attenzione della gente dal solo problema
che conti: la struttura inerente allo strumento preso come mezzo
e che determina una crescente carenza generale. Un altro errore
consiste nel credere che la frustrazione attuale sia dovuta principalmente
alla proprietà privata dei mezzi di produzione e che l'appropriazione
pubblica di questi mezzi attraverso un organismo centrale di pianificazione
proteggerebbe gli interessi della maggioranza e porterebbe a un'equa
ripartizione dell'abbondanza. La struttura anti-umana e manipolatrice
dello strumento non sarà trasformata dal rimedio proposto. Finché
si attaccherà il trust Ford per la sola ragione che arricchisce
il signor Ford, si coltiverà l'illusione che le officine Ford potrebbero
arricchire la collettività. Finché la popolazione penserà di poter
trarre vantaggio dall'automobile, non rimprovererà a Ford di fabbricare
auto. Fino a quando condividerà l'illusione che sia possibile aumentare
la velocità di locomozione di chiunque, la società continuerà a
criticare il proprio sistema politico anziché immaginare un sistema
di circolazione moderno, più efficiente di tutti quelli che si basano
su veicoli rapidi. La soluzione, tuttavia, è a portata di mano:
non risiede in un certo modo di appropriazione dello strumento,
ma nella scoperta del carattere di certi strumenti, e cioè che nessuno
potrà mai possederli. Il concetto di appropriazione non vale
per gli strumenti incontrollabili. Il problema urgente è invece
di determinare quali strumenti possono essere controllati nell'interesse
generale, e di comprendere che uno strumento non controllabile rappresenta
una minaccia insostenibile. Quanto al sapere come organizzare la
partecipazione individuale a un esercizio del controllo che risponda
all'interesse generale, è un fatto secondario.
Certi
strumenti sono sempre distruttivi, qualunque sia la mano che li
governa: la mafia, i capitalisti, una ditta multinazionale, lo Stato
o anche un collettivo di lavoratori. Così è, per esempio, per le
reti autostradali a corsie multiple, per i sistemi di comunicazione
a grandi distanze che utilizzano una larga gamma di frequenza, e
così anche per le miniere a cielo aperto o per la scuola. Lo strumento
distruttivo accresce l'uniformazione, la dipendenza, lo sfruttamento
e l'impotenza; toglie al povero la sua parte di convivialità per
rendere i ricchi ancora più ciechi alla perdita della loro.
L'uomo moderno non riesce a pensare lo sviluppo e la modernizzazione
in termini di diminuzione anziché d'accrescimento del consumo di
energia e di manipolazione ragionata. Per lui, una tecnica avanzata
fa rima con un profondo intervento nei processi fisici, mentali
e sociali. Se vogliamo concepire lo strumento in maniera esatta,
dobbiamo abbandonare l'illusione che un alto grado di cultura implichi
un consumo di energia il più elevato possibile. Nelle civiltà antiche
le risorse d'energia erano ripartite assai equamente. Ogni essere
umano, grazie alla sua costituzione biologica, disponeva di tutta
l'energia potenziale necessaria nel corso della sua vita per trasformare
coscientemente l'ambiente fisico secondo la propria volontà, dato
che la fonte ditale energia era il suo corpo all'unica condizione
d'essere conservato in buona salute. In quella situazione, le possibilità
per un uomo di controllare quantità maggiori di energia fisica non
derivavano che da manipolazioni psichiche o da un dominio politico
sugli altri.
Per
costruire le piramidi di Teotihuacàn, in Messico, o per sistemare
le risaie a terrazze di Ibagué, nelle Filippine, gli uomini non
hanno avuto bisogno di strumenti manipolabili. La cupola di San
Pietro a Roma e i canali di Angkor Vat sono stati fatti a forza
di braccia. I generali di Cesare ricevevano le notizie per mezzo
di cavalieri, i Fugger e i capi luca si servivano di corridori.
Fino al secolo XVIII, le galere della repubblica di Venezia e tutti
i messaggeri facevano meno di 120 chilometri al giorno. L'esercito
di Wellington si muoveva ancora al passo di quello d'Alessandro
Magno. Era la mano o il piede ad azionare la spola e l'arcolaio,
il tornio da vasaio e la sega per il legno. L'energia metabolica
dell'uomo alimentava tanto l'agricoltura e l'artigianato quanto
la guerra. L'ingegnosità dell'individuo canalizzava l'energia animale
in certi compiti sociali. I potenti della terra non avevano altra
energia da controllare se non quella fornita, per lealtà oppure
per forza, dai loro stessi sudditi.
Ovviamente il metabolismo umano non bastava a procurare tutta la
forza desiderabile, ma ne restava, nella maggioranza delle culture,
la fonte principale. L'uomo, è vero, sapeva mettere a profitto certe
forze naturali: conservava il fuoco per cuocere i suoi alimenti
e, più tardi, per forgiare armi, sapeva trarre l'acqua dal suolo,
discendere il corso dei fiumi, navigare a vela, utilizzare la forza
di gravità, addestrare l'animale a tirargli l'aratro. Ma il complesso
di queste risorse, eccezion fatta per l'energia termica, restava
secondario e di scarso rendimento. La società ateniese del VI secolo
o quella fiorentina del Quattrocento sapevano armoniosamente utilizzare
le forze naturali, ma la costruzione dei templi e dei palazzi fu,
nell'essenziale, opera della sola energia umana. Oggi per costruire
un metro cubo di abitazione urbana si impiega da 100 a 300 volte
l'energia utilizzata centocinquant'anni fa per fabbricare case tuttora
in uso. Certo, l'uomo preindustriale poteva anche ridurre una città
in cenere o fare del Sahara un deserto, ma simili esplosioni di
energia, una volta scatenate, sfuggivano al suo potere di controllo.
È possibile calcolare approssimativamente la somma di energia fisica
di cui disponevano le società tradizionali. L'essere umano brucia
in media 2500 calorie al giorno, di cui i quattro quinti servono
unicamente a mantenerlo in vita, a far battere il suo cuore e funzionare
il suo cervello. Il resto può essere applicato a compiti diversi,
ma non è trasformabile del tutto in lavoro. Bisogna tener conto,
infatti, non solo dei giochi dell'infanzia, ma anche e soprattutto
delle attività che assicurano la sopravvivenza quotidiana: lavarsi,
far da mangiare, proteggersi dal freddo o dalla minaccia altrui.
Privato della molla di queste attività, l'uomo diventa inadatto
al lavoro; la società può modellarle, ma non sopprimerle per destinare
ad altri compiti l'energia che esse assorbono. Il costume, la lingua
ed il diritto determinano la forma del vasellame che lo schiavo
fabbrica, ma il padrone non può privare lo schiavo di un tetto,
salvo a privare se stesso dello schiavo. Grazie alla somma di molteplici
piccole cariche di energia individuale messe a disposizione della
collettività, si costruivano templi, si spostavano montagne, si
tessevano indumenti, si faceva la guerra, si trasportava il monarca
e lo si onorava.
L'energia era limitata, dipendeva dal livello demografico, traeva
origine dal vigore dei corpi. La sua efficacia dipendeva dal grado
di sviluppo, e dalla ripartizione tra la popolazione, degli strumenti
maneggiabili. Lo strumento permetteva all'energia metabolica di
applicarsi al compito. Giocava con le forze, fosse quella di gravità
o quella del vento, ma tutt'al più moltiplicava la forza-lavoro
di un uomo per un fattore inferiore a dieci. Per disporre di più
potere fisico del vicino, bisognava asservirlo. Se il padrone utilizzava
forme di energia non umane, non poteva padroneggiarle se non in
quanto regnasse anche su altri uomini. Ogni paio di buoi richiedeva
un bovaro, ogni vela cinque marinai. Persino il fuoco della forgia
esigeva un guardiano che gli badasse. Il potere politico era dominio
della volontà altrui, ed il dominio della forza fisica altrui mediante
il timore della frusta oppure di un dio era possesso dell'autorità.
Nelle società preindustriali, il potere politico non poteva controllare
che l'energia eccedente fornita dalla popolazione. A ogni
incremento di efficienza ottenuto grazie ad un nuovo strumento o
ad un nuovo modo di organizzazione, la popolazione rischiava di
essere privata del controllo di questo surplus di energia. Ogni
accrescimento di efficienza permetteva alla classe dominante di
appropriarsi una parte accresciuta dell'energia totale disponibile.
Così, all'evoluzione delle tecniche corrispondeva una parallela
evoluzione delle classi sociali. Si tassava l'individuo togliendogli
una parte del suo prodotto personale, oppure gli si assegnavano
delle corvées supplementari. L'ideologia, la struttura dell'economia,
l'armamento e il modo di vita favorivano questa concentrazione del
dominio dell'energia biologica eccedente nelle mani di alcuni.
Una simile concentrazione non ha però, da una cultura all'altra,
le stesse conseguenze sulla ripartizione dei frutti dell'attività
sociale. Nel caso migliore, accresce il raggio d'azione delle energie
personali. La società contadina dell'Europa centrale, alla fine
del Medioevo, ne è un buon esempio. Tre recenti invenzioni, la staffa,
la ferratura e il collare, triplicavano il rendimento del cavallo
che, così equipaggiato, tirando l'aratro rendeva possibile la rotazione
triennale e la messa a coltura di nuove terre; attaccato a un carro,
elevava al quadrato il raggio d'azione del contadino, d'onde il
movimento di concentrazione dell'habitat in villaggi raggruppati
attorno alla chiesa e poi alla scuola. Nel caso peggiore, la concentrazione
del potere di disporre dell'energia portava alla costituzione di
grandi imperi propagati da eserciti mercenari e alimentati da contadini
ridotti in schiavitù.
Verso la fine dell'ultima fase dell'Età del Ferro, cioè dal X al
XIX secolo, la massa totale di energia disponibile aumentò rapidamente.
In realtà la maggior parte delle grandi mutazioni tecniche precedenti
alla scoperta dell'elettricità sono avvenute nell'alto Medioevo.
Alla fucina situata nel bosco si sostituisce la fucina in riva al
torrente, al grosso martello i pesanti mulinelli dei magli frantumatori
di minerale, al paniere portato a spalla l'argano che permette di
issare cassoni. La forza idraulica aziona mantici per aerare le
gallerie; per mezzo di norie, pompa l'acqua per prosciugare il fondo
della miniera, e l'uomo può spingersi a maggiori profondità sottoterra.
L'invenzione del trealberi, che consente di sfruttare meglio la
forza del vento, rende possibile la circumnavigazione del globo.
La costruzione dei canali europei e l'invenzione della chiusa permettono
trasporti regolari di carichi pesanti. I birrai, i tintori, i vasai,
i fornaciai, gli zuccherieri e i salinai beneficiano del perfezionamento
e della diffusione dei mulini ad acqua ed a vento. Poi il carro
munito di un avantreno ruotante attorno a un perno e di assali mobili
permette di raddoppiare la velocità di locomozione: ne traggono
pari profitto la posta e il trasporto dei passeggeri sin dal secolo
XVIII. Per la prima volta nella storia dell'uomo, si possono percorrere
più di 100 chilometri al giorno. Città e campagne, le une più lentamente
delle altre, ne furono trasformate, a poco a poco rimodellate.
Nel suo libro Il mito della macchina Lewis Mumford sottolinea
le caratteristiche specifiche che fecero dell'attività mineraria
il prototipo delle posteriori forme di meccanizzazione: «indifferenza
ai fattori umani, all'inquinamento e alla distruzione dell'ambiente,
concentrazione sul processo fisicochimico per ottenere il metallo
o il combustibile desiderato e, soprattutto, isolamento topografico
e mentale dal mondo organico del contadino e dell'artigiano, e dal
mondo spirituale della Chiesa, dell'Università e della Città. Per
il suo effetto distruttivo sull'ambiente e il suo disprezzo per
i rischi imposti all'uomo, l'attività mineraria è molto simile alla
guerra, e come la guerra, attraverso il continuo confronto col pericolo
e con la morte, la miniera produce spesso un tipo d'uomo duro e
dignitoso,... il soldato nel suo aspetto migliore. Ma l'animus distruttivo
della miniera, la sua crudele routine di fatica, il suo alone di
miseria e di degradazione del paesaggio, si trasmisero alle nuove
industrie che utilizzavano la sua produzione». Il costo sociale
superò largamente il guadagno meccanico. Così allo strumento azionato
secondo il ritmo dell'uomo succede un uomo che agisce secondo il
ritmo dello strumento, e tutti i modi d'agire umani ne vengono trasformati.
L'ideologia che presiede all'organizzazione industriale degli strumenti
e all'organizzazione capitalista dell'economia nacque vari secoli
prima della cosiddetta Rivoluzione industriale. Fin dall'epoca di
Bacone, gli europei cominciarono a compiere delle operazioni che
discendevano da uno stato d'animo nuovo: guadagnare tempo, restringere
lo spazio, accrescere l'energia, moltiplicare i beni, spregiare
le norme della natura, prolungare la durata della vita, sostituire
gli organismi viventi con meccanismi in grado di simularne o ampliarne
una particolare funzione. Simili imperativi sono divenuti i dogmi
della scienza e della tecnica nelle nostre società; non hanno valore
di assiomi solo perché non vengono sottoposti ad analisi. Lo stesso
mutamento di stato d'animo si manifesta nel passaggio dal ritmo
rituale alla regolarità meccanica: si mette l'accento sulla puntualità,
sulla misurazione dello spazio, sul computo dei voti, sì che oggetti
concreti e fatti complessi vengono trasformati in quanta astratti
accumulabili, equiparabili e interscambiabili. Questa passione capitalista
per un ordine ripetitivo ha minato l'equilibrio qualitativo tra
l'operaio ed i suoi semplici strumenti.
L'emergere di nuove forme di energia e di potere ha cambiato il
rapporto che l'uomo aveva col tempo. Il prestito a interesse era
condannato dalla Chiesa come una pratica contro natura: il denaro
era, per natura, un mezzo di scambio che serviva ad acquistare il
necessario, non un capitale in grado di lavorare o portare
frutti. Nel secolo XVII, persino la Chiesa abbandonò questa concezione,
sia pure con riluttanza, piegandosi al fatto che, per la sua esistenza,
doveva ormai appoggiarsi non già a signori feudali ma a mercanti
capitalisti. Si generalizzò l'uso dell'orologio e, con esso, l'idea
della «mancanza» di tempo. Il tempo divenne denaro: ho guadagnato
tempo, mi resta del tempo, come posso spenderlo? Non ho tempo, non
posso concedermi il lusso di sprecare il mio tempo, è già un'ora
guadagnata, sono espressioni che riflettono il mutato atteggiamento.
Ben presto si cominciò a considerare esplicitamente l'uomo come
una fonte di forza misurabile. Si provò a misurare la prestazione
quotidiana massima che se ne poteva ottenere, poi a comparare il
costo del mantenimento e della forza dell'uomo con quello del cavallo.
L'uomo venne ridefinito come fonte di energia meccanica. Si notò
allora che i condannati al remo non rendevano molto perché le galere
stavano per lunghi periodi ferme nei porti, mentre i condannati
alla macina (un supplizio che nelle prigioni inglesi rimase in vigore
sino ai primi del secolo XIX) fornivano una potenza rotativa capace
di alimentare qualsiasi macchina di quelle recentemente inventate.
Il nuovo rapporto stabilitosi tra l'uomo e i suoi strumenti durante
la Rivoluzione industriale nasce, come il capitalismo, nel secolo
XVI; a sua volta, esso richiese nuove fonti di energia. La macchina
a vapore è più un effetto ditale sete d'energia che una causa della
Rivoluzione industriale. Con la ferrovia, questa preziosa macchina
divenne mobile e l'uomo diventò utente. A poco a poco la macchina
mise l'uomo in movimento: nel 1900, un lavoratore lombardo non addetto
all'agricoltura faceva in media un numero di chilometri trenta volte
maggiore di quelli che percorreva un suo simile nel 1850. A questo
punto finiscono, insieme, l'Età del Ferro e la Rivoluzione industriale.
All'abilità nel muoversi si sostituisce il ricorso ai trasporti.
Il saper fare cede il posto al fare in serie, l'industrializzazione
diventa la norma.
Nel secolo XX, l'uomo mette mano a giganteschi serbatoi naturali
di energia. Il livello energetico così raggiunto produce proprie
norme, determina i caratteri tecnici dello strumento e, più ancora,
il nuovo ruolo dell'uomo. All'opera, al lavoro, viene allora ad
aggiungersi il servizio alla macchina: obbligato ad adattarsi al
suo ritmo, il lavoratore si trasforma in operatore di macchinari
o in impiegato d'ufficio. E il ritmo della produzione esige un consumatore
docile che accetti un prodotto standardizzato e preconfezionato.
Si ha allora meno bisogno di braccianti nei campi, il servo cessa
di essere redditizio. Il lavoratore stesso cessa di essere redditizio
non appena l'automazione porta a termine la trasformazione iniziata
dall'industrializzazione e continuata dalla produzione di massa.
Il fascino discreto del condizionamento astratto a opera della megamacchina
sostituisce lo schiocco della frusta nell'orecchio dello schiavo-bracciante,
e l'avanzata implacabile della catena di montaggio fa scattare il
gesto stereotipato dello schiavo-operaio.
La nascita del mito della macchina si rispecchia nell'atteggiamento
dell'uomo verso l'atto produttivo. Possiamo distinguere quattro
livelli energetici, a ciascuno dei quali corrispondono una classe
di strumenti e uno stile di attività produttiva. Il primo stile
è quello dell'opera indipendente realizzata dall'artista, dall'artigiano,
da colui che costantemente sceglie un fine al quale applica il mezzo:
il risultato dell'attività di quest'uomo è l'opera, l'ergon greco.
Il secondo stile è quello della fatica continuamente ripetuta del
manovale, imposta dalla necessità di sfruttare la sua energia: è
il labor, il ponos greco. L'uomo che produce l'opera tende
a fischiare o a canticchiare, mentre il canto propriamente detto,
il coro, accompagna il ritmo della fatica nell'uso dello strumento
maneggiabile. Questi due stili di attività coesistono in tutte le
culture; la prevalenza del secondo sul primo contrassegna, dappertutto,
la società schiavista.
Alla fine del Medioevo, il vecchio sogno alchimistico di fabbricare
un omuncolo in laboratorio diventa a poco a poco creazione di robot
che lavorino per l'uomo e educazione dell'uomo a lavorare al loro
fianco. Questo nuovo atteggiamento verso l'attività produttiva si
rispecchia nell'introduzione di un nuovo vocabolo. Tripaliare
significava torturare sul trepalium, menzionato nel secolo
VI per indicare un palo formato da tre spiedi, supplizio che nel
mondo cristiano aveva sostituito quello della croce. Nel secolo
XII le parole travail in francese, trabajo in spagnolo,
designavano un'esperienza dolorosa; bisogna arrivare al secolo XVI
perché gli stessi termini vengano usati nel senso di opera, fatica,
lavoro.
L'operaio, colui che è complementare alla macchina motorizzata,
rappresenta un terzo stile di attività produttiva. Legato alla cadenza
della catena, costui si rompe le scatole. Lo strumento manipolabile
gli impone il suo ritmo meccanico, lo esaspera e lo provoca a sgranare
improperi.
Con lo sviluppo del settore terziario, dell'amministrazione razionale
e della cibernetica nasce infine un quarto stile: lo stile dell'impiegato,
del funzionario, del burocrate. Il contributo fornito da quest'uomo
si è ridotto alla produzione di simboli: non è un'opera, non è labor,
non è neppure un fare da complemento energetico di una macchina.
Il funzionario funziona come un'operazione matematica. La sua partecipazione
consiste nell'essere occupato all'interno della megamacchina che
produce. Non fischia, non canta e non osa dire parolacce: si dedica
a consumare musica filotrasmessa.
La maniera in cui questi diversi generi di attività partecipano
agli scambi dell'economia ed affrontano le leggi del mercato rivela
le loro differenze reciproche. Il creatore di un'opera non può offrirsi
sul mercato; può soltanto proporre il frutto della sua attività.
Il manovale offre il proprio corpo, principalmente, come fonte di
energia da lui diretta. L'operaio si offre, tipicamente, come parte
che integra ciò che manca alla macchina. Infine il posto del funzionario
e dell'operatore è divenuto anch'esso una merce; il diritto di operare
su una macchina e di beneficiare dei privilegi che ne derivano è
ottenuto al termine d'una serie di trattamenti preliminari: curriculum
scolastico, condizionamento professionale, educazione permanente.
Nessun genere di attrezzatura realizzabile in passato poteva rendere
possibili un tipo di società e un modo di attività contrassegnati
al tempo stesso dall'efficienza e dalla convivialità: non la tecnica
tradizionale, in quanto troppo inefficiente, né la tecnica industriale
perché è troppo centralizzata. Ma oggi possiamo concepire degli
strumenti che permettono di eliminare la schiavitù dell'uomo, senza
per questo asservirlo alla macchina. Condizione di questo progresso
è il rovesciamento del quadro di istituzioni che governa l'applicazione
alla tecnica dei risultati ottenuti dalla scienza. Oggigiorno l'avanzamento
scientifico viene identificato con la sostituzione di strumenti
programmati all'iniziativa umana; ma ciò che in tal modo si scambia
per l'effetto della logica che si crede di aver scoperto nelle cose
non è in realtà che la conseguenza di un pregiudizio ideologico.
La struttura dello strumento deciderà se l'uomo si avvia verso un
nuovo, moderno livello di artigianato, o verso un mondo di funzionariato
universale.
La scienza e la tecnica sono alla base del modo di produzione industriale
e per questo fatto impongono l'accantonamento di ogni attrezzatura
specificamente legata a un lavoro autonomo e creativo. Ma questo
processo non è contenuto in germe nelle scoperte scientifiche, e
non è neppure una conseguenza necessaria della loro applicazione.
E il risultato di un partito preso, di un pregiudizio assoluto in
favore del modo di produzione industriale. La cosiddetta ricerca
scientifica è spesso organizzata al fine di ridurre, in ogni campo,
gli ostacoli secondari che bloccano lo sviluppo di uno specifico
processo di produzione. Ognuna delle scoperte così ottenute con
una programmazione di lunga data viene salutata come se si trattasse
d'un costoso traforo realizzato con grandi sforzi nel pubblico interesse.
In realtà, la ricerca al servizio dello sviluppo industriale tende
a nascondere o a minimizzare i risultati che non si prestano a una
gestione centralizzata. Lo stesso accade nel campo della medicina,
dell'agricoltura e dell'edilizia. Una tecnica avanzata potrebbe,
altrettanto bene, ridurre il peso della fatica e, in cento modi
diversi, promuovere l'espansione dell'attività produttiva personale.
Scienze della natura e scienze dell'uomo potrebbero servire a creare
strumenti, tracciare il loro quadro di utilizzazione e stabilire
le loro norme d'impiego in modo tale da garantire un ricreazione
della persona, del gruppo e dell'ambiente, un totale spiegamento
dell'iniziativa e dell'immaginazione di ognuno.
Oggi possiamo comprendere la natura in maniera nuova. Tutto sta
nel sapere per quali scopi. E l'ora di scegliere tra la costituzione
di una società iper-industriale, elettronica e cibernetica, o viceversa
una società realmente postindustriale che riunisca un largo ventaglio
di strumenti moderni e conviviali. Lo stesso quantitativo di acciaio
può servire a produrre una sega per metalli, una macchina per cucire
o un elemento industriale: nei primi due casi, l'efficacia di mille
persone sarà moltiplicata per tre, per dieci o per cinquanta; nell'ultimo,
una larga parte delle loro capacità perderà la propria ragione di
essere. Bisogna scegliere tra il distribuire a milioni di persone,
nello stesso momento, l'immagine a colori di un pagliaccio che si
agita sul piccolo schermo, oil dare a ogni gruppo umano il potere
di produrre e distribuire propri programmi nei centri-video. Nella
prima ipotesi, la tecnica è messa al servizio della carriera dello
specialista diretto da burocrati. Un sempre maggior numero di pianificatori
farà ricerche di mercato, stenderà bilanci di previsione e modellerà
la domanda di un sempre maggior numero di persone in una serie crescente
di settori. Ci saranno sempre più cose utili fornite a degli inutili.
Ma si offre sempre l'altra possibilità. La stessa scienza può applicarsi
a semplificare l'attrezzatura, a rendere ognuno capace di dar forma
al proprio ambiente, cioè capace di caricarsi
di senso caricando il mondo di segni.
La
deprofessionalizzazione
La medicina
A somiglianza di ciò che fece la Riforma quando strappò il monopolio
della scrittura ai chierici, noi possiamo strappare i malati dalle
mani dei medici. Non occorre essere troppo dotti per applicare le
scoperte fondamentali della medicina moderna, per individuare e
curare la maggior parte dei mali curabili, per alleviare la sofferenza
del prossimo e accompagnarlo all'incontro con la morte. Stentiamo
a crederlo perché il rituale medico, deliberatamente complicato,
ci nasconde la semplicità degli atti. Conosco una ragazza negra
di diciassette anni che di recente è stata processata, negli Stati
Uniti, per aver curato centotrenta compagni di scuola affetti da
sifilide primaria. Un dettaglio di ordine tecnico, fatto notare
da un esperto, è valso a lei il proscioglimento e ha risparmiato
all'Ordine dei medici un penoso imbarazzo: i risultati ottenuti
dall'accusata erano statisticamente migliori di quelli del Servizio
sanitario americano. Sei settimane dopo la cura, infatti, essa aveva
sottoposto a esami di controllo tutti i suoi pazienti, senza eccezione,
come il Servizio sanitario di nessuna regione degli Stati Uniti
riesce invece a fare. Il progresso nell'efficacia di solito dipende
da una maggiore indipendenza, non da un crescente controllo centrale.
La possibilità di affidare cure mediche a non specialisti si scontra
con la nostra concezione dello star meglio, dovuta alla vigente
organizzazione della medicina. Concepita come un 'impresa industriale,
essa è nelle mani di produttori (medici, ospedali, laboratori
farmaceutici) che incoraggiano la diffusione di procedimenti d'avanguardia
costosi e complicati, e riducono così il malato e i suoi familiari
allo stato di docili clienti. Organizzata in sistema di distribuzione
sociale di benefici, la medicina incita la popolazione a lottare
per ottenere una sempre maggiore quantità di cure, dispensate da
professionisti in materia di igiene, prevenzione, anestesia o assistenza
ai moribondi. Bisogna rendersi conto che più è alto il livello tecnico
di un servizio che si vuol rendere accessibile con giustizia distributiva,
più questa deve basarsi sulla fiducia nell'autonomia. La medicina
odierna invece, irrigidita nel monopolio di una gerarchia monolitica,
si preoccupa di proteggere le sue frontiere incoraggiando la
formazione di paraprofessionisti ai quali subappalta le cure che
un tempo erano prestate dai familiari e amici del malato. Con questo
sistema feudale l'organizzazione medica difende il suo monopolio
ortodosso dalla concorrenza sleale delle guarigioni ottenute con
metodi eterodossi. In realtà, ogni giorno di più, il profano è in
grado di curare il proprio prossimo e, in questo campo, solo una
parte di ciò che occorre sapere è necessariamente materia d'insegnamento
formale. Semplicemente, in una società dove ognuno potesse e dovesse
curare il prossimo, certuni sarebbero più esperti di altri. In una
società nella quale si nascesse e si morisse in casa propria, nella
quale l'invalido e l'idiota non fossero banditi dalla pubblica piazza,
e si sapesse distinguere la vocazione medica dalla professione di
stagnino delle vene, non mancherebbero persone per aiutare gli altri
a vivere, a soffrire, a morire. Ma l'evidenza che l'uomo nasce capace
di occuparsi della salute del corpo oggi scandalizza quanto, al
tempo della Riforma, l'idea che l'uomo nascesse con la capacità
di interpretare la Scrittura.
La patente complicità del professionista e del suo cliente non basta
a spiegare la resistenza che la gente oppone all'idea di deprofessionalizzare
le cure. All'origine dell'impotenza dell'uomo industrializzato c'è
l'altra funzione della medicina attuale, quella di rituale per scongiurare
la morte. Il paziente si affida al medico non solo a causa della
sua sofferenza, ma per paura della morte, per esserne protetto.
L'identificazione di ogni malattia con una minaccia di morte è di
origine abbastanza recente. Smarrendo la distinzione tra la guarigione
di una malattia curabile e la preparazione ad accettare il male
incurabile, il medico moderno ha perduto il diritto dei suoi predecessori
a distinguersi chiaramente dallo stregone e dal ciarlatano; e il
suo cliente ha perduto la capacità di distinguere tra l'alleviamento
della sofferenza e il ricorso allo scongiuro. Con la celebrazione
del suo rituale, il medico maschera la divergenza tra il fatto che
professa e la realtà che crea, tra la lotta contro la sofférenza
e la morte da una parte e l'allontanamento della morte al prezzo
di una sofferenza prolungata dall'altra. Il coraggio di curarsi
da solo può averlo soltanto l'uomo che ha il coraggio di riconoscere
l'esistenza di una soglia, di accettare la necessità di limiti,
di affrontare la morte.
Il sistema dei trasporti
All'inizio degli anni Trenta, sotto la presidenza di Càrdenas, il
Messico si dotò di un sistema di trasporti moderno. Nel giro di
alcuni anni i quattro quinti della popolazione conobbero i vantaggi
del trasporto automobilistico. I principali villaggi furono collegati
da piste o strade in terra battuta. Grossi camion, semplici e solidi,
cominciarono a percorrere i loro tragitti a velocità non superiori
a 30 chilometri l'ora. I passeggeri si ammassavano su panche di
legno inchiodate al fondo, mentre i bagagli e le merci erano sistemati
sul tetto o nel retro dell'automezzo. Sulle distanze brevi il camion
non costituiva un'alternativa per della gente che era abituata a
camminare con pesanti carichi, ma tutti ebbero la possibilità di
percorrere lunghe distanze. L'uomo non andava più a piedi al mercato
spingendosi avanti il suo maiale: se lo caricava con sé sul camion.
Chiunque, in Messico, poteva recarsi in qualunque punto del paese
in pochi giorni.
Dal 1945, ogni anno non si fa che spendere di più per la rete stradale.
Si costruiscono autostrade fra questo e quel centro maggiore. Fragili
automobili sfrecciano su strade lucide di asfalto. Grandi autotreni
speciali fanno la spola da uno stabilimento all'altro. I vecchi
camion buoni per tutti gli usi e per tutti i fondi stradali sono
stati respinti in montagna. In quasi tutte le regioni, il contadino
deve prendere un pullman per andare al mercato ad acquistare prodotti
industrializzati, ma sul pullman non può caricare il maiale e deve
perciò venderlo al mercante ambulante di bestiame. Finanzia, con
le tasse, la costruzione di strade che recano profitto ai detentori
dei vari monopoli specializzati; è obbligato a farlo, col pretesto
che in ultima istanza sarà lui a beneficiare del progresso.
In cambio di un tragitto occasionale sul sedile imbottito di un
torpedone con aria condizionata, il messicano medio ha perduto gran
parte della mobilità che il vecchio sistema gli garantiva, senza
peraltro guadagnare in libertà. Uno studio condotto in due grandi
Stati tipici del Messico, l'uno desertico, l'altro montagnoso e
tropicale, conferma questo giudizio: meno dell'i per cento della
popolazione, in ognuno di questi due Stati, ha percorso nel 1970
più di 20 chilometri in meno di un'ora. Un sistema di biciclette
e carretti, eventualmente motorizzati, avrebbe costituito, per il
99 per cento della popolazione, una soluzione tecnicamente molto
più efficace della tanto vantata rete autostradale. Simili veicoli,
la cui costruzione e manutenzione richiederebbe una spesa relativamente
bassa, potrebbero circolare su una rete viaria non molto diversa
da quella dell'impero Inca. L'argomento che viene portato a sostegno
degli investimenti in automobili e strade è che essi sono una condizione
dello sviluppo, e che senza di essi una regione rimane esclusa dal
mercato mondiale. E vero; ma resta da chiedersi se l'integrazione
nel mercato monetario, che ne è oggi il simbolo vistoso, sia davvero
lo scopo dello sviluppo.
Da qualche anno, i fautori dello sviluppo cominciano ad ammettere
che le automobili, così come vengono utilizzate, non sono efficienti.
E non lo sono, dicono, perché i veicoli sono concepiti in vista
dell'appropriazione privata anziché del bene pubblico. In realtà
il sistema moderno dei trasporti non è efficiente perché si tende
a identificare ogni aumento di velocità con un progresso della circolazione.
Come la pretesa d'uno «star meglio» a tutti i costi, la corsa alla
velocità è una forma di disordine mentale. Come i medici riescono
ad aumentare le sofferenze, così i veicoli veloci rubano alla maggioranza
più tempo di quanto non ne risparmino ai privilegiati. In un paese
capitalista il grande viaggio è una questione di denaro; in un paese
socialista, una questione di potere. La velocità è un nuovo fattore
di stratificazione sociale nelle società sovrefficienti.
L'intossicazione della velocità è un buon terreno per il controllo
sociale sulle condizioni dello sviluppo nell'interesse dell'industria.
L'industria dei trasporti, in tutte le sue varie forme, assorbe
il 23 per cento della spesa complessiva degli Stati Uniti, consuma
il 42 per cento della loro energia, è al tempo stesso la principale
fonte di inquinamento e la più importante causa d'indebitamento
dei bilanci familiari. Questa stessa industria si divora spesso
una fetta proporzionalmente ancora più grossa del bilancio annuale
dei comuni latinoamericani; qui ciò che figura sotto la voce «sviluppo»,
nelle statistiche, è in realtà il costo dell'automobile del medico
o del politico, più cara, per l'insieme della popolazione, di quanto
non sia stata per gli egiziani la costruzione della più grande piramide.
La Tailandia è celebre nella storia per il suo sistema di canali,
i klong. Questi canali suddividevano a scacchiera il territorio
del paese e assicuravano la circolazione della gente, del riso e
delle imposte. Certi villaggi erano isolati durante la stagione
asciutta, ma il ritmo stagionale della vita faceva di questo isolamento
periodico un'occasione per meditare e celebrare feste. Un popolo
che si concede lunghe vacanze e le riempie di attività non è certo
un popolo povero. Negli ultimi cinque anni, i canali più importanti
sono stati colmati e trasformati in strade. I conducenti di autobus
sono pagati al chilometro e le automobili sono ancora poco numerose;
così, per un breve periodo, i tailandesi batteranno probabilmente
il record di velocità in autobus. Ma pagheranno cara la distruzione
delle millenarie vie d'acqua. Gli economisti dicono che gli autobus
e le automobili iniettano moneta nell'economia: è vero, ma a quale
prezzo! Quante famiglie perderanno il loro ancestrale battello di
riso e, con esso, la libertà? Mai gli automobilisti avrebbero potuto
far loro concorrenza, se la Banca Mondiale non avesse finanziato
le strade e se il governo tailandese non avesse emanato nuove leggi
che autorizzano la profanazione dei canali.
L'industria delle costruzioni
Il Diritto e la Finanza possono anche conferire all'industria il
potere di togliere all'uomo la facoltà di costruirsi la propria
casa. Recentemente in Messico è stato varato un grande programma
che si propone di fornire a ogni lavoratore un alloggio decoroso;
come nel campo dell'educazione e della sanità, così anche nell'edilizia
il Messico ha oggi una legislazione modello di giustizia distributiva
in favore dei lavoratori. Si è cominciato con lo stabilire nuove
norme per la costruzione di unità di abitazione; esse miravano a
proteggere gli acquirenti di case dagli abusi dell'industria edilizia:
ma, paradossalmente, hanno privato ancora più gente della possibilità
tradizionale di costruirsi una casa. Infatti il nuovo codice urbanistico
impone certe condizioni minime che non possono essere soddisfatte
da un lavoratore che voglia costruirsi lui stesso la propria casa
nel suo tempo libero. In più, il prezzo d'affitto di un appartamento
costruito industrialmente supera il reddito globale dell'80 per
cento della popolazione. La cosiddetta «abitazione decorosa» non
può dunque essere occupata se non da gente relativamente benestante
o da quei pochi che in base alla legge possono ottenere un sussidio
per l'alloggio.
Progressivamente in tutta l'America Latina le abitazioni che non
soddisfano alle norme industriali vengono facilmente dichiarate
pericolanti o insalubri. Si rifiuta un aiuto pubblico alla schiacciante
maggioranza della popolazione, che non ha mezzi per acquistare una
casa ma potrebbe costruirsela. I fondi pubblici destinati al miglioramento
delle condizioni abitative nei quartieri poveri finiscono con l'essere
assegnati alla costruzione di nuovi insediamenti residenziali, vicino
ai capoluoghi provinciali e regionali, dove potranno vivere i funzionari,
gli operai iscritti ai sindacati e quelli che godono di raccomandazioni:
tutta gente occupata nel settore moderno dell'economia, gente che
ha un lavoro, cioè è impiegata. Si può facilmente riconoscere
questa parte del popolo dal fatto che indica la propria attività
lavorativa col sostantivo, trabajo; tutti gli altri, quelli
che lavorano di tanto in tanto o mai o vivono al limite del livello
di sussistenza, usano la forma verbale quando capita loro di trabajar.
Chi è impiegato e dunque ha un lavoro riceve sussidi per
comprare la casa: non solo, ma tutti i servizi pubblici sono organizzati
per rendergli comoda la vita. A Bogotà, per esempio, il 4 per cento
della popolazione consuma circa il 50 per cento dell'acqua corrente:
e, là sull'altopiano, l'acqua non abbonda certamente! Il codice
urbanistico impone norme molto meno esigenti di quelle dei paesi
ricchi, ma, prescrivendo come bisogna costruire, crea una crescente
penuria dì abitazioni. La pretesa di una società di fornire alloggi
sempre migliori discende dalla stessa aberrazione per cui i medici
pretendono di far stare sempre meglio e gli ingegneri di produrre
velocità sempre più elevate. Ci si fissa sull'astratto degli scopi
impossibili da raggiungere, e poi si prendono i mezzi per finì.
Ciò che è avvenuto in tutta l'America Latina, Cuba compresa, è accaduto
anche a Giacarta, a Manila e ad Abidjan, nel corso degli anni Sessanta.
E anche accaduto nel Massachusetts: nel 1945, un terzo delle famiglie
abitava in case che erano o interamente opera degli occupanti, o
costruite su loro progetto e sotto la loro direzione; nel 1970,
questo tipo di case non rappresentava ormai più che l'li per cento
del totale. Nel frattempo, quello dell'alloggio era divenuto il
problema numero uno. Eppure, grazie ai nuovi strumenti e materiali
disponibili, costruire una casa è oggi diventato più facile; ma
le istituzioni sociali, regolamenti, sindacati, clausole ipotecarie,
vi sì oppongono ciascuna a suo modo. La vanità professionale del
pianificatore, dell'ingegnere e del sindacalista può imporre il
monopolio dell'industria per lo meno con la stessa efficacia con
la quale lo impone l'imprenditore capitalista.
La maggior parte della gente non si sente veramente in casa propria
se una parte significativa del valore della sua abitazione non è
frutto del proprio lavoro. Una politica conviviale dovrebbe cominciare
col definire che cosa è impossibile procurarsi da soli quando ci
si costruisce una casa e di conseguenza dovrebbe assicurare a ognuno
l'accesso a un minimo di spazio, d'acqua, d'elementi prefabbricatì,
di strumenti conviviali dal trapano al montacarichi e, probabilmente,
anche l'accesso a un minimo di credito. Una sìffatta inversione
della politica attuale darebbe a una società postindustriale abitazioni
moderne altrettanto attraenti per i suoi membri quanto lo erano,
per gli antichi Maya, le case che sono ancora la regola nello Yucatàn.
Così come sono concepiti oggi, le cure, i trasporti, l'alloggio
debbono essere i risultati di un'azione che esige l'intervento di
professionisti. Questo intervento si concretizza per addizione di
quanta successivi, il quantum essendo l'unità di misura
minimale. Il costo di ogni quantum è elevato, e meno di un
quantum non serve a nulla. Se, per esempio, la scolarità
si produce in quanta di quattro anni ciascuno, tre anni di
scuola hanno effetti peggiori che l'assenza di scolarizzazione:
fanno del bambino che abbandona la scuola uno spostato. Ciò che
è vero per la scuola lo è anche per la medicina, i trasporti, l'abitazione,
l'agricoltura o la giustizia. I trasporti motorizzati valgono la
pena solo da una certa velocità in su. Il ricorso al tribunale è
producente solo se l'entità del danno subito giustifica il costo
del processo. Seminare nuove colture è redditizio solo se il coltivatore
dispone d'una determinata quantità di terra e di capitale. E fatale
che degli strumenti superpotenti, concepiti per raggiungere scopi
sociali fissati astrattamente, forniscano i loro prodotti in quanta
inaccessibili alla maggioranza. Per di più, si tratta di strumenti
integrati: è sempre la stessa minoranza che utilizza il loro
insieme, cioè tanto la scuola completa di 4 volte 4 anni, quanto
l'aereo, la telescrivente e l'aria condizionata. La produttività
impone di stabilire dei quanta predeterminati di valori definiti
dalle istituzioni, e una gestione produttiva esige che un individuo,
per potersi considerare produttivo, abbia accesso a tutti questi
pacchetti contemporaneamente. La domanda di ciascun prodotto specifico
è governata dalla legge di un complesso attrezzato, che concorre
a mantenere l'ambiente prodotto dalle altre professioni. La gente
che vive tra la propria automobile e il proprio appartamento in
un grattacielo deve poter concludere l'esistenza in una clinica.
Per definizione, tutti questi beni sono rari e lo divengono sempre
più man mano che le professioni si specializzano ed elevano il livello
delle norme che le regolano; di conseguenza, ogni nuovo quantum
lanciato sul mercato frustra più individui di quanti ne soddisfi.
Le statistiche che dimostrano la crescita del prodotto e il forte
consumo pro capite di quanta specializzati mascherano la
grandezza dei costi invisibili. La popolazione è educata meglio,
curata meglio, trasportata meglio, divertita e spesso nutrita meglio,
ma a condizione che, per ogni unità di misura di questo meglio,
si accettino docilmente sia i criteri sia gli obiettivi fissati
dagli esperti. Una società conviviale può instaurarsi solo se si
riconosce il carattere arbitrario di queste misure e la distruttività
dell'imperialismo politico, economico e tecnico che si nasconde
dietro di esse. Rendendo obbligatorio e sistematico lo sviluppo
della produttività, la nostra generazione mette in pericolo la sopravvivenza
dell'umanità. Per tradurre in pratica la possibilità teorica di
un modo di vita postindustriale e conviviale, dobbiamo individuare
le soglie al di là delle quali l'istituzione produce frustrazione,
e i limiti al di là dei quali lo strumento esercita un effetto distruttivo
sull'intera società. E più importante, anzi vitale, per una società
postindustriale stabilire dei criteri per la concezione dei suoi
strumenti, e dei limiti alla loro crescita, che porsi obiettivi
di produzione come accade oggi.
III. L'equilibrio multidimensionale
L'equilibrio umano è un equilibrio aperto, suscettibile di modificarsi
entro parametri flessibili e tuttavia finiti: gli uomini cioè possono
cambiare, ma entro certi limiti. L'attuale sistema industriale,
invece, trova nella sua dinamica la propria instabilità: è organizzato
in funzione di una crescita indefinita e della creazione illimitata
di nuovi bisogni che, nella cornice industriale, divengono ben presto
necessità. Una volta divenuto dominante in una società, il modo
di produzione industriale fornirà questo o quel bene di consumo,
passerà da questa a quell'altra merce, ma non ammetterà limiti all'industrializzazione
dei valori. Un simile processo di crescita esige dall'uomo una cosa
assurda: trovare la propria soddisfazione nel piegarsi alla logica
dello strumento.
Ora, la struttura della tecnica di produzione dà forma alle relazioni
sociali. La richiesta che lo strumento fa all'uomo comporta un costo
sempre più alto; è il costo dell'adattamento dell'uomo al servizio
del suo strumento, rispecchiato dalla crescita del terziario nel
prodotto globale. Diventa sempre più necessario manipolare l'uomo
per vincere la resistenza opposta dal suo equilibrio vitale alla
dinamica industriale; e questa manipolazione prende la forma di
molteplici terapie, pedagogica, medica, amministrativa. L'educazione
produce consumatori competitivi; la medicina li mantiene in vita
nell'ambiente attrezzato che è ormai loro indispensabile; e la burocrazia
risponde alla necessità che il complesso sociale eserciti il suo
controllo sugli individui applicati a un lavoro insensato. Che attraverso
le assicurazioni, la polizia e l'esercito cresca il costo della
difesa dei nuovi privilegi, è tipico della situazione connaturata
a una società di consumo; è inevitabile che questa comporti due
tipi di schiavi: gli intossicati e quelli che vorrebbero esserlo,
gli iniziati e i neofiti.
E ora che il dibattito politico si concentri sui vari modi in cui
la struttura della tecnica di produzione minaccia l'uomo. Non giova
alla chiarezza di questo dibattito chi insiste nel prescrivere palliativi,
mascherando così la causa profonda del blocco dei sistemi sanitario,
di trasporto, di educazione, di alloggio, un blocco che arriva fino
alle istanze giuridica e politica. La crisi ecologica, per esempio,
viene trattata superficialmente quando non si sottolinei che gli
auspicati dispositivi antinquinamento saranno efficaci solo se accompagnati
da una riduzione della produzione globale dell'industria ad una
piccola frazione del livello attuale: altrimenti non si fa che trasferire
i rifiuti in casa del vicino, metterli in serbo per i nostri bambini,
o scaricarli sul terzo mondo. Soffocare l'inquinamento creato localmente
da una grande industria esige investimenti, in materiali e in energia,
che ricreano altrove lo stesso danno su più vasta scala. Rendendo
obbligatori i dispositivi antinquinamento, non si fa che aumentare
il costo unitario di produzione. Certo, si conserva un poco d'aria
respirabile per la collettività, dato che meno gente può concedersi
il lusso di guidare un'automobile, di dormire in una casa climatizzata
o di prendere l'aereo per andare a pesca nel weekend; ma anziché
degradare l'ambiente fisico, si accentuano le differenze sociali.
La struttura della tecnica di produzione incide sui rapporti sociali
ancor più direttamente di quanto non incida sul funzionamento biologico.
Passare dal carbone all'atomo, significa passare dallo smog di oggi
a maggiori livelli di radiazione domani. Quando gli americani trasferiscono
le loro raffinerie oltre mare, dove il controllo dell'inquinamento
è meno severo, preservano se stessi da odori sgradevoli riservando
il puzzo al Venezuela e senza per questo diminuire l'avvelenamento
del pianeta.
Benché la discussione pubblica sui limiti ecologici sia importantissima
e appena agli inizi, e sia più che opportuno approfondirla e generalizzarla,
è ancora più importante prendere coscienza che i limiti posti dall'ambiente
fisico rappresentano solo una dimensione di un problema che
di dimensioni ne ha almeno cinque. Bisogna evitare che le al tre
dimensioni limitanti siano proiettate su questa sola e rese incomprensibili
nella loro specificità e indipendenza, con pregiudizio per lo stesso
dibattito ecologico.
La supercrescita dello strumento minaccia le persone in una maniera
radicalmente nuova, pur se analoga alle forme classiche di nocività
e di danno. La minaccia è nuova nel senso che carnefici e vittime
sono accomunati nella dualità operatori/clienti di strumenti inesorabilmente
distruttivi. In questo gioco, anche se alcuni partono vincenti,
alla fine tutti risultano perdenti.
Distinguerò cinque modi in cui la popolazione del pianeta è minacciata
dallo sviluppo industriale avanzato.
1.
La supercrescita minaccia il diritto dell'uomo a conservare le sue
radici nell'ambiente col quale si è evoluto.
2.
L'industrializzazione minaccia il diritto dell'uomo all'autonomia
nell'azione.
3.
La superprogrammazione dell'uomo in funzione del nuovo ambiente
minaccia la sua intenzionalità.
4.
La centralizzazione dei processi di produzione minaccia il suo diritto
alla parola, cioè alla politica.
5.
Il rafforzamento dei meccanismi di usura (obsolescenza) minaccia
il diritto dell'uomo alla propria tradizione, il suo ricorso
al precedente attraverso il linguaggio, il mito, il rituale
e, anzi tutto, il Diritto.
Esamineremo queste cinque minacce, insieme distinte e connesse,
rette da una mortale inversione dei mezzi in fini. Una sesta
minaccia è costituita dalla frustrazione profonda generata mediante
il soddisfacimento obbligatorio e condizionato; non è la meno sottile,
ma non può dar luogo, come le altre cinque, all'estinzione dell'uomo
né si può ricondurre ad alcuna precisa offesa d'un diritto già definito.
La classificazione che io faccio ha lo scopo di rendere riconoscibile
il danno (la nuova minaccia) nella terminologia tradizionale
della giurisprudenza anglosassone. Che uno strumento anonimo destinato
a soccorrere una parte malata provochi un'infezione, questo è un
fatto nuovo; ma il male che minaccia chiunque non è nuovo. Questa
prima classificazione può servire come base per azioni giudiziarie
con cui le persone lese dal funzionamento degli strumenti volessero
far valere i loro diritti. Chiarire queste categorie di danni può
essere un mezzo per recuperare dei principi di procedura politico-giuridica
che permettano alle popolazioni di capire, mettere sotto accusa
e correggere l'attuale squilibrio del complesso istituzionale dell'industria.
Concepita in questi termini, l'identificazione della molteplice
minaccia non solo favorisce la partecipazione pubblica al processo
d'accusa, ma impone inoltre il recupero degli elementi essenziali
del procedimento formale giuridico per la vita politica.
Io postulo che i principi che stanno alla base di ogni procedura
morale, politica e giuridica sono tre:
a)
il conflitto sollevato dalla persona è legittimo;
b)
il processo decisionale vigente trae la sua autorità dalla dialettica
della storia;
c)
il ricorso alla popolazione, ad assemblee di pari scelti tra
uguali (e non al giudizio dell'«esperto»), è l'indispensabile suggello
di ogni decisione che riguardi la collettività.
Invertire alla radice la struttura tecnica delle nostre istituzioni
produttive più importanti: ecco la rivoluzione, ecco l'assalto all'avere
o al potere delle classi professionali, in mancanza del quale il
trasferimento al pubblico dei titoli di proprietà rimane una mera
cerimonia a beneficio di una nuova classe di commissari-gerenti.
E una rivoluzione che non si può né progettare né condurre se prima
non si recupera (e si accetta) una struttura formale di procedura.
Prima di approfondire la procedura politica che sola può salvaguardare
l'equilibrio umano, conviene centrare l'analisi su ciascuna delle
dimensioni in cui si presenta la minaccia.
La
degradazione dell'ambiente
L'importanza dell'equilibrio tra l'uomo e la biosfera è un fatto
accertato, e all'improvviso ha cominciato a preoccupare molta gente.
La degradazione dell'ambiente è drammatica ed evidentissima. Per
anni, a Città del Messico, la circolazione automobilistica è regolarmente
aumentata sotto un cielo azzurro; poi, ad un tratto, è arrivato
lo smog e ben presto è diventato peggio che a Los Angeles. Veleni
di una potenza sconosciuta vengono iniettati nel nostro biosistema.
Non c'è modo di eliminarli, né mezzo di prevedere se, assommandosi,
non finiranno un giorno per ridurre di colpo il nostro pianeta a
una cosa morta, come è già accaduto al lago Erie e al lago Bajkal.
L'uomo è nato e si è evoluto dentro una nicchia cosmica. La Terra
è la nostra dimora. E questa dimora che l'uomo adesso minaccia.
Di solito si identificano nel sovrappopolamento, nella sovrabbondanza
e nella tecnica indifferente ai suoi sottoprodotti le tre forze
che, combinandosi, mettono in pericolo l'equilibrio ecologico. Paul
Ehrlich osserva che volendo affrontare onestamente il problema della
«bomba demografica» e della stabilizzazione dei consumi, si rischia
di essere considerati «nemici del popolo e nemici dei poveri», e
tuttavia ribadisce che «certe misure impopolari (che limitino al
tempo stesso le nascite e i consumi) sono la sola speranza che l'umanità
abbia di evitare una miseria senza precedenti». Seguito da altri
sostenitori della crescita demografica zero, Ehrlich vuole sposare
il controllo delle nascite con l'efficienza industriale. Da parte
sua Barry Commoner, esponendosi alla critica d'essere un demagogo
nemico delle macchine, mette l'accento sulla terza incognita dell'equazione,
la tecnologia perversa, e afferma che è questa la principale responsabile
della recente degradazione dell'ambiente. Come molti altri ecologi,
Commoner chiede una riattrezzatura dell'industria, più che una inversione
radicale della struttura di base degli strumenti.
La suggestione della crisi ecologica ha limitato il dibattito sulla
sopravvivenza all'esame di un solo equilibrio, quello minacciato
dallo strumento inquinante. Ma questo dibattito resta unidimensionale,
dunque senza oggetto, anche se si fanno intervenire tre variabili,
ciascuna caratterizzante uno squilibrio tra l'uomo e il suo ambiente.
Il sovrappopolamento accresce il numero degli individui dipendenti
da risorse limitate, la sovrabbondanza obbliga ognuno a spendere
più energia, e lo strumento distruttivo degrada questa energia senza
beneficio.
Se si considerano queste tre forze come le sole minacce, e la biosfera
come l'oggetto minacciato, due questioni, non di più, meritano di
essere discusse:
a) quale fattore (o quale forza) ha maggiormente degradato le
risorse genetiche, e quale è il più minaccioso per il prossimo futuro?
b) quale fattore, nella misura in cui sia riducibile o invertibile,
richiede maggiore attenzione da parte nostra? Secondo alcuni è più
facile risolvere il problema del sovrappopolamento, secondo altri
è più agevole ridurre una produzione generatrice di entropia. Tutti,
ovviamente, sono più o meno d'accordo che non si può accrescere
il benessere materiale seguendo le predizioni di Rerman Kahn e simili
ciarlatani.
Onestà vuole che ognuno di noi riconosca la necessità di porre un
limite alla procreazione, al consumo e allo spreco: ma, ancor più,
importa abbandonare l'illusione che le macchine possano lavorare
per noi o i terapeuti renderci capaci di servircene. L'unica soluzione
alla crisi ecologica è che gli uomini capiscano che sarebbero più
felici se potessero lavorare insieme e prendersi cura
l'uno dell'altro. Un simile rovesciamento delle idee correnti
richiede, in chi l'opera, coraggio intellettuale. Egli infatti si
espone a una critica che, per non essere molto acuta, non è meno
dolorosa: verrà trattato non solo da «nemico del popolo» e «nemico
dei poveri», ma anche da oscurantista contrario alla scuola, al
sapere e al progresso. Lo squilibrio ecologico è un sovraccarico
che si aggiunge ad altri per distorcere, ciascuno in una dimensione
particolare, l'equilibrio vitale. Più oltre mostrerò come, in questa
prospettiva, il sovrappopolamento è il risultato di uno squilibrio
dell'educazione, la sovrabbondanza deriva dalla monopolizzazione
industriale dei valori personali, e la cattiva tecnologia è l'inesorabile
conseguenza d'una inversione dei mezzi in fini.
Il dibattito unidimensionale condotto dai sostenitori delle varie
panacee, i quali ritengono compatibile l'espansione controllata
del sistema industriale con la sopravvivenza in equità, può solo
alimentare l'illusoria speranza che in qualche modo l'azione umana
opportunamente attrezzata possa rispondere alle esigenze del mondo
concepito come Totalità-Strumento. Una sopravvivenza garantita burocraticamente
in simili condizioni significherebbe un'industrializzazione del
terziario talmente accentuata, che tutto il pianeta sarebbe guidato
da un unico sistema di produzione e di riproduzione pianificato
dal centro.
Secondo
i fautori di questa soluzione, dominati da una mentalità industriale,
la conservazione dell'ambiente fisico potrebbe divenire la cura
principale del leviatano burocratico posto alle leve che regolano
i livelli di riproduzione, di domanda, di produzione e di consumo.
Una tale risposta tecnocratica alla crescita demografica, all'inquinamento
e alla sovrabbondanza, non potrebbe fondarsi che su un accresciuto
sviluppo dell'industrializzazione dei valori. La credenza nella
possibilità ditale sviluppo si basa a sua volta su un postulato
erroneo, e cioè che «il successo storico della scienza e della tecnologia
ha reso possibile la traduzione dei valori in compiti tecnici,
la materializzazione dei valori. Quel ch'è in gioco è dunque
una nuova definizione dei valori in termini tecnici, come
elementi del processo tecnologico. I nuovi fini, come fini tecnici,
opererebbero così nel progetto e nella costruzione dell'apparato
tecnologico, non solo nella sua utilizzazione»[4] .
Il ristabilimento di un equilibrio ecologico dipende dalla capacità
del corpo sociale di reagire contro la progressiva materializzazione
dei valori, contro la loro riduzione a compiti tecnici.
Se questa reazione non ci sarà, l'uomo si troverà completamente
accerchiato dai prodotti dei suoi strumenti, chiuso senza via d'uscita.
Avvolto da un ambiente fisico, sociale e psichico da lui stesso
fabbricato, sarà prigioniero del suo strumento-guscio, incapace
di ritrovare l'antico ambiente col quale si era formato. L'equilibrio
ecologico non sarà ristabilito se non riconosceremo che solo la
persona ha dei fini e che solo essa può lavorare per realizzarli.
Il
monopolio radicale
Gli strumenti sovrefficienti possono estinguere l'uomo distruggendo
l'equilibrio tra lui ed il suo ambiente. Ma certi strumenti possono
essere sovrefficienti in tutt'altro modo:
alterando il rapporto tra ciò che uno ha bisogno di fare da sé e
ciò che può attingere bell'e fatto dall'industria. In questa seconda
dimensione di possibile squilibrio, la produzione sovrefficiente
dà luogo a un monopolio radicale.
Per monopolio radicale intendo un tipo di dominio di un prodotto,
che va molto al di là di ciò che il termine solitamente indica.
Generalmente si intende per monopolio il controllo esclusivo, da
parte di una ditta, sui mezzi di produzione o di vendita di un bene
o d'un servizio. Si dirà che la CocaCola ha il monopolio delle bibite
analcoliche del Nicaragua in quanto è l'unica produttrice di simili
bevande, in quel paese, che disponga di mezzi pubblicitari moderni.
La Nestlé impone la propria marca di cioccolato controllando il
mercato della materia prima, una fabbrica di automobili controllando
le importazioni dall'estero, una compagnia televisiva assicurandosi
una licenza esclusiva. I monopoli di questo tipo, è da un secolo
che lo si riconosce, sono dei pericolosi sottoprodotti dello sviluppo
industriale; e si sono anche emanate delle leggi nel tentativo,
pressoché vano, di tenerli a freno. Normalmente la legislazione
con cui si cerca di ostacolare la formazione di monopoli ha mirato
a impedire che, tramite loro, s'imponesse un limite alla crescita
economica; non c'era alcun intento di proteggere l'individuo.
Questo primo tipo di monopolio restringe le possibilità di scelta
del consumatore o addirittura lo fa trovare di fronte a un unico
prodotto sul mercato, ma raramente limita in altri sensi la sua
libertà. Un uomo assetato può desiderare una bibita analcolica,
fresca e gassata, e trovarsi astretto alla scelta di una sola marca,
ma resta libero di togliersi la sete bevendo birra o acqua. Solo
se e quando la sua sete si traduce senza possibili alternative nel
bisogno forzato, nell'acquisto obbligatorio d'una
bottiglietta di una certa bibita, soltanto allora s'installa il
monopolio radicale. Con questo termine io intendo non il dominio
di una marca ma la necessità industrialmente creata di servirsi
di un tipo di prodotto. Si ha monopolio radicale quando un processo
di produzione industriale esercita un controllo esclusivo sul soddisfacimento
di un bisogno pressante, escludendo ogni possibilità di ricorrere,
a tal fine, ad attività non industriali.
I trasporti, per esempio, possono monopolizzare la circolazione.
Le automobili possono modellare una città a loro immagine, eliminando
praticamente la locomozione a piedi o in bicicletta, come a Los
Angeles. La costruzione di strade per autobus può annullare la circolazione
fluviale, come in Tailandia. Che l'automobile riduca il diritto
di camminare, questo è monopolio radicale, e non il fatto che si
contino più guidatori di Fiat che di Alfa Romeo. Che la gente sia
obbligata a farsi trasportare e divenga incapace di circolare senza
motore, questo è monopolio radicale. Il danno che i trasporti motorizzati
infliggono alla gente in virtù di questo monopolio radicale è cosa
del tutto distinta e indipendente dal danno che producono bruciando
della benzina che, in un mondo sovrappopolato, potrebbe essere trasformata
in alimenti. E distinto anche dall'omicidio automobilistico. Certo
che le automobili bruciano carburante in olocausto, certo che sono
costose: certo che dal 1908 a oggi in America si sono registrati
cento milioni di vittime dell'automobile. Ma il monopolio radicale
stabilito dal veicolo a motore ha un modo tutto suo di distruggere.
Le automobili creano distanze, la velocità in tutte le sue forme
restringe lo spazio. Si incuneano autostrade attraverso regioni
sovrappopolate, e poi si estorce alla gente un pedaggio per «autorizzarla»
a superare le distanze che il sistema del trasporto esige di per
sé. Questo monopolio dei trasporti, come una bestia mostruosa, divora
lo spazio. Anche se gli aerei e gli autobus funzionassero come servizi
pubblici senza contaminare l'aria ed il silenzio e senza prosciugare
le risorse di energia, la loro velocità inumana degraderebbe ugualmente
la mobilità naturale dell'uomo, e lo costringerebbe a dedicare sempre
più tempo alla circolazione meccanica.
La scuola può anch'essa esercitare un monopolio radicale sul sapere,
ridefinendolo come educazione. Finché si accetta la definizione
della realtà fornita dall'insegnante, agli effetti ufficiali gli
autodidatti sono «sforniti di educazione». La medicina moderna nega
a chi soffre le cure che non siano oggetto di una prescrizione medica.
Si ha monopolio radicale quando lo strumento programmato spossessa
la capacità innata dell'individuo. Questo dominio dello strumento
instaura il consumo obbligatorio e di conseguenza restringe l'autonomia
della persona. È un tipo particolare di controllo sociale, rafforzato
dal consumo obbligatorio d'una produzione di massa che solo le grandi
industrie possono fornire.
Il controllo esercitato sulle sepolture dalle imprese di pompe funebri
mostra come sorge e si stabilisce un monopolio radicale
e in che cosa si differenzia da altre forme di chiusura culturale.
Nel Cile, fino a ma generazione addietro, solo la preparazione della
fossa e la benedizione della salma erano opera di specialisti il
becchino e il prete. Un lutto in famiglia creava degli obblighi
sociali, che potevano essere assolti <dai parenti. la veglia,
le esequie e il pranzo servivano a comporre le liti, a dare libero
sfogo al dolore, a celebrare lai vita e la fatalità della morte.
La maggior parte delle usanze erano di natura rituale, oggetto di
minuziose prescrizioni che variavano dal deserto di Atacama all'estremo
Sud freddo e tedesco. Poi, nelle principali città sorsero imprese
di pompe funebri. All'inizio stentarono a trovare clienti perché,
anche in città, la gente sapeva ancora seppellire i propri morti.
Negli anni Sessanta ottennero il controllo dei nuovi cimiteri e
cominciarono a offrire servizi forfettari comprendenti la bara,
la cerimonia e l'imbalsamazione del defunto. Verso il 1970 è stata
approvata una legge che impone l'obbligo di servirsi del beccamorto.
Quando otterrà il controllo del cadavere, l'impresario delle pompe
funebri avrà il monopolio radicale della sepoltura, così come il
medico è sul punto di avere il monopolio della morte.
La polemica sui servizi sanitari che in corso negli Stati Uniti
illustra chiaramente come si rafforza un monopolio radicale
per effetto della lotta tra due tipi di fornitori, entrambi industriali.
I repubblicani mettono l'accento sulla prevenzione delle malattie,
i democratici sulla cura. L'uno e l'altro partito politico pongono
il servizio professionale come uno scottante problema pubblico,
relegando così la cura della salute in un ambito dove la politica
ha ben poco d'importante da dire. Ogni partito promette più denaro
ai medici, agli ospedali ed ai farmacisti. Più denaro vorrà dire
meno attenzione ai fattori non terapeutici che determinano lo stato
di salute, maggior presa dell'industria della salute sui fondi pubblici,
ed aumenti del suo prestigio e del suo potere che non diventa meno
arbitrario per il fatto di diventare più complesso. Posto nelle
mani di una minoranza, questo potere accrescerà la capacità di sofferenza
e ridurrà il potenziale d'iniziativa dei malati e dei sani. Più
denaro speso sotto la direzione degli specialisti della salute significa
più gente condizionata a sostenere il ruolo dell'ammalato, ruolo
che non ha neppure più il diritto d'interpretare per proprio conto:
una volta accettato il ruolo, infatti, i suoi bisogni più semplici
non possono essere soddisfatti se non attraverso certi rubinetti
che, per definizione professionale, sono rari.
Gli uomini possiedono la capacità innata di curare, confortare,
spostarsi, apprendere, costruirsi una casa e seppellire i propri
morti. Ognuna di queste capacità risponde a un bisogno. I mezzi
per soddisfare questi bisogni non mancano fin tanto che gli uomini
dipendono da ciò che possono fare da sé e per sé, ricorrendo solo
marginalmente a professionisti. Tali attività hanno un valore d'uso,
ma non necessariamente hanno assunto valore di scambio: il loro
esercizio, spesso, non si definisce culturalmente come lavoro.
Queste soddisfazioni elementari si rarefanno quando l'ambiente sociale
viene trasformato in modo tale che i bisogni più semplici non possono
più trovare la loro risposta fuori commercio. Così si stabilisce
un monopolio radicale allorché gli uomini abbandonano la loro capacità
innata di fare quel che possono per sé e per gli altri, in cambio
di qualcosa di «meglio» che solo uno strumento dominante può procurargli.
Questo monopolio radicale rispecchia l'industrializzazione dei valori.
Alla risposta personale sostituisce l'oggetto standardizzato; crea
nuove forme di scarsità attraverso l'accettazione di un nuovo criterio
di misura, e quindi di classificazione, del livello di consumo della
gente. Questa riclassificazione provoca l'aumento del costo unitario
di fornitura del servizio, svaluta la prestazione non professionale,
modula l'attribuzione dei privilegi, restringe l'accesso alle risorse,
rende ostile l'ambiente all'iniziativa autonoma e mette la gente
in stato di dipendenza forzosa.
Da questo monopolio radicale è sempre più necessario salvaguardarsi.
Bisogna difendere l'uomo dall'infanzia, dalla morte e dalla sepoltura
standardizzate, sia che il loro consumo venga imposto sotto il segno
della libera impresa, sia che lo esigano i governi nel nome dell'uguaglianza
e del progresso. Abbiamo bisogno di questa difesa anche se nella
maggior parte abbiamo ormai accettato di sentirci clienti dei servizi
specializzati. Se non riconosciamo questa necessità di reagire,
il monopolio radicale rafforzerà e affinerà i propri strumenti a
un punto tale da superare la soglia della resistenza umana all'inazione
e alla passività. L'espansione industriale che impone il consumo
obbligatorio ha un limite nel bisogno umano di iniziativa autonoma.
Non sempre è facile determinare che cosa costituisce un consumo
forzoso. Il monopolio della scuola non si fonda in primo luogo su
una legge che punisca i genitori o i ragazzi colpevoli di diserzione
scolastica. Non che tali leggi non esistano, ma la scuola poggia
su un'altra tattica: segregazione dei non scolarizzati, accentramento
degli strumenti del sapere sotto il controllo degli insegnanti,
trattamento sociale privilegiato per gli studenti. Difendersi da
leggi che rendano obbligatorie l'educazione, la vaccinazione o il
prolungamento della vita umana è importante, ma non basta. Le procedure
che già permettono di proteggersi contro la privazione di un bene
o di un diritto vanno estese ai casi in cui la parte minacciata
voglia difendersi dall'obbligo di consumare, qualunque sia il tipo
di consumo in questione. La soglia di intollerabilità di un monopolio
radicale non può essere fissata in anticipo, ma se ne può prevenire
la minaccia. La legislazione che definisca la natura precisa del
monopolio ritenuto intollerabile deve essere frutto di un processo
politico.
Difendersi dalla generalizzazione del monopolio è difficile quanto
difendersi dal dilagare dell'inquinamento. Si è più pronti a insorgere
contro un attentato ai propri interessi privati che non contro i
pericoli che minacciano l'insieme del corpo sociale. I nemici dichiarati
dell'automobile sono molto più numerosi dei nemici del volante:
gli stessi che sono contrari alle automobili in genere perché inquinano
l'aria, distruggono il silenzio e schiavizzano l'utente, non esitano
poi ad usare la propria macchina convinti che essa non inquini granché,
e non hanno alcuna sensazione di alienare la propria libertà quando
sono al volante. E qui che si coglie il carattere radicale del monopolio,
nel fatto cioè che, in una collettività, la maggioranza dà più peso
al vantaggio personale immediato che non al male futuro incombente
su tutti. La difesa contro il monopolio è ancora più difficile se
si tiene conto dei fattori seguenti. Da una parte la società è già
adesso satura di autostrade, scuole e ospedali; dall'altra, l'innata
capacità dell'uomo di formulare atti indipendenti è paralizzata
da tanto tempo che sembra essersi atrofizzata; infine, le soluzioni
che offrono un'altra possibilità, per il fatto d'essere semplici,
sembrano escluse dal campo delle cose immaginabili. È difficile
sbarazzarsi del monopolio una volta che esso ha gelato la forma
del mondo fisico, sclerotizzato il comportamento e mutilato l'immaginazione.
Quando il monopolio radicale viene scoperto, in genere è troppo
tardi per liberarsene in modo economico.
L'eliminazione di un monopolio commerciale avviene a spese della
minoranza che ne trae profitto, cioè a spese di quei pochi che,
di solito, riescono a sfuggire ai controlli. La cosa è diversa nel
caso del monopolio radicale, dalla cui continuazione dipende non
il profitto di alcuni ma il modo di vita della maggioranza. Perché
sia possibile spezzarlo occorre che la maggioranza si renda conto
che il pericolo incombente non è solo la fine del suo stile di vita,
ma la fine del suo mondo. Tuttavia questa minaccia, da sola, forse
non basta per indurre la maggioranza ad affrontare il costo della
distruzione del monopolio. Essa non accetterà di pagarne il prezzo
se non mettendo sulla bilancia da una parte le promesse di una società
conviviale e dall'altra i miraggi d'una società di progresso. La
gente sceglierà la bicicletta solo dopo aver compreso due cose:
da un lato che il costo reale dei veicoli rapidi è diventato incalcolabile;
dall'altro, che per ogni ora di vita spesa al servizio della circolazione
i veicoli a velocità di bicicletta permettono di fare più chilometri
di qualsiasi altro veicolo più veloce. Ben poca gente sarebbe disposta
a pagare il costo della sopravvivenza se confondesse la convivialità
con l'indigenza.
Certi sintomi del monopolio radicale cominciano ad affiorare nella
coscienza sociale, e soprattutto questo: anche nei paesi più altamente
sviluppati, e qualunque sia il loro regime politico, il tasso di
crescita della frustrazione supera di gran lunga quello della produzione.
Certo le politiche di alleviamento della frustrazione riescono facilmente
a distrarre l'attenzione dalla natura profonda del monopolio; ma
a ogni successo superficiale di queste politiche, che corregge distorsioni
e diluisce la critica in vaghe riforme, il monopolio di cui ci occupiamo
non fa che radicarsi ancora più saldamente.
Il primo dei palliativi è la difesa del consumatore. Il consumatore
non può fare a meno dell'automobile. Passa da questa a quella marca.
Scopre che la maggior parte delle vetture sono pericolose, a qualunque
velocità. Allora si organizza con altri consumatori per ottenere
vetture più sicure, di qualità migliore e più durevoli, nonché strade
più larghe e meno pericolose. La vittoria del consumatore è una
vittoria di Pirro: un recupero di fiducia individuale nei veicoli
superpotenti (pubblici o privati che siano) significa maggior dipendenza
collettiva nei loro confronti, e una sempre maggiore frustrazione
per chi deve, o vuole, andare a piedi.
L'effetto immediato di simili iniziative per l'autodifesa del consumatore
«intossicato»è quello di migliorare la qualità della droga fornita
e di accrescere la potenza del fornitore; ma alla lunga esse possono
anche mettere lo sviluppo di fronte ai propri limiti: può darsi
che un giorno le automobili diventino troppo care da comprare e
le medicine troppo costose da provare. Acutizzando le contraddizioni
intrinseche a un tale processo di industrializzazione dei valori,
le maggioranze possono arrivare a prenderne piena coscienza. E possibile
che il consumatore avvertito, quello che seleziona i suoi acquisti,
alla fine arrivi a scoprire che gli conviene di più arrangiarsi
da solo. Ralph Nader, direttamente, non fa che promuovere e ribadire
la dipendenza radicale; ma non è detto che, esasperandola, non contribuisca
a farla scoppiare.
Il secondo palliativo, che mira a pareggiare il tasso di crescita
della produzione e quello della frustrazione, è l'ideologia della
pianificazione. E illusione diffusa che dei pianificatori animati
da ideali socialisti potrebbero in qualche modo creare una società
socialista, in cui i lavoratori dell'industria formerebbero la maggioranza.
I sostenitori di quest'idea trascurano però un fatto, e cioè che
il margine di adattabilità degli strumenti anticonviviali (cioè
quelli che manipolano la persona) è ridottissimo. Una volta che
i trasporti, l'educazione o l'assistenza medica siano disponibili
gratuitamente, c'è rischio che il loro consumo venga imposto con
maggior forza dai tutori della morale, e che il sottoconsumatore
venga accusato di sabotare lo sforzo nazionale. In un'economia di
mercato, chi vuole curarsi l'influenza restandosene a letto è penalizzato
con una perdita di introiti; in una società che si appella al «popolo»
per raggiungere obiettivi di produzione stabiliti al vertice, il
rifiuto di consumare assistenza sanitaria equivale a far professione
di pubblica immoralità. La difesa contro il monopolio radicale è
possibile a una sola condizione: che si esprima, sul piano politico,
un accordo unanime sulla necessità di mettere un termine all'aumento
del prodotto da consumare. Un tale consenso si situa esattamente
all'opposto dell'atteggiamento che è ora comune a tutte le opposizioni
politiche e che consiste nel chiedere più cose utili per più gente
inutile.
L'equilibrio fra l'uomo e l'ambiente da una parte e, dall'altra,
fra la possibilità di esercitare un'attività creativa e la somma
dei bisogni elementari da soddisfare in tale maniera, questo duplice
equilibrio è ormai vicino al punto di rottura. E tuttavia la maggioranza
non ne è preoccupata. A questo punto bisogna spiegare perché i più
sono ciechi o impotenti di fronte al pericolo. L'accecamento, io
credo, è la conseguenza di un terzo squilibrio, quello del sapere;
quanto all'impotenza, essa dipende dal perturbamento di un quarto
equilibrio, che io chiamo equilibrio del potere.
La
superprogrammazione
L'equilibrio del sapere è determinato dal rapporto di due
variabili: da una parte il sapere proveniente da relazioni creative
tra l'uomo e il suo ambiente naturale, dall'altra il sapere reificato
dell'uomo agito dal suo ambiente attrezzato. Il primo tipo di sapere
è l'effetto dei nodi di relazioni che si stabiliscono spontaneamente
tra le persone, nell'impiego di strumenti conviviali. Il secondo
sapere discende da un addestramento intenzionale e programmato.
L'apprendimento della lingua materna rientra nella prima categoria,
l'ingestione della matematica a scuola appartiene alla seconda.
Nessuna persona sensata direbbe che parlare, camminare o occuparsi
di un bambino siano risultato di una educazione formale come invece
è di solito per la matematica, la danza classica o la pittura.
L'equilibrio del sapere, cioè il rapporto tra le due variabili,
è diverso a seconda del luogo e del tempo. Il rito vi ha grandissima
parte: un musulmano sa un po' d'arabo per via della sua preghiera.
Questa acquisizione di sapere avviene per interazione in un contesto
delimitato da una tradizione. È in modo analogo che i contadini
riprendono il folklore della loro terra. Classi e caste moltiplicano
le occasioni di apprendere: il ricco sa stare a tavola e
parlare in società (e tiene lui stesso a dire che «queste cose non
si imparano»); il povero saprà sopravvivere degnamente là dove nessuna
scuola può insegnare al ricco come cavarsela.
Per l'acquisizione del sapere, fondamentale è la struttura dello
strumento: lo strumento conviviale favorisce la scoperta personale,
quello industriale alimenta l'insegnamento. In certe tribù, piccole
e di forte coesione, il sapere è diviso assai equamente tra la maggioranza
dei membri della tribù: ognuno sa la maggior parte di ciò che il
gruppo sa. Alla tappa successiva del processo di civilizzazione,
vengono introdotti nuovi strumenti, più gente sa un maggior numero
di cose, ma non tutti sanno più fare ogni cosa ugualmente bene.
La maestria, tuttavia, non implica ancora il monopolio della comprensione:
si può comprendere ciò che fa un fabbro senza essere fabbro, non
c'è bisogno di essere cuoco per sapere come si cucina. Questo gioco
combinato di una informazione largamente diffusa e di una attitudine
generale a trarne profitto è caratteristico delle società in cui
prevale lo strumento conviviale. La tecnica dell'artigiano può essere
compresa osservando il suo lavoro, mentre le risorse complesse che
egli mette in opera non possono essere acquisite se non al termine
di una lunga operazione disciplinata: l'apprendistato. Il sapere
globale di una società si espande quando, nello stesso tempo, si
sviluppano il sapere acquisito spontaneamente e il sapere trasmesso
da un maestro; allora disciplina e libertà si congiungono armoniosamente.
L'espansione del campo di equilibrio del sapere non può andare all'infinito;
contiene in se stessa il proprio limite. Questo campo è ottimizzabile,
non indefinito. Prima di tutto perché l'arco di una vita umana è
limitato. Poi (e anche questo è un fatto inesorabile) perché la
specializzazione dello strumento e la divisione del lavoro si incrementano
reciprocamente e, al di là di un certo punto, richiedono una sovraprogrammazione
tanto dell'operatore quanto del cliente. Da questo momento, la maggior
parte del sapere di ognuno è effetto del volere e del potere altrui.
La cultura di un corpo sociale può fiorire in innumerevoli varietà,
ma ci sono dei limiti materiali alla specializzazione che non si
possono aggirare.
In quale ambiente il bambino di New York vede la luce? In un insieme
complesso di sistemi che significano una cosa per quelli che li
progettano e un'altra per chi ne fa uso. Posto a contatto con migliaia
di sistemi, ai loro punti terminali, l'uomo di città sa forse servirsi
del telefono e del televisore, della legge e delle assicurazioni,
ma non sa come funzionano. L'acquisizione spontanea del sapere è
limitata ai meccanismi di adattamento a un comfort massificato.
L'uomo di città è sempre meno in grado di farsi tanto le sue cose
quanto le sue idee. Far da mangiare, far la corte o fare l'amore,
tutto diventa materia d'insegnamento. Deviato dall'educazione e
verso l'educazione, l'equilibrio del sapere si disgrega. Sappiamo
ciò che ci è stato insegnato, ma non impariamo più da noi stessi.
Sentiamo d'aver bisogno di essere educati.
Il
sapere diventa così una merce e, come tutte le merci che passano
attraverso il mercato, è soggetto alla scarsità. Celare la natura
di questa scarsità è la funzione, costosissima, di tutta una multiforme
educazione. E educazione infatti la preparazione programmata alla
«vita attiva» mediante l'ingurgitazione di istruzioni confezionate
in serie, prodotte dalla scuola. Ma è educazione anche il collegamento
continuo col flusso delle informazioni emesse dai media (informazioni
su quello che accade), come è educazione il «messaggio» di
ogni bene manufatto. Qualche volta il messaggio è scritto sulla
scatola, e bisogna leggerlo. Se il prodotto è più elaborato, la
sua forma, il suo colore, le associazioni provocate dettano all'utente
il modo di servirsene. Permanente, l'educazione lo è in particolare,
come ricostituente di stagione, per il dirigente, il poliziotto
e l'operaio specializzato, periodicamente superati dalle innovazioni
nei rispettivi campi. Quando la gente si consuma, e deve continuamente
ritornare sui banchi di scuola per prendere un bagno di sapere e
di sicurezza, quando l'analista deve essere riprogrammato a ogni
nuova generazione di calcolatori, allora, veramente, il sapere è
una merce soggetta alla scarsità. Così l'educazione diventa, nella
società, il problema più scottante e insieme più mistificante.
Ovunque il tasso di aumento del costo della formazione è superiore
a quello del prodotto globale. Di ciò si danno due diverse interpretazioni.
Per l'una, l'educazione è un mezzo per raggiungere dei fini economici;
l'investimento di sapere nell'uomo è richiesto dalla necessità di
accrescere la produttività. In questa prospettiva, l'aumento sproporzionato
del terziario terapeutico significa che la produzione globale si
avvicina all'asintoto. Per parare il pericolo, occorre trovare il
mezzo di migliorare il rapporto spesa-ricavo nell'ortopedia pedagogica.
Le scuole saranno le prime a essere colpite dal processo di razionalizzazione
dei meccanismi di capitalizzazione del sapere. A mio avviso è un
peccato: per quanto distruttiva e inefficace, la scuola, per il
suo carattere tradizionalista, assicura un minimo di protezione
al bambino; una volta liberati dagli impacci inerenti al sistema
scolastico, gli educatori potrebbero rivelarsi dei «condizionatori»
mortalmente efficaci.
Il punto di partenza della seconda interpretazione è opposto: il
terziario, che non si può peraltro assimilare alla sola educazione,
è il prodotto sociale più prezioso dello sviluppo industriale. Pertanto,
il declino dell'utilità marginale dell'educazione non è un buon
motivo per limitarne la produzione. Al contrario, la sostituzione
della domanda di servizi alla domanda di beni segna il passaggio
a un'economia stabile e, insieme, un miglioramento della «qualità
della vita». Nove volte su dieci, le previsioni su quello che sarà
il 2000, nel loro ultimo capitolo, descrivono la felicità come una
valanga di consumo terziario.
Queste due interpretazioni spostano entrambe l'equilibrio del sapere:
concorrono allo sviluppo delle tecniche di manipolazione educativa,
e soffocano ogni curiosità personale. Considerare l'educazione come
mezzo di produzione o come prodotto di lusso è la stessa cosa, dal
momento che si concorda nel chiederne sempre nuove dosi. Le due
posizioni si basano sul medesimo postulato, segnato da un carattere
di fatalità: il mondo moderno è talmente artificiale, alienato,
arcano, che trascende la capacità dell'uomo comune e non può essere
scoperto ma solo conosciuto per via di rivelazione dai grandi iniziati
e dai loro discepoli. Sostituire la sveglia meccanica dell'educazione
al risveglio del sapere significa soffocare nell'uomo il poeta,
gelare il suo potere di dare senso al mondo. Non appena separato
dalla natura, privato di lavoro creativo, mutilato nella curiosità,
l'uomo perde le sue radici, è paralizzato, appassisce. Sovradeterminare
l'ambiente fisico significa renderlo fisiologicamente ostile. Annegare
l'uomo nel benessere significa incatenarlo al monopolio radicale.
Corrompere l'equilibrio del sapere significa trasformare l'uomo
in una marionetta dei suoi strumenti. Invischiato nella sua infelicità
climatizzata, l'uomo è castrato: gli resta solo la rabbia, che lo
porta a uccidere oppure a uccidersi.
Poeti e buffoni sono sempre insorti contro l'oppressione dogmatica
del pensiero creativo. Attraverso le metafore, essi svelano il significato
letterale. Nella cornice dell'humour, mettono in mostra l'insensatezza
di ciò che pretende d'esser serio. Col loro ingenuo stupore dissolvono
le certezze, bandiscono i timori e slegano i corpi paralizzati.
Il profeta denuncia le credenze, mette a nudo le superstizioni,
sveglia le persone, ne suscita le forze e l'ardore. Che le ingiunzioni
della poesia, dell'intuizione, della teoria, contro l'avanzata del
dogma sullo spirito riescano a provocare una rivoluzione della consapevolezza,
non è impossibile. Ma condizione perché l'equilibrio del sapere
possa essere raddrizzato è che Chiesa e Stato siano separati, che
burocrazia della verità e burocrazia del benessere siano divise,
che il sapere obbligatorio e forzoso e l'azione politica siano distinti.
La scrittura poetica non farà esplodere la società se non calandosi
nella forma del processo politico.
Già altre volte il Diritto è servito a slegare l'ideologia dalle
leggi. Il Diritto che già difese il corpo sociale dalle esorbitanti
pretese dei chierici, può ora farlo contro quelle degli educatori.
Non corre molta differenza tra l'obbligo di andare a scuola, o altrove,
e quello di andare in chiesa. Un giorno il Diritto potrà realizzare
la separazione tra educazione e politica, su cui si fonda in linea
di principio la società. Ma sin d'ora esso può servire a combattere
la proliferazione del terziario ed il suo impiego per la riproduzione
di un capitalismo del sapere e di una società di classe fondata
sulla reificazione dell'educazione.
Comprendere per davvero l'aumento del costo dell'educazione suppone
che siano note le due facce del problema: prima di tutto, che lo
strumento non conviviale comporta come inevitabile effetto collaterale
un aumento della spesa educativa che presto supera la produttività
totale della società; e in secondo luogo, che un'educazione attrezzata
in maniera non conviviale è economicamente impraticabile.
Il primo aspetto ci fa capire la necessità di passare a una società
in cui lavoro, svago e politica favoriscano l'apprendimento, una
società che funzioni con un minor grado di educazione formale. Il
secondo aspetto ci fa capire la possibilità di attuare delle soluzioni
educative che facilitino un'acquisizione spontanea del sapere, confinando
l'insegnamento programmato a casi limitati e chiaramente specificati.
Su tutta la superficie del pianeta, lo strumento altamente capitalizzato
richiede un uomo imbottito d'uno stock di sapere. Dopo la seconda
guerra mondiale, la razionalizzazione della produzione ha penetrato
le regioni cosiddette arretrate e le metastasi industriali hanno
preso a esercitare sulla scuola un'intensa domanda di personale
programmato. La proliferazione di questo tipo di benessere esige
un appropriato condizionamento per viverci insieme. Ciò che la gente
impara nelle scuole che si moltiplicano in Malesia o nel Brasile
è, innanzi tutto, misurare il tempo con l'orologio del programmatore,
stimare l'avanzamento con gli occhiali del burocrate, apprezzare
l'accresciuto consumo con il cuore del mercante, considerare il
perché del lavoro con gli occhi del responsabile sindacale. Questo
non è il maestro di scuola a insegnarglielo, ma il percorso programmato
prodotto e nello stesso tempo obliterato dalla struttura scolastica.
Ciò che insegna il maestro non ha importanza dal momento che i bambini
devono trascorrere centinaia di ore riuniti per classi d'età, assoggettarsi
alla routine del programma (il percorso o curriculum), e ricevere
un diploma in base alla loro capacità di assoggettarvisi. Che cosa
si impara a scuola? Si impara che più ore vi si passano, più aumenta
il proprio prezzo sul mercato. Si impara a valorizzare il consumo
scaglionato di programmi. Si impara che tutto ciò che è prodotto
da un'istituzione dominante vale e costa caro, anche quello che
non si vede, come l'educazione o la salute. Si impara a valorizzare
l'avanzamento gerarchico, la sottomissione e la passività, e persino
la devianza-tipo che il maestro ama interpretare come sintomo di
creatività. Si impara a brigare senza indisciplina i favori del
burocrate che presiede alle sedute quotidiane, il professore a scuola,
il capo in fabbrica. Si impara a definirsi come detentori di un
capitale di sapere nella specialità in cui si è investito il proprio
tempo. Si impara, infine, ad accettare senza mugugni il proprio
posto nella società, cioè la classe e la carriera precise che
corrispondono rispettivamente al livello e al campo di specializzazione
scolastica.
L'educazione non diventa una necessità soltanto perché occorre diplomare
la gente per selezionare quelli a cui si darà lavoro, ma anche per
controllare quelli che accedono al consumo. E lo sviluppo industriale
stesso che porta l'educazione a esercitare il controllo sociale
indispensabile per un uso efficiente dei prodotti. L'industria edilizia
nei paesi dell'America Latina è un buon esempio delle disfunzioni
educative provocate dagli architetti. In questi paesi, le grandi
città sono contornate da vaste zone, favelas, barriadas o
poblaciones, dove la gente si costruisce i suoi ripari da
sola. Non costerebbe molto prefabbricare degli elementi d'abitazione
e per servizi comuni facili da montare: la gente potrebbe costruirsi
abitazioni più durevoli, più confortevoli e più salubri, e nello
stesso tempo apprenderebbe l'uso di nuovi materiali e di nuovi sistemi.
Invece di questo, invece di incoraggiare l'attitudine innata nell'uomo
a modellare il proprio ambiente, i governi paracadutano su queste
bidonvilles dei servizi comuni concepiti per una popolazione che
viva in case di tipo moderno. Con la loro semplice presenza, la
superstrada asfaltata, la scuola nuova e il posto di polizia in
vetro e acciaio definiscono come modello l'edificio disegnato e
costruito da specialisti, e in tal modo appongono sulla casa che
ci si costruisce da soli il marchio della bidonville, riducendola
a non essere altro che una baracca di latta. Questa definizione
è poi consacrata dalla legge, la quale rifiuta il permesso di costruire
a chi non può presentare un progetto firmato da un architetto. Così
si spoglia la gente della sua attitudine naturale a investire il
proprio tempo personale nella creazione di valori d'uso, e la si
obbliga a un lavoro salariato: potrà così scambiare il suo salario
con lo spazio industrialmente condizionato. E la si spoglia anche
della possibilità di imparare facendo. Il tipo di costruzione che
la scuola ha reso possibile rende a sua volta necessaria la scuola.
La società industriale esige che alcuni siano programmati per guidare
camion, altri per costruire case. Ad altri ancora si deve insegnare
a vivere nei grandi complessi. Insegnanti, assistenti sociali e
poliziotti lavorano a braccetto per mantenere la popolazione sottopagata
o parzialmente disoccupata in case che né si è fatta da sé né può
modificare. In tal modo l'economia realizzata nella costruzione
di simili complessi abitativi fa aumentare, naturalmente, il costo
di manutenzione dell'immobile, ma esige inoltre per spese terziarie
un multiplo della somma risparmiata: per istruire, animare, promuovere,
ossia per controllare, conformare e condizionare il locatario. Per
sistemare più persone su una superficie minore, il Brasile e il
Venezuela hanno fatto l'esperimento dei grandi immobili. Dapprima
è stato necessario che la polizia sloggiasse la gente dalle «catapecchie»
e la rialloggiasse in appartamenti. Poi gli assistenti sociali si
sono cimentati nel duro compito di socializzare dei locatari non
sufficientemente scolarizzati per comprendere da soli che non si
allevano maiali sul balcone di un undicesimo piano e non si coltivano
fagiolini rossi nella vasca da bagno.
A New York chi non ha dodici anni di scolarità è considerato alla
stregua di un invalido: diventa inoccupabile e cade sotto la tutela
di assistenti sociali che decidono come dovrà vivere. Il monopolio
radicale dello strumento sovrefficiente estorce al corpo sociale
un crescente (e costoso) condizionamento dei suoi clienti. Le automobili
prodotte dalla Ford richiedono, per essere riparate, dei meccanici
periodicamente riciclati dalla fabbrica stessa. I fautori del «miracolo
verde» selezionano delle sementi ad alto rendimento le quali possono
essere usate solo da una minoranza che disponga di un duplice concime:
quello chimico e quello dell'educatore. Più salute, più velocità
e più raccolto significano individui più ricettivi, più passivi,
più disciplinati. Le scuole produttrici di controllo sociale, prendendo
a proprio carico la maggior parte del costo di queste discutibili
conquiste, con ciò stesso lo mascherano.
Cedendo alle pressioni esercitate su di lei in nome del controllo
sociale, la scuola tocca e supera la sua seconda soglia critica.
I pianificatori fabbricano programmi più variati e più complessi,
la cui utilità marginale per ciò stesso diminuisce.
Mentre la scuola allarga il campo delle sue pretese, altri servizi
si scoprono una missione educatrice. La stampa, la radio e la televisione
non sono più soltanto mezzi di comunicazione, dal momento che le
si mette coscientemente al servizio dell'integrazione sociale. I
settimanali aumentano la loro diffusione riempiendosi di informazioni
stereotipate, diventano dei prodotti finiti che forniscono già bell'e
confezionata un'informazione filtrata, asettica, predigerita. Questa
«migliore» informazione soppianta l'antica discussione del fòro
dei semplici, della plaza; col pretesto di informare, suscita
una docile bulimia di alimenti precotti e uccide la capacità naturale
di scegliere, padroneggiare, organizzare l'informazione. Si offre
al pubblico qualche vedette o qualche specialista volgarizzato
dai confezionatori del sapere, mentre la voce dei lettori viene
confinata, dopo attenta selezione, nella rubrica delle «lettere
al direttore» o nelle docili risposte alle varie inchieste promosse
dallo stesso rotocalco.
Ora, gli uomini non hanno bisogno di una maggiore quantità di insegnamento.
Hanno bisogno di imparare certe cose. Bisogna che imparino a rinunciare,
il che non si apprende a scuola, che imparino a vivere entro certi
limiti, come è necessario per esempio per far fronte al problema
della natalità. La sopravvivenza umana dipende dalla capacità degli
interessati di imparare presto, da loro stessi, quello che
non possono fare. Gli uomini devono imparare a controllare
la loro riproduzione, il loro consumo e il loro uso delle cose.
E impossibile educare la gente alla povertà volontaria, così
come l'autocontrollo non può essere il risultato di una manipolazione.
E impossibile insegnare la rinuncia gioiosa ed equilibrata,
in un mondo strutturalmente tutto orientato a produrre sempre di
più ed a creare l'illusione che ciò costi sempre meno.
Bisogna (per scegliere un esempio) che tutti imparino il perché
e il come del controllo delle nascite. Il motivo è chiaro: l'uomo
si è evoluto su una particella del cosmo; il suo universo, circoscritto
dalle risorse dell'ecosfera, non può ammettere che un numero limitato
di occupanti. La tecnica ha modificato le caratteristiche di questa
nicchia ecologica e l'ecosfera può ora accogliere più abitanti,
ciascuno meno adatto vitalmente al proprio ambiente, ciascuno avente
in media meno spazio, meno competenza, meno tradizione. Il tentativo
di fabbricare un ambiente «migliore» si è rivelato altrettanto presuntuoso
quanto quello di «migliorare» la salute, l'educazione o la comunicazione.
Il risultato è che oggi c e più gente che si sente sempre meno a
proprio agio. I nuovi strumenti che hanno favorito la crescita della
popolazione non possono assicurarne la sopravvivenza. L'entrata
in funzione di nuovi strumenti ancora più potenti accresce il numero
dei frustrati più rapidamente di quanto accresca il totale della
popolazione. Su un mercato stracolmo, la carenza si accentua ed
esige sempre più la programmazione dei clienti.
Il successo di qualunque pianificazione riposa su un fattore-chiave:
il controllo del numero degli individui per i quali si pianifica.
Ma, fino a oggi, tutte le pianificazioni demografiche sono fallite:
la gente limita le nascite solo quando l'abbia deciso per proprio
conto. Il paradosso è che l'uomo oppone la sua più forte resistenza
proprio all'insegnamento di cui avrebbe maggiormente bisogno. Qualunque
programma di controllo delle nascite condotto sul modello industriale
avrà lo stesso decorso che hanno avuto altri sforzi di terapia imposta,
come la scuola e l'ospedale. All'inizio giocherà l'effetto di seduzione;
poi verrà l'escalation dell'aborto e della sterilizzazione obbligatori;
alla fine si avrà l'argomento decisivo per perpetrare genocidi,
paupericidi e altre forme di megamorte. L'orrore dell'applicazione
della scienza moderna a strutture manipolatrici non si presenta
in nessun altro campo con tanta mostruosa evidenza come nel campo
demografico.
Senza la pratica di una contraccezione volontaria ed efficace, l'umanità
sarà schiacciata dal proprio numero prima ancora d'essere schiacciata
dalla potenza dei propri strumenti. Ma la generalizzazione della
contraccezione non può in alcun caso esser opera di un'organizzazione
manipolatrice dotata di un suo strumento miracoloso. Una nuova pratica,
opposta a quella d'oggi, può derivare solo da un nuovo rapporto
tra l'uomo e il suo strumento: per essere efficace, la contraccezione
esige che si generalizzi quella mentalità conviviale che sola rende
possibile il controllo dello strumento in questione.
I sistemi richiesti dal controllo delle nascite sono l'esempio-tipo
dello strumento conviviale moderno: integrano i dati della scienza
più avanzata con arnesi utilizzabili al prezzo di un minimo di buon
senso e di esperienza. Tali sistemi offrono un insieme di nuovi
mezzi per esercitare le pratiche millenarie di contraccezione, sterilizzazione
e aborto. Grazie al loro basso costo, possono esser resi accessibili
a chiunque. Data la loro varietà, si conciliano con le credenze,
le occupazioni e le situazioni più diverse. Con ogni evidenza, sono
strumenti che strutturano la relazione che ciascuno ha con il proprio
corpo e con gli altri. Sono predestinati all'uso conviviale.
Il controllo delle nascite è un'impresa da realizzare entro un tempo
ridottissimo. Non potrà essere realizzata se non in modo conviviale.
E un controsenso pretendere di imporre a una popolazione l'uso dello
strumento conviviale negli atti riguardanti la sfera sessuale, e
per un altro verso continuare a condizionarla al solo consumo in
tutte le altre sfere (inclusa la fantasia sessuale). E assurdo chiedere
a un contadino brasiliano di usare da solo il preservativo, dopo
che gli si è insegnato a dipendere dal medico per le iniezioni
e le ricette, dall'avvocato per risolvere una lite e dall'insegnante
per imparare a leggere e scrivere. E un controsenso oggi legiferare
sull'aborto come «atto medico» quando è divenuto più semplice che
mai riconoscere l'inizio di una gravidanza o interromperla. Ma non
è meno utopistico immaginare che in India l'istituzione medica affidi
di sua volontà la sterilizzazione a degli assistenti analfabeti
addestrati allo scopo. Il giorno in cui gli interessati prenderanno
coscienza che questa delicata operazione può essere eseguita altrettanto
bene, se non meglio, da un profano, purché sia capace dell'attenzione
e dell'abilità che sono per esempio richieste per la pratica ancestrale
della tessitura di un san, quel giorno segnerà la fine del
monopolio dei medici su tutta una serie di operazioni non tanto
costose da essere escluse per i più. Via via che strumenti postindustriali
razionali si diffonderanno, i tabù dello specialista seguiranno
l'attrezzatura industriale nella sua caduta come l'avevano accompagnata
nella sua gloria. Lo strumento semplice, povero, trasparente è un
umile servitore e condizione per interscambi personali; lo strumento
elaborato, complesso, arcano è un padrone arrogante e si erge come
barriera fra uomo e uomo.