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LETTERE A LUCILIO di Seneca

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LIBRO NONO

75

1 Ti lamenti perché ti invio lettere scritte con minore ricercatezza. Ma con ricercatezza si esprime solo chi vuole essere manierato. Io voglio, invece, che le mie lettere siano quali sarebbero le mie parole se sedessimo o passeggiassimo insieme: semplici e chiare; non voglio che abbiano niente di artificioso o di falso. 2 Se fosse possibile, preferirei mostrarti più che esprimerti i miei sentimenti. Anche se discutessi, non batterei i piedi e nemmeno agiterei le mani o alzerei la voce, ma lascerei tutti questi artifici agli oratori, accontentandomi di esternarti i miei sentimenti senza fronzoli o sciatterie. 3 Un'unica cosa vorrei mostrarti chiaramente: che sento in me tutto quello che dico e non solo lo sento, ma lo amo. Gli uomini baciano l'amante in modo diverso che i figli, ma anche in questo abbraccio così puro e misurato l'affetto è abbastanza evidente. Non voglio, perbacco, che si usi un linguaggio arido e scarno per argomenti tanto importanti: la filosofia non rinunzia all'elaborazione formale; non conviene, però sprecare fatica per le parole. 4 Il nostro principale proposito deve essere di dire quello che sentiamo e di sentire quello che diciamo; vita e parole devono essere coerenti. Mantiene il suo impegno chi è sempre lo stesso a parole e a fatti. Vedremo le sue qualità e la sua grandezza: è il medesimo. 5 Le nostre parole non devono essere piacevoli, ma utili. E tuttavia, se l'eloquenza scaturisce senza sforzo, facile o spontanea, ben venga e tratti argomenti di grande rilievo: ma evidenzi la sostanza, non se stessa. Le altre arti riguardano interamente la mente, qui è in gioco la salvezza dell'anima. 6 L'ammalato non cerca un medico eloquente, ma se gli capita un uomo che possa guarirlo e che nello stesso tempo parli forbitamente delle cure necessarie, ne sarà contento. Non c'è, tuttavia, motivo di rallegrarsi per aver incontrato un medico tanto eloquente; è come se un esperto pilota fosse anche bello. 7 Perché solletichi le mie orecchie? Perché le blandisci? Ben altro è in gioco: devo essere cauterizzato, operato, messo a dieta. Questo è il tuo compito: devi curare una malattia di vecchia data, grave, diffusa; hai da fare quanto un medico in una epidemia. Ti preoccupi delle parole? Rallegrati se riesci a fare quello che devi. Quando imparerai tante cose? Quando fisserai le nozioni che hai appreso in modo da non dimenticarle più? Quando le metterai in pratica? Non basta, come le altre, ricordarle a memoria: bisogna sperimentarle in concreto; non è felice chi le conosce, ma chi le applica.

8 "Ma come? Al di sotto del saggio non ci sono altri stadi? Subito dopo la saggezza c'è l'abisso?" Credo di no; chi sta progredendo è ancora nel numero degli stolti, ma c'è già un notevole distacco. E anche tra quegli stessi che stanno progredendo ci sono grandi differenze: certi li dividono in tre gruppi.

9 Primo: quelli che non possiedono ancora la saggezza, ma le sono ormai arrivati vicino; nondimeno anche ciò che è vicino è fuori. Chi sono? Quegli uomini che si sono liberati da tutte le passioni e i vizi e hanno imparato i concetti necessari, ma non hanno messo alla prova il loro impegno. Non hanno ancora dimestichezza col bene che hanno raggiunto e tuttavia non possono più cadere negli errori da cui sono fuggiti; sono ormai arrivati a un punto da dove non possono cadere all'indietro, ma questo non lo hanno ancora chiaro: ricordo di averlo scritto in una lettera: "Non sanno di sapere." Usufruiscono del loro bene, ma non ne sono ancora sicuri. 10 Alcuni comprendono in questa classe di neofiti, di cui si è detto, quegli uomini che sono ormai sfuggiti alle malattie dell'anima, ma non alle passioni, e stanno ancora su un terreno malcerto, perché solo chi si è scrollato di dosso la malvagità non corre più nessun pericolo; ma se l'è scrollata di dosso solo chi in cambio ha conquistato la saggezza. 11 Ho già parlato spesso della differenza tra passioni e malattie dello spirito. Ma voglio ricordartela anche adesso: malattie sono i vizi radicati e tenaci come l'avarizia o l'ambizione; hanno avviluppato strettamente l'anima e sono diventati mali permanenti. Per farla breve: malattia è il pervicace proposito al male, come ricercare con accanimento beni trascurabili; o, se preferisci, concludiamo così: aspirare troppo a beni che vanno ricercati con moderazione o tralasciati del tutto, oppure apprezzare molto beni di scarso o di nessun valore. 12 Le passioni, invece, sono i moti dell'anima riprovevoli, improvvisi e violenti, che, ripetuti e trascurati, provocano la malattia; facciamo un esempio: il catarro, quando è un'affezione momentanea ed episodica, porta la tosse, ma se è cronico e di vecchia data fa venire la tisi. Perciò chi ha fatto molti progressi è ormai fuori dal pericolo di malattie, ma nonostante sia vicino alla perfezione avverte ancora le passioni.

13 Al secondo gruppo appartengono quegli uomini che si sono liberati dai mali peggiori dell'anima e dalle passioni, ma non al punto da essere sicuri della conquistata serenità: possono, difatti, ripiombare nei medesimi vizi.

14 Il terzo gruppo si è liberato di molti gravi vizi, ma non di tutti. È sfuggito all'avarizia, ma è ancora soggetto all'ira; non è più preda della lussuria, ma lo è ancora dell'ambizione; non ha desideri sfrenati, ma ha ancora molte paure, e nella paura di fronte a certe evenienze è abbastanza fermo, di fronte ad altre cede: disprezza la morte, teme il dolore.

15 Facciamo qualche riflessione su questo punto: ci va già bene se apparteniamo all'ultimo gruppo. Il secondo possiamo raggiungerlo, se abbiamo una buona predisposizione naturale e attraverso un'assidua e grande applicazione allo studio; ma non dobbiamo disprezzare nemmeno il terzo gruppo. Pensa a quanti mali vedi intorno a te; guarda quanti esempi di ogni delitto, quanto si diffonda giorno dopo giorno la malvagità, quali colpe si commettano nella sfera pubblica e privata: capirai che è già un buon risultato se non siamo tra i peggiori. 16 "Ma io spero," mi dici, "di poter far parte anche del gruppo superiore." Più che prometterlo, io lo desidererei: siamo assaliti da ogni parte, aspiriamo alla virtù assediati dai vizi. Mi vergogno a dirlo: curiamo la virtù nei ritagli di tempo. Ma che grande premio ci aspetta se riusciamo a farla finita con le nostre occupazioni e con i mali più incalliti. 17 Non ci colpiranno cupidigia e terrore; senza i turbamenti della paura e la corruzione dei piaceri non avremo più timore della morte e neppure degli dèi; ci renderemo conto che la morte non è un male e che gli dèi non ci fanno del male. Quello che nuoce è debole quanto colui a cui nuoce: gli esseri migliori non hanno forza nociva. 18 Se un giorno riusciremo ad arrivare da questa feccia in quel mondo sublime ed eccelso, ci aspettano la serenità e, dissipati tutti gli inganni, una libertà incondizionata. Cos'è questa libertà? Non temere gli uomini e nemmeno gli dèi: non concepire desideri turpi o sfrenati, avere un grandissimo dominio di se stessi; appartenersi è un bene inestimabile. Stammi bene.

 

76

1 Minacci di non essermi più amico, se non ti informerò di tutto quello che faccio giornalmente. Guarda come sono schietto con te: ti confiderò anche questo. Vado a sentire un filosofo; già da cinque giorni frequento la sua scuola e lo ascolto parlare alle due del pomeriggio. "È proprio l'età giusta!" osservi. E perché non dovrebbe essere quella giusta? È da stupidi non voler imparare solo perché per tanto tempo non lo si è fatto. 2 "E allora? Dovrei fare come i bellimbusti e i giovanotti?" Mi va bene se è l'unica cosa sconveniente alla mia vecchiaia: questo tipo di scuola ammette uomini di ogni età. "E noi invecchiamo per seguire i giovani?" Sono vecchio, eppure andrò a teatro, al circo, assisterò a tutti gli spettacoli di gladiatori e dovrei arrossire perché vado a scuola da un filosofo? 3 Devi imparare finché non sai; anzi, a credere al proverbio, finché vivi. Il che torna perfettamente con quanto segue: finché hai vita devi imparare a vivere. Tuttavia anch'io insegno qualcosa lì. Che cosa? Che anche un vecchio deve imparare. 4 Ogni volta che entro a scuola mi vergogno del genere umano. Per andare a casa di Metronatte si deve, come sai, oltrepassare il teatro dei Napoletani. È strapieno e vi si giudica con grande attenzione chi sia un buon flautista; anche il trombettiere greco e l'araldo richiamano molta gente: ma in quella scuola dove si ricerca l'uomo virtuoso e si impara a diventare virtuosi, ci sono pochissime persone, e i più ritengono che costoro non hanno niente di buono da fare; li definiscono inetti e fannulloni. Tocchi anche a me questo scherno: gli insulti degli ignoranti bisogna ascoltarli senza scomporsi e se uno aspira alla virtù deve disprezzare il disprezzo stesso.

5 Vai avanti, Lucilio, e affrettati, perché non ti accada come a me, di imparare da vecchio; anzi affrettati ancora di più perché hai intrapreso studi che potresti a stento concludere da vecchio. "Quanti progressi farò?" mi chiedi. Proporzionati ai tuoi sforzi. 6 Che aspetti? A nessuno capita di diventare saggio per caso. Il denaro arriverà spontaneamente; una carica sarà offerta, favori e crediti ti verranno forse messi davanti: ma la virtù non può capitarti per caso. E neppure la si può apprendere con poca fatica o scarso impegno; ma vale la pena darsi da fare per conquistare tutti i beni in una sola volta. L'unico bene è l'onestà: negli altri apprezzati dalla massa non troverai niente di vero, niente di sicuro. 7 Secondo te, nella mia lettera precedente non ho trattato il problema esaurientemente e ho dedicato più spazio alle lodi che alla dimostrazione; ti ripeterò allora in breve perché sostengo che la virtù sia l'unico bene.

8 Ogni cosa vale per il bene che ha in sé: la fertilità e il sapore del vino dà pregio alla vite, la velocità al cervo; dei cavalli da tiro, che sono utilizzati solo per il trasporto di carichi, si chiede se hanno la schiena forte; la principale qualità di un cane è il fiuto, se deve scovare le fiere, la velocità se deve inseguirle, il coraggio, se deve assalirle e azzannarle; ognuno deve raggiungere la perfezione in quello per cui nasce, per cui viene valutato. 9 E nell'uomo qual è la caratteristica migliore? La ragione: grazie a essa è superiore agli animali e di poco inferiore agli dèi. Quindi la ragione perfetta è un suo bene peculiare; le altre qualità le ha in comune con gli animali e le piante. È forte: lo è anche il leone. È bello: anche il pavone. È veloce: anche il cavallo. Senza dire che in tutte queste qualità è superato; io non cerco la sua qualità migliore, ma quella sua propria. Ha un corpo: anche gli alberi. Ha slanci e movimenti volontari: li hanno anche le bestie, anche i vermi. Ha la voce: ma i cani ce l'hanno tanto più forte, le aquile più acuta, i tori più profonda, gli usignoli più dolce e agile. 10 Qual è la qualità peculiare dell'uomo? La ragione: se questa è onesta e perfetta, dà all'uomo una felicità completa. Quindi se ogni cosa, quando ha portato a perfezione il suo bene, è lodevole e raggiunge il suo fine naturale, e il bene proprio dell'uomo è la ragione, se egli lo ha portato a perfezione, è lodevole e ha toccato il suo fine naturale. La ragione perfetta si chiama virtù e coincide con l'onestà. 11 Pertanto è l'unico bene nell'uomo, poiché è l'unico bene proprio dell'uomo: noi non stiamo cercando che cosa sia il bene, ma quale sia il bene proprio dell'uomo. Se esso consiste solo nella ragione, questa sarà l'unico suo bene, ma va confrontato con tutti gli altri. Se uno è malvagio, verrà, a mio parere, giudicato negativamente; se è buono, positivamente. Quindi, nell'uomo, primo e solo bene è quello per cui egli riceve approvazione e disapprovazione.

12 Tu non dubiti che questo sia un bene, dubiti che sia il solo bene. Se uno ha tutti gli altri beni, salute, ricchezza, antenati famosi, una massa di clienti, ma è chiaramente un malvagio, lo disprezzerai; così se uno non ha alcuno dei beni suddetti, è privo di denaro, di clienti, di nobiltà e di una sfilza di avi e bisavoli, ma è palesemente virtuoso, lo apprezzerai. Quindi è questo l'unico bene dell'uomo: chi lo possiede, anche se gli mancano gli altri beni, merita apprezzamento; chi non lo possiede, è disapprovato e disprezzato, benché di tutti gli altri beni ne abbia in abbondanza. 13 Identica la condizione dell'uomo e quella delle cose: non si definisce buona la nave dipinta con colori preziosi o quella col rostro d'oro o d'argento o che ha il dio protettore scolpito in avorio o che è carica di tesori o ricchezze degne di un re, ma quella stabile e sicura, compatta in modo che non entri acqua, solida e resistente alla furia del mare, docile al timone, veloce e non soggetta alla violenza del vento; 14 non definirai buona una spada se ha il cinturino d'oro o il fodero tempestato di gemme, ma se ha la lama dal taglio affilato e una punta in grado di trapassare ogni difesa; non si richiede che una riga sia bella, ma che sia perfettamente diritta: ogni oggetto è apprezzato in virtù dell'uso per cui è fatto e che gli è proprio. 15 Dunque, anche in un uomo non importa quanta terra abbia, quanto frutto ricavi dai suoi capitali, quanta gente gli renda omaggio, se dorme in un letto prezioso, se beve in una coppa scintillante, ma la sua onestà. Ed è onesto se la sua ragione è libera, giusta e realizzata in armonia con l'inclinazione della sua natura. 16 Questa si chiama virtù, questa è l'onestà ed è l'unico bene dell'uomo. Solo la ragione può rendere perfetto l'uomo, solo la ragione, quindi, può renderlo perfettamente felice e questo è l'unico bene che da solo rende felici. Noi definiamo beni anche quelli che scaturiscono e nascono dalla virtù, cioè tutte le sue opere; perciò la virtù è l'unico bene, poiché non esiste bene senza di lei. 17 Se ogni bene risiede nell'anima, tutto ciò che la rafforza, la innalza, l'accresce, è un bene; ma è la virtù a rendere più forte, più eccelsa, più grande l'anima. Gli altri beni che accendono i nostri desideri, avviliscono l'anima, la abbattono e apparentemente la elevano, in realtà la gonfiano e la ingannano con false apparenze. Quindi l'unico bene è quello che rende migliore l'anima. 18 Ogni azione dell'intera nostra esistenza è regolata dalla considerazione del bene e del male; su di essi si basa la norma dell'agire e del non agire. Ecco qual è: l'uomo virtuoso farà quello che ritiene onesto anche se gli costerà fatica, anche se lo danneggerà o sarà rischioso; non compirà, invece, un'azione indegna, anche se gli procurerà denaro o piacere o potenza: niente lo distoglierà dal bene, niente lo indurrà al male. 19 Quindi, se perseguirà sempre l'onestà, eviterà sempre la disonestà e in ogni azione della sua vita terrà presente questi due principî, non c'è altro bene che l'onestà, non c'è altro male che la disonestà; se solo la virtù è incorrotta e sola rimane sempre uguale a se stessa, la virtù è l'unico bene e non può succedere che non sia un bene. Non corre il pericolo di cambiare: lo stolto può salire con fatica alla saggezza, il saggio non può ripiombare nella stoltezza.

20 Ho già detto, se te ne ricordi, che molti obbedendo a uno slancio inconsulto si sono messi sotto i piedi tutto quello che la massa desidera o teme: abbiamo trovato uomini che hanno rinunciato alla ricchezza, che hanno messo la mano nel fuoco, che hanno continuato a sorridere anche sotto tortura, che non hanno versato una sola lacrima al funerale dei figli, che hanno affrontato coraggiosamente la morte; amore, ira, ambizione li hanno portati a sfidare i pericoli. Se arriva a tanto una momentanea risolutezza, prodotta da un qualche stimolo, quanto più potrà compiere la virtù: la sua forza non dipende da un impulso improvviso, ma è sempre uguale a se stessa e duratura. 21 Ne consegue che quanto viene disprezzato spesso da gente temeraria e sempre dai saggi, non è né bene, né male. La virtù è, quindi, l'unico bene e avanza superba tra la buona e la cattiva sorte, disprezzandole entrambe.

22 Se, invece, ti convincerai che c'è qualche altro bene oltre l'onestà, vacilleranno tutte le virtù; non potrà mantenersene nessuna, se prenderà in considerazione altro fuori di sé. Se è così, questa affermazione contrasta con la ragione da cui scaturiscono le virtù, e con la verità, che non esiste senza la ragione; ma qualunque opinione sia in contrasto con la verità, è falsa. 23 Devi ammettere che un uomo virtuoso ha una grandissima venerazione per gli dèi. Sopporterà perciò con animo sereno tutto quello che gli accade; sa che è accaduto per la legge divina che muove l'universo. Se è così, per lui l'unico bene sarà l'onestà; essa comprende l'obbedienza agli dèi, non adirarsi per gli imprevisti, non deplorare la propria sorte, ma accogliere con rassegnazione il destino e fare quello che comanda. 24 Se c'è qualche altro bene oltre all'onestà, ci perseguiterà la bramosia di vivere, la bramosia dei beni che corredano la vita, tutti desideri insopportabili, senza limiti e incerti. Il solo bene è dunque l'onestà che ha una misura.

25 Come ho già detto, la vita degli uomini sarebbe più felice di quella degli dèi, se fossero veri beni quelli di cui gli dèi non godono, come il denaro, gli onori. Aggiungi ora che, se pure le anime sopravvivono alla morte del corpo, le aspetta una condizione più felice di quando si trovano nel corpo. Se, però, sono beni veri quelli di cui godiamo per mezzo del corpo, una volta persi, la condizione dell'anima sarebbe peggiore; ma è impossibile credere che le anime chiuse e oppresse nei corpi siano più felici che libere e proiettate nell'universo. 26 Avevo anche detto che se sono veri beni quelli che toccano tanto agli uomini quanto agli animali, anche gli animali vivrebbero una vita felice; e questo non è assolutamente possibile. Per la virtù bisogna sopportare tutto, ma ciò non sarebbe necessario se ci fosse qualche altro bene oltre la virtù.

Ho riassunto ed esposto in breve questi concetti sebbene li abbia trattati più ampiamente in precedenza. 27 Ma tu non potrai mai condividere un'opinione come questa, se non elevi il tuo spirito e non ti domandi se saresti pronto a offrire non solo con rassegnazione, ma anche volentieri, la testa, nel caso che le circostanze richiedano di morire per la patria e di pagare con la vita la salvezza di tutti i cittadini. Se la risposta è sì, non esiste nessun altro bene, perché tu rinunci a tutto per ottenerlo. Guarda quanta forza ha la virtù: morirai per la patria, anche se dovrai farlo subito, non appena ti renderai conto che è tuo dovere. 28 A volte da una nobilissima azione deriva una gioia grande anche se breve; per quanto il frutto dell'impresa non tocchi a chi muore e sia strappato alla vita, tuttavia, fa piacere pensare all'azione che si compirà, e l'uomo forte e giusto, se considera il prezzo del suo sacrificio, cioè la libertà della patria e la salvezza di tutti quegli uomini per i quali si immola, prova una straordinaria gioia e gode del pericolo che affronta. 29 Ma anche l'uomo che è privato della gioia data da quel supremo nobilissimo gesto, correrà senza esitare verso la morte, contento di agire secondo giustizia e dovere. Opponigli ancora altri argomenti per dissuaderlo; digli: "Al tuo gesto seguirà un immediato oblio e l'ingratitudine dei cittadini". Ti risponderà: "Tutto questo non riguarda la mia impresa, la considero per se stessa; sono convinto che sia onesta e perciò vado dovunque mi conduca e mi chiami".

30 Questo, dunque, è l'unico bene e lo avverte non soltanto l'animo perfetto, ma anche l'animo generoso e di indole buona: gli altri beni sono futili e instabili. Perciò il loro possesso non dà serenità; anche se la fortuna propizia li ha concentrati in un solo individuo, pesano su chi li possiede, lo opprimono sempre, a volte lo ingannano. 31 Nessuno di questi dignitari che vedi è felice, non più di quanto lo siano gli attori ai quali il copione assegna lo scettro e il manto sulla scena: in presenza del pubblico avanzano fieri e alti sui coturni, ma appena escono, se li tolgono e ritornano alla loro statura. Non è grande nessuno di quegli uomini che le ricchezze e gli onori mettono in una condizione privilegiata. E perché, allora, sembra grande? Perché lo misuri insieme al piedistallo. Un nano, anche se sta su un monte, non è alto; un gigante mantiene la sua altezza anche in un fosso. 32 Fatalmente commettiamo questo errore: non stimiamo nessuno per quello che è: gli aggiungiamo anche tutti gli orpelli. Ma se vuoi fare una valutazione esatta di un uomo e sapere com'è veramente, esaminalo spoglio di tutto; deponga il patrimonio, deponga le cariche e gli altri inganni della fortuna, si spogli anche del corpo: guarda alla qualità e alla grandezza della sua anima, se è grande per beni propri o estranei. 33 Stimalo felice, se vede balenare lame davanti ai suoi occhi e non li abbassa né gli importa di rendere l'anima dalla bocca o dalla gola; se minacce di tortura gli vengono dalla sventura o dalla violenza di un potente, se è condannato al carcere o all'esilio o è messo di fronte a circostanze che riempiono di vano terrore l'animo degli uomini e non trema, ma esclama:

o vergine, nessuna pena mi giunge nuova o inaspettata; tutto ho previsto, tutto ho considerato nell'animo mio.

"Tu oggi mi annunci queste disgrazie: io le ho sempre annunciate a me stesso e come uomo mi sono preparato al destino umano." 34 Non è duro il colpo inferto da una disgrazia prevista. Ma se uno è sciocco e si affida alla sorte, ogni avvenimento gli sembra nuovo e inaspettato; per gli ignoranti gran parte del male è rappresentato dalla novità. Sappi questo: le disgrazie che sembravano loro intollerabili, le sopportano con più coraggio quando ci hanno fatto l'abitudine. 35 Perciò il saggio si abitua ai mali futuri e, mentre per gli altri diventano sopportabili dopo una lunga sofferenza, egli li rende tali con una lunga meditazione. Certe volte sentiamo dire da un ignorante: "Questo me lo aspettavo"; il saggio si aspetta tutto; qualunque cosa gli capiti, dice: "Me l'aspettavo." Stammi bene.

 

77

1 Oggi sono comparse improvvisamente le navi alessandrine, che di solito precedono la flotta e ne preannunciano l'arrivo: si chiamano "navi staffetta". In Campania le vedono arrivare volentieri: tutta la popolazione di Pozzuoli si accalca sul molo e anche in mezzo a tante navi riconosce quelle alessandrine dal tipo di vele: solo a esse è consentito spiegare la vela di gabbia che tutte le navi alzano in alto mare. 2 Non c'è niente che favorisca la velocità della nave quanto la parte alta della velatura; è da qui che la nave riceve la spinta maggiore. Perciò quando il vento cresce ed è più forte del dovuto, l'antenna viene abbassata: in basso il soffio ha meno forza. Quando arrivano in prossimità di Capri e del promontorio da cui

Pallade su una cima tempestosa guarda dall'alto,

le altre navi devono ridurre la velatura: la vela di gabbia è il segno distintivo delle navi alessandrine.

3 Mentre tutti si precipitavano alla spiaggia, ho tratto un enorme piacere dalla mia pigrizia: dovevo ricevere lettere dai miei amministratori e non mi affrettavo per conoscere la situazione dei miei affari laggiù e che notizie mi portassero: già da tempo per me non ci sono né perdite né guadagni. Avrei dovuto pensarla così anche se non fossi vecchio e quindi ancor più adesso: per quanto poco io abbia, sono provviste superiori al cammino che mi rimane, soprattutto perché ho imboccato una via che non è necessario percorrere fino in fondo. 4 Un viaggio è incompiuto se ci si ferma a mezza strada o prima del punto stabilito; la vita non è incompiuta, se è virtuosa. Dovunque la concludi, se la concludi bene, è completa. Spesso poi bisogna farla finita con coraggio per cause che non sono tra le più importanti: del resto non sono importantissimi neppure i motivi che ci tengono in vita.

5 Tullio Marcellino, che tu conoscevi molto bene, un ragazzo tranquillo e invecchiato di colpo, colpito da una malattia non inguaribile, ma lunga e fastidiosa e che esigeva molte cure, cominciò a pensare al suicidio. Riunì intorno a sé numerosi amici. Ognuno, o perché era vile, gli consigliava quello che avrebbe fatto egli stesso, o perché era compiacente e adulatore, gli dava il consiglio che supponeva a lui più gradito. 6 Uno stoico mio amico, una personalità fuori dal comune e, per lodarlo con parole degne di lui, un individuo forte e coraggioso, gli rivolse, a mio parere, le parole più opportune: "Mio caro Marcellino, non tormentarti," gli disse, "come se dovessi prendere una decisione fondamentale; vivere non è poi una gran cosa: tutti i tuoi schiavi, tutte le bestie vivono: l'importante è morire con dignità, saggezza e coraggio. Pensa da quanto tempo fai sempre le stesse cose: mangi, dormi, fai l'amore. È un circolo vizioso. Desiderare la morte non è solo un segno di saggezza o di coraggio o di infelicità, ma anche di nausea." 7 Marcellino non aveva bisogno di uno che lo convincesse, ma di uno che lo aiutasse. I servi si rifiutavano di obbedire. Lo stoico intanto li tranquillizzò e mostrò che la servitù si sarebbe trovata in pericolo se fossero nati dubbi sul suicidio del padrone; del resto non era un atto esemplare tanto uccidere il padrone, quanto impedirgli di uccidersi. 8 Allo stesso Marcellino ricordò poi, che sarebbe stato un bel gesto offrire alla fine della vita qualcosa alle persone che per tutta la vita lo avevano servito, come, finita la cena, si dividono gli avanzi tra gli schiavi presenti. Marcellino era generoso e liberale, disposto a dare anche del suo; distribuì così piccole somme tra i servi che piangevano e per giunta cercò di consolarli. 9 Non ebbe bisogno di un'arma o di una morte cruenta: non mangiò per tre giorni e comandò che nella stanza da letto mettessero una tenda. Poi fu portata una tinozza: vi giacque a lungo e a poco a poco mentre versavano l'acqua calda, gli vennero meno le forze, come diceva, non senza un suo piacere, il piacere tipico di quel lieve dissolversi ben noto a me che certe volte perdo i sensi.

10 Mi sono dilungato in una narrazione che certo non ti è sgradita; ti renderai ora conto che la morte del tuo amico è stata facile e priva di sofferenza. È vero che si è dato volontariamente la morte, ma se ne è andato dolcemente, quasi scivolando dalla vita. Non ti avrò certo raccontato questo inutilmente; è spesso la necessità a esigere modelli del genere. Molte volte dovremmo morire e non vogliamo, oppure moriamo e non vogliamo. 11 Nessuno è tanto ignorante da non sapere che un giorno o l'altro dovrà morire; eppure, quando si avvicina l'ora, tergiversa, trema, supplica. Secondo te non sarebbe completamente stupido uno che piangesse per non essere vissuto mille anni prima? Altrettanto stupido è uno che piange perché non sarà vivo fra mille anni. È proprio la stessa cosa: in passato non c'eri, non ci sarai in futuro; futuro e passato non ci appartengono. 12 Sei stato scaraventato in questo punto del tempo: allungalo pure; fin dove ti riuscirà di allungarlo? Cosa piangi a fare? Cos'è che vuoi? Fatica sprecata.

Non sperare che per le tue preghiere mutino i disegni divini.

Sono stati sanciti, sono immutabili, li governa una potente ed eterna necessità: andrai là dove vanno tutti gli esseri. Cos'è che ti sembra nuovo? Tu sei nato sotto questa legge; così è stato per tuo padre, tua madre, i tuoi avi, per tutte le generazioni passate e sarà così per quelle future. Una successione ineluttabile, che nessuna forza può infrangere, vincola e trascina ogni cosa. 13 Che folla di uomini destinati a morire verrà dopo di te, che folla si accompagna a te! Saresti più forte, penso, se insieme a te morissero molte migliaia di individui: eppure, nel preciso momento in cui tu esiti a morire, molte migliaia di uomini e di animali in maniere diverse esalano l'ultimo respiro. Ma non pensavi che prima o poi saresti arrivato alla meta del tuo cammino? Ogni viaggio ha una sua fine.

14 Tu credi che ora mi rifarò a esempi di grandi uomini? No, parlerò di ragazzi. È famoso quel ragazzo spartano ancora imberbe che, fatto prigioniero, gridava nel suo dialetto dorico: "Non sarò schiavo mai"; e mantenne fede alle sue parole: quando gli ordinarono il primo lavoro umiliante e servile, (portare un vaso da notte), si fracassò la testa sbattendola contro la parete. 15 La libertà è così vicina: e c'è chi vive schiavo? Preferiresti che tuo figlio morisse così, o che diventasse vecchio nell'inerzia? Perché dunque turbarti, se anche un fanciullo può morire con coraggio? Metti caso che tu non voglia seguire il destino comune: sarai costretto. Riduci in tuo dominio ciò che dipende da altri. Non imiterai il coraggio di un fanciullo per affermare: "No, non sarò un servo"? Infelice, sei schiavo degli uomini, delle cose, della vita; anche la vita, se manca il coraggio di morire, è una schiavitù. 16 Hai davvero buoni motivi per aspettare? Anche i piaceri, che ti bloccano e ti trattengono, li hai esauriti: non ce n'è nessuno nuovo per te; nessuno che non ti disgusti ormai per la troppa sazietà. Conosci il sapore del vino puro, del vino col miele, non c'è differenza se per la tua vescica ne passano cento o mille anfore: sei solo un filtro. Conosci benissimo il gusto delle ostriche e delle triglie: la tua mollezza non ti ha lasciato nulla di ignoto da godere per gli anni a venire. Eppure sono queste le cose da cui ti stacchi a malincuore. 17 C'è dell'altro che ti dispiace se ti viene strappato? Gli amici? Ma sai essere un vero amico? La patria? Ne fai conto tanto da ritardare la cena? Il sole? Ma se potessi, lo spegneresti! C'è qualche tua azione degna della luce? Confessalo: dalla morte non ti trattengono la politica o gli affari o l'amore per la natura: tu lasci malvolentieri un mercato di viveri, in cui non hai lasciato nessun prodotto. 18 Hai paura della morte: eppure come la disprezzi per una mangiata di funghi! Vuoi vivere: ma ne sei capace? Hai paura della morte: perché? Questa esistenza non è morte? Mentre Gaio Cesare passava per la via Latina, uno dei prigionieri, un vecchio con la barba lunga fino al petto, lo supplicò: "Fammi uccidere!" Gli rispose: "Perché, adesso tu vivi?" Ecco la risposta da dare a quegli individui per i quali la morte sarebbe un rimedio: "Hai paura di morire, perché adesso vivi?" 19 "Ma," può rispondere, "io voglio vivere, compio tante nobili azioni; non ho intenzione di venir meno ai doveri dell'esistenza, doveri che adempio con probità e zelo." Perché? Ignori che uno dei doveri della vita è anche morire? Tu non trascuri nessun obbligo; non hai un numero definito di doveri da compiere. 20 Ogni vita è breve; se guardi alla natura delle cose, è breve anche l'esistenza di Nestore e di Sattia, che ha voluto scritto sulla sua tomba di essere vissuta novantanove anni. Vedi: c'è chi si vanta di una lunga vecchiaia; chi l'avrebbe potuta sopportare se fosse arrivata a cent'anni? La vita è come un dramma; non conta quanto è lunga, ma se viene rappresentata bene. Non importa dove finisci. Finisci dove vuoi, basta che tu chiuda bene. Stammi bene.

 

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1 Ti tormentano continuamente catarro e febbriciattole, inevitabile conseguenza di un catarro cronico e di vecchia data; mi dispiace tanto più perché ci sono passato anch'io per questo genere di malattia: all'inizio non ci feci caso, ero giovane e potevo ancòra sopportare i danni di un male e comportarmi con una certa arroganza nei suoi confronti; poi, dovetti soccombere, e mi ridussi a essere tutto catarro e diventai uno scheletro. 2 Tante volte mi prese la voglia di farla finita: ma mi trattenne la vecchiaia del mio amorevolissimo padre. Pensai non come potevo morire da forte, ma come mio padre non avesse la forza di sopportare la mia scomparsa. Perciò mi imposi di vivere; talvolta anche vivere è un atto di coraggio.

3 Ti dirò che cosa mi diede sollievo; ma prima voglio dirti che quanto mi confortava ebbe per me l'efficacia di una medicina; un conforto onesto diventa una medicina e, se una cosa solleva l'anima, giova anche al corpo. Gli studi furono la mia salvezza. È grazie alla filosofia se mi sono risollevato, se sono guarito; alla filosofia sono debitore della vita, ma questo è il debito più piccolo che ho con lei. 4 Anche gli amici contribuirono molto alla mia guarigione; i loro consigli, le veglie, le conversazioni mi erano di sollievo. Niente, mio ottimo Lucilio, rianima un ammalato e lo sostiene quanto l'affetto degli amici, niente serve tanto a ingannare l'attesa e il timore della morte: non ritenevo di morire, se rimanevano in vita loro. Pensavo, voglio dire, che sarei vissuto non con loro, ma attraverso loro; non mi sembrava di esalare l'anima, ma di trasmetterla. Tutto questo mi diede la volontà di farmi forza e di sopportare ogni tormento; altrimenti è ben triste cosa non avere il coraggio di vivere e aver buttato via il coraggio di morire.

5 Questi sono i farmaci da prendere: il medico ti prescriverà quante passeggiate o quanto moto devi fare; ti raccomanderà di non abbandonarti all'ozio cui si tende quando una malattia costringe all'inattività; di leggere ad alta voce e di esercitare il fiato perché vie respiratorie e polmoni lavorano male; di andare in barca per smuovere le viscere con quel dolce ondeggiare; ti dirà che cosa devi mangiare, quando devi bere vino per darti forza, quando devi astenertene per non provocare e inasprire la tosse. Io ti prescrivo un rimedio adatto non solo a questa malattia, ma a tutta l'esistenza: il disprezzo della morte. Non c'è più nulla di triste, se ci sottraiamo alla paura della morte.

6 In ogni malattia ci sono tre cose gravi: il timore della morte, il dolore fisico, l'interruzione dei piaceri. Della morte si è detto abbastanza, aggiungerò solo questo: è un timore legato non alla malattia, ma alla nostra natura. È successo a tanta gente che una malattia ne allontanasse la morte, e la sensazione di morire fu per loro salutare. Morirai non perché sei ammalato, ma perché vivi. La morte ti attende anche dopo la guarigione; se guarirai, non sarai sfuggito alla morte, ma alla malattia.

7 Torniamo ora ai disagi veri e propri: una malattia provoca forti sofferenze, ma a intervalli che le rendono tollerabili. Un dolore quando è al massimo dell'intensità non dura; nessuno può soffrire intensamente e a lungo: la natura, che ci ama molto, ci ha regolato in modo che il dolore fosse o sopportabile o di breve durata. 8 I dolori più acuti si localizzano nei punti più magri del corpo; i nervi, le giunture e le altre parti più scarne ci fanno soffrire terribilmente quando il male si annida nella loro superficie limitata. Queste parti, però si intorpidiscono presto e l'intensità stessa del dolore le rende insensibili, primo perché lo spirito vitale è impedito nelle sue attività naturali e si deteriora: perde la forza da cui trae vigore e con cui ci stimola; secondo perché gli umori corrotti, quando non hanno più uno sbocco, si neutralizzano da sé e privano di sensibilità quelle parti che hanno riempito in maniera eccessiva. 9 Così la gotta che colpisce mani e piedi e tutti i dolori delle vertebre e dei nervi si calmano quando ottundono le parti che tormentavano; le prime fitte di tutte queste malattie sono lancinanti, poi, se durano, finisce la fase acuta e al dolore subentra l'intorpidimento. Il mal di denti, di occhi, di orecchie è più acuto perché si sviluppa in organi molto piccoli, e lo stesso è, perbacco, per il mal di testa; se, però è troppo violento, provoca delirio e torpore. 10 Perciò un dolore intenso porta questo sollievo: se lo si sente troppo, si finisce necessariamente per non sentirlo più. Ma c'è una cosa che tormenta gli ignoranti nelle sofferenze fisiche: non sono abituati a essere paghi dello spirito; attribuiscono molta importanza al corpo. Perciò l'uomo magnanimo e saggio separa l'anima dal corpo e con la parte migliore di sé, di origine divina, si intrattiene a lungo, con quella corporea lamentosa e fragile, invece, solo lo stretto necessario. 11 "Ma," si obietta, "è fastidioso non godere dei consueti piaceri, astenersi dal cibo, soffrire la sete, la fame." In un primo momento queste privazioni sono gravose, poi il desiderio comincia ad attenuarsi proprio per la spossatezza e l'indebolimento degli organi del desiderio; lo stomaco diventa schifiltoso e all'avidità di cibo subentra la nausea. Anche le voglie si spengono e allora non è duro rinunciare a ciò che non si desidera. 12 Aggiungi che ogni dolore a tratti si placa o, almeno, diminuisce. Inoltre, è possibile prevenirlo e contrastarlo con le medicine; ogni tipo di sofferenza presenta chiari sintomi, specie se ritorna spesso. È, dunque, possibile sopportare la malattia se ne disprezzi le estreme conseguenze.

13 Non renderti più gravosi i tuoi mali, non opprimerti con i lamenti: il dolore è leggero se non lo accresci con la tua suggestione. Se comincerai invece a farti coraggio e a dirti: "Non è niente o almeno è cosa da poco; resistiamo, sta per finire", con questi pensieri lo renderai leggero. Tutto dipende dalla suggestione; e non ne sono soggette soltanto l'ambizione, la lussuria, l'avidità: soffriamo per suggestione. 14 Ognuno è infelice quanto ritiene di esserlo. Ma evitiamo, io la penso così, di lamentarci per i dolori passati dicendo: "A nessuno è mai capitato di peggio. Che sofferenze, che mali ho sopportato! Nessuno pensava che mi sarei ripreso. Quante volte i miei mi hanno pianto, quante volte i medici mi hanno dato per spacciato! Nemmeno sotto tortura si soffre tanto." Anche se questo è vero, ormai è andata: a che serve rivangare i dolori sofferti ed essere infelice ora perché lo sei stato in passato? Tutti ingigantiscono i loro mali e mentono a se stessi! E poi è piacevole che siano finiti quei dolori che è stato duro sopportare: quando il male finisce, è naturale goderne. Due cose, dunque, vanno eliminate: il timore di un nuovo male e il ricordo di quello vecchio; l'uno ancora non mi tocca, l'altro non mi tocca più. 15 Proprio quando uno sta male deve dire:

Forse un giorno mi riuscirà gradito anche il ricordo di queste sofferenze.

Combatta con tutto se stesso; se si arrende, sarà sconfitto, ma vincerà se lotterà contro il dolore. E invece, la maggior parte della gente attira su di sé le disgrazie a cui dovrebbe opporsi. Il male che ti incalza, che ti sovrasta, che non ti dà tregua, se cercherai di sottrarti, ti inseguirà e ti piomberà addosso più pesantemente; se rimarrai saldo e opporrai resistenza, riuscirai a respingerlo. 16 Quanti colpi prendono gli atleti sulla faccia, su tutto il corpo! E tuttavia sopportano ogni sofferenza per desiderio di gloria, non solo durante i combattimenti, ma anche quando si preparano ai combattimenti: l'allenamento stesso è già sofferenza. Vinciamo anche noi ogni male: il premio non è una corona o una palma o un banditore che impone il silenzio per proclamare il nostro nome, ma la virtù e la fermezza d'animo e la pace conquistata in ogni altro campo, se vinciamo una volta un combattimento con la fortuna. 17 "Sento un dolore lancinante." E allora? Non lo senti, se ti comporti come una donnetta? Il nemico è più pericoloso per chi fugge; allo stesso modo una disgrazia dovuta al caso preme di più su chi si arrende e volge le spalle. "Ma è lancinante." E come? Siamo forti solo per portare pesi leggeri? Preferisci una malattia lunga oppure breve e violenta? Se è lunga ha degli intervalli, lascia un po' di respiro, concede molto tempo e necessariamente, come comincia, finisce; una malattia breve e violenta presenta due alternative: o si estingue o estingue. Che differenza c'è se vengo meno io o la malattia? In entrambi i casi finisce la sofferenza.

18 Gioverà anche volgere lo spirito ad altri pensieri e staccarsi dal dolore. Ripensa ai tuoi atti di onestà e di coraggio; considerane gli elementi positivi; ricorda le imprese che più hai ammirato; richiama allora alla memoria tutti gli uomini più forti che hanno sconfitto il dolore: quello che ha continuato a leggere un libro mentre si faceva operare di varici, quello che non ha smesso di sorridere mentre i suoi carnefici, rabbiosi proprio per questo, provavano su di lui tutti gli strumenti della loro crudeltà. Quel dolore che il riso è riuscito a vincere, non lo vincerà la ragione? 19 Ora puoi descrivere quello che vuoi, il catarro e la virulenza di una tosse continua che ti fa vomitare anche le viscere, la febbre che ti brucia il petto, la sete, gli arti storpiati dalla deformazione delle articolazioni: sono, però, peggiori il fuoco, il cavalletto, le piastre roventi, tutto quello che viene cacciato dentro le ferite tumefatte per riaprirle e tormentarle più in profondità. Eppure c'è chi tra queste torture non si è lasciato sfuggire un lamento. Ma questo è poco: non ha implorato. È poco: non ha risposto. È poco: ha riso, e di cuore. Vuoi allora ridertela del dolore dopo questi esempi?

20 "Ma," si dice, "la malattia non mi permette di far niente, mi ha distolto da tutte le mie occupazioni." La malattia colpisce il corpo, non lo spirito. Può impedire i piedi del corridore, impacciare le mani del sarto o del fabbro: ma se tu abitualmente ti servi dello spirito, potrai dare consigli e insegnare, ascoltare e imparare, domandare e ricordare. E dunque? Secondo te non fai niente, se, pur essendo infermo, mantieni un comportamento equilibrato? Dimostrerai che un male si può vincere o almeno sopportare. 21 Credimi, anche in un lettuccio c'è posto per la virtù. Prova di un animo ardente, che la paura non riesce a domare, non possono darla solo le armi e le battaglie: l'uomo forte si rivela anche sotto le coperte. Hai qualcosa da fare: combattere valorosamente contro la malattia. Se non c'è cosa a cui potrà costringerti o indurti, darai un esempio insigne. Che straordinaria occasione di gloria ci sarebbe, se gli uomini ci osservassero quando siamo ammalati! Ma tu osservati e lodati da te.

22 Ci sono, poi, due generi di piaceri. La malattia impedisce i piaceri fisici, ma non li elimina; anzi, a ben guardare, li stimola. Se uno ha sete, bere gli piace di più; il cibo è più gradito a chi ha fame; tutto quello che si riceve dopo un periodo di astinenza, si prende con maggiore avidità. Ma i piaceri dell'animo che sono più grandi e più sicuri, nessun medico li nega all'ammalato. Chi tende a essi e li conosce bene, disprezza tutti gli allettamenti dei sensi. 23 "Povero malato!" E perché? Perché non può sciogliere la neve nel vino? Perché non può mantenere fresca la sua bevanda, preparata in una capace coppa, aggiungendovi pezzi di ghiaccio? Perché non gli vengono aperte proprio sulla tavola le ostriche del lago Lucrino? Perché mentre cena non c'è intorno a lui un trambusto di cuochi che insieme alle pietanze portano i fornelli? Ormai la dissolutezza ha escogitato anche questo: per evitare che i cibi diventino tiepidi, che il palato ormai indurito li senta poco caldi, la cucina fa da scorta alla cena. 24 "Povero malato!" Mangerà quanto può digerire: non gli si metterà di fronte un cinghiale, bandito poi dalla mensa come carne poco pregiata, non si ammucchieranno sul piatto da portata petti di uccello (vederli interi darebbe il voltastomaco). Che c'è di male? Mangerai come un malato, anzi una buona volta come una persona sana.

25 Ma tutti questi disagi li sopporteremo volentieri, brodini, acqua calda e tutte quelle altre cose che sembrano intollerabili agli schifiltosi snervati dai piaceri e malati più nell'anima che nel corpo: basta non avere più orrore della morte. E non ne avremo più, se conosceremo i confini del bene e del male; allora soltanto non avremo disgusto della vita, né timore della morte. 26 Non può avere nausea della vita uno che esamini tante questioni, diverse, grandi, divine: chi vive pigramente nell'ozio arriva di solito a odiare la vita. Se uno scruta la natura, la verità non gli verrà mai a nausea: solo le cose false saziano fino al disgusto. 27 E poi, se la morte arriva e lo chiama, anche se è prematura, anche se tronca la sua vita a metà, egli ha già raccolto i frutti di una lunghissima esistenza. Conosce gran parte della natura; sa che la virtù non cresce col passare del tempo: solo a quegli uomini che misurano la vita in base a piaceri vani e perciò senza limiti, ogni vita sembra necessariamente breve.

28 Rinfrancati con questi pensieri e intanto leggi attentamente le mie lettere. Verrà finalmente un tempo in cui ritorneremo a vivere insieme; per quanto breve sia, il saperlo usare lo renderà lungo. Dice Posidonio: "Un solo giorno di un uomo colto è più esteso di una lunghissima esistenza di un uomo ignorante." 29 Intanto tieni ben ferma questa regola: non soccombere ai casi avversi, non fidarsi di quelli propizi, avere presenti gli arbìtrî della sorte, come se dovesse attuare tutto quanto è in suo potere. Ogni evento che si è aspettato a lungo, giunge più sopportabile. Stammi bene.

 

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1 Aspetto tue lettere per sapere che novità hai scoperto girando per tutta la Sicilia e avere notizie più sicure su Cariddi. Infatti, so benissimo che Scilla è uno scoglio e non è pericoloso per i naviganti: desidero, invece, che tu mi scriva esattamente se sono vere le leggende su Cariddi e, se ci hai fatto caso, (e certo la cosa merita attenzione), informami se i vortici li provoca un vento in particolare, oppure se tutte le burrasche sconvolgono allo stesso modo quel tratto di mare, e se è vero che ogni relitto strappato via da quel turbinio di correnti viene trascinato sott'acqua per molte miglia ed emerge vicino alla spiaggia di Taormina. 2 Se mi scriverai tutte queste notizie, allora oserò chiederti di salire anche sull'Etna per farmi piacere. Secondo alcuni questo vulcano si sta consumando e abbassando a poco a poco; lo deducono dal fatto che un tempo i naviganti lo scorgevano più da lontano. Questo fenomeno può succedere non perché diminuisce l'altezza del monte, ma perché il fuoco è più debole ed esce con minore violenza e in minore quantità e per lo stesso motivo anche il fumo diventa più tenue durante il giorno. Sono due ipotesi plausibili, sia che il monte si stia consumando e abbassando giorno dopo giorno, sia che rimanga tale e quale, perché il fuoco non lo divora, ma si forma in qualche cavità sotterranea, ribolle ed è nutrito da altre sostanze: nel monte non trova alimento: solo una via d'uscita. 3 In Licia c'è una regione notissima, che gli abitanti chiamano Efestione, dove il terreno presenta numerose buche: il fuoco che le circonda è innocuo e non danneggia la vegetazione. La regione è ridente ed erbosa; le fiamme non bruciano niente, semplicemente brillano di una luce debole e fiacca.

4 Ma mettiamo da parte questo argomento per approfondirlo quando mi scriverai a che distanza dal cratere si trova la neve; pur essendo vicina al fuoco, è tanto riparata che non si scioglie nemmeno in estate. Non devi, però addebitarmi la fatica della scalata: anche se nessuno te lo avesse chiesto, l'avresti fatto per soddisfare la tua forte curiosità. 5 Non c'è niente che possa distoglierti dal descrivere l'Etna nel tuo poema e dal toccare questo soggetto abituale per tutti i poeti. Il fatto che Virgilio ne avesse parlato diffusamente non impedì a Ovidio di trattare l'argomento; e Virgilio e Ovidio insieme non distolsero neppure Cornelio Severo. Inoltre questo soggetto si è prestato con successo a tutti, e gli scrittori precedenti, secondo me, non hanno portato via agli altri quello che c'era da dire, ma hanno spianato la via. 6 È molto diverso accostarsi a un tema ormai esaurito, oppure a uno su cui hanno lavorato altri: questo si sviluppa giorno per giorno e le immagini create non sono di ostacolo a chi ne vorrà creare di nuove. E poi lo scrittore che arriva per ultimo è nella condizione ottimale: trova le parole pronte; basta disporle diversamente e acquistano una fisionomia nuova. Il suo non è un furto: appartengono a tutti. 7 O io non ti conosco o l'Etna ti fa venire l'acquolina in bocca; e già desideri scrivere qualcosa di grande e allo stesso livello delle opere precedenti. La tua modestia non ti fa sperare di più: è tale che, secondo me, saresti pronto a trattenere le forze del tuo ingegno se ci fosse pericolo di superare gli altri: tanto è il rispetto che nutri per gli scrittori precedenti.

8 La saggezza ha, oltre al resto, anche questo di buono: uno può superare un altro solo durante la salita. Arrivati in cima, si è tutti uguali; non c'è possibilità di avanzare, si sta fermi. Il sole aumenta forse la sua grandezza? E la luna percorre un'orbita più lunga di quella solita? I mari non crescono; l'universo conserva sempre lo stesso aspetto e la stessa estensione. 9 Le cose che hanno raggiunto le dovute dimensioni non possono ingrandirsi: tutti coloro che raggiungeranno la saggezza saranno uguali e alla pari. Ciascuno di loro avrà doti sue proprie: uno sarà più affabile, uno più pronto, uno più spedito nel parlare, uno più eloquente: la virtù, di cui si discute e che rende felici, è uguale in tutti. 10 Non so se il tuo Etna possa crollare e precipitare su se stesso o se l'azione violenta e continua del fuoco possa corrodere questa alta vetta, visibile su un largo tratto di mare: ma né le fiamme, né un crollo possono trascinare in basso la virtù; è l'unica dignità che non conosce diminuzioni. Non può avanzare e nemmeno indietreggiare; la sua grandezza è fissa come quella dei corpi celesti. Cerchiamo di innalzarci fino a essa. 11 Si è fatto già molto; anzi, a dire il vero, non molto. La bontà non consiste nell'essere migliori dei peggiori: chi potrebbe vantarsi della propria vista, se scorge appena la luce del giorno? Se uno vede splendere il sole attraverso una fitta nebbia, benché sia lieto di essere per il momento sfuggito alle tenebre, non gode ancora del bene della luce. 12 Allora l'anima nostra potrà congratularsi con se stessa quando, uscita dalle tenebre in cui è avvolta, scorgerà la luce, non con vista debole, ma accoglierà tutto lo splendore del giorno e sarà restituita al suo cielo, quando riprenderà il posto assegnatole dalla sorte al momento della nascita. Le sue origini la chiamano in alto e ci arriverà anche prima di liberarsi dalla prigionia del corpo, se disperderà i vizi, e pura e leggera si innalzerà a pensieri divini.

13 È bello, mio carissimo Lucilio, perseguire questo scopo, e tendervi con tutto il nostro slancio, anche se pochi, o nessuno, sono in grado di farlo. La gloria è l'ombra della virtù: la seguirà anche contro il suo volere. Ma come l'ombra a volte precede, a volte segue, oppure è alle spalle, così certe volte la gloria è davanti a noi, visibile, certe altre è dietro ed è più grande quanto più tardi arriva, una volta scomparsa l'invidia. 14 Per quanto tempo Democrito fu considerato pazzo! A fatica Socrate divenne famoso! Per quanto tempo i concittadini ignorarono Catone! Lo respinsero e ne compresero il valore solo dopo la sua morte. L'integrità e la virtù di Rutilio non sarebbero emerse se non avessero subìto un'ingiustizia: l'oltraggio le fece risplendere. Non fu forse grato alla sua sorte e non accettò volentieri l'esilio? Parlo di uomini che la fortuna ha reso celebri mentre ne subivano le angherie: ma di quanti vennero alla luce i meriti solo dopo la morte! Quanti la fama non accolse subito, ma li trasse poi fuori dall'oblio! 15 Vedi quanto è ammirato Epicuro non solo dai più dotti, ma anche dalla massa degli ignoranti! Eppure egli che viveva in disparte nei dintorni di Atene, in Atene stessa era sconosciuto. Molti anni dopo che Metrodoro era morto, celebrò in una lettera con un ricordo grato la sua amicizia con lui; alla fine aggiunse che, fra i tanti beni di cui avevano goduto, né per sé, né per Metrodoro era stato un danno che la celebre Grecia non solo non li avesse conosciuti, ma quasi non li avesse sentiti nominare. 16 Non fu scoperto forse dopo la sua morte? Non rifulse la sua fama? Anche Metrodoro in una lettera confessa che lui ed Epicuro non erano abbastanza noti, ma che dopo di loro avrebbero ottenuto grande e immediata fama gli uomini che avessero voluto calcare le loro stesse orme. 17 La virtù non rimane mai sconosciuta e l'essere stata sconosciuta non la danneggia: verrà il giorno che la riporterà alla luce dalle tenebre in cui era stata seppellita e compressa dall'invidia dei contemporanei. Chi si dà pensiero degli uomini del suo tempo, è nato per pochi. Seguiranno migliaia di anni, migliaia di generazioni: guarda a loro. Anche se l'invidia ridurrà al silenzio tutti i tuoi contemporanei, verranno i posteri a giudicarti senza risentimenti o compiacenze. Se dalla fama deriva un premio alla virtù, neppure questo andrà perduto. Non ci toccherà quello che i posteri diranno di noi; tuttavia ci onoreranno e ci celebreranno anche se non potremo sentirli. 18 La virtù ricompensa tutti o da vivi o da morti, purché la seguiamo con lealtà, senza fregiarcene o adornarcene, ma rimanendo sempre gli stessi, sia che sappiamo di essere visti, sia che veniamo colti di sorpresa, impreparati. Fingere non serve; una maschera superficiale può ingannare solo pochi: la verità è uguale in ogni sua parte. L'inganno non ha solide basi. La menzogna è uno schermo sottile: se guardi con attenzione, è trasparente. Stammi bene.

 

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1 Oggi sono libero: non tanto per merito mio, ma di uno spettacolo di pugilato che ha fatto da richiamo a tutti gli scocciatori. Nessuno farà irruzione a casa mia, nessuno verrà a interrompere le mie riflessioni, che, proprio fidando in questo, procedono più ardite. La porta non cigolerà improvvisamente, nessuno alzerà la tenda della mia stanza: potrò procedere in tutta tranquillità, e questo è necessario soprattutto per chi cammina da solo e percorre una sua strada. Non seguo, dunque, le orme dei miei predecessori? Sì, ma mi permetto di trovare, di cambiare, di tralasciare qualcosa; condivido le loro idee, senza, però esserne schiavo.

2 Ho parlato troppo, tuttavia, quando mi ripromettevo silenzio e solitudine senza scocciatori: ecco, alte grida arrivano dallo stadio: non mi distolgono dai miei pensieri, ma mi portano a esaminare proprio questo fatto. Penso tra me e me quanti sono gli uomini che esercitano il corpo e quanto pochi quelli che esercitano la mente; quanta gente accorre a un passatempo inconsistente e vano, e che deserto intorno alle scienze; che animo debole hanno quegli atleti di cui ammiriamo i muscoli e le spalle. 3 E soprattutto penso a questo: se con l'esercizio il corpo può arrivare a sopportare pugni e calci, e non di un uomo solo, se un individuo può passare un giorno intero sotto un sole a picco nella polvere rovente, perdendo sangue, quanto sarebbe più facile rinforzare l'animo in modo che riceva senza piegarsi i colpi della fortuna, che si risollevi anche atterrato e calpestato. Il corpo ha bisogno di molte cose per star bene: l'animo cresce da sé, alimenta ed esercita se stesso. Gli atleti hanno bisogno di molto cibo, molte bevande, molto olio e, infine, di un lungo esercizio: tu, invece, raggiungerai la virtù senza preparativi, senza spesa. Tutto quello che può renderti virtuoso lo hai con te. 4 Di che cosa hai bisogno per diventare virtuoso? Della volontà. Ma che cosa puoi volere di meglio che sottrarti a questa schiavitù che opprime tutti, che persino gli schiavi di infimo stato, nati in questa abiezione, tentano in ogni modo di scuotersi di dosso? Loro, per avere la libertà, sborsano quei risparmi che hanno accumulato privandosi del cibo: e tu, che ritieni di essere nato libero, non desidererai raggiungere a ogni costo la libertà? 5 Perché guardi la cassaforte? La libertà non puoi comprarla. Perciò è inutile scrivere sui documenti la parola libertà: non si può comprarla, né venderla: questo bene te lo devi donare tu stesso, devi chiederlo a te stesso. Liberati prima di tutto dalla paura della morte, che ci impone il suo giogo, e poi dalla paura della povertà. 6 Nella povertà non c'è niente di male; per rendertene conto confronta tra loro il volto dei poveri e quello dei ricchi: il povero ride più spesso e più di cuore, non ha nessuna preoccupazione nel suo intimo e, anche se gli capita qualche cruccio, passa come una nube leggera: ma l'allegria di quegli uomini che vengono definiti felici è simulata oppure gravata e corrotta da un'intima tristezza, ed è tanto più penosa perché certe volte non possono mostrare apertamente la loro infelicità, ma devono fingersi lieti anche se gli affanni rodono loro il cuore. 7 Dovrei servirmi più spesso di questo esempio, perché esprime, più efficacemente di qualsiasi altro, questa farsa della vita umana, dove ci viene assegnata una parte che recitiamo male. L'attore che avanza impettito sulla scena e a testa alta recita queste battute:

Ecco comando su Argo; Pelope mi lasciò in eredità quei luoghi dove l'Istmo è battuto dall'Ellesponto e dal mare Ionio,

è uno schiavo, la sua paga è di cinque moggi di farina e cinque denari. 8 Quell'altro che superbo e tracotante, fiduciosamente orgoglioso della sua potenza, dice:

Se non stai quieto, Menelao, perirai per mia mano,

è pagato a giornata e dorme su un pagliericcio. Lo stesso si può dire di tutti questi effeminati che in lettiga avanzano sopra una folla di teste: la loro felicità è una commedia. Se li spogli, li disprezzerai. 9 Quando compri un cavallo vuoi che gli tolgano la gualdrappa: gli schiavi messi in vendita li fai svestire perché non nascondano qualche difetto fisico: e giudichi un uomo tutto paludato? I mercanti di schiavi cercano di nascondere le anomalie con qualche espediente, perciò chi compra diffida proprio delle bardature: se vedessi un braccio o una gamba bendati, li faresti scoprire e mettere a nudo. 10 Vedi quel re di Scizia o di Sarmazia col capo splendidamente adorno di una corona? Se vuoi giudicarlo e sapere com'è veramente, levagli il diadema: sotto si nascondono molte magagne. Ma perché parlo degli altri? Se vuoi valutare te stesso, metti da parte il denaro, la casa, la tua posizione, esaminati nell'intimo: ora ti affidi al giudizio degli altri. Stammi bene.

LIBRO DECIMO

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1 Ti lamenti di esserti imbattuto in un ingrato: se questa è la prima volta, ringrazia la fortuna oppure la tua prudenza. Ma in questo caso la prudenza non può fare niente, se non renderti gretto; difatti, se non vorrai correre il pericolo dell'ingratitudine, non dovrai più fare benefici; così, perché non vadano perduti per colpa d'altri, andranno perduti per te. È meglio non ricevere gratitudine piuttosto che non fare del bene; anche dopo un cattivo raccolto bisogna seminare. Spesso la produzione abbondante di un solo anno compensa le perdite dovute alla persistente sterilità di un terreno infecondo. 2 Vale la pena sperimentare anche l'ingratitudine pur di trovare una persona grata. Nessuno può elargire benefici con tanta avvedutezza da non ingannarsi di frequente: cadano pure nel vuoto, purché qualche volta non vadano perduti. I marinai riprendono il mare anche dopo un naufragio; se un debitore fallisce, non per questo l'usuraio abbandona i suoi affari. La vita si intorpidirebbe ben presto in un ozio inerte se dovessimo lasciare da parte tutto quello che non ha fortuna. Proprio questa delusione deve renderti più generoso; anche se la riuscita di un'azione è incerta, bisogna fare diversi tentativi perché prima o poi vada a segno.

3 Ma di questo argomento ho parlato abbastanza nel mio libro I benefici: mi sembra, invece, vada approfondito un problema che, secondo me, non è stato sviluppato a sufficienza: cioè, se il nostro benefattore in un secondo momento ci fa del male, siamo pari e liberi da ogni debito di riconoscenza? Aggiungi, se vuoi, anche questa evenienza: mi ha fatto più male poi di quanto mi avesse giovato prima. 4 Vuoi la giusta sentenza di un magistrato severo? Giudicherà che le azioni si compensano l'una con l'altra e sentenzierà: "Sebbene le offese siano preponderanti, tuttavia la parte di male in eccesso sia condonata in nome dei beneficî arrecati." Il male è stato maggiore, ma il beneficio è precedente; perciò anche il tempo deve avere il suo peso. 5 Ci sono poi dei fattori troppo evidenti perché debba ricordarteli: bisogna vedere se il bene è stato fatto volentieri, e il male invece contro la propria volontà, poiché sia i benefici che le offese hanno un valore a seconda dello spirito con cui si fanno. "Non avrei voluto concedere quel favore; mi sono lasciato vincere o dal rispetto, o dall'insistenza di chi me lo chiedeva o da una qualche speranza." 6 Ogni favore bisogna ricambiarlo con lo stesso spirito con cui è fatto, senza considerarne l'entità, ma la volontà che lo ha originato. Lasciamo ora da parte le ipotesi: quello è stato il favore e questa è l'offesa, che ha superato l'entità del favore. L'individuo virtuoso nel fare i calcoli si imbroglia da sé: aumenta il valore del beneficio, diminuisce quello dell'offesa. Un altro giudice più indulgente - e questo vorrei essere io - ci imporrà di dimenticare l'offesa e di ricordare il beneficio. 7 "Ma," ribatti, "è più giusto ricambiare ciascuno come si merita, il benefattore con la riconoscenza, chi ci ha offeso con la legge del taglione o almeno con il rancore." Questo sarà vero se chi ci ha fatto del male e chi ci ha beneficato non sono la stessa persona; in caso contrario il beneficio annulla il male. Se era giusto perdonare a chi ci fa del male, anche se non c'erano meriti precedenti, gli si deve più che il perdono se ci danneggia dopo che ci ha fatto del bene. 8 Per me beneficio e offesa non hanno il medesimo valore: valuto di più l'uno che l'altra. Non tutti sanno dimostrarsi grati: anche un uomo qualsiasi, sciocco e rozzo, può sentirsi obbligato, soprattutto se il favore l'ha ricevuto da poco; ignora, però in che misura deve esserlo. Solo il saggio sa quanto e che cosa bisogna valutare. Lo sciocco di cui parlavo ora, anche se ha buona volontà, ricambia in misura minore al dovuto, oppure non ricambia a luogo e tempo debito; così spreca e getta via la sua riconoscenza.

9 Per certi soggetti esistono vocaboli straordinariamente appropriati, e un'antica consuetudine linguistica designa taluni concetti con termini efficacissimi volti a indicare i doveri. Noi almeno diciamo abitualmente: "Gli ha ricambiato il favore." Ricambiare significa dare di propria iniziativa quanto è dovuto. Non diciamo: "Ha restituito il favore", perché restituiscono anche quelle persone che lo fanno su richiesta o contro voglia o quando pare a loro o per mezzo di un altro. Non diciamo: "Ha reso il favore" o "Ha pagato il suo debito": non ci piacciono le parole che si adoperano per i debiti. 10 Ricambiare è restituire il favore a chi te l'ha fatto. Questa parola indica un rapporto spontaneo: chi ha ricambiato, ha fatto appello a se stesso. Il saggio esaminerà fra sé tutto quanto ha ricevuto, da chi, il motivo, il momento, il luogo e la maniera. Perciò sosteniamo che solo il saggio sa ricambiare il favore, come è il solo che lo sa fare; egli certo gode a farlo più di quanto un altro goda a riceverlo. 11 Qualcuno classifica questo concetto tra quelli che noi sosteniamo contro l'opinione comune (i Greci li chiamano $ðáñÜäïîá$) e dice: "Nessuno, dunque, se non il saggio, sa ricambiare un favore? Nessun altro sa restituire il suo debito al creditore o, quando compra qualcosa, sa pagare il prezzo a chi vende?" Perché non mi si guardi male, sappi che Epicuro dice la stessa cosa. Metrodoro almeno sostiene che solo il saggio sa ricambiare un favore. 12 Lo stesso avversario si stupisce, poi, quando affermiamo: "Solo il saggio sa amare, solo il saggio è un vero amico." Ma la riconoscenza è parte integrante sia dell'amore che dell'amicizia, anzi è più comune e più diffusa della vera amicizia. Sempre lo stesso si stupisce, inoltre, perché diciamo che solo il saggio è leale, come se egli non dicesse poi la stessa cosa. Oppure, secondo te, può essere leale un uomo che non sa essere riconoscente? 13 La finiscano allora di accusarci come se affermassimo cose incredibili e sappiano che il saggio possiede l'onestà vera e propria, mentre la massa possiede solo immagini e parvenze di onestà. Nessuno, se non il saggio, sa essere riconoscente. Anche lo sciocco mostri la sua gratitudine, come sa e come può; gli manchi la scienza piuttosto che la volontà: la volontà non si impara. 14 Il saggio metterà a confronto ogni elemento: anche se è la stessa, un'azione può avere più o meno valore a seconda del momento, del luogo, delle cause. Spesso la ricchezza piovuta su una casa non ha avuto lo stesso effetto di mille denari dati al momento opportuno. C'è una grande differenza tra fare un regalo e dare un aiuto, tra salvare una persona con la propria liberalità, oppure dargli il superfluo; spesso quello che si dà è poco, ma produce molto. Che differenza pensi che ci sia se uno dà del proprio o ha ricevuto da altri per dare?

15 Ma per non ritornare sullo stesso argomento che abbiamo trattato a sufficienza, in questo confronto tra beneficio e offesa, il saggio giudicherà nel modo più equo, ma attribuirà più valore al beneficio e propenderà per esso. 16 In faccende del genere moltissimo dipende dal carattere di una persona: "Hai beneficato un mio schiavo, ma hai offeso mio padre; hai salvato mio figlio, ma mi hai tolto il padre." Proseguirà poi facendo tutti i debiti confronti e, se la differenza è minima, la ignorerà; ma, anche se è considerevole, e può però essere tralasciata mantenendo salvi lealtà e dovere, cioè, se l'offesa riguarda interamente lui solo, la trascurerà. 17 Il punto principale è questo: sarà generoso nel cambio; accetterà che gli si attribuisca un debito maggiore; sarà restio a ritenere il favore compensato dall'offesa; sarà propenso e incline a desiderare di dover riconoscenza e di ricambiare. È un errore ricevere un favore più volentieri che restituirlo: chi paga un debito è più felice di chi lo contrae; allo stesso modo chi si libera del grosso debito di un beneficio deve essere più contento di chi rimane obbligato. 18 Gli ingrati sbagliano anche in questo: pagano al creditore oltre al capitale anche gli interessi, e ritengono, invece, di poter usufruire gratuitamente dei benefìcî: anche questi crescono, se si tarda, e più si tarda, più bisogna pagare. L'individuo che ricambia un beneficio senza aggiungere gli interessi è un ingrato; bisogna, perciò tener conto anche di questo quando si metteranno a confronto i favori ricevuti e quelli fatti.

19 Dobbiamo fare di tutto per dimostrare la massima gratitudine. Questo è un bene nostro, allo stesso modo che la giustizia non riguarda gli altri, come comunemente si crede: gran parte ricade su se stessa. Ognuno, quando fa del bene a un altro, lo fa a se stesso. E non lo dico perché chi è stato aiutato vuole aiutare, chi è stato difeso vuole proteggere e perché il buon esempio ritorna sulla persona che lo ha dato, (così come i cattivi esempi ricadono sugli autori, e se uno con le sue azioni ha insegnato che si può offendere, non trova commiserazione quando viene a sua volta offeso); ma lo dico perché ogni virtù trova in se stessa la sua ricompensa. Non la si esercita in vista di un premio: il guadagno di un'azione virtuosa consiste nell'averla compiuta. 20 Dimostro gratitudine non perché un altro spronato dal mio precedente esempio mi aiuti più volentieri, ma per compiere un'azione dolcissima e bellissima; sono grato non perché mi conviene, ma perché mi piace. Per renderti conto che le cose stanno così, sappi che se potrò dimostrare la mia gratitudine solo sembrando ingrato, se potrò ricambiare un favore solo sotto l'apparenza di un'offesa, con la massima tranquillità realizzerò questo giusto proposito anche a prezzo dell'onore. Nessuno, secondo me, tiene in maggior conto la virtù, nessuno le è più devoto di chi rovina la propria reputazione di uomo onesto per non tradire la propria coscienza. 21 Perciò come ho già detto, il dimostrare gratitudine è un bene maggiore per te che per il tuo prossimo; a lui càpita un fatto comune, di tutti i giorni, riavere quello che ha dato, a te un fatto importante, generato da uno stato d'animo di intensa felicità, aver dimostrato gratitudine. Se la malvagità rende infelici e la virtù felici, e l'essere riconoscenti è una virtù, hai dato una cosa comune e ne hai ottenuta una di valore inestimabile, la coscienza della gratitudine, che nasce solo in un animo straordinario e fortunato.

Chi nutre sentimenti contrari a questi è oppresso dalla più profonda infelicità; se uno è ingrato verso gli altri, non è gradito a se stesso. Tu pensi che io dica: l'ingrato sarà infelice? Non lo rinvio al futuro: è infelice subito. 22 Evitiamo perciò l'ingratitudine, non per gli altri, ma per noi stessi. La parte di malvagità che ricade sugli altri è minima e leggerissima: quella peggiore e, per così dire, più gravosa, rimane e opprime il malvagio; il nostro Attalo spesso diceva: "La malvagità stessa beve la maggior parte del proprio veleno." Quel veleno letale per gli altri, ma innocuo a loro stessi che i serpenti emettono non assomiglia a questo: questo è deleterio anche per chi lo possiede. 23 L'ingrato si tormenta e si macera, odia il favore ricevuto perché dovrà ricambiarlo e lo sminuisce, mentre gonfia ed esagera le offese. Chi è più infelice dell'uomo che dimentica i benefici e ricorda i torti? Il saggio, invece, esalta la bellezza di ogni beneficio, lo magnifica e si compiace di richiamarlo sempre alla memoria. 24 Unico e di breve durata è il piacere dei malvagi: il momento in cui ricevono un favore; al saggio, invece, rimane una gioia lunga e duratura. Per lui è un piacere non il ricevere, ma l'aver ricevuto, e questo piacere è perenne e continuo. Non si cura dei torti subìti, li dimentica e non per trascuratezza, ma di proposito. 25 Non interpreta tutto in senso volutamente negativo e nemmeno cerca un capro espiatorio, ma le colpe degli uomini preferisce attribuirle alla sorte. Non interpreta malignamente le parole o l'espressione del volto; minimizza tutto quello che càpita dandone un'interpretazione benevola. Non ricorda le offese più che i favori; se il ricordo precedente è migliore, cerca di conservarlo per quanto può non cambia i suoi sentimenti verso chi gli ha fatto del bene se prima non gli vengono fatti molti torti e se la differenza non è manifesta persino a occhi chiusi; ma anche allora, dopo aver subito un'offesa maggiore, cerca di mantenersi quale era prima di ricevere il beneficio. Infatti, quando il beneficio è pari all'offesa, conserva nell'intimo una certa benevolenza. 26 Come a parità di voti il reo viene assolto e, se c'è un dubbio, il senso di umanità fa propendere il giudizio a suo favore, così il saggio, quando i meriti sono pari alle colpe, non è più in debito, ma continua a sentirsi in debito e fa come quelle persone che pagano i loro debiti dopo che questi sono stati cancellati.

27 Nessuno poi può mostrarsi grato se non disprezza quelle avversità a causa delle quali il popolino precipita nel terrore: se vuoi dimostrare la tua riconoscenza, devi essere pronto ad andare in esilio, a versare il tuo sangue, ad accollarti la miseria, spesso a macchiare la tua stessa onestà e ad esporti a immeritate calunnie. La gratitudine costa molto. 28 Noi, quando chiediamo un favore, lo valutiamo moltissimo, quando poi lo abbiamo ottenuto, lo disprezziamo. Vuoi sapere che cosa ci fa dimenticare i benefici ricevuti? La smania di quelli che dobbiamo ricevere; non pensiamo a quanto abbiamo ottenuto, ma a quanto dobbiamo chiedere. Ci distolgono dalla retta via la ricchezza, gli onori, il potere e gli altri beni che riteniamo preziosi e che invece valgono poco. 29 Non sappiamo valutare cose che vanno giudicate non in base all'opinione comune, ma in base alla natura. In esse non c'è niente di magnifico che possa attirarci tranne la nostra abitudine ad ammirarle. Non vengono apprezzate perché sono desiderabili, ma vengono desiderate perché sono apprezzate, e quando l'errore di singoli individui ha causato un errore comune, questo a sua volta causa l'errore dei singoli. 30 Ma come abbiamo creduto in quei beni, così dobbiamo credere all'opinione comune anche in questo: non c'è niente di più bello della gratitudine; tutte le città, tutti i popoli, anche quelli barbari, lo proclameranno; su questo buoni e cattivi saranno d'accordo. 31 Ci sarà chi loda i piaceri e chi preferisce la fatica; chi dice che il dolore è il male più grave e chi, invece, non lo chiamerà neppure un male; qualcuno giudicherà la ricchezza il bene supremo, qualche altro dirà che è stata inventata per la rovina dell'umanità, che l'uomo più ricco è quello a cui la fortuna non trova niente da dare: in tanta diversità di pareri tutti affermeranno, come si dice, all'unisono, che bisogna essere grati con i propri benefattori. La massa tanto discorde concorderà su questo punto; e invece noi a volte ricambiamo benefici con offese, e la causa principale dell'ingratitudine è il non aver potuto mostrare abbastanza gratitudine. 32 La pazzia umana è arrivata al punto che fare grandi favori a qualcuno diventa pericolosissimo: costui, infatti, poiché ritiene vergognoso non ricambiare, vorrebbe togliere di mezzo il suo creditore. Tieniti pure quello che hai ricevuto: non lo voglio indietro, non lo reclamo, desidero solo che il mio gesto non mi sia fatale. Non c'è odio più funesto di quello che nasce dalla vergogna di aver tradito un beneficio. Stammi bene.

 

82

1 Ormai non mi preoccupo più per te. "Quale dio," chiedi, "hai accettato come garante?" Naturalmente quello che non inganna nessuno: un'anima che ama la giustizia e il bene. La parte migliore di te è al sicuro. La fortuna può farti del male: ma, e questo è l'importante, non temo che tu possa farne a te stesso. Continua per la strada che hai intrapreso e disponiti a questo sistema di vita tranquillo, non molle. 2 Preferisco vivere male che con mollezza - intendi "male" nel senso più comune del termine: duramente, con difficoltà, con fatica. Tante volte sentiamo che la vita di certa gente viene apprezzata ed è oggetto di invidia: "Vive nella mollezza"' ma questo significa: "È un uomo molle." Lo spirito a poco a poco si illanguidisce e si snerva a somiglianza dell'ozio e della pigrizia in cui giace. E allora? Non è preferibile per un vero uomo abituarsi addirittura alle durezze della vita? *** e poi quella gente effeminata teme la morte a cui ha reso simile la propria vita. C'è una grande differenza tra l'ozio e il sepolcro. 3 "E come?" chiedi. "Non è preferibile giacere nell'ozio piuttosto che essere trascinati nel vortice degli impegni?" Attivismo esasperato e inerzia sono entrambi detestabili. Per me chi giace tra i profumi è morto come chi è trascinato con l'uncino; l'ozio senza gli studî è morire, essere dei sepolti vivi. 4 E poi, a che serve appartarsi? Come se i motivi di preoccupazione non ci seguissero anche al di là del mare. C'è forse un nascondiglio in cui non entri la paura della morte? Un luogo tanto difeso e fuori mano dove si possa vivere tranquilli senza temere il dolore? Dovunque ti nasconderai, i mali dell'uomo ti circonderanno col loro strepito. Molti sono fuori di noi e ci stanno intorno per ingannarci o tormentarci, molti dentro di noi e ci ribollono dentro anche nella più completa solitudine. 5 Dobbiamo fare della filosofia una fortificazione, un muro inespugnabile, che la fortuna non possa superare anche attaccandolo con uno spiegamento di macchinari bellici. L'anima che ha trascurato tutto quello che è al di fuori di sé, occupa una posizione inaccessibile e si difende nella sua rocca; nessun colpo arriva fino a lei. La fortuna non ha le mani lunghe come pensiamo: agguanta solo chi le si aggrappa. 6 E allora, allontaniamocene il più possibile; solo la conoscenza di noi stessi e della natura, però può assicurarcelo. Ognuno sappia dove è diretto e da dove proviene, che cosa è per lui il bene e che cosa è il male, che cosa desiderare e che cosa evitare, in base a quale norma può distinguere quello che deve ricercare oppure fuggire, come possa placare la follia delle passioni, reprimere la violenza delle paure. 7 Qualcuno pensa di aver represso questi sentimenti anche senza la filosofia; ma quando qualche disgrazia lo mette inaspettatamente alla prova, riconosce, ormai tardi, la sua colpa; le belle parole vengono meno quando il carnefice gli afferra le mani, quando la morte si avvicina. Potresti dirgli: "Sfidavi a cuor leggero i mali quando erano lontani: ecco ora il dolore che definivi sopportabile; ecco la morte contro la quale pronunciavi tante parole coraggiose; sibila la sferza; scintilla la spada:

ora ci vuole coraggio, Enea, ora animo saldo."

8 Solo una preparazione assidua potrà rendere forte il tuo animo, ma dovrai esercitare lo spirito, non le parole, dovrai prepararti ad affrontare la morte; contro di essa non potranno spronarti o rinfrancarti quegli individui che con cavilli tenteranno di convincerti che la morte non è un male. Mi piace ridermela, mio ottimo Lucilio, di certe sciocchezze greche che, con mio stupore, non mi sono ancora levato di mente. 9 Il nostro Zenone si serve di questo sillogismo: "Nessun male può essere motivo di gloria; la morte è motivo di gloria; la morte non è un male." Ci sei riuscito! Mi sono liberato dalla paura; dopo questo ragionamento non esiterò a porgere il collo al boia. Non vuoi parlare con più serietà senza far ridere anche chi è in punto di morte? Perbacco non saprei dirti se è più sciocco chi ha ritenuto di eliminare la paura della morte con questo sillogismo, o chi ha cercato di dimostrarne l'infondatezza, come se fosse importante. 10 Lo stesso filosofo a questo sillogismo ne ha contrapposto uno contrario, originato dal fatto che noi poniamo la morte tra le cose indifferenti, quelle che i Greci chiamano "$PäéÜöïñá$". Dice: "Una cosa indifferente non è motivo di gloria: la morte è motivo di gloria; quindi la morte non è indifferente." Vedi in che cosa consiste la capziosità di questo sillogismo: motivo di gloria non è la morte, ma il morire da valoroso. E quando dici: una cosa indifferente non è motivo di gloria, sono d'accordo con te nel dire che non c'è niente di glorioso se non in rapporto alle cose indifferenti; per indifferenti, cioè, né beni, né mali, intendo le malattie, il dolore, la povertà, l'esilio, la morte. 11 Nessuna di queste cose è di per sé motivo di gloria e tuttavia non esiste gloria senza di esse. Non si loda la povertà, ma l'uomo che non si piega e non si sottomette alla povertà; non si loda l'esilio, ma l'uomo che va in esilio mostrando un coraggio maggiore che se fosse stato lui a mandare un altro; non si loda il dolore, ma l'uomo che non è soggiogato dal dolore; nessuno loda la morte, ma l'uomo cui la morte tolse la vita prima che il coraggio. 12 Tutte queste cose di per sé non dànno né onore, né gloria, ma è la virtù a renderle onorevoli e gloriose se interviene e le governa: esse stanno al centro; quello che importa è se vi mette mano la malvagità o la virtù: la morte, portatrice di gloria per Catone, diventa sùbito motivo di vergogna e di rossore per Bruto. Bruto infatti, in punto di morte, cercando dei pretesti per ritardare l'esecuzione, si appartò per scaricare il ventre; quando lo chiamarono al patibolo e gli fu comandato di porgere il collo, disse: "Lo porgo, e così potessi vivere." Che pazzia è cercare di fuggire quando non si può più tornare indietro! "Lo porgo, e così potessi vivere." Per poco non aggiunse: "Anche sotto Antonio." Che uomo degno di essere lasciato in vita!

13 Ma, come avevo cominciato a dire, vedi che la morte in se stessa non è né un male, né un bene: Catone morì nel modo più nobile, Bruto nel modo più disonorevole. Ogni cosa, anche se non è bella, lo diventa se associata alla virtù. La camera, che noi definiamo luminosa, di notte è completamente buia; è il giorno a darle la luce; la notte gliela toglie: 14 così è per queste cose che noi chiamiamo indifferenti e neutre, ricchezza, forza, bellezza, onori, potere, e di contro la morte, l'esilio, le malattie, i dolori e tutte le altre cose di cui abbiamo più o meno paura: sono o la malvagità o la virtù a farle diventare beni oppure mali. Un blocco di metallo di per sé non è né caldo, né freddo: se lo gettiamo in una fornace, si arroventa, immerso nell'acqua si raffredda. La morte è resa onorevole da quello che è onorevole, cioè dalla virtù e da un'anima che disprezza le cose al di fuori di noi.

15 Anche tra queste cose che definiamo neutre c'è, o Lucilio, una grande differenza. La morte non è indifferente come il fatto di avere un numero di capelli pari o dispari: la morte è tra quelle cose che non sono mali e tuttavia hanno l'apparenza di un male: c'è insito nell'uomo l'amore per se stesso, la volontà di durare e di conservarsi e la ripugnanza del dissolvimento: *** poiché sembra strapparci tanti beni e allontanarci dall'abbondanza di cose cui siamo abituati. Noi avversiamo la morte anche perché questa vita ormai la conosciamo, mentre non sappiamo a che cosa andiamo incontro e abbiamo orrore dell'ignoto. Crediamo poi che la morte ci condurrà nelle tenebre, e noi ne abbiamo una naturale paura. 16 Perciò anche se la morte è cosa indifferente, non è tuttavia tale che si possa trascurare con facilità: lo spirito va rafforzato con un costante esercizio perché ne sopporti la vista e l'avvicinarsi. Bisogna disprezzare la morte più di quanto si è soliti fare; su di essa ci siamo formati molti pregiudizi; parecchi uomini d'ingegno hanno fatto a gara per aumentarne la cattiva fama; hanno descritto una prigione sotterranea e un luogo immerso in una notte eterna, in cui

lo smisurato guardiano dell'Orco giacendo nell'antro cruento sulle ossa corrose, con i suoi eterni latrati atterrisce le pallide ombre.

Anche se ti persuaderai che queste sono favole e che per i defunti non c'è niente da temere nell'aldilà, si insinua un'altra paura: si teme il nulla al pari dell'aldilà. 17 Nonostante questi pregiudizi che ci ha inculcato una secolare credenza, perché morire da forti non dovrebbe essere un gesto apportatore di gloria tra i maggiori dell'animo umano? L'animo non si innalzerà mai alla virtù, se crederemo che la morte sia un male: ci arriverà solo convincendosi che è una cosa indifferente. L'uomo per natura non può affrontare con coraggio quello che giudica un male: lo farà svogliatamente e con esitazione. Ma non può essere motivo di gloria un gesto compiuto contro voglia e tergiversando; la spinta della virtù non è la necessità. 18 Inoltre, nessuna azione è onorevole se non quella a cui l'animo si è applicato e ha preso parte attiva con tutto se stesso. Quando però ci si accosta a un male o per paura di mali peggiori o per la speranza di beni che vale la pena raggiungere a costo di sopportare un solo male, chi agisce non sa che decisione prendere: da una parte c'è l'impulso di attuare i propri propositi, dall'altra vorrebbe ritirarsi e fuggire da una cosa sospetta e pericolosa; quindi è lacerato da pareri opposti. In questo caso la gloria viene meno: la virtù, infatti, attua le decisioni prese con serenità, quello che fa, non lo teme.

Non cedere ai mali, ma affrontali più fiero

per la via che ti consentirà la fortuna.

 

19 Se giudicherai che sono mali, non li affronterai con fierezza. Cancella dall'intimo questa convinzione, altrimenti il sospetto, che è causa di indugio, arresterà il nostro slancio; si finisce per essere trascinati in quella situazione sulla quale ci si doveva gettare con entusiasmo.

Gli Stoici vorrebbero che fosse preso per buono il sillogismo di Zenone, e giudicato ingannevole e falso quello che gli viene opposto. Io non riduco l'argomento a formule dialettiche, a intrichi artificiosi e oziosi: penso che tutti questi tipi di argomentazione debbano essere tolti di mezzo: chi è interrogato si sente irretito e quando arriva il momento di esprimere il proprio parere dice una cosa e ne pensa un'altra. Per difendere la verità ci vuole più schiettezza, e più coraggio per combattere la paura. 20 Io preferirei sciogliere e spiegare i nodi che essi intrecciano, per persuadere, non per ingannare. Al momento di condurre l'esercito sul campo di battaglia ad affrontare la morte in difesa delle spose e dei figli, come gli farai coraggio? Prendi i Fabî che hanno addossato a una sola famiglia tutta una guerra di stato. E gli Spartani appostati al passo delle Termopili: non sperano nella vittoria e nemmeno nel ritorno; quel luogo sarà il loro sepolcro. 21 Come li esorterai a sostenere, facendo scudo coi loro corpi, l'impeto di tutto un popolo e lasciare la vita piuttosto che il loro posto? Dirai loro: "Il male non è motivo di gloria; la morte è motivo di gloria; dunque la morte non è un male"? Che discorso efficace! Dopo averlo ascoltato chi esiterebbe a lanciarsi contro le spade nemiche e a morire sul posto? Ma che parole coraggiose rivolse loro Leonida! "Compagni," disse, "pranzate sapendo che cenerete agli inferi!" Il cibo non crebbe loro in bocca, non si fermò in gola, non cadde dalle mani: allegri accettarono tanto l'invito a pranzo quanto quello a cena. 22 E allora? Un famoso condottiero romano, che mandava i suoi soldati a occupare una posizione e ad affrontare ingenti forze nemiche, parlò così: "Soldati, è necessario andare là, ma non è necessario fare ritorno." Vedi come è semplice e potente la virtù: i vostri sofismi non possono rendere nessuno più forte, nessuno più coraggioso. Fiaccano lo spirito che, invece, non deve essere limitato e costretto in questioni capziose e di poco conto, soprattutto quando si prepara a un'azione importante. 23 Non a trecento soldati, ma a tutti gli uomini bisogna togliere la paura della morte. Come insegnerai loro che non è un male? Come vincerai le convinzioni di sempre che ci vengono inculcate fin dall'infanzia? Quale aiuto troverai per la debolezza umana? Cosa dirai perché infiammati affrontino il pericolo? Con quali parole allontanerai questa paura comune, con quali forze d'ingegno scaccerai questa radicata opinione dell'umanità in contrasto con il tuo pensiero? Mi metterai insieme discorsi capziosi per trarne conclusioni assurde? Ci vogliono grandi armi per uccidere grandi mostri. 24 In Africa i soldati cercarono invano di colpire con frecce e fionde quel terribile serpente che atterriva le legioni romane più della stessa guerra: neppure Apollo avrebbe potuto ferirlo. Il suo corpo di smisurate dimensioni era massiccio, e le lance e tutte le armi scagliate dalle mani degli uomini le respingeva; infine, fu schiacciato sotto enormi macigni. E tu scagli contro la morte armi tanto ridicole? Affronti il leone con una lesina? Quello che dici è sottile: niente è più sottile di una spiga; è la sottigliezza stessa a rendere inutili e inefficaci certe cose. Stammi bene.

 

83

1 Mi chiedi di descriverti interamente ogni mia giornata: mi stimi molto se pensi che io non abbia niente da nasconderti. Dobbiamo vivere come se fossimo in pubblico e pensare come se qualcuno potesse guardarci dentro: ed è possibile. Che giova nascondere qualcosa agli uomini? Dio vede tutto; è nelle nostre anime e interviene nei nostri pensieri - dico "interviene" come se a volte se ne allontanasse! 2 Farò dunque, come vuoi e ti scriverò volentieri quello che faccio e in che ordine. Rivolgerò immediatamente l'attenzione su me stesso e, cosa utilissima, passerò in rassegna la mia giornata. Nessuno esamina la propria vita ed è questo che ci rende veramente malvagi; noi pensiamo, e di rado, a quello che faremmo, mai a quello che abbiamo fatto; eppure l'ammaestramento per il futuro ci viene dal passato.

3 Oggi è stata una giornata piena, nessuno mi ha fatto perdere nemmeno un attimo; l'ho divisa interamente tra il letto e la lettura; alla ginnastica ho dedicato pochissimo tempo e di questo ringrazio la vecchiaia: non mi costa molto. Appena mi muovo, mi stanco; e anche per i più forti il fine della ginnastica è questo. 4 Vuoi sapere quali siano gli schiavi che mi fanno compagnia durante gli esercizî? Mi basta il solo Fario, un fanciullo, come sai, amabile, ma lo cambierò: ne cerco ormai uno più giovane. Egli dice che noi attraversiamo la stessa crisi: a entrambi cadono i denti. Ma ormai nella corsa gli tengo dietro a stento e tra pochissimi giorni non ce la farò più: vedi a che serve l'esercizio quotidiano. Presto la distanza tra noi due che andiamo in direzioni opposte sarà grande: nello stesso momento lui sale e io scendo, e tu sai quanto la discesa sia più veloce della salita. Ma non ho detto la verità; ormai la mia vita non scende, precipita. 5 Chiedi come è finita la gara di oggi? Siamo arrivati alla pari, cosa rara per dei corridori. Dopo la corsa, che è stata più una fatica che un esercizio, ho fatto il bagno nell'acqua fredda: chiamo così l'acqua non molto calda. Io che amavo tanto tuffarmi nell'acqua gelata, che il primo gennaio salutavo i canali intorno al Circo, che cominciavo il nuovo anno non solo leggendo, scrivendo, conversando un po', ma anche facendo un tuffo nella sorgente chiamata Vergine, ho spostato dapprima le tende al Tevere, poi a questa tinozza scaldata dal sole, quando sono, però particolarmente in forze e va tutto bene: non per molto tempo ancora farò bagni. 6 Quindi il pranzo: pane secco, senza mettersi a tavola: dopo un simile pasto non occorre lavarsi le mani. Dormo pochissimo, tu conosci le mie abitudini: faccio sonni brevissimi e a intervalli; mi basta riposarmi un po'; a volte so di aver dormito, a volte non ne sono sicuro. 7 Ecco, si sentono grida provenire dal Circo; un vociare improvviso e generale mi ferisce le orecchie, ma non mi distoglie dai miei pensieri, e neppure li interrompe. Sopporto il rumore con molta pazienza, il vociare confuso della folla è per me come l'infrangersi delle onde o il vento che sferza gli alberi o altri suoni indistinti.

8 Quali sono i miei pensieri? Eccoli. Ieri ho fatto una riflessione che devo ancora risolvere: a che mirano uomini tra i più saggi dando di problemi veramente importanti dimostrazioni superficialissime e capziose che, se pure sono vere, sembrano false. 9 Quell'uomo straordinario che fu Zenone, fondatore di questa fortissima e venerandissima scuola filosofica, vuole tenerci lontani dall'ubriachezza. Senti come cerca di concludere che l'uomo virtuoso non sarà mai ubriaco. "Nessuno confida a un ubriaco un segreto, lo confida a un uomo onesto, dunque, l'uomo onesto non sarà mai ubriaco." Guarda come questo sillogismo può essere messo in ridicolo da uno simile, ma contrario (basta citarne uno dei molti): "Nessuno confida a un uomo che dorme un segreto, a un uomo onesto lo confida; quindi, l'uomo onesto non dorme." 10 Posidonio cerca di difendere il nostro Zenone nell'unico modo possibile, ma nemmeno così, a mio parere, può essere difeso. Sostiene che "ubriaco" si può usare in due sensi, il primo quando uno è pieno di vino e non è padrone di sé, il secondo se uno è solitamente ubriaco ed è soggetto a questo vizio; Zenone parla non di chi è ubriaco, ma di chi lo è abitualmente; a costui nessuno affiderebbe un segreto perché potrebbe rivelarlo sotto l'effetto del vino. 11 Ma questo è falso; la prima parte del sillogismo si riferisce a chi è ubriaco, non a chi lo sarà. Devi ammettere che c'è una grande differenza tra un ubriaco e un ubriacone: chi è ubriaco può esserlo allora per la prima volta e non avere questo vizio, e l'ubriacone spesso può essere sobrio; la parola ubriaco, perciò io la intendo nel suo senso comune, soprattutto perché viene usata da un uomo notoriamente preciso e solito a pesare le parole. Inoltre, se Zenone ha inteso una cosa e voleva che noi ne intendessimo un'altra, ha cercato di ingannarci usando una parola ambigua, e questo è inammissibile quando si ricerca la verità. 12 Ma ammettiamo pure che l'abbia intesa in questo senso: la seconda parte, però cioè che non si confida un segreto a chi è abitualmente ubriaco è falsa. Pensa a quanti soldati non sempre sobri il comandante, il tribuno o il centurione hanno affidato messaggi segreti. Per l'assassinio di Cesare, parlo di quello che prese il potere dopo aver sconfitto Pompeo, ci si affidò sia a Tillio Cimbro, sia a C. Cassio. Cassio era completamente astemio, Tillio Cimbro era un ubriacone e un attaccabrighe. Su questo fatto scherzava lui stesso: "Io che non posso tollerare il vino," diceva, "come potrei sopportare qualcuno?"

13 Ciascuno di noi potrebbe a questo punto nominare delle persone a cui sa di non poter affidare del vino, ma un segreto sì; io citerò un solo esempio che mi viene in mente e vorrei che fosse ricordato perché non si perda. La nostra vita dobbiamo formarla con esempi celebri, senza ricorrere sempre a quelli antichi. 14 L. Pisone, prefetto di Roma, era sempre ubriaco fin dal giorno in cui fu eletto. Passava la maggior parte della notte banchettando; dormiva quasi fino a mezzogiorno; questa era la sua alba. E tuttavia adempì con grande diligenza ai suoi còmpiti che riguardavano la difesa della città. Anche l'imperatore Augusto gli diede incarichi segreti, quando gli affidò il comando della Tracia, che egli riuscì a domare, e lo stesso fece Tiberio che partì per la Campania, lasciando in città una situazione pericolosa e ostile. 15 Secondo me, poiché Pisone, nonostante la sua ubriachezza, gli aveva reso un buon servizio, in sèguito nominò prefetto della città Cosso, uomo serio, moderato, ma dedito al bere e avvinazzato al punto che una volta, sopraffatto da un sonno profondo, fu portato via di peso dal senato, dove si era recato dopo un banchetto. E tuttavia Tiberio gli scrisse di suo pugno molte cose che giudicava di non poter confidare neppure ai suoi ministri: ma Cosso non si lasciò sfuggire nessun segreto su questioni private o pubbliche.

16 Facciamo, perciò piazza pulita di tutte queste vuotaggini: "Se uno è schiavo dell'ubriachezza non è padrone di sé: il mosto fermentando fa scoppiare anche le botti e la forza del calore rigetta in alto la feccia del fondo, così il vino ribolle dentro di noi e porta fuori, rivelandolo a tutti, ogni più intimo segreto. Chi è gonfio di vino non riesce a trattenere il cibo poiché il vino trabocca, allo stesso modo non trattiene neppure i segreti; mette fuori i suoi e quelli degli altri." 17 Ma nonostante le cose vadano in genere così, accade anche che su questioni importanti ci consigliamo con persone notoriamente dedite al bere; è, dunque, falsa l'affermazione fatta per difendere Zenone che a un ubriacone non si confida un segreto.

Quanto sarebbe meglio accusare apertamente l'ubriachezza e metterne in luce i vizi: anche un uomo normale dovrebbe evitarli, e a maggior ragione l'uomo compiutamente saggio; a lui basta togliersi la sete e anche se a volte è spinto a bere da un'allegria che si protrae non per sua volontà, si ferma prima di ubriacarsi. 18 Vedremo in seguito se il bere eccessivo turba l'animo del saggio e se lo porta ad agire come gli ubriachi: intanto se vuoi arrivare alla conclusione che un uomo onesto non deve ubriacarsi, perché vai avanti a forza di sillogismi? Di' piuttosto come è vergognoso ingoiare più di quanto si può contenere, e non conoscere la capienza del proprio stomaco, quanti spropositi che fanno arrossire le persone sobrie commettono gli ubriachi: l'ubriachezza non è altro che una pazzia volontaria. Il comportamento di un ubriaco prolungalo per diversi giorni: dubiterai che si tratti di pazzia? Anche l'ubriachezza momentanea è la stessa cosa, solo più breve. 19 Fai l'esempio di Alessandro Magno: durante un banchetto trafisse Clito, il suo più caro e fedele amico; quando si rese conto del suo delitto, voleva morire e certo avrebbe dovuto farlo. L'ubriachezza esaspera e mette a nudo tutti i vizi, cancella il pudore che fa da freno ai cattivi impulsi; è la vergogna di fare il male più che la buona volontà a distogliere la maggior parte degli uomini da azioni illecite. 20 Quando l'animo è in preda all'effetto violento del vino, tutta la malvagità nascosta emerge. L'ubriachezza non origina i vizi, ma li mette in luce: è allora che l'uomo libidinoso non aspetta nemmeno di entrare in camera da letto, ma soddisfa subito le sue voglie; che l'impudico rivela apertamente i suoi istinti morbosi; che l'insolente non tiene più a freno la lingua e le mani. Cresce la superbia dell'arrogante, la crudeltà del violento, la malevolenza dell'invidioso; ogni vizio viene fuori ingigantito. 21 C'è, inoltre, uno stato di incoscienza, un modo di esprimersi incerto e confuso, lo sguardo velato, il passo incerto, i giramenti di testa, l'ondeggiare del tetto come se un vortice facesse girare tutta la casa, il mal di stomaco, quando il vino fermenta e gonfia le viscere. E tuttavia è in qualche modo tollerabile, quando manifesta il suo effetto naturale: ma che dire quando il vino è guastato dal sonno e l'ubriachezza diventa indigestione? 22 Pensa quali sventure ha generato l'ubriachezza di un popolo: ha consegnato ai nemici genti fiere e bellicose, ha aperto un varco in mura difese per molti anni con una lotta ostinata, ha assoggettato al dominio straniero popoli superbi e insofferenti di ogni dominazione, grazie al vino ha domato uomini invincibili in guerra. 23 Alessandro, che ho nominato or ora, superò senza pericolo tante marce, tante battaglie, inverni trascorsi vincendo le avverse condizioni climatiche e ambientali, tanti fiumi dalle sorgenti ignote, tanti mari: ma l'intemperanza nel bere e quella fatale coppa di Ercole lo mandarono sotto terra. 24 Che gloria ci può essere nel reggere bene grandi quantità di vino? Quando avrai nelle tue mani la palma della vittoria e i commensali vinti dal sonno, vomitando, rifiuteranno i tuoi inviti a bere, quando sarai l'unico superstite dell'intero banchetto, quando avrai stroncato tutti con questa magnifica prova di valore e nessuno sarà stato in grado di bere tanto vino, sarai vinto da una botte. 25 M. Antonio, grande uomo e di nobile ingegno, che altro lo mandò in rovina e lo trascinò ad abitudini straniere e a vizi sconosciuti ai Romani, se non l'ubriachezza e l'amore per Cleopatra, non meno funesto del vino? Questo lo rese nemico della patria e inferiore ai suoi nemici; questo lo rese crudele: gli venivano portate, mentre cenava, le teste dei notabili della città e riconosceva il volto e le mani dei proscritti sedendo a tavole riccamente imbandite, tra un lusso regale, e gonfio di vino aveva ancora sete di sangue. Era intollerabile che si ubriacasse mentre commetteva queste atrocità: ma quanto più intollerabile ancora che le commettesse mentre era ubriaco! 26 Il vizio del bere porta di solito alla crudeltà; un animo sano viene corrotto e inasprito. Le lunghe malattie rendono gli uomini intrattabili, irritabili e furiosi per ogni più piccola offesa: così un continuo stato di ubriachezza abbrutisce gli animi; poiché gli ubriachi sono spesso fuori di sé, questo stato di demenza diventa costante e i vizi derivanti dal vino perdurano anche senza i suoi effetti.

27 Spiega, allora, perché il saggio non deve ubriacarsi; mostra a fatti, non a parole, l'infamia e la brutalità di questo vizio. Prova, ti sarà facilissimo, che i cosiddetti piaceri, quando passano la misura, diventano sofferenze. Se cercherai di dimostrare con cavilli che il saggio non si ubriaca anche bevendo molto vino e può condurre una vita onesta anche se è un ubriacone, potrai concludere che non morirà se beve un veleno, non dormirà se ingerisce un sonnifero, e non vomiterà quello che ha nello stomaco, se prenderà l'elleboro. Ma se i piedi sono incerti, se la lingua balbetta, come puoi ritenerlo in parte sobrio e in parte ubriaco? Stammi bene.

 

LIBRI UNDICESIMO-TREDICESIMO

 

 

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1 Questi viaggi, che mi scuotono di dosso l'apatia, credo che facciano bene alla mia salute e ai miei studi. Perché facciano bene alla mia salute lo vedi bene: l'amore per gli studi mi rende pigro e mi fa trascurare il corpo, così faccio esercizio a spese di altri. Quanto allo studio, ecco perché servono: non ho smesso un momento di leggere. Le letture - penso - mi sono necessarie, primo perché non sia pago solo di me stesso, poi perché venendo a conoscenza delle indagini altrui, possa formulare giudizi sui risultati e riflettere sulle ricerche da farsi. La lettura nutre la mente e la ristora quando è affaticata dallo studio, anche se richiede una certa applicazione. 2 Non dobbiamo limitarci a scrivere o a leggere: la prima attività, parlo dello scrivere, riduce ed esaurisce le forze; la seconda ti snerva e ti spossa. Bisogna, invece, passare dall'una all'altra e contemperarle in modo che la penna riconduca a unità quanto si è raccolto con la lettura. 3 Dobbiamo, si dice, imitare le api che svolazzano qua e là e suggono i fiori adatti a fare il miele, poi dispongono e distribuiscono nei favi quello che hanno portato e, come scrive il nostro Virgilio,

 

Accumulano il limpido miele e colmano le celle di dolce nettare.

 

 

4 Non si sa bene se ricavino dai fiori un succo che è addirittura miele, oppure trasformino in questa sostanza saporita le essenze raccolte, mescolandole insieme e servendosi di una qualità del loro alito. Secondo certi studiosi le api non hanno la capacità di fare il miele, ma solo di raccoglierlo. Dicono che in India il miele si trova nelle foglie di canna e che lo produce o la rugiada di quel clima o il succo dolce e piuttosto denso della canna stessa e che anche nelle nostre piante c'è un'identica sostanza, meno appariscente, però e percepibile, e le api, generate a questo scopo, la cercano e la concentrano. Per altri le api trasformano in miele le sostanze che succhiano dalle piante e dai fiori più teneri, preparandole e disponendole convenientemente, e usano, per dire così, una sorta di lievito, con cui amalgamano in un tutt'uno omogeneo essenze diverse.

5 Ma per non allontanarmi dall'argomento in questione, anche noi dobbiamo imitare le api e distinguere quello che abbiamo ricavato dalle diverse letture, poiché le cose si mantengono meglio divise; dobbiamo fondere poi, in un unico sapore, valendoci della capacità e della diligenza della nostra mente, i vari assaggi, così che, anche se ne è chiara la derivazione, appaiano tuttavia diversi dalla fonte. 6 Noi vediamo che nel nostro corpo il processo della digestione si svolge naturalmente, senza il nostro intervento; (gli alimenti che ingeriamo, finché mantengono le loro caratteristiche e galleggiano allo stato solido nello stomaco, costituiscono un peso; ma quando modificano il loro precedente stato, diventano sangue ed energie fisiche); facciamo lo stesso con il nutrimento dello spirito: e quanto abbiamo attinto, non lasciamolo intero, perché non ci rimanga estraneo. 7 Digeriamolo: altrimenti alimenterà la nostra memoria, non il nostro spirito. Aderiamo a esso totalmente e facciamolo nostro: da elementi differenti si formerà così un tutt'uno, come i singoli numeri, quando si fa il calcolo complessivo di somme minori e diverse, danno un'unica cifra. Si faccia in questo modo: dissimuliamo tutti gli apporti esterni e mostriamo solo il risultato. 8 Anche se in te si scorgerà una somiglianza con qualcuno che hai ammirato e che ti è rimasto impresso in maniera piuttosto profonda, vorrei che gli assomigliassi come un figlio, non come un ritratto: il ritratto non ha vita. "Ma come? Non si capirà chi è l'autore di cui imiti il linguaggio, le argomentazioni, i pensieri?" Secondo me, certe volte non si può nemmeno intuire, quando un uomo di grande ingegno dà un'impronta personale a tutte le idee che ha tratto dal suo modello e le rende uniformi. 9 Non vedi di quante voci è composto un coro? E tuttavia dall'insieme nasce una melodia unica. Ci sono voci acute, basse, medie; alle maschili si uniscono quelle femminili, si sovrappongono i flauti: le singole voci scompaiono e si percepiscono tutte insieme. 10 Mi riferisco al coro che conoscevano i vecchi filosofi: ora nelle rappresentazioni gli interpreti sono più numerosi di quanti erano una volta gli spettatori a teatro. Quando le file dei cantanti riempiono tutti i passaggi, e le gradinate sono circondate dai trombettieri, e dal palco risuonano insieme flauti e strumenti di ogni tipo, dai diversi suoni nasce un'armonia. Il nostro animo vorrei che fosse così: ricco di capacità, di precetti, di esempi di epoche diverse, ma fusi armonicamente insieme.

11 "Come si può arrivare a questo?" chiedi; con un'applicazione continua: se non ci faremo consigliare dalla ragione, non concluderemo niente e non potremo evitare errori. Se la vorrai ascoltare, essa ti dirà: abbandona subito questi falsi beni che tutti inseguono; abbandona la ricchezza: è un pericolo o un peso per chi la possiede; abbandona i piaceri del corpo e dello spirito: indeboliscono e snervano; abbandona l'ambizione: è un sentimento pieno di boria, vano, volubile, non ha limiti, si preoccupa di non essere inferiore o pari a nessuno, soffre di una duplice forma di invidia: guarda quanto è infelice uno che invidia ed è invidiato. 12 Vedi le case di chi conta, le soglie piene di strepito per gli alterchi dei clienti? Si litiga violentemente per entrare e ancora di più una volta entrati. Passa oltre queste scale dei ricchi e gli ingressi costruiti su grandi rialzi: qui ti trovi su un terreno che non è solo scosceso ma anche scivoloso. Volgiti piuttosto alla saggezza e aspira a quello stato di mirabile tranquillità e ampiezza che le è proprio. 13 Tutto quello che nelle vicende umane sembra emergere, si raggiunge per strade difficili e ardimentose, pur essendo roba da poco e risaltando solo al confronto con le cose più umili. Scabrosa è la via per arrivare ai vertici della dignità. Ma se vuoi raggiungere questa vetta, di fronte alla quale si piega anche la fortuna, vedrai sotto di te tutto quello che gli uomini ritengono eccelso: e tuttavia in cima ci arrivi per un sentiero pianeggiante. Stammi bene.

 

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1 Ti avevo risparmiato e avevo tralasciato tutte le questioni complicate che ancora rimanevano, contento di darti come un assaggio delle teorie stoiche tendenti a dimostrare che la virtù da sola basta a rendere felice la vita. Ora tu vuoi che io ti esponga tutte le argomentazioni della nostra scuola oppure quelle escogitate per schernirci: se volessi farlo, la mia non sarebbe una lettera, ma un libro. Te l'ho detto tante volte che non mi piace questo genere di argomenti, mi vergogno di scendere in campo e di battermi a favore di dèi e uomini armato di una lesina.

2 "L'uomo saggio è anche moderato; l'uomo moderato è anche tenace; l'uomo tenace è imperturbabile, l'uomo imperturbabile non è mai triste; chi non è mai triste è felice; quindi, il saggio è felice e la saggezza è sufficiente per avere una vita felice."

3 A questo sillogismo certi Peripatetici rispondono che intendono "imperturbabile, tenace, mai triste" nel senso in cui si definisce "imperturbabile" chi si turba raramente e poco, non chi non si turba mai. Allo stesso modo si definisce "mai triste" dicono chi non è soggetto alla tristezza e non indulge spesso in maniera eccessiva a questo difetto; perché per sua natura nessun uomo può essere immune dalla tristezza; il saggio non vi soccombe, ma ne è toccato; e aggiungono altre affermazioni in linea alle direttive della loro scuola. Così per loro il saggio non è privo di passioni, ma le domina. 4 Certo riconosciamo ben poco al saggio se lo stimiamo più forte dei più deboli, più allegro dei più tristi, più moderato dei più sfrenati, più grande dei più umili! Che penseresti se Lada trovasse straordinaria la sua velocità mettendola a confronto con gli zoppi e i deboli?

Ella potrebbe volare a fior delle messi intatte senza danneggiare con la corsa le tenere spighe, o attraversare il mare sospesa sui gonfi flutti, senza bagnare i veloci piedi.

Questa è una velocità apprezzata per se stessa, che non è lodata al confronto con i più lenti. Definiresti sana una persona che ha una febbre leggera? Non avere una malattia grave non è salute. 5 "Così," continuano, "si dice che il saggio è imperturbabile, come si dice che sono senza nocciolo non i frutti privi di semi, ma quelli che li hanno più piccoli." Falso. Il saggio, a mio parere, deve essere senza vizi, e non averne di meno; devono mancare completamente, non essere piccoli; se ce n'è qualcuno, crescerà e sarà a volte di ostacolo. Un principio di cataratta offusca la vista; quando diventa più grande e matura rende ciechi. 6 Se al saggio attribuisci delle passioni, la ragione sarà sopraffatta e trascinata via come da un torrente, soprattutto se deve combattere, a tuo parere, non contro una sola passione, ma contro tutte. Una massa di passioni, anche se moderate, ha più forza di un'unica, violenta passione. 7 È avido, ma non troppo; è ambizioso, ma non in maniera esagerata; è collerico, ma si calma sùbito; è incostante, ma non eccessivamente volubile e mutevole; è lussurioso, ma non maniaco. Si tratterebbe meglio con un individuo caratterizzato da un unico vizio completo che con chi li ha tutti, anche se più leggeri. 8 Inoltre, non importa quanto è grande una passione: per piccola che sia, non sa obbedire, non accetta consigli. Nessun animale, sia feroce, sia domestico e mansueto, obbedisce alla ragione: la loro natura è sorda ai moniti che da essa provengono; così le passioni, per quanto piccole siano, non seguono la ragione, non le dànno ascolto. Le tigri e i leoni non si spogliano mai della loro ferocia, certe volte la placano, ma, quando meno te l'aspetti, la loro ferinità, momentaneamente lenita, esplode. Non c'è mai sicura garanzia che i vizi siano domati. 9 E poi, se la ragione viene in aiuto, le passioni non nascono nemmeno; ma se cominciano a dispetto della ragione, a dispetto della ragione continueranno. È più facile impedirne la nascita che dominarne la violenza.

Parlare di una via di mezzo è perciò sbagliato e inutile, come se uno dicesse che ci si può ammalare o impazzire solo un po'. 10 Solo la virtù conosce la moderazione, i vizi no; è più facile eliminarli che dominarli. I vizi radicati e incalliti dell'anima umana, quelli che noi definiamo malattie, come l'avarizia, la crudeltà, la prepotenza, sono senza dubbio smodati. Quindi, smodate sono anche le passioni; giacché da quelli si passa a queste. 11 E poi, se riconosciamo un qualche diritto alla tristezza, alla paura, alla cupidigia, e agli altri impulsi perversi, non riusciremo più a dominarli. Perché? Perché le forze che li eccitano sono fuori di noi, e perciò essi cresceranno a seconda che a suscitarli siano cause più o meno grandi. Se uno guarda più a lungo o più da vicino quello che lo atterrisce, la sua paura sarà maggiore; così la cupidigia sarà più acuta se la stimola la speranza di una cosa più preziosa. 12 Se non siamo in grado di impedire l'insorgere delle passioni, non saremo neppure in grado di regolarle. Se hai permesso loro di nascere, cresceranno con le loro cause e la loro forza sarà proporzionale al loro sviluppo. Aggiungi poi che le passioni, per quanto possano essere moderate, tendono ad aumentare; le cose nocive non mantengono mai una giusta misura; per quanto all'inizio siano leggeri, i mali serpeggiano e a volte un attacco lievissimo abbatte un organismo malato. 13 Che pazzia è credere di poter mettere fine a nostro piacimento a quelle passioni di cui non siamo in grado di contrastare gli inizi! Come posso avere forza sufficiente per mettere fine a una cosa che non ho avuto la forza di impedire, quando è più facile respingere che mettere freno a quello cui si è lasciato via libera!

14 Certi filosofi hanno fatto questa distinzione: "L'uomo moderato e saggio è sereno per disposizione e abito mentale, ma non lo è di fronte ad avvenimenti improvvisi. Per abito mentale non si turba, non si rattrista, non ha paura, ma a turbarlo possono intervenire molte cause esterne." 15 Precisiamo quello che vogliono dire: costui non è collerico, ma qualche volta si infuria; non è un vigliacco, ma qualche volta ha paura, in lui, cioè, la paura non è un vizio, ma un'affezione momentanea. Se ammettiamo questo, la paura a lungo andare può trasformarsi in vizio, e l'ira, una volta penetrata nell'animo, può modificare quella fisionomia propria di un animo che ne è esente. 16 Inoltre, se uno non disprezza le cause esterne e teme qualcosa, esiterà a muoversi e sarà riluttante quando dovrà affrontare con coraggio le armi, il fuoco per difendere la patria, le leggi, la libertà. Ma il saggio non è soggetto a questi sentimenti contrastanti. 17 Ritengo, inoltre, che bisogna fare attenzione a non mescolare due questioni che vanno esaminate separatamente; in un modo si argomenta che l'unico bene è l'onesto, in un altro che la virtù basta alla felicità. Se l'unico bene è l'onesto, tutti ammettono che la virtù basta alla felicità; viceversa, se è solo la virtù a rendere felici, non si concederà che l'unico bene è l'onesto. 18 Senocrate e Speusippo giudicano che si può diventare felici anche per la sola virtù, ma non che l'unico bene è l'onesto. Anche secondo Epicuro, avendo la virtù, si è felici, ma la virtù non basta alla felicità, perché a rendere felici è il piacere che deriva dalla virtù, non la virtù in se stessa. È una distinzione che non vale niente: lo stesso Epicuro sostiene infatti che la virtù si accompagna sempre al piacere. Così se vi è sempre strettamente unita e ne è inseparabile, basta anche da sola; difatti, anche quando è sola, ha con sé il piacere, senza il quale non esiste. 19 È poi assurdo affermare che si sarà felici anche con la sola virtù, ma non perfettamente felici; non capisco come ciò sia possibile. La felicità ha in sé il bene perfetto e insuperabile; e se è così, la felicità è perfetta. Se non c'è niente di più grande o di migliore della vita degli dèi, e la vita degli dèi è felice, essa non può innalzarsi a vertici più alti. 20 Inoltre, se la felicità non ha bisogno di niente, ogni felicità è perfetta ed è, al tempo stesso, felice e la più felice. Dubiti forse che la felicità sia il sommo bene? E allora, se possiede il sommo bene, è felice al massimo grado. Il sommo bene non ammette aumenti, perché non c'è niente al di sopra del sommo; analogamente non ne ammette neppure la felicità, che non esiste senza il sommo bene. Perché se postuli uno "più" felice, postulerai anche uno "molto più" felice; farai innumerevoli distinzioni del sommo bene, mentre io intendo come sommo bene ciò che non ha gradi sopra di sé. 21 Se uno è meno felice di un altro, ne consegue che il primo preferisce alla sua la vita dell'altro più felice; ma l'uomo felice non preferisce niente alla sua vita. Entrambi i casi sono inverosimili: sia che per l'uomo felice ci sia qualcosa da preferire al suo stato, sia che non preferisca uno stato migliore del suo. Più uno è saggio, più tenderà al meglio e desidererà conseguirlo a ogni costo. Ma come può essere felice uno che può anzi deve, avere ancora dei desideri?

22 Ti spiegherò l'origine di questo errore: non sanno che una sola è la felicità. La sua qualità, non la sua grandezza, la mette nella condizione migliore; perciò è uguale sia lunga, sia breve, sia estesa, sia ristretta, distribuita in molti luoghi e in parti diverse o costretta in un unico posto. Chi la valuta in base a numeri, misure e parti, la priva della sua singolare caratteristica. E qual è questa caratteristica? La completezza. 23 Saziarsi è secondo me lo scopo del mangiare e del bere. Uno mangia di più, un altro di meno: che importa? Si sono saziati entrambi. Uno beve di più, un altro di meno: che importa? Nessuno dei due ha sete. Uno ha vissuto più a lungo, un altro meno: non importa, se i numerosi anni di vita hanno reso felice l'uno quanto l'altro i pochi. Quell'uomo che tu definisci meno felice, non è felice: questo aggettivo non può venire limitato.

24 "Chi è forte non ha paura; chi non ha paura non è triste; chi non è triste è felice."

Questo è un sillogismo stoico; tentano di confutarlo dicendo che noi vogliamo far passare per vera un'affermazione falsa e controversa, cioè che l'uomo forte non ha paura. "E come?" dicono. "L'uomo forte non temerà i mali che lo sovrastano? Questo è l'atteggiamento di un pazzo, di un demente, non di una persona forte. Egli riesce a dominare la sua paura, ma non ne è del tutto immune." 25 Quelli che la pensano così ricadono di nuovo nello stesso errore: considerano virtù i vizi meno accentuati; se uno ha paura, ma più raramente e meno degli altri, non è che non abbia questo vizio, solo ne è affetto in misura minore. "Ma per me è un pazzo chi non teme i mali che lo minacciano." Ciò che dici sarebbe vero se si trattasse di mali, ma se egli sa che quelli non sono mali e giudica un male soltanto la disonestà, dovrà guardare i pericoli senza paura e disprezzare i timori degli altri. Oppure, se non temere i mali è da sciocchi o da pazzi, più uno è saggio più ne avrà timore. 26 "Secondo voi," continuano, "l'uomo forte deve esporsi ai pericoli." Niente affatto: non ne avrà paura, ma cercherà di evitarli; gli si addice la cautela, non la paura. "Ma come?" chiedono. "Non avrà paura della morte, della prigione, del fuoco e degli altri colpi della fortuna?" No; sa che non sono mali, ne hanno solo l'apparenza; tutti questi li giudica spauracchi della vita umana. 27 Descrivigli la prigionia, le frustate, le catene, la povertà, le membra straziate dalle malattie o dalla violenza e qualunque altro tormento vorrai aggiungere: le considera paure degne di una mente malata. Solo i deboli ne hanno timore. Oppure giudichi un male quello che a volte dobbiamo affrontare volontariamente? 28 Chiedi qual è il male? Cedere ai cosiddetti mali e consegnare ad essi la propria libertà, in nome della quale bisogna sopportare ogni sofferenza: la libertà finisce, se non disprezziamo le cose che ci impongono un giogo. Se sapessero cos'è il coraggio, non avrebbero dubbi sull'atteggiamento conveniente a un uomo coraggioso. E il coraggio non è temerità sconsiderata o amore del pericolo o ricerca di situazioni spaventose: è la capacità di distinguere cos'è male e che cosa non lo è. L'uomo coraggioso è molto attento alla sua difesa e nello stesso tempo sopporta con grande fermezza gli eventi che hanno la falsa apparenza di mali. 29 "E allora? Se l'uomo forte lo minaccia una spada, se è colpito ripetutamente in più parti del corpo, se dal ventre squarciato vede le sue viscere, se viene torturato a intervalli perché senta di più i tormenti e nuovo sangue esce dalle ferite rimarginate, dirai forse che non ha paura, né tanto meno prova dolore?" Soffre, sì (nessuna virtù toglie all'uomo la sensibilità), ma non ha paura: incrollabile guarda dall'alto le sue sofferenze. Vuoi sapere qual è il suo stato d'animo in quel momento? Quello di chi conforta un amico ammalato.

30 "Ciò che è male nuoce; ciò che nuoce rende peggiori, il dolore e la povertà non rendono peggiori; quindi, non sono mali."

"Sillogismo falso," sostengono, "quello che nuoce non è detto che renda anche peggiori. Tempeste e burrasche nuocciono al timoniere, ma non lo rendono peggiore." 31 Qualche Stoico controbatte così: tempeste e burrasche rendono peggiore il timoniere perché non può realizzare i suoi propositi e non può mantenere la rotta; non diventa peggiore nella sua arte, ma nel realizzarla. A questi filosofi i Peripatetici rispondono: "Dunque, la povertà, il dolore e qualunque altra disgrazia del genere, renderanno peggiore anche il saggio; non gli toglieranno la virtù, ma ne impediranno l'attuazione." 32 Questa affermazione sarebbe giusta se la condizione del timoniere e quella del saggio non fosse diversa. Il saggio non si propone di realizzare a ogni costo nel corso della vita i suoi scopi, ma di agire sempre con rettitudine: il timoniere, invece, si propone di condurre a ogni costo la nave in porto. Le arti sono strumenti, devono mantenere quello che promettono, la saggezza è signora e padrona; le arti sono al servizio della vita, la saggezza la comanda.

33 Ritengo, quindi, che si debba rispondere diversamente: nessuna burrasca rende peggiore l'arte del timoniere o la sua attuazione pratica. Il timoniere non ti promette un esito fortunato, ma un servizio utile e la capacità di condurre la nave; e questa risulta tanto più evidente quanto maggiori sono le forze impreviste che lo ostacolano. Chi ha potuto dire: "Nettuno, non avrai mai questa nave, se non sulla giusta rotta", ha fatto abbastanza per l'arte sua. La tempesta non impedisce il lavoro del timoniere, ma il successo. 34 "Come?" chiedono. "Al timoniere non nuoce una cosa che gli impedisce di arrivare in porto, che rende vani i suoi tentativi, che lo spinge indietro oppure non lo fa avanzare e distrugge l'attrezzatura dell'imbarcazione?" Non gli nuoce come timoniere, ma come navigante: per altri aspetti egli non è un timoniere. Non impedisce la sua arte, anzi la mette in risalto; col mare tranquillo - dice il proverbio - tutti sono bravi piloti. Queste difficoltà danneggiano la nave, non il timoniere, in quanto timoniere. 35 Il timoniere riveste due ruoli: uno comune a tutti i passeggeri della nave: anch'egli è un passeggero; l'altro suo proprio: è il timoniere. La tempesta gli nuoce come passeggero, non come timoniere. 36 Inoltre l'arte del timoniere è un bene per gli altri: riguarda i passeggeri, come quella del medico riguarda i pazienti: l'arte del saggio è un bene comune, sia di coloro con cui vive, sia suo proprio. Perciò forse il timoniere subisce un danno quando la tempesta gli impedisce di compiere un servizio promesso ad altri; 37 al saggio, invece, non nuocciono la povertà, il dolore e le altre vicissitudini della vita: non gli impediscono ogni attività, ma solo quelle che riguardano gli altri; egli è sempre in azione e realizza i suoi intenti soprattutto quando la sorte gli è sfavorevole; allora agisce nell'interesse della stessa saggezza che, come abbiamo detto, è un bene suo e degli altri.

38 Il saggio, inoltre, può giovare agli altri anche se è oppresso dalle difficoltà. La povertà gli può impedire di insegnare come governare lo stato, ma egli insegna come governare la povertà. La sua opera dura per tutta la vita. L'attività del saggio non la impediscono così nessun caso, nessuna circostanza: egli si occupa di quella stessa faccenda che gli impedisce di occuparsi d'altro. È pronto a entrambe le evenienze: essere padrone del bene e saper vincere il male. 39 Si è preparato, dico, a dimostrare la sua virtù sia nella buona che nella cattiva fortuna e a guardare non alla materia in cui la virtù si esplica, ma direttamente ad essa; perciò non lo ferma la povertà, né il dolore, né qualunque altro caso che distoglie e mette in fuga gli ignoranti. Pensi che i mali lo abbattano? Al contrario, se ne serve. 40 Fidia non sapeva scolpire solo statue d'avorio, le faceva anche di bronzo. Se avesse avuto a disposizione marmo o un materiale ancòra meno pregiato, avrebbe fatto il meglio che la materia consentiva. Così il saggio dimostrerà la sua virtù - se sarà possibile - nella ricchezza, se no, in povertà; se potrà, in patria, se no, in esilio; come comandante supremo, se no, come soldato; sano, se no storpio. Qualunque sia il suo destino, ne ricaverà cose memorabili. 41 Ci sono domatori che ammaestrano bestie ferocissime e spaventose a trovarsele davanti, e non si accontentano di averle private della loro fierezza, le ammansiscono fino ad averne familiarità: il domatore caccia la mano nelle fauci del leone, il sorvegliante bacia la tigre; un giovanissimo etiope fa inginocchiare l'elefante e lo fa passeggiare sulla fune. Così il saggio è capace di domare i mali: il dolore, la miseria, il disonore, il carcere, l'esilio, spaventosi sempre, davanti a lui diventano mansueti. Stammi bene.

 

86

1 Ti scrivo mentre me ne sto in riposo proprio nella villa di Scipione l'Africano, dopo aver reso onore al suo spirito e all'ara che - immagino - è il sepolcro di un così grande uomo. Sono convinto che la sua anima è ritornata in cielo, sua origine, non perché comandò grandi eserciti (lo fece anche quel pazzo di Cambise, e con successo nella sua pazzia), ma per la sua straordinaria moderazione e per il suo amore di patria, che - penso - fu in lui più ammirevole quando lasciò la sua città che quando la difese. Doveva scegliere, o Scipione a Roma, o Roma libera. 2 "Non voglio," disse, "derogare alle leggi, né alle istituzioni; tutti i cittadini abbiano uguali diritti. Goditi, o patria, senza di me il bene che ti ho fatto. Sono stato l'artefice della tua libertà, ne sarò anche la prova: me ne vado, se la mia autorità è cresciuta più di quanto ti è utile." 3 E perché non dovrei ammirare questa grandezza d'animo che lo spinse ad andare volontariamente in esilio e a liberare la città da un peso? La situazione era arrivata a un punto tale che o la libertà avrebbe fatto violenza a Scipione, o Scipione alla libertà. In entrambi i casi sarebbe stato un sacrilegio; egli, perciò obbedì alle leggi e si ritirò a Literno, imputando allo stato tanto il suo esilio, quanto quello di Annibale.

4 Ho visto la villa costruita con massi quadrati, il muro che delimita il bosco, e anche le torri edificate a difesa della casa su i due lati, la cisterna, nascosta da fabbricati e piante, che potrebbe bastare persino al fabbisogno di un esercito, il bagno angusto e buio secondo le abitudini antiche: per i nostri antenati non era caldo, se non era oscuro. 5 Ho provato un grande piacere a confrontare i costumi di Scipione e i nostri: in questo cantuccio "il terrore di Cartagine", a cui Roma è debitrice di essere stata invasa una sola volta, lavava via la stanchezza della fatica nei campi. Si dedicava ai lavori agricoli e vangava la terra di sua mano, come era costume degli antichi. Abitò sotto questo tetto così squallido e calpestò questo pavimento tanto rustico: ma adesso chi sopporterebbe di fare il bagno in questo modo? 6 Ci sembra di essere poveri e meschini se le pareti non risplendono di grandi e preziosi specchi, se i marmi alessandrini non sono adornati di rivestimenti numidici e la vernice, data con perizia e varia come un dipinto, non li ricopre da ogni parte, se il soffitto non è rivestito di vetro, se il marmo di Taso, che un tempo si ammirava, e di rado, in qualche tempio, non circonda le vasche, in cui immergiamo il corpo snervato dall'abbondante sudorazione, se l'acqua non sgorga da rubinetti d'argento. 7 E ancora parlo di bagni plebei: che dovrei dire arrivando ai bagni dei liberti? Quante statue, quante colonne che non sostengono niente, ma sono solo un elemento ornamentale e una dimostrazione della spesa sostenuta! Che volume d'acqua viene giù fragorosamente dai gradini. Siamo arrivati a un lusso tale che vogliamo avere sotto i piedi solo pietre preziose.

8 In questo bagno di Scipione più che finestre ci sono delle piccolissime feritoie praticate nel muro di pietra, perché la luce entri senza compromettere la solidità della casa: ma ora dicono che i bagni sono pieni di scarafaggi, se non sono fatti in modo da ricevere il sole tutto il giorno da finestre grandissime, se non ci si lava e ci si abbronza nello stesso tempo, se dalla vasca non si vedono la campagna e il mare. Perciò quei bagni che all'inaugurazione furono ammirati da un concorso di folla, sono ora relegati tra le cose vecchie: il lusso ha escogitato altre novità con cui superare se stesso. 9 Ma un tempo i bagni erano pochi e disadorni: perché si sarebbero dovuti abbellire edifici di scarso valore, destinati all'uso e non al piacere? L'acqua non sgorgava dal basso e non scorreva sempre nuova come da una fonte calda: per lavarsi dalla sporcizia secondo loro non aveva importanza che l'acqua fosse trasparente. 10 Ma, buon dio, come sarebbe bello entrare in quei bagni bui e ricoperti di intonaco da due soldi, sapendoli preparati per te dalle mani di un edile come Catone o Fabio Massimo o qualcuno dei Corneli! Quei nobilissimi edili avevano anche il compito di entrare nei locali destinati al popolo e di controllarne la pulizia e la temperatura, che doveva essere giusta e sana, non come quella escogitata ora, calda come un incendio, tanto da essere buona per scorticare vivo un servo colto in flagrante. Mi sembra che ormai non ci sia differenza tra un bagno caldo e uno bollente. 11 Di quanta rozzezza alcuni accusano oggi Scipione perché nel suo bagno non penetrava la luce da ampie finestre, perché non si cuoceva al sole e non aspettava di digerire in bagno! Sventurato! Non sapeva vivere. L'acqua con cui si lavava non era filtrata, anzi spesso era torbida e quando pioveva con più violenza, era quasi fangosa. E non gli importava molto di lavarsi in questo modo; andava a detergersi il sudore, non gli oli profumati. 12 Cosa pensi che dirà ora qualcuno? "Non invidio Scipione: è davvero vissuto in esilio uno che si lavava così." Anzi, se vuoi saperlo, non si lavava neppure tutti i giorni; secondo il racconto degli scrittori che ci hanno tramandato i costumi arcaici di Roma, i nostri antenati si lavavano le braccia e le gambe tutti i giorni, perché ovviamente lavorando si insudiciavano, mentre il resto del corpo se lo lavavano una volta alla settimana. Qualcuno a questo punto dirà: "È chiaro che erano molto sporchi." Secondo te che odore avevano? Di guerra, di fatica, di uomo. Dopo l'invenzione di questi bagni eleganti, c'è gente più sudicia. 13 Che cosa dice Orazio Flacco per ritrarre un uomo screditato e noto per la sua sfrenata lussuria?

Buccillo odora di pastiglie profumate.

Immagina un Buccillo di ora: si direbbe che puzza di caprone e lo si metterebbe al posto di quel Gargonio che lo stesso Orazio contrappone a Buccillo. È poco passarsi l'unguento una sola volta, bisogna ripetere l'operazione due o tre volte al giorno, perché non svanisca il profumo. E poi si vantano di questo odore come se fosse il loro!

14 Se questi discorsi ti sembrano troppo pesanti, dài la colpa alla villa di Scipione: qui ho imparato da Egialo, scrupolosissimo padre di famiglia (è lui ora il padrone di questa terra), che un albero, anche vecchio, lo si può trapiantare. Dobbiamo impararlo noi vecchi, che piantiamo tutti, senza eccezione, uliveti per gli altri. [...] 15 Coprirà anche te quell'albero che

cresce lentamente e darà ombra ai lontani nipoti,

come dice il nostro Virgilio; ma egli non mira a scrivere la verità, ma a scrivere con la massima eleganza e non vuole dare consigli agli agricoltori, ma deliziare chi legge. 16 Lasciando da parte tutti gli altri errori, voglio trascrivertene uno che ho dovuto osservare oggi:

In primavera si seminano le fave; i molli solchi accolgono pure te, erba medica; comincia anche la coltura annuale del miglio.

Puoi giudicare tu stesso se queste piante vanno seminate insieme e a primavera: mentre ti scrivo siamo a giugno, anzi, alla fine di giugno: ho visto raccogliere le fave e seminare il miglio nello stesso giorno.

17 Torniamo all'uliveto: ho visto piantare gli alberi in due modi: Egialo ha trapiantato con il loro ceppo i tronchi di grossi ulivi, dopo averne potato i rami a circa trenta centimetri dal fusto. Ne ha tagliato pure le radici, lasciando solo il nucleo centrale da cui si diramavano. Li ha, quindi, ficcati in una fossa dopo averli ben concimati; poi, non si è limitato ad ammassare la terra, ma l'ha calcata e pressata. 18 Dice che non c'è niente di più efficace di questa che lui chiama "pestatura". Evidentemente tiene lontano il freddo e il vento; inoltre il tronco è più saldo e questo permette alle nuove radici di crescere e abbarbicarsi al suolo: quando sono ancora tenere e non aderiscono bene al terreno, una scossa anche leggera le strappa. Quanto al ceppo, lo ha raschiato prima di coprirlo di terra; da qualsiasi pezzo di legno così scorticato, dice, spuntano nuove radici. Il tronco, poi, non deve sporgere dalla terra più di tre o quattro piedi: così si ricoprirà subito di gemme nella parte inferiore e non avrà come i vecchi ulivi la gran parte del fusto arida e secca. 19 Egli ha adottato anche un secondo sistema di trapianto: con lo stesso procedimento ha interrato dei rami forti e di corteccia tenera, come hanno in genere gli alberi giovani. Questi crescono un po' più tardi, ma poiché si sviluppano come dalla pianta, non sono brutti o secchi. 20 Ho visto anche separare una vecchia vite dall'albero di sostegno e trapiantarla; anche i filamenti delle sue radici, se possibile, vanno raccolti, quindi la vite va distesa accuratamente in modo che metta radici anche dal tronco. Le ho viste piantare non solo a febbraio, ma anche alla fine di marzo; e si sono abbarbicate e attaccate ai nuovi olmi. 21 Egialo sostiene che tutte queste piante, come dire, di alto fusto, vanno aiutate con acqua di cisterna; se i risultati sono buoni, non siamo più vincolati alla pioggia.

Ma non ho intenzione di darti altri insegnamenti per non fare di te un mio antagonista, come Egialo ha fatto di me. Stammi bene.

 

87

1 Ho fatto naufragio prima di imbarcarmi: non aggiungo come sia accaduto, perché non voglio che tu lo ritenga uno dei paradossi stoici; ma ti dimostrerò tu voglia o non voglia, che nessuno di essi è falso, né tanto singolare quanto sembra a prima vista.

Intanto questo viaggio mi ha insegnato quante cose inutili abbiamo e come sarebbe facile decidere di rinunziarvi: difatti, se ci capita di esserne privi per necessità, non ci accorgiamo della loro mancanza. 2 Con pochissimi servi, quanti ne ha potuto contenere una sola vettura, senza altri oggetti che quelli indosso, io e il mio amico Massimo già da due giorni viviamo qui felicissimi. Dormo su un materasso messo a terra; due mantelli fanno uno da lenzuolo, l'altro da coperta. 3 Il pranzo è ridotto al minimo indispensabile; è pronto in un'ora, non mancano mai i fichi secchi, mai le tavolette per scrivere; i fichi, se ho il pane, fanno da companatico, se non ce l'ho, da pane. Ogni giorno comincia per me un nuovo anno e io lo rendo propizio e fortunato con onesti pensieri ed elevando lo spirito, che raggiunge il suo culmine quando bandisce ciò che gli è estraneo e conquista la tranquillità eliminando ogni paura, e la ricchezza, eliminando ogni desiderio. 4 La vettura su cui mi sono sistemato è di campagna, le mule dimostrano di essere vive solo perché camminano; il mulattiere è scalzo, e non perché è estate. Mi costa molto non voler nascondere che è la mia; dura ancora in me un distorto senso del pudore e ogni volta che incontriamo un equipaggio più ricco, arrossisco senza volerlo: questo è un segno che i princìpî che apprezzo e lodo non sono ancora in me saldi e incrollabili. Se uno arrossisce di una vettura rozza, andrà orgoglioso di una sontuosa. 5 Ho fatto proprio pochi progressi: ancora non oso manifestare apertamente la mia frugalità; ancora mi preoccupo di ciò che pensano i passanti.

Avrei dovuto gridare contraddicendo l'opinione generale: "Pazzi, sbagliate; rimanete a bocca aperta di fronte a beni inutili e non valutate nessuno per ciò che è veramente suo. Quando si tratta del patrimonio, siete bravissimi a fare i conti in tasca a chi dovete prestare denaro o fare un favore, poiché anche i favori li mettete sotto la voce 'spese'; 6 ha vasti possedimenti, ma anche molti debiti; ha una bella casa, ma comprata con denaro preso a prestito; nessuno può vantare una servitù più imponente, ma non paga alla scadenza; se salderà i suoi debiti, non gli rimarrà niente. Anche con gli altri beni dovrete fare lo stesso per vedere quanto ciascuno possiede realmente." 7 Secondo te uno è ricco perché anche in viaggio si porta dietro stoviglie d'oro, ha terreni in ogni provincia, sfoglia un grosso libro di crediti, possiede fuori città tanto terreno quanto gli invidierebbero anche nella deserta pianura pugliese: elenca pure tutti i suoi averi, è povero. Perché? Perché è pieno di debiti. "A quanto ammontano?" chiedi. A tutto il patrimonio; a meno che tu non ritenga che faccia differenza se i prestiti si ricevono dagli uomini o dalla fortuna. 8 Che importa se le mule sono ben pasciute e tutte del medesimo colore? Se la carrozza è cesellata in oro?

I veloci cavalli bardati di porpora e con coperte variopinte: sui loro petti pendono ondeggiando ornamenti d'oro; coperti d'oro, masticano sotto i denti fulvo oro.

Questi fregi non possono rendere migliore né il padrone, né la cavalcatura. 9 M. Catone il Censore, la cui nascita giovò a Roma quanto quella di Scipione (l'uno combatté contro i nostri nemici, l'altro contro la corruzione), cavalcava un somaro e per di più carico delle bisacce, per portare con sé il necessario. Come vorrei che lo incontrasse uno di questi bellimbusti, che ostentano le loro ricchezze anche sulla via e hanno battistrada, e staffette numidiche a cavallo e sollevano un gran polverone davanti a loro. Senza dubbio sembrerebbe più raffinato di M. Catone e con un più folto seguito questo bel tipo che in mezzo a tanta lussuosa magnificenza è fortemente indeciso se si presterà a combattere con la spada o con il coltello. 10 Come erano belli quei tempi quando un condottiero, un comandante che aveva riportato il trionfo, un ex censore e soprattutto un Catone si contentava di un solo ronzino e neppure tutto per lui: parte lo occupavano i bagagli sospesi da entrambi i lati. A tutti questi puledri da trotto, ben pasciuti e di razza non preferiresti quell'unico cavallo strigliato dallo stesso Catone?

11 Mi rendo conto che su questo argomento si potrebbe continuare all'infinito, se non sarò io stesso a smetterla. Sui bagagli, perciò non aggiungerò più niente: chi per primo li ha chiamati "impedimenti" ha senza dubbio previsto come sarebbero diventati ai nostri giorni. Ora voglio riferirti ancora pochissimi sillogismi stoici sulla virtù che, sosteniamo, basta alla felicità.

12 "Ciò che è buono rende buoni (infatti anche in musica ciò che è buono rende musicisti); i beni fortuiti non rendono buoni, quindi non sono veri beni."

I Peripatetici confutano questo sillogismo dicendo che la premessa è falsa. "Non sempre ciò che è buono rende buoni. In musica c'è qualcosa di buono come il flauto, la cetra o qualche strumento adatto per suonare; nessuno di questi, tuttavia, rende musicista." 13 Ecco la nostra risposta: "Voi non capite che cosa intendiamo con ciò che è buono in musica. Non definiamo così gli strumenti a disposizione del musicista, ma ciò che lo rende tale: tu parli di strumenti musicali, non di musica. Ma se c'è qualcosa di buono proprio nell'arte musicale, questo renderà senz'altro musicisti." 14 Voglio spiegarmi ancora più chiaramente. In musica "buono" si intende in due modi: una cosa utile all'esecuzione musicale o una cosa utile all'arte: gli strumenti, flauti, organi, cetre, riguardano l'esecuzione, non l'arte in se stessa. L'artista è tale anche senza di essi: anche se, forse, non può mettere in pratica la sua arte. Questa duplicità di aspetti manca nell'uomo; il bene dell'uomo e della sua vita coincidono.

15 "Quello che può capitare agli uomini più spregevoli e disonesti non è un bene; le ricchezze capitano anche a un lenone e a un maestro di gladiatori, quindi, non sono beni."

"La premessa è falsa," dicono, "vediamo, infatti, che nella filologia, nella medicina, nell'arte nautica i beni càpitano anche alle persone più umili." 16 Ma queste arti non promettono grandezza d'animo, non si elevano verso l'alto, non disprezzano i beni fortuiti: la virtù innalza l'uomo e lo rende superiore alle cose care ai mortali; e non desidera troppo o teme i cosiddetti beni e mali. Chelidone, uno degli eunuchi di Cleopatra, possedeva un grande patrimonio. Non molto tempo fa, Natale, persona dalla lingua dissoluta e corrotta, nella cui bocca le donne si ripulivano, fu erede di molti ed ebbe molti eredi. E dunque? Fu il denaro a insozzare lui o fu lui a insozzare il denaro? La ricchezza cade su certuni come una moneta d'argento in una cloaca. 17 La virtù sta sopra tutto questo; viene valutata in base a quanto possiede veramente; non giudica un bene nessuno di quelli che possono capitare a chiunque. La medicina e l'arte di guidare una nave non impediscono a sé e a chi le pratica di ammirare tali beni; uno può non essere onesto e tuttavia essere medico o timoniere o letterato come, per bacco, essere cuoco. Se a uno capita di possedere una cosa fuori del comune, dirai che è fuori del comune; ognuno vale tanto quanto possiede. 18 Una cassetta vale in base al contenuto, anzi, ne diventa un elemento accessorio. Chi darebbe a un borsellino pieno un valore diverso da quello del denaro in esso contenuto? Lo stesso capita a chi possiede grandi patrimoni: ne è un elemento accessorio, un'appendice. Perché, dunque, il saggio è grande? Perché è grande interiormente. E allora è vero che quanto capita agli uomini più spregevoli non è un bene. 19 Perciò non dirò mai che l'insensibilità è un bene: ce l'ha la cicala, ce l'ha la pulce. E non dirò neppure che è un bene la tranquillità e il non avere fastidi: chi è più tranquillo di un verme? Chiedi qual è l'essenza del saggio? La stessa di dio. Devi riconoscergli qualcosa di divino, di celeste, di magnifico: il bene non capita a tutti e non ammette un possessore qualsiasi. 20 Guarda

quello che un terreno produce e quello che non fa attecchire: qui crescono più rigogliose le messi, qui l'uva, altrove gli alberi da frutto e la verde erba spontanea. Non vedi come il Tmolo ci mandi il profumato zafferano, l'India l'avorio, gli effeminati Sabei i loro incensi e i nudi Calibi il ferro?

 

21 Questi prodotti sono stati distribuiti in regioni diverse perché gli scambi commerciali fossero per gli uomini un'attività necessaria, dovendo cercare gli uni i prodotti degli altri. Anche il sommo bene ha una propria dimora; non nasce dove c'è l'avorio o il ferro. Chiedi qual è questa dimora? L'anima. Ma se non è pura e santa non può accogliere dio.

22 "Il bene non nasce dal male; la ricchezza nasce dall'avidità; quindi, la ricchezza non è un bene."

"Non è vero," ribattono, "che il bene non nasce dal male; il denaro può provenire da un sacrilegio o da un furto; pertanto il sacrilegio e il furto sono mali, ma perché producono più mali che beni; procurano sì un guadagno, ma unito a paura, preoccupazioni, tormenti spirituali e fisici." 23 Chiunque faccia queste affermazioni deve necessariamente considerare il sacrilegio un male, perché causa molti mali, e in parte anche un bene, perché causa qualche bene: ma che cosa può esserci di più mostruoso? Eppure siamo proprio convinti che il sacrilegio, il furto, l'adulterio si debbano considerare beni. Quanti non si vergognano di rubare, quanti si vantano di essere adulteri! Le colpe piccole vengono punite, quelle grandi sono addirittura celebrate trionfalmente. 24 Inoltre se il sacrilegio è in parte senz'altro un bene, sarà anche una cosa onesta e verrà considerato un'azione virtuosa [...], ma nessun uomo può pensarlo. Quindi, da un male non possono nascere beni. Se, infatti, come dite, il sacrilegio è un male solo perché causa molto male, se gli condoniamo la pena e gli assicuriamo l'impunità, sarà sotto ogni aspetto un bene. Ma i delitti hanno in se stessi la loro più grave punizione. 25 Sbagli, ti dico, a rinviare la pena al boia o al carcere: i delitti vengono puniti subito appena sono commessi, anzi, mentre vengono commessi. Da un male non nasce un bene, come un fico non nasce da un ulivo: ogni seme dà i suoi frutti, e i beni non possono degenerare. Da un'azione turpe non ne deriva una onesta, così da un male non deriva un bene; perché bene e onestà coincidono.

26 Certi Stoici ribattono così: "Supponiamo che il denaro sia un bene, da qualunque parte provenga; perciò anche se deriva da un sacrilegio, il denaro non è sacrilego. Eccoti un esempio. In uno stesso scrigno c'è dell'oro e una vipera: se dallo scrigno prendi l'oro, non lo prendi perché lì c'è anche una vipera; voglio dire, lo scrigno mi dà l'oro non perché contiene una vipera, ma mi dà l'oro, pur contenendo anche una vipera. Allo stesso modo da un furto sacrilego si ricava un guadagno, non perché il sacrilegio è un'azione infame e scellerata, ma perché procura anche un guadagno. Come in quello scrigno il male è la vipera e non l'oro che le sta accanto, così nel sacrilegio il male è l'azione delittuosa, non il guadagno." 27 Non sono d'accordo; le due situazioni sono molto diverse. Nel primo caso posso prendere l'oro senza la vipera, nel secondo non posso ricavare un guadagno senza commettere il sacrilegio; questo guadagno non è vicino al delitto: vi è strettamente unito.

28 "Quello che conseguiamo a prezzo di molti mali, non è un bene; la ricchezza la conseguiamo a prezzo di molti mali; quindi, la ricchezza non è un bene."

"La vostra premessa," dicono, "può significare due cose: primo, che conseguiamo la ricchezza a prezzo di molti mali. Ma anche la virtù la conseguiamo a prezzo di molti mali: qualcuno durante un viaggio per motivi di studio ha fatto naufragio, qualche altro è stato fatto prigioniero. 29 Il secondo significato è questo: non è un bene ciò che è causa di mali. Dalla vostra premessa non consegue che la ricchezza o i piaceri sono per noi causa di mali; oppure, se la ricchezza è causa di molti mali, la ricchezza non solo non è un bene, ma è addirittura un male; voi, invece, sostenete soltanto che non è un bene. Inoltre," continuano, "ammettete che la ricchezza abbia una certa utilità e la considerate tra i vantaggi. Ma per la stessa ragione non sarà neppure un vantaggio, perché ci causa molti mali." 30 Alcuni controbattono così: "Sbagliate imputando i mali alla ricchezza. In realtà essa non danneggia nessuno: a ciascuno il danno lo porta o la propria stoltezza o la malvagità degli altri, così come la spada di per sé non uccide nessuno: è un'arma per l'assassino. Perciò se la ricchezza ti danneggia, la colpa non è della ricchezza." 31 Più giusta, a mio parere, la tesi di Posidonio: egli afferma che la ricchezza causa il male, non perché sia essa stessa a produrlo, ma perché spinge gli altri a farlo. Una cosa è la causa efficiente, che di necessità provoca direttamente il male, un'altra è la causa antecedente. La ricchezza è la causa antecedente: esalta gli animi, genera arroganza, provoca l'invidia e fa uscire di senno al punto che il credito derivante dal denaro, anche se ci danneggerà, ci riesce gradito. 32 Tutti i beni, invece, devono essere immuni da colpa; sono puri, non corrompono l'anima, non la turbano; ci innalzano e ci dilatano, ma senza renderci superbi. I veri beni ci rendono sicuri, la ricchezza arroganti; i veri beni generano grandezza d'animo, la ricchezza tracotanza. La tracotanza non è altro che una falsa apparenza di grandezza. 33 "In questo modo," dicono, "la ricchezza, non soltanto non è un bene, ma è anche un male." Sarebbe un male se essa stessa provocasse il male, se, come ho detto, fosse la causa efficiente: invece, è la causa antecedente che non solo eccita gli animi, ma li trascina; diffonde del bene un'immagine verosimile cui la maggioranza presta fede. 34 Anche la virtù è una causa antecedente: suscita invidia; molti sono invidiati per la loro saggezza, molti per la loro giustizia. Ma questa causa non ce l'ha in sé la virtù e non è verosimile; al contrario la virtù offre all'anima umana quell'aspetto più verosimile che la richiama all'amore e all'ammirazione.

35 Posidonio dice che il sillogismo bisogna formularlo così: "Le cose che non danno all'anima né grandezza, né sicurezza, né tranquillità non sono beni; la ricchezza, la salute e altre cose simili non dànno niente di tutto questo; dunque, non sono beni." Egli dà a questo sillogismo un senso ancora più ampio: "Le cose che non dànno all'anima né grandezza, né sicurezza, né tranquillità, anzi provocano superbia, orgoglio, arroganza, sono mali; ad essi ci spingono i doni della fortuna, quindi non sono beni."

36 "Secondo questo ragionamento," si ribatte, "non saranno neppure dei vantaggi." Vantaggi e beni sono due cose diverse: per vantaggio si intende ciò che porta più utilità che fastidio; il bene, invece, deve essere genuino e completamente innocuo. Non è un bene quello che è più utile, ma quello che è solamente utile. 37 Il vantaggio, inoltre, tocca agli animali, agli uomini imperfetti, agli stolti. Può essere perciò unito a uno svantaggio, ma viene definito un vantaggio in base agli elementi predominanti: il bene riguarda solo il saggio e deve essere incontaminato.

38 Coraggio: ti resta un solo nodo, anche se difficile, da sciogliere: "Dai mali non nasce il bene; da molte povertà nasce la ricchezza; dunque la ricchezza non è un bene."

I filosofi stoici non riconoscono questo sillogismo, i peripatetici, invece, lo formulano e lo risolvono. Dice Posidonio che questo sofisma trattato in tutte le scuole dai dialettici, viene così confutato da Antipatro: 39 "La povertà non viene definita per possesso, ma per detrazione (o, come dicevano gli antichi, per privazione; i Greci dicono kat¦ stšrhsin), non indica quello che si possiede, ma quello che non si possiede. Con molti vuoti non si può riempire niente: la ricchezza la formano molti beni, non molte carenze. Voi non intendete la povertà nel modo dovuto. Povertà non è possedere poche cose, ma non possederne molte; non viene definita da quanto possiede, ma da quanto le manca."

40 Quello che intendo, l'esprimerei più facilmente se ci fosse una parola latina per indicare $Píõðáñîßá$. Antipatro la ascrive alla povertà: secondo me la povertà è unicamente possedere poco. Se un giorno avremo tempo, esamineremo che cosa siano in sostanza la ricchezza e la povertà, ma anche allora considereremo se non sia meglio mitigare la povertà e togliere superbia alla ricchezza piuttosto che discutere sulle parole, come se sulla sostanza si fosse già formulato un giudizio. 41 Supponiamo di partecipare a una adunanza popolare: viene proposta una legge per l'abolizione della ricchezza. La sosterremo o la combatteremo con questi sillogismi? Otterremo con essi che il popolo romano ricerchi e apprezzi la povertà, base e origine del suo impero, e tema la sua ricchezza; che pensi di averla trovata presso i popoli vinti e che da qui intrighi, corruzione, disordini si siano riversati in una città modello assoluto di purezza e di temperanza; che le prede di guerra vengano ostentate con troppa superbia, che i beni strappati da un solo popolo a tutti gli altri, possano più facilmente essere strappati da tutti i popoli a uno solo? È meglio persuaderlo di ciò e vincere le passioni che esprimersi con giri di parole. Parliamo, se è possibile, con più forza; se no, con maggiore chiarezza. Stammi bene.

 

88

1 Tu vuoi sapere che cosa penso degli studi liberali: non stimo, non considero un bene studi che sfociano in un guadagno. Sono arti venali, utili se esercitano la mente, ma non la occupano del tutto. Bisogna dedicarvisi finché l'animo non è in grado di trattare una materia più impegnativa; sono il nostro tirocinio, non il nostro lavoro. 2 Perché si chiamano studi liberali lo capisci: perché sono degni di un uomo libero. Ma l'unico studio veramente liberale è quello che rende liberi, cioè lo studio della saggezza, sublime, forte, nobile: gli altri sono insignificanti e puerili. Pensi che in questi studi di cui sono maestri gli uomini più infami e dissoluti ci sia qualcosa di buono? Queste cose non dobbiamo impararle, ma averle imparate.

Secondo certi filosofi bisogna chiedersi se gli studi liberali possono formare l'uomo virtuoso: in realtà essi non se lo ripromettono né aspirano a questa scienza. 3 La filologia si rivolge allo studio della lingua e, se vuole spaziare di più, alla storia; e arriva, come limite estremo, alla poesia. Quale di queste materie spiana la via alla virtù? La scansione delle sillabe, la proprietà di linguaggio, la tradizione mitica, le leggi e la misura dei versi? Che cosa di tutto questo cancella la paura, libera dalle passioni, frena l'intemperanza? 4 Passiamo alla geometria e alla musica: non vi troverai niente che inibisca timori, desideri: se uno ignora questo, è inutile che conosca altro.

‹Bisogna vedere› se costoro insegnano la virtù o no: se non la insegnano, non possono neppure trasmetterla; se la insegnano, sono filosofi. Vuoi renderti conto come non si siano mai soffermati a insegnare la virtù? Guarda come sono dissimili tra loro gli studi di tutti questi: se insegnassero la stessa cosa, dovrebbe esserci somiglianza. 5 A meno che, per caso, non ti persuadano che Omero fu un filosofo, quando lo negano i fatti in base ai quali traggono le loro conclusioni; ora lo presentano come uno stoico che apprezza solamente la virtù, fugge i piaceri e non si allontana dalla rettitudine neppure a prezzo dell'immortalità; ora come un epicureo, che loda la condizione di una città tranquilla dove si vive tra banchetti e canti; ora come un peripatetico, che elenca tre tipi di beni; ora come un accademico, che sostiene che tutto è incerto. È chiaro che in lui non è radicato nessuno di questi sistemi filosofici, dal momento che compaiono tutti e sono in contrasto tra loro. Ammettiamo che Omero fu un filosofo: certo divenne saggio prima di conoscere la poesia; e allora impariamo la disciplina che ha reso Omero saggio. 6 Secondo me non è importante chiedersi se nacque prima Omero o Esiodo, come non è importante sapere perché Ecuba, pur essendo più giovane di Elena, portasse tanto male gli anni. Perché, dico, ritieni di grande interesse indagare sugli anni di Patroclo e di Achille? 7 Vuoi sapere in che paesi andò errando Ulisse invece di fare in modo che noi non andiamo sempre errando? Non c'è tempo di ascoltare se fu sbattuto fra l'Italia e la Sicilia, oppure oltre i confini del mondo a noi conosciuto, visto che non avrebbe potuto vagare così a lungo in uno spazio tanto ristretto: tempeste interiori ci sballottano quotidianamente e la dissolutezza ci caccia in tutti i guai di Ulisse. Non manca certo la bellezza a turbare i nostri occhi, né i nemici; da una parte mostri feroci bramosi di sangue umano, dall'altra voci lusinghiere e insidiose, più avanti naufragi e sventure di ogni tipo. Insegnami piuttosto come amare la patria, la moglie, il padre, come, pur avendo fatto naufragio, possa dirigermi verso il porto della virtù. 8 Perché cerchi di sapere se Penelope fosse una donna impudica e avesse ingannato i suoi contemporanei? Se prima di saperlo sospettasse già di essere di fronte a Ulisse? Insegnami che cos'è la pudicizia e quanto bene vi è racchiuso, se ha sede nel corpo o nell'anima.

9 Passo alla musica. Tu mi insegni come le note gravi si accordino a quelle acute, come si armonizzino i suoni diversi emessi dalle corde degli strumenti: fa' piuttosto in modo che il mio animo sia coerente con se stesso, che le mie decisioni non siano in contrasto. Tu mi indichi quali sono i suoni lamentosi: mostrami piuttosto come non debba lamentarmi in mezzo alle sventure.

10 Il geometra mi insegna a misurare i latifondi, invece che insegnarmi quanto basta a un uomo. Mi insegna a fare i conti prestando le dita alla mia avidità: mi insegni piuttosto che questi calcoli non hanno nessuna importanza, che non è più felice chi possiede un patrimonio tale da stancare i ragionieri; anzi possiede beni superflui e sarà infelicissimo se è costretto a contare da sé i suoi averi. 11 A che mi serve saper dividere un podere, se non so dividerlo con mio fratello? A che mi serve misurare con precisione i piedi di un iugero e accorgermi di una differenza sfuggita al metro, se basta ad amareggiarmi un vicino prepotente che si appropria di un po' del mio terreno? Mi insegna come non perdere niente dei miei possedimenti: ma io voglio imparare come perderli tutti senza perdere il buonumore. 12 "Vengo scacciato dal campo che fu di mio padre e dei miei nonni." E allora? Prima di tuo nonno chi ne era il padrone? Sei in grado di scoprire non dico a che uomo, ma a quale popolo appartenne? Ci sei entrato come colono non come padrone. Di chi sei colono? Se ti va bene, dell'erede. I giuristi sostengono che il diritto di usucapione non vale per i beni pubblici: la terra che occupi, che definisci tua, è pubblica e precisamente appartiene al genere umano. 13 Che scienza straordinaria! Sai misurare il cerchio, fai la quadratura di una qualsiasi figura geometrica, calcoli la distanza delle stelle, non c'è niente che tu non sia capace di misurare: se sei veramente esperto, misura l'anima dell'uomo, di' quanto è grande e quanto è meschina. Sai qual è la linea retta: a che ti serve, se ignori cos'è retto nella vita?

14 Veniamo ora all'astrologia che si vanta di conoscere i corpi celesti:

dove si ritiri la gelida stella di Saturno, quali orbite percorra nel cielo il pianeta Mercurio.

A che serve conoscere tutto questo? Per preoccuparmi quando Saturno e Marte saranno in opposizione o quando Mercurio tramonterà la sera in vista di Saturno? È meglio che impari che gli astri, dovunque si trovino, sono propizi e immutabili. 15 Li spinge un ordine continuo e fatale e una corsa ineluttabile; l'uno dopo l'altro ritornano periodicamente e determinano tutti gli eventi o li preannunciano. Ma se sono la causa diretta di qualunque avvenimento, a che servirà la conoscenza di un fatto ineluttabile? E se lo preannunciano solamente, che importa prevedere una cosa a cui non si può sfuggire? Lo sai, non lo sai; accadrà lo stesso.

 

16 Ma se osserverai il sole nella sua rapida corsa e le stelle nel loro ordinato cammino, non ti ingannerà mai il domani e non verrai sorpreso dalle insidie di una notte serena.

Ho preso precauzioni più che sufficienti per mettermi al sicuro dalle insidie. 17 "Il domani non mi ingannerà? Gli imprevisti ingannano." Non so che cosa accadrà, ma so che cosa può accadere. Non cercherò di scongiurare nulla, mi aspetto tutto: se qualche disgrazia mi viene risparmiata, me ne rallegro. L'ora che mi risparmia, mi inganna, ma neppure così mi inganna. Io so che tutto può accadere, come so che non è sicuro che accada. Perciò aspetto gli eventi propizi e sono pronto a quelli sfavorevoli.

18 Non seguo la via già tracciata, concedimelo; non mi va di comprendere tra le arti liberali i pittori, gli scultori, i marmisti o gli altri servi del lusso. Analogamente escludo da queste occupazioni liberali i lottatori e l'arte che consiste interamente nel lordarsi d'olio e di fango; oppure dovrei includere anche i profumieri, i cuochi e tutti gli altri che mettono il loro acume al servizio dei nostri piaceri. 19 Ma, via, che hanno di liberale questi vomitatori a digiuno, grassi di corpo, emaciati e torpidi nello spirito? Oppure pensiamo che in questo consista lo studio liberale per la gioventù di oggi, mentre i nostri antenati la esercitavano a scagliare le lance in posizione eretta, a vibrare il bastone, a spronare il cavallo, a maneggiare le armi? Non insegnavano ai loro figli niente che potessero imparare standosene coricati. Ma né le une, né le altre attività insegnano o alimentano la virtù; a che serve saper guidare un cavallo e frenare la sua corsa, se ci facciamo trascinare dalle passioni più sfrenate? A che serve vincere tanti atleti nella lotta o nel pugilato ed essere poi vinti dall'ira?

20 "E allora? Gli studi liberali non ci sono per niente utili?" In altri campi sì, molto, per la virtù no; anche le arti manuali chiaramente vili, benché servano moltissimo a corredare la vita, non riguardano la virtù. "Perché, dunque, insegniamo ai figli gli studi liberali?" Non perché possono dare la virtù, ma perché preparano l'anima ad accoglierla. Come i primi rudimenti di lingua che vengono dati ai fanciulli, gli antichi li chiamavano litteratura, non insegnano le arti liberali, ma ne predispongono l'apprendimento, così le arti liberali non conducono l'anima alla virtù, ma la preparano ad essa.

21 Posidonio classifica le arti in quattro generi: quelle popolari e vili, quelle ricreative, quelle per i fanciulli, quelle liberali. Le arti popolari sono proprie degli artigiani e si basano sul lavoro manuale; servono alle necessità pratiche della vita: in esse non c'è riproduzione di bellezza morale, né di virtù. 22 Le arti ricreative tendono al piacere della vista e dell'udito; tra esse bisogna includere quella dei costruttori progettisti di macchine teatrali, che si sollevano da sole, e di palchi, che si alzano silenziosamente e compiono diversi altri spostamenti improvvisi, o perché si separano elementi prima uniti, o perché si uniscono da sé pezzi staccati, o perché a poco a poco si abbassano parti che stavano in alto. Questi macchinari colpiscono la gente ignorante che guarda ammirata, non conoscendone le cause, tutti gli improvvisi cambiamenti. 23 Sono per i ragazzi e assomigliano in qualcosa alle arti liberali, quelle che i greci chiamano $dãêýêëéïé$ e noi "liberali". Ma le sole arti liberali, anzi, per meglio dire, libere, sono quelle che si occupano della virtù.

24 "Come c'è una branca della filosofia - si dice - che studia la natura, una la morale, una la logica, così anche questa massa di arti liberali rivendica un posto nella filosofia. Quando si indaga sui fenomeni naturali, ci si basa sulle dimostrazioni geometriche; la geometria è utile alla filosofia, dunque ne fa parte." 25 Molte cose ci sono di aiuto, ma non per questo sono parte di noi; anzi, se lo fossero, non ci sarebbero di aiuto. Il cibo aiuta il corpo, ma non ne fa parte. La geometria ci presta un servizio: è necessaria alla filosofia, come alla geometria è necessario chi fabbrica gli strumenti; ma né costui è parte della geometria, né la geometria della filosofia. 26 Entrambe, inoltre, hanno fini propri; il saggio ricerca e conosce le cause dei fenomeni naturali, mentre il geometra ne determina e ne calcola la quantità e la grandezza. Il saggio sa su quali leggi si basino i corpi celesti, qual è la loro forza e la loro natura: il matematico calcola i loro corsi e ricorsi e certe orbite lungo le quali essi sorgono e tramontano e sembrano talvolta stare immobili, fenomeno impossibile per i corpi celesti. 27 Il saggio saprà perché un'immagine si rifletta nello specchio; il geometra può dirti quale deve essere la distanza tra un corpo e la sua immagine e quale forma di specchio restituisca una certa immagine. Il filosofo dimostrerà che il sole è grande; il matematico, basandosi sull'esperienza e la pratica, dirà quanto è grande. Ma per procedere deve impadronirsi di certi princìpî; e non è indipendente quella scienza priva di basi proprie. 28 La filosofia non chiede niente agli altri, erige interamente l'edificio fin dalle fondamenta: la matematica è, come dire, "usufruttuaria", costruisce su terreno altrui; da qui trae i primi elementi e grazie ad essi va avanti. Se si muovesse verso la verità con le sue forze, se fosse in grado di comprendere la natura dell'intero universo, direi che sarebbe apportatrice di un grande contributo al nostro spirito: esso si sviluppa trattando i fenomeni celesti e trae vantaggi dall'alto.

C'è una sola cosa che può rendere l'animo perfetto, la scienza immutabile del bene e del male; nessun'altra arte indaga sul bene e sul male. 29 Prendiamo ora in considerazione le singole virtù. La fortezza disprezza le cose che spaventano; disdegna, sfida, vince le paure che soggiogano la nostra libertà: le arti liberali possono forse rafforzarla? La lealtà è il bene più sacro dell'anima umana, nessuna circostanza può costringerla all'inganno, non si lascia corrompere da nessuna ricompensa: "Brucia," grida, "colpisci, uccidi; non tradirò ma più si vorrà con la sofferenza scoprire i miei segreti, più li terrò nascosti." Possono forse gli studi liberali formare animi del genere? La temperanza domina i piaceri, alcuni li ha in odio e li elimina, altri li regola e li riconduce a una sana misura, e non vi si accosta mai per loro stessi; sa che la misura migliore dei nostri desideri è prendere non quanto vogliamo, ma quanto dobbiamo. 30 Il senso di umanità ci impedisce di essere superbi e sgarbati con il prossimo; nelle parole, nelle azioni, nei sentimenti si mostra cortese e disponibile con tutti; fa suoi i mali degli altri e ama il suo bene soprattutto quando può essere un bene per gli altri. Gli studi liberali ci insegnano forse un simile comportamento? No, e non ci insegnano la semplicità, la modestia, la moderazione e neppure la frugalità e la parsimonia, né la clemenza che risparmia il sangue altrui come se fosse il proprio e sa che l'uomo non deve abusare di un suo simile.

31 "Voi sostenete," ribattono, "che senza gli studi liberali non si raggiunge la virtù; come potete affermare allora che non contribuiscono alla virtù?" Perché neppure senza cibo si arriva alla virtù e tuttavia il cibo non è in relazione con la virtù; il legno non dà nessun apporto sostanziale alla nave, eppure non si può costruire una nave senza legno: non c'è motivo di credere, intendo dire, che una cosa sia di aiuto per un'altra, se senza di essa non la si può fare. 32 Si può anche affermare che possiamo raggiungere la saggezza senza gli studi liberali; difatti, sebbene la virtù si debba apprenderla, tuttavia non la si apprende per mezzo loro. Perché dovrei ritenere che non diventerà saggio chi ignora le lettere, quando la saggezza non consiste nelle lettere? Essa insegna cose, non parole, e non so se sia più affidabile quel tipo di memoria che non ha altro aiuto all'infuori di se stessa. 33 La saggezza è cosa grande e vasta; ha bisogno di uno spazio sgombro; si devono acquisire nozioni sull'umano e il divino, sul passato e il futuro, sull'effimero e l'eterno, sul tempo. E su questo solo argomento guarda quanti problemi sorgono: primo, se sia qualcosa di per sé; poi, se ci sia qualcosa prima del tempo e senza tempo; se è cominciato col mondo oppure, visto che dev'essere esistito qualcosa prima del mondo, se anche il tempo sia esistito prima del mondo. 34 Innumerevoli questioni si pongono poi solo intorno all'anima: la sua origine, la sua natura, quando cominci a esistere, quanto viva, se passi da un luogo all'altro e cambi sede, gettata nelle spoglie ora di uno, ora di un altro animale, oppure sia schiava solo una volta e, liberata, vaghi nell'universo; se sia o no corporea; che cosa farà quando finirà di agire per mezzo nostro, come farà uso della sua libertà una volta fuggita da questa gabbia; se dimentichi la vita precedente e cominci a conoscere se stessa dal momento in cui, distaccatasi dal corpo, sale in cielo. 35 Qualsiasi parte delle questioni umane e divine prenderai in considerazione, sarai spossato dall'ingente quantità di quesiti e di nozioni. Eliminiamo dal nostro animo le nozioni superflue perché questi problemi così numerosi e importanti possano trovare campo libero. La virtù non si va a rinchiudere in stretti confini; una cosa grande necessita di un ampio spazio. Bisogna scacciare tutto dal proprio petto e lasciarlo sgombro per la virtù.

36 "Ma mi piace conoscere molte scienze." Rammentiamone solo lo stretto necessario. Oppure secondo te è riprovevole chi raccoglie oggetti superflui e in casa fa sfoggio di preziose suppellettili, e non chi ha la mente ingombra di inutili suppellettili letterarie? Voler conoscer più del necessario è una forma di intemperanza. 37 Che dire poi di questa avida ricerca delle arti liberali che ci rende importuni, prolissi, intempestivi, compiaciuti di noi stessi e incapaci di apprendere il necessario, perché abbiamo imparato il superfluo? Il grammatico Didimo scrisse quattromila libri: ne avrei compassione se solo avesse letto una simile mole di inutilità. In questi libri si discute sulla patria di Omero, sulla vera madre di Enea, se Anacreonte fu più dedito al sesso che al vino, se Saffo fu una donna di malaffare e altre questioni che, se si conoscessero, sarebbe bene disimparare. Su, e adesso nega che la vita sia lunga!

38 Ma anche quando arriveremo alle dottrine stoiche, ti mostrerò che bisogna sfrondare molto a colpi di scure. Gran perdita di tempo e gran fastidio agli ascoltatori costa questo elogio: "Che uomo colto!" Accontentiamoci invece di questo titolo più semplice: "Che brav'uomo!" 39 Non è così? Sfoglierò gli annali di tutti i popoli per cercare chi fu il primo poeta? E non disponendo dei fasti, farò il conto di quanti anni intercorrono tra Orfeo e Omero? Esaminerò le note con cui Aristarco segnava i versi spuri e consumerò la mia vita sulle sillabe? Rimarrò lì a tracciare figure geometriche sulla polvere? Ho dimenticato fino a questo punto quel famoso salutare precetto: "Risparmia il tempo"? Dovrei conoscere questi argomenti? E che cosa dovrei ignorare? 40 Il grammatico Apione, che al tempo di Caligola girò per tutta la Grecia e fu accolto da tutte le città in nome di Omero, sosteneva che Omero, portate a termine sia l'Iliade che l'Odissea, aggiunse un proemio alla sua opera, in cui comprendeva tutta la guerra di Troia. Come prova di questa affermazione adduceva il fatto che il poeta aveva inserito di proposito nel primo verso due lettere che indicavano il numero dei suoi libri. 41 Se uno vuole sapere molto, deve saperle queste cose!

Non vuoi pensare quanto tempo ti sottraggono le malattie, gli affari pubblici e privati, le occupazioni giornaliere, il sonno? Misura la tua vita: non può contenere tante cose. 42 Io parlo degli studi liberali: ma i filosofi, a quanti problemi superflui e inutili si dedicano! Anch'essi si sono abbassati a distinguere le sillabe e a studiare le proprietà delle congiunzioni e preposizioni, hanno avuto invidia dei grammatici e dei geometri; quanto c'era di inutile nelle discipline di quelli, l'hanno trasferito nella propria. Il risultato è che sanno parlare con più precisione di quanto vivono. 43 Senti come è dannosa l'eccessiva sottigliezza e come è nemica della verità. Protagora sostiene che si possono addurre argomentazioni ugualmente valide pro e contro su ogni questione, compresa questa: se su ogni questione si possono addurre argomentazioni pro e contro. Nausifane sostiene che di tutte le cose che sembrano esistere niente è più probabile che la loro non esistenza. 44 Parmenide afferma che di tutte le cose che appaiono, niente esiste se non l'uno. Zenone di Elea eliminò dal problema ogni problema: sostiene che non esiste niente. All'incirca dello stesso argomento si occupano i Pirroniani, i Megarici, gli Eretici, gli Accademici, che hanno introdotto una nuova scienza, non sapere niente. 45 Butta tutte queste teorie nello sterile branco degli studi liberali; gli uni mi insegnano una scienza inutile, gli altri mi tolgono ogni speranza di conoscenza. Conoscere il superfluo è meglio che non conoscere niente. Gli uni non portano una luce che indirizzi gli occhi alla verità, gli altri gli occhi me li cavano addirittura. Se credo a Protagora, nella natura esiste solo il dubbio; se credo a Nausifane, c'è una sola certezza, che niente è certo; se credo a Parmenide, niente esiste, se non l'uno; se credo a Zenone, non esiste neppure l'uno. 46 Che siamo noi, dunque? Che cosa sono le cose che ci circondano, ci nutrono, ci sostengono? Tutta la natura è un'ombra o vana o ingannevole. Non mi sarebbe facile dirti con chi ce l'ho di più, se con quei filosofi che ci hanno voluto privare di ogni conoscenza o con quelli che non ci hanno lasciato neppure questo: non avere nessuna conoscenza. Stammi bene.