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Materiali per Operatori del Benessere Immateriale
LETTERE A LUCILIO di Seneca

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LIBRO QUATTORDICESIMO

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1 Tu desideri una cosa utile e necessaria per chi è ansioso di raggiungere la saggezza, cioè dividere la filosofia, e il suo corpo smisurato distinguerlo in membra: alla conoscenza del tutto è più facile arrivarvi attraverso le singole parti. Come si presenta ai nostri occhi l'aspetto generale dell'universo, magari potesse dispiegarsi così davanti a noi l'intera filosofia in uno spettacolo assai vicino a quello dell'universo! Certo strapperebbe ai mortali tutti l'ammirazione, lasceremmo da parte ciò che ora riteniamo grande per ignoranza di ciò che è veramente grande. Ma poiché questo è impossibile, dobbiamo volgere lo sguardo sulla filosofia nello stesso modo in cui si scrutano i segreti dell'universo. 2 L'animo del saggio ne abbraccia l'intera mole e la percorre non meno velocemente di quanto i nostri occhi percorrano il cielo; ma a noi che dobbiamo squarciare la nebbia e abbiamo una vista limitata alla realtà vicina, si mostrano più facilmente i singoli elementi perché siamo ancora incapaci di una visione globale. Ti accontenterò dunque, in quello che chiedi e dividerò la filosofia in parti, ma non in frammenti. È utile dividerla, non sminuzzarla: le cose molto piccole è difficile capirle quanto quelle molto grandi. 3 Il popolo è distinto in tribù, l'esercito in centurie; quando una cosa assume dimensioni ragguardevoli, si riconosce più facilmente se viene distinta in parti, ma, come ho già detto, non devono essere innumerevoli e troppo piccole. La mancanza di divisione e l'eccessivo frazionamento hanno lo stesso difetto: tutto quello che è ridotto in briciole è simile ad un ammasso confuso.

4 Comincerò, pertanto, se sei d'accordo, con lo spiegarti la differenza tra saggezza e filosofia. La saggezza è il bene supremo della mente umana; la filosofia è amore e desiderio per la saggezza: tende là dove la saggezza è arrivata. È chiaro perché si chiama filosofia; il suo stesso nome dichiara che cosa ama. 5 Qualcuno ha definito la saggezza la scienza del divino e dell'umano; per altri la saggezza è conoscenza del divino, dell'umano e delle loro cause. Questa mi sembra un'aggiunta superflua: le cause del divino e dell'umano rientrano nel divino. Anche per la filosofia si sono trovate decine e decine di definizioni; è stata chiamata da alcuni ricerca della virtù, da altri ricerca di ben indirizzare la mente, e anche desiderio di una ragione retta. 6 Per quasi unanime consenso si indica una differenza tra filosofia e saggezza: l'oggetto e il soggetto di una aspirazione non possono identificarsi. Come tra avarizia e denaro c'è una profonda differenza, perché l'avarizia agogna e il denaro è agognato, lo stesso succede tra filosofia e saggezza: la seconda è conseguenza e compenso della prima; quella viene, all'altra si va. 7 I Greci dànno alla saggezza il nome di $óïößá$. È un termine che un tempo adoperavano anche i romani, così come ora usano filosofia; la testimonianza la trovi nelle antiche commedie togate e nell'epigrafe del monumento di Dossenno:

Férmati, forestiero, e leggi la sofia di Dossenno.

 

8 Certi Stoici, benché la filosofia sia ricerca di virtù, e la virtù sia oggetto della ricerca, mentre la filosofia ricerca, non hanno ritenuto che i due elementi potessero essere disgiunti, perché non esiste filosofia senza virtù, né virtù senza filosofia. La filosofia è ricerca di virtù, ma attraverso la virtù stessa; e la virtù non può esistere senza la ricerca di sé, né la ricerca della virtù senza la virtù. Quando si cerca di colpire un oggetto da lontano, da una parte c'è chi tira, dall'altra il bersaglio; nella virtù, invece, non c'è separazione; le strade che conducono alle città sono fuori dalle città: ma le vie che conducono alla virtù non sono fuori dalla virtù: alla virtù si arriva attraverso di essa, e filosofia e virtù sono strettamente legate.

9 Secondo la maggioranza dei più grandi scrittori, le parti della filosofia sono tre: morale, fisica e logica. La prima regola l'anima, la seconda indaga la natura, la terza esamina la proprietà del linguaggio, l'ordinata disposizione delle parole, le argomentazioni, perché il falso non si insinui al posto del vero. Ma si possono trovare altri che dividono la filosofia in un numero minore o maggiore di parti. 10 Certi Peripatetici aggiungono una quarta parte, la politica, in quanto richiede una sua pratica e si interessa di una materia diversa. Altri aggiungono la parte cosiddetta $ïkêïíïìéêÞ$, la scienza dell'amministrazione del patrimonio; e, infine, c'è chi distingue i differenti generi di esistenza. Sono tutti elementi riconducibili alla morale. 11 Gli Epicurei sostenevano che le parti della filosofia sono due, fisica e morale: eliminavano la logica. Poi, costretti dalla realtà a sceverare le incertezze e a individuare il falso nascosto sotto l'apparenza della verità, hanno introdotto anch'essi un settore chiamato "norme di giudizio", che è un altro nome per logica, ma per loro si tratta di un'appendice della fisica. 12 I Cirenaici hanno eliminato la fisica e la logica, accontentandosi della morale, per poi recuperare anche loro in altro modo quello che hanno rimosso; suddividono, infatti, la morale in cinque parti; la prima riguarda ciò che va fuggito e cercato, la seconda le passioni, la terza le azioni, la quarta le cause, la quinta gli argomenti. Ma le cause fanno parte della fisica, gli argomenti della logica 13 Aristone di Chio arrivò a definire la fisica e la logica non solo superflue, ma addirittura nocive; e arriva anche a limitare la morale, unica superstite. Ha soppresso, infatti, la precettistica attribuendola al pedagogo, non al filosofo, come se il saggio fosse qualcosa di diverso dal pedagogo del genere umano.

14 Dato che la filosofia consta di tre parti, cominceremo a passare in rassegna per prima la morale, che a sua volta si è deciso di distinguere in tre parti: la prima è l'esame di ciò che tocca a ciascuno e la determinazione del valore di ogni cosa, còmpito della massima utilità, perché non c'è niente di più necessario che attribuire la giusta stima alle cose. La seconda è l'esame degli impulsi, la terza delle azioni. In primo piano c'è il giudizio sul valore di ogni cosa, in secondo il tendervi in maniera regolare e misurata, in terzo la concordanza tra impulso e azione in maniera che tu sia in ogni momento coerente con te stesso. 15 La mancanza di una sola di queste tre componenti sconvolge anche le altre. Che vantaggio ti dà aver ponderato tutto, se poi il tuo slancio è eccessivo? A che serve avere represso gli slanci, avere il controllo dei desideri, se manchi di tempestività al momento di agire, se non sai che cosa si deve fare, quando, dove, e come? Un conto è conoscere grado e valore delle cose, un altro i momenti decisivi, e un altro ancora frenare gli impulsi e avviarsi, non precipitarsi, all'azione. La vita è coerente con se stessa quando c'è equilibrio tra azione e impulso; l'impulso nasce dal valore dell'oggetto e di conseguenza è debole o più forte a seconda che l'oggetto meriti di essere ricercato.

16 La fisica si divide in due sezioni: il corporeo e l'incorporeo; ciascuna delle due si articola, per così dire, in gradi. Nell'àmbito dei corpi innanzi tutto si distinguono quelli che generano e quelli che da essi sono generati, e gli elementi sono generati. Lo stesso àmbito degli elementi, a parere di qualcuno, è semplice, a parere di altri, si fraziona nella materia, nella causa, che muove tutto, e negli elementi veri e propri.

17 Mi resta da suddividere la logica. Ogni discorso o è continuo o spezzato in domanda e risposta. Convenzionalmente si chiama $äéáëåêôéêÞ$ il secondo, $1/4çôïñéêÞ$ il primo. La $1/4çôïñéêÞ$ cura le parole, i pensieri e la loro collocazione; la $äéáëåêôéêÞ$ si scinde in due parti: parole e significati, ossia in concetti espressi e vocaboli, strumento di questa espressione. Entrambe sono soggette a una miriade di ulteriori distinzioni. Perciò a questo punto mi fermerò e

per sommi capi toccherò le cose;

altrimenti se vorrò occuparmi delle ripartizioni delle parti, nascerà un libro di problemi.

18 Non ti distolgo, mio ottimo Lucilio, dal leggere trattati del genere, purché tu riporti immediatamente alla morale tutto quello che avrai letto. Sappi regolarla, ridesta ciò che langue in te, tira le redini allentate, doma le resistenze, attacca per quanto puoi le passioni tue e degli altri, e a chi ti obbietta: "Ma non la smetterai mai con la stessa predica?" rispondi:

19 "Io dovrei dire: 'Non la smetterete mai di commettere gli stessi errori?' Volete che i rimedi finiscano prima dei vizi? Io parlerò ancòra di più, e insisterò perché voi avete un atteggiamento di rifiuto; una medicina comincia a fare effetto quando il corpo che aveva perduto la sensibilità reagisce con dolore allo stimolo. Anche se non volete, vi indicherò i farmaci. È bene che talvolta vi arrivi qualche parola un po' dura e dato che singolarmente vi rifiutate di ascoltare la verità, ascoltatela tutti insieme."

20 "Fin dove estenderete i confini delle vostre terre? Un territorio che bastava a un popolo è piccolo per un padrone solo? Fin dove spingerete i vostri aratri, se a delimitare i vostri campi non vi soddisfano neppure i confini di una provincia? Fiumi importanti attraversano solo proprietà private e grandi corsi d'acqua, che segnano confini di grandi popoli, sono vostri dalla sorgente alla foce. E anche questo è poco: se coi vostri latifondi non avete circondato i mari, se il vostro amministratore non regna oltre l'Adriatico, lo Ionio, l'Egeo; se le isole, dimora di grandi condottieri, non sono annoverate tra le quisquilie. Aggiungete proprietà a proprietà, sia un fondo privato quello che una volta si chiamava impero, appropriatevi di tutto quello che potete, fintanto che i possedimenti altrui sono più estesi dei vostri."

21 "Adesso mi rivolgo a voi, il cui lusso si dilata non meno dell'avidità di quegli altri. Dico a voi: fino a quando i tetti delle vostre ville si affacceranno su ogni lago o le vostre case costelleranno le rive di tutti i fiumi? Dovunque zampilleranno vene d'acqua calda, là si fabbricheranno nuovi alloggi di lusso. Dovunque il litorale si curverà in una baia, voi getterete sùbito delle fondamenta, e, contenti solo del terreno che create artificialmente, incalzerete il mare fin dentro. I vostri palazzi risplendano dovunque, sia sulla cima dei monti con un ampio orizzonte di terra e di mare, sia in pianura, alti quanto montagne; quando avrete costruito palazzi su palazzi e smisurati, sarete soltanto un corpo e piccolo. A che servono tante camere da letto? Dormite in una sola; non è vostro quello dove non state."

22 "E ora passo a voi, ghiottoni: la vostra golosità senza fondo e insaziabile fruga i mari, le terre; con ami, lacci, vari tipi di reti braccate faticosamente gli animali, non date loro tregua se non quando vi sono venuti a nausea. Ma con la bocca stanca di tante prelibatezze quanto gustate di questi banchetti allestiti col lavoro di tanta gente? Quanto assaggia di questa bestia catturata con tanto rischio un signore che digerisce male e ha la nausea? Sono stati fatti venire da lontano tanti crostacei, quanti ne scivolano dentro questo stomaco insaziabile? Poveri infelici, non vi rendete conto che la vostra fame è più grande del vostro ventre?"

23 Dille queste cose agli altri, purché anche tu ascolti mentre parli; scrivile, purché tu le legga mentre le scrivi; poni ogni tua cura alla morale e a placare il furore delle tue passioni. Cerca non di sapere di più, ma di saper meglio. Stammi bene.

 

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1 Il fatto di vivere, Lucilio mio, è un dono degli dèi immortali, il fatto di vivere bene, della filosofia, nessuno può dubitarne. Dunque, noi dovremmo avere un debito maggiore verso la filosofia che non verso gli dèi, in quanto un'esistenza virtuosa è certamente un beneficio maggiore che l'esistenza; ma sono stati gli dèi a darci proprio la filosofia: non hanno concesso a nessuno la conoscenza di essa, a tutti la possibilità. 2 Se avessero reso anche la filosofia un bene comune e noi nascessimo saggi, la saggezza avrebbe perduto la sua straordinaria prerogativa di non essere un bene fortuito. Quello che essa ha di prezioso e di stupefacente è di non essere un dono della sorte, ma una conquista personale, qualcosa che non si chiede a un terzo. Cosa ci sarebbe da ammirare nella filosofia se derivasse da un beneficio? 3 Il suo unico còmpito è scoprire la verità sul divino e sull'umano; da essa non si staccano mai religione, sentimento del dovere, giustizia e il corteo di tutte le altre virtù strettamente connesse tra di loro. Ci ha insegnato, la filosofia, a venerare gli dèi, ad amare gli uomini, e che il comando è nelle mani degli dèi, e che gli uomini sono uniti tra loro. Questo stato di cose fu per un certo tempo rispettato, poi l'avidità ruppe l'associazione e fece diventare povere anche quelle persone che aveva un tempo reso ricchissime: desiderando beni propri cessarono di possedere il tutto. 4 Ma i primi uomini e la loro progenie seguivano con purezza la natura, trovavano nello stesso uomo la guida e la legge, affidandosi alle decisioni del migliore, poiché la natura subordina quello che è inferiore a quello che è superiore. Le greggi le guidano gli animali più grossi o più impetuosi, le mandrie non le precede un toro di scarto, ma quello che per grossezza e massa muscolare supera gli altri maschi; i branchi degli elefanti li conduce il più alto; fra gli uomini conta il migliore, non il più forte. Il capo veniva scelto per le sue qualità interiori, e perciò i popoli più fiorenti erano quelli in cui solo il migliore poteva essere il più potente: poiché può fare con sicurezza quello che vuole solo l'uomo che ritiene di potere unicamente quello che deve.

5 Posidonio pensa che nell'età cosiddetta aurea, il governo fosse nelle mani dei saggi. Essi tenevano a freno la violenza, difendevano il più debole dai più forti, facevano opera di persuasione e di dissuasione, indicavano ciò che era utile o inutile; la loro preveggenza faceva in modo che non mancasse niente al popolo, la loro forza teneva lontani i pericoli, la loro liberalità arricchiva e dava benessere ai sudditi. Comandare era un dovere, non una tirannide. Nessuno sperimentava il proprio potere contro chi gli aveva permesso di averlo, nessuno era incline o motivato a commettere ingiustizie, poiché i sudditi obbedivano con sollecitudine al sovrano che comandava rettamente e la minaccia più grave del re a chi disobbediva era di rinunciare al potere. 6 Ma quando, per l'insinuarsi dei vizi, il regnare si tramutò in dispotismo, nacque la necessità delle leggi: e anch'esse all'inizio furono i saggi a presentarle. Solone, che diede ad Atene solide fondamenta di giustizia, fu uno dei sette famosi sapienti: Licurgo, se fosse vissuto nella stessa epoca, sarebbe stato inserito in quella sacra congrega come ottavo. Si elogiano i codici di Zaleuco e di Caronda; costoro il diritto non lo impararono nel foro o nell'atrio degli avvocati, ma le leggi che avrebbero dato alla Sicilia allora fiorente e, attraverso l'Italia meridionale, alla Grecia, le appresero nel sacro e tacito ritiro di Pitagora.

7 Fin qui sono d'accordo con Posidonio: non condivido, invece, che la filosofia abbia inventato le arti di uso quotidiano, e non le attribuirei la gloria dei mestieri artigianali. "La filosofia," egli afferma, "insegnò a costruire case agli uomini dispersi qua e là e che trovavano riparo o in capanne, o in qualche caverna, o nel cavo di un albero." Secondo me la filosofia non ha escogitato questi congegni di tetti che sorgono sui tetti, di città che incalzano le città, come non ha escogitato i vivai ittici, creati per risparmiare alla gola il rischio delle tempeste e per offrire alla mollezza, quando il mare impazzisce furioso, cale tranquille in cui ingrassare diverse qualità di pesci. 8 Che dici? La filosofia ha insegnato agli uomini ad avere chiavi e serrature? Non era dar via libera all'avidità? La filosofia avrebbe innalzato dei tetti che sovrastano così pericolosamente chi vi abita? Non bastava proteggersi con ripari fortuiti, trovarsi un rifugio naturale che non richiedesse tecnica o fatica. 9 Credimi, era felice quell'epoca senza architetti, né decoratori. Tagliare le assi in modo regolare, segare le travi con mano sicura secondo le linee tracciate, questo è nato col nascere del lusso;

i primi uomini, infatti, spaccavano con cunei il legno che si fendeva con facilità.

Non costruivano dimore con stanze destinate ai banchetti, pini e abeti non venivano trasportati in lunghe file di carri, facendo tremare le strade, per trasformarli in soffitti carichi d'oro sospesi sulle loro teste. 10 Puntelli dai due lati sostenevano la capanna; rami secchi stipati, fronde ammassate disposte con opportuna inclinazione assicuravano il defluire delle piogge anche torrenziali. Sotto questi tetti abitavano al sicuro: un tetto di paglia riparava gente libera; oggi sotto i marmi e l'oro abitano dei servi.

11 Su un altro punto ancora dissento da Posidonio: egli pensa che gli strumenti artigianali sono stati inventati dai filosofi; allo stesso modo potrebbe tranquillamente dire che i saggi

allora escogitarono il modo di catturare le fiere con i lacci, di ingannarle con il vischio e di circondare con i cani le grandi balze selvose.

Tutte queste scoperte le fece la sagacia, non la saggezza umana. 12 Anche su questo non sono d'accordo: le miniere di ferro e di rame non le hanno trovate i saggi quando la terra bruciata dall'incendio delle foreste aveva riversato fuse le vene di metalli giacenti in superficie: sono cose che le trova chi se ne occupa. 13 E neppure mi sembra tanto acuto, come a Posidonio, il problema se l'uso del martello fu anteriore a quello delle tenaglie. Li inventò entrambi qualcuno dalla mente brillante e acuta, non nobile ed elevata, e fu così per qualsiasi altra cosa che va cercata col corpo curvo e concentrandosi sulla terra. Il saggio condusse sempre una vita semplice. E perché no? Anche di questi tempi desidera essere il più libero possibile. 14 Ma via, come può essere che ammiri Diogene e Dedalo insieme? Chi di loro ti sembra saggio? L'inventore della sega o il filosofo che, dopo aver visto un bambino bere l'acqua nel cavo della mano, tirò fuori il bicchiere dalla bisaccia e lo ruppe immediatamente rivolgendo a se stesso questo rimprovero: "Per quanto tempo ho portato da insensato pesi inutili!", egli che dormiva rannicchiato in una botte? 15 E oggi, chi ritieni più saggio? Chi ha trovato il modo di spruzzare a grandi altezze, attraverso condotti invisibili, essenze profumate, chi riempie i canali con un improvviso getto d'acqua o li prosciuga, e congiunge i soffitti girevoli delle sale da pranzo in modo che si susseguano immagini diverse e il tetto cambi tante volte quante sono le portate, oppure chi dimostra a sé e agli altri che la natura non ci costringe a nulla di faticoso e di difficile, che possiamo avere case senza ricorrere al marmista e al fabbro, che possiamo vestirci senza importare sete, che possiamo avere il necessario per i nostri bisogni se ci accontentiamo dei beni che la terra presenta in superficie? Se l'umanità vorrà ascoltarlo, capirà che un cuoco le è inutile quanto un soldato.

16 Erano saggi, o almeno simili ai saggi, quegli uomini che curavano il proprio corpo in modo sbrigativo. Procurarsi il necessario non richiede un impegno particolare: per i piaceri, invece, ci si affanna. Non c'è bisogno di artigiani: segui la natura. Essa non ha voluto che ci occupassimo di troppe cose: ci ha fornito il necessario per affrontare le prove alle quali ci costringeva. "Quando si è nudi, il freddo è insopportabile." Ebbene? La pelle delle fiere e di altri animali non può difenderci più che a sufficienza dal freddo? Tanti popoli non si coprono il corpo con la corteccia degli alberi? Non si intrecciano piume di uccelli per farne vestiti? Anche oggi la gran parte degli Sciti non indossa pelli di volpi e di martore, morbide al tatto e impenetrabili ai venti? E gli uomini non intrecciavano a mano un graticcio di vimini e lo spalmavano di fango e poi coprivano il tetto di paglia e di rami e passavano tranquilli l'inverno mentre le piogge scivolavano sugli spioventi del tetto? 17 "Però, bisogna respingere la calura estiva creando più ombra." Ebbene? Con gli anni non si sono formati molti anfratti che, scavati dalla corrosione del tempo o da qualsiasi altro fenomeno, divennero caverne? Non si rifugiano sottoterra i popoli della Sirte e quelli che, per l'eccessivo ardore del sole, non hanno nessuna copertura sufficientemente valida per respingere il caldo, se non la stessa terra riarsa? 18 La natura, che ha dato a tutti gli altri animali una vita facile, non è stata ingiusta al punto che solo l'uomo non potesse vivere senza tante arti; non ci ha imposto niente di gravoso, niente da ricercare con fatica per prolungare la vita. Fin dalla nascita abbiamo avuto tutto a portata di mano: ci siamo, però, resi tutto difficile per ripugnanza delle cose facili. Le case, i vestiti, i medicinali, il cibo e quanto ora è diventato fonte di grandi difficoltà, erano a portata di mano, gratuiti ed era possibile procurarseli con poca fatica; la misura di tutto era determinata dalla necessità: noi abbiamo reso questa roba preziosa, straordinaria e frutto di molte e importanti arti. La natura basta a soddisfare i suoi bisogni. 19 Il lusso si è scostato dalla natura, si incita da sé giorno per giorno, cresce attraverso le generazioni e alimenta i vizi con l'intelligenza. Dapprima ha cominciato col desiderare le cose superflue, poi quelle dannose, infine ha assoggettato l'anima al corpo, comandandole di servire le sue voglie. Tutte queste arti che mettono in movimento o riempiono di strepito le città fanno gli interessi del corpo: un tempo gli si dava tutto come a uno schiavo, ora glielo si offre come a un padrone. Ecco, dunque, qua le botteghe dei tessitori, là quelle dei fabbri, gli odori delle cucine, le scuole dove si insegnano molli danze e canti languidi ed effeminati. È scomparsa quella naturale misura che limitava i desideri alle necessità; ormai è segno di grossolanità e di miseria volere solo quanto basta.

20 È incredibile, Lucilio mio, con quanta facilità la suggestione della parola distolga anche i grandi uomini dalla verità. Ecco Posidonio, a mio avviso, uno degli uomini che hanno dato un grandissimo apporto alla filosofia; egli vuole descrivere prima come si ritorcano alcuni fili, come altri siano tratti da una massa morbida e lenta; poi come il telaio tenga dritto l'ordito per mezzo di pesi attaccati, come con la spatola si raccolgano e uniscano i fili inseriti per ammorbidire la durezza della trama che preme sui due lati; afferma poi che anche la tessitura è stata inventata dai saggi, dimenticando che, in sèguito, si è trovato questo sistema più ingegnoso in cui

la tela è legata al subbio, il pettine separa i fili dell'ordito, con la spola appuntita si inserisce fra mezzo la trama, e i denti intagliati nel largo pettine la battono.

Che avrebbe pensato se avesse potuto vedere i tessuti di oggi con cui si confezionano vestiti completamente trasparenti, che non servono né al corpo, né al pudore? 21 Posidonio passa quindi ai contadini: con la stessa eloquenza descrive come venga arato più volte il terreno perché le radici penetrino più facilmente nella terra morbida, poi descrive la semina e l'estirpazione a mano delle erbacce perché non spunti qualcosa a caso o qualche pianta selvatica che faccia morire il raccolto. Pure quest'opera la attribuisce ai saggi, come se i contadini non trovassero anche oggi moltissimi sistemi nuovi per accrescere la produttività. 22 Poi, non ancora contento di queste arti, egli infila il saggio anche nei mulini e racconta come incominciò a fare il pane imitando la natura. "I denti con la loro durezza," afferma, "spezzano i cereali che mettiamo in bocca e quanto sfugge, la lingua lo riporta di nuovo ai denti; poi il tutto viene mescolato con la saliva perché scivoli più facilmente per la gola; quando arriva allo stomaco, è digerito dal suo calore uniforme; infine, viene assorbito dal corpo. 23 Qualcuno, seguendo questo esempio, pose due pietre ruvide l'una sull'altra a somiglianza dei denti, di cui una parte sta ferma e l'altra si muove; poi con l'attrito delle due pietre spezzò i chicchi, e ripeté più volte l'operazione fino a ridurli triturati in farina; poi bagnò la farina, la impastò lavorandola a lungo e fece il pane, che all'inizio fu cotto al calore della cenere e in un vaso di argilla rovente, quindi nei forni inventati col tempo e con altri sistemi a calore regolabile." Per poco non disse che anche il mestiere di calzolaio l'hanno inventato i saggi.

24 La ragione, non la retta ragione, ha escogitato tutte queste attività. Sono scoperte dell'uomo, non del saggio, come, appunto, le navi con cui attraversiamo fiumi e mari, dopo aver sistemato le vele per sfruttare la forza del vento e collocato a poppa il timone per indirizzare la nave su rotte diverse. L'esempio è stato preso dai pesci che regolano i loro movimenti con la coda e si dirigono rapidamente con un guizzo da una parte o dall'altra. 25 "Tutte queste scoperte," egli afferma, "le fece proprio il saggio, ma poiché erano troppo poco importanti per occuparsene lui stesso, le ha passate a più umili esecutori." E invece, queste arti sono state escogitate proprio da quegli stessi che, ancor oggi, le praticano. Certe invenzioni, lo sappiamo, sono recenti: l'uso dei vetri, che con il loro materiale trasparente lasciano filtrare la luce nella sua luminosità; le volte dei bagni e i tubi attaccati ai muri che emanano un calore omogeneo per tutta la stanza sopra e sotto. E che dire dei marmi di cui risplendono i templi, le case? E le enormi colonne di pietra levigata che sostengono porticati ed edifici atti a contenere una gran quantità di gente, e della tachigrafia, grazie alla quale si possono trascrivere anche discorsi rapidi e seguire con la mano la velocità della lingua? Queste sono invenzioni degli schiavi più umili: 26 la saggezza sta più in alto, insegna agli animi, non alla mano. Vuoi sapere che cosa ha scoperto, che cosa ha prodotto? Non i movimenti aggraziati del corpo, o la diversa melodia della tromba o del flauto, che ricevono il fiato e durante il passaggio o all'uscita dallo strumento lo trasformano in suono. Non fabbrica armi, fortificazioni o arnesi da guerra: favorisce la pace, e il genere umano lo invita alla concordia. 27 Non è - ripeto - l'artefice di strumenti per le necessità pratiche. Perché le assegni attività così meschine? Tu hai davanti l'artefice della vita. Ella ha il dominio sulle altre arti: è signora della vita e signora di ciò che è ornamento della vita: ma tende a uno stato di felicità, a quella mèta ci conduce e ci spiana il cammino. 28 Ci mostra i mali veri e quelli apparenti; libera la mente da ogni vanità, dà la grandezza autentica e reprime quella tronfia, fatta di vuote apparenze, vuole che sappiamo la differenza tra grandezza e superbia; ci fa conoscere se stessa e la totalità della natura. Ci rivela l'essenza e le qualità degli dèi, che cosa siano gli inferi, i lari, i genii, le anime che sopravvivono sotto forma di divinità secondarie, la loro sede, la loro attività, il loro potere e volontà. Questa è l'iniziazione attraverso la quale essa ci schiude non il sacrario di una città, ma il vasto tempio di tutti gli dèi, l'universo stesso, di cui ha offerto all'esame dell'intelligenza l'immagine vera, il vero aspetto: l'occhio umano è debole per spettacoli così grandi. 29 È ritornata, poi, ai principî delle cose, alla ragione eterna immanente nell'universo e alla forza di tutti i semi che dà ai singoli esseri una propria forma. Ha cominciato a indagare sull'anima, sulla sua origine, la sua sede, la sua durata, e sulle parti in cui è divisa. È poi passata dal corporeo all'incorporeo e ha esaminato la verità e le prove della verità; ha, quindi, mostrato come si possono distinguere le ambiguità nella vita e nelle parole, perché in entrambe vero e falso sono confusi insieme.

30 Secondo me il saggio non è che si sia allontanato da queste occupazioni, come sostiene Posidonio; non vi si è mai applicato. Per il saggio non sarebbe stata meritevole di invenzione una cosa che non giudicasse meritevole di un uso perpetuo; non avrebbe intrapreso un'opera che poi doveva lasciare. 31 "Anacarsi," afferma, "inventò il tornio, che ruotando permette di foggiare i vasi." E, poiché in Omero si parla del tornio, si è preferito ritenere falsi i suoi versi invece della notizia di Posidonio. Io non contesto il fatto che Anacarsi fu l'inventore del tornio; in questo caso fu certo un saggio a fare questa scoperta, ma non come tale: i saggi compiono molte azioni in quanto uomini, non in quanto saggi. Supponi che un saggio sia velocissimo nella corsa: supererà tutti perché è veloce, e non perché è saggio. Vorrei mostrare a Posidonio un vetraio, che soffiando foggia il vetro in molteplici forme: una mano precisa stenterebbe a modellarlo. Queste scoperte furono fatte quando si smise di trovare i saggi. 32 "Affermano che Democrito inventò l'arco" dice Posidonio, "in cui la pietra centrale tiene ferme le altre che gradualmente si inclinano." Ma è falso! Già prima di Democrito c'erano necessariamente ponti e porte che sono in genere curvi alla sommità. 33 Vi sfugge, inoltre, che sempre Democrito inventò il modo di lavorare l'avorio, di tramutare in smeraldo una pietruzza, sottoponendola a un forte calore, sistema con cui, anche oggi, si colorano le pietre adatte a questo scopo. Saranno pure scoperte di un saggio, ma non in quanto tale: egli, difatti, fa molte cose che vediamo fare o nello stesso modo o con più abilità e più pratica da gente del tutto ignorante.

34 Vuoi conoscere le ricerche e le scoperte del saggio? Per prima cosa, ha studiato la verità e la natura, che non ha indagato con occhi tardi a comprendere la realtà divina, come gli altri esseri animati; poi, la legge dell'esistenza, che ha regolato secondo l'ordine universale e ha insegnato non solo a conoscere, ma anche a obbedire agli dèi e ad accogliere gli eventi della vita come comandi. Ha impedito che si seguissero false credenze e ha attribuito a ogni oggetto il suo valore facendone una stima precisa; ha condannato i piaceri, cui si mescola il pentimento, lodato i beni, fonte di perpetua soddisfazione, e ha dimostrato che l'uomo più felice è quello che non ha bisogno della felicità e il più potente quello che ha il dominio di se stesso. 35 Non mi riferisco a quella filosofia che ha posto i cittadini fuori dallo stato, gli dèi fuori dal mondo, che ha messo la virtù in balia del piacere, ma a quella che giudica l'onestà il solo bene, che non si lascia sedurre dai doni degli uomini o della fortuna e il cui valore è di essere incorruttibile.

Non credo che questa filosofia esistesse in quell'età rozza quando non c'erano ancòra i mestieri e l'esperienza stessa insegnava ciò che era utile. 36 Credo, invece, che venne dopo quei tempi fortunati, quando i beni della natura erano in comune e tutti potevano farne uso insieme, prima che l'avidità e il lusso dividessero gli uomini e insegnassero a passare dalla comunanza al ladrocinio. Non erano saggi, quelli, anche se facevano quello che devono fare i saggi. 37 Nessuno potrebbe guardare con più ammirazione un'altra condizione umana e se anche dio permettesse a qualcuno di dare ordine alla terra e costumi ai popoli, non potrebbe giudicare opportuna altra condizione che quella esistente al tempo in cui

nessun colono lavorava i campi; e non si poteva nemmeno contrassegnare o dividere il terreno con linee di confine: il raccolto era comune ed era la terra ad offrire i suoi beni spontaneamente, senza che nessuno li ricercasse.

 

38 Ci può essere generazione di uomini più felice di quella? Insieme godevano i prodotti della natura che, come una madre, bastava al sostentamento di tutti, e, senza pericolo, possedevano le ricchezze in comune. Perché non dovrei definire ricchissimi quegli uomini tra cui non avresti potuto trovare un solo povero? L'avidità fece breccia in quelle eccellenti condizioni di vita e mentre desiderava sottrarre dei beni e farli suoi, fu privata di tutto e da una ricchezza smisurata si ridusse in ristrettezze. L'avidità portò la miseria: desiderando troppo, perse ogni cosa. 39 Si sforzi pure, adesso, di recuperare ciò che ha perduto, aggiunga campi su campi, scacciando il vicino col denaro o con la violenza, estenda le campagne a intere province e la parola possesso significhi un lungo viaggio attraverso le proprie terre: nessun ampliamento di confini ci riporterà al punto di partenza. Facciamo tutto il possibile: avremo molto; ma prima avevamo tutto. 40 Anche la terra, senza lavorarla, era più fertile e generosa verso le necessità degli uomini che non si contendevano i suoi frutti. Era un piacere sia trovare i prodotti della terra, sia mostrarli agli altri; nessuno poteva avere troppo o troppo poco: si divideva in pieno accordo. Il più forte non aveva ancòra messo le mani sul più debole, l'avaro non aveva ancòra tolto anche lo stretto necessario al prossimo, nascondendo il capitale inutilizzato: ognuno aveva la stessa cura di sé e degli altri. 41 Non si combatteva e le mani, senza spargere sangue umano, riversavano tutta la loro aggressività sulle fiere. Quegli uomini che si riparavano dal sole nel fitto di un bosco, che per sfuggire l'inclemenza dell'inverno e della pioggia vivevano al sicuro in un umile rifugio sotto le fronde, passavano notti tranquille senz'ansia. Ora in preda all'angoscia noi ci rivoltiamo nei nostri letti lussuosi e ci pungolano aspri tormenti; su quella terra dura, invece, che placidi sonni per loro! 42 Non li sovrastavano soffitti intagliati, ma giacevano all'aperto mentre sul loro capo scorrevano le stelle e, straordinario spettacolo delle notti, l'universo si muoveva rapido, compiendo in silenzio una così grande opera. Sia di giorno che di notte si apriva loro la vista di questa splendida dimora; era un piacere contemplare il declino delle stelle in mezzo al cielo e il sorgere di altre da un buio segreto. 43 Non era piacevole vagare fra tante meraviglie sparse per ogni dove? Voi, invece, tremate di paura a ogni rumore della casa e fra i vostri affreschi fuggite spaventati al minimo suono. Non possedevano case grandi come città: l'aria e il suo libero soffio per gli spazi aperti, l'ombra leggera di una rupe o di un albero, fonti e ruscelli trasparenti che l'uomo non aveva ancora deturpato con dighe, tubi, o deviandone il corso, ma che scorrevano naturalmente, e prati belli senza artificio, e in mezzo a un tale scenario una rustica dimora abbellita da mani semplici - era questa la casa secondo natura, in cui era bello vivere, senza aver paura di essa o per essa: ora la casa costituisce gran parte delle nostre paure.

44 Certo, condussero una vita perfetta e pura, ma non furono saggi: questo è un nome che ormai indica l'attività più nobile. Non nego, tuttavia, che avessero un animo elevato e fossero, per così dire, usciti proprio allora dalle mani degli dèi; sicuramente il mondo, non ancora esausto, produceva esseri migliori. Ma se avevano un carattere più forte e più disposto alle fatiche, non tutti, però erano dotati di una intelligenza perfetta. La virtù non è un dono naturale: diventare virtuosi è un'arte. 45 Quelli non cercavano oro, argento e pietre preziose nelle viscere della terra e risparmiavano anche gli animali: non si concepiva nemmeno che un uomo uccidesse un proprio simile, non per ira, né per timore, ma solo per il gusto di vederlo morire. Non avevano ancòra vestiti variopinti, non tessevano l'oro, anzi nemmeno l'estraevano. 46 E allora? Erano innocenti per ignoranza: ma c'è molta differenza fra chi non vuole e chi non sa agire male. Non avevano giustizia, prudenza, temperanza, fortezza. Somigliava un po' a queste virtù quella vita primitiva: ma solo l'animo profondamente istruito ed elevato al più alto grado di perfezione da un costante esercizio raggiunge la virtù. Per essa nasciamo, ma senza di essa, e anche negli uomini migliori, prima che vengano istruiti, c'è materia di virtù, non virtù. Stammi bene.

 

91

1 Ora il nostro Liberale è triste: ha saputo dell'incendio che ha distrutto la colonia di Lione; è una disgrazia che commuoverebbe chiunque, a maggior ragione un uomo molto amante della sua patria. In questa circostanza ha fatto invano appello alla sua fermezza d'animo: evidentemente l'aveva esercitata per le disgrazie che riteneva possibili. In realtà non mi stupisco che non avesse temuto una calamità così imprevedibile e quasi inaudita, poiché non aveva precedenti: incendi hanno devastato molte città, ma non ne hanno mai cancellata nessuna. Anche quando il fuoco alle case lo appiccano i nemici, molti focolai si spengono e, sebbene venga ripetutamente attizzato, è raro che divori tutto e non lasci niente alle armi. Anche il terremoto fu di rado così grave e disastroso da annientare città intere. E poi non divampò mai in nessun luogo un incendio tanto rovinoso che non rimanesse niente per un altro incendio. 2 È bastata una sola notte ad abbattere tante stupende costruzioni, ognuna delle quali avrebbe potuto dare lustro a una città, e in un periodo di pace così completa è accaduto quanto non si potrebbe temere neanche in guerra. Chi lo crederebbe? Mentre ovunque tacciono le armi e c'è tranquillità nel mondo intero, si cerca invano Lione, vanto della Gallia. La fortuna ha sempre concesso a tutte le vittime di una calamità di prevedere i mali che avrebbero subìto; tutto quello che è grande non precipita improvvisamente: in questo caso è intercorsa una sola notte fra l'esistenza di una città grandissima e la sua sparizione. Insomma, è scomparsa più rapidamente di quanto te lo racconto.

3 Tutti questi avvenimenti abbattono l'animo del nostro Liberale, che pure si è dimostrato saldo e coraggioso di fronte alle sue sventure; e a ragione ne è rimasto sconvolto: gli imprevisti gravano maggiormente; l'inatteso rende più pesanti le disgrazie e per tutti gli uomini il dolore è più acuto se sono colti di sorpresa. 4 Non ci deve essere, perciò per noi niente di imprevisto: è bene considerare ogni eventualità e pensare non a quello che generalmente accade, ma a quello che può accadere. C'è qualcosa che la sorte non possa togliere - basta che lo voglia - quando si è all'apice della prosperità? Che non assalga e abbatta con tanta maggiore violenza quanto più è vistoso e splendente? Non c'è niente di arduo, niente di difficile per lei. 5 Il modo in cui ci assale non è uno solo e nemmeno sempre lo stesso. Ora ci volge contro le nostre stesse mani, ora, paga delle sue forze, ci crea da sola pericoli senza interventi esterni. Nessuna circostanza fa eccezione: anche in mezzo ai piaceri nascono motivi di dolore. La guerra scoppia mentre regna la pace e quanto ci dava sicurezza si trasforma in paura; l'amico ora è un avversario, l'alleato un nemico. Dalla tranquillità estiva si passa a tempeste improvvise e più violente di quelle invernali. I mali che subiamo non ci vengono da nemici e i motivi di sventura, se ne mancano altri, l'eccessiva prosperità li trova da sé. La malattia colpisce gli uomini più temperanti, la tisi i più robusti, la punizione i più innocenti, le rivolte quelli che più vivono in disparte; il destino sceglie qualche nuovo sistema per imporre le proprie forze se ce ne fossimo dimenticati. 6 Basta un solo giorno a disperdere e distruggere quello che è stato costruito a prezzo di dure fatiche col favore degli dèi in una lunga serie di anni. Dire un giorno è dare una scadenza troppo lunga ai mali che ci incalzano: basta un'ora, anzi, un istante per distruggere un impero. Sarebbe una consolazione per la nostra debolezza e per i nostri beni se tutto andasse in rovina con la stessa lentezza con cui si produce e, invece, l'incremento è graduale, la rovina precipitosa. 7 Non c'è stabilità individuale, e nemmeno collettiva; il destino ha un suo corso sia per gli uomini, che per le città. Il terrore nasce nella calma più assoluta e i mali erompono là da dove erano del tutto inaspettati, senza cause apparenti. I regni che avevano resistito alle lotte civili e alle guerre crollano senza nessuna spinta: ben poche città hanno mantenuto una prospera condizione! Bisogna, quindi, considerare ogni eventualità e rafforzare l'animo contro i possibili mali. 8 Pensa all'esilio, alle sofferenze, alle guerre, ai naufragi. Un caso potrebbe strappare te alla patria o la patria a te, potrebbe cacciarti in un deserto, un deserto potrebbe diventare perfino questo luogo dove la folla boccheggia. Mettiamoci sotto gli occhi ogni aspetto del destino umano: non figuriamoci quanto accade spesso, ma quanto può con grandissima probabilità accadere, se non vogliamo farci schiacciare e rimanere attoniti di fronte a eventi insoliti come se fossero straordinari; la fortuna va considerata nella sua totalità. 9 Quante volte città dell'Asia, città della Grecia sono crollate per una sola scossa tellurica! Quante città in Siria, quante in Macedonia sono state ingoiate dalla terra? Quante volte Cipro è stata devastata da questa calamità! Quante volte Pafo è precipitata su se stessa! Abbiamo spesso avuto notizia della rovina di tante città e noi, a cui vengono di frequente annunziate queste disgrazie, che minima parte siamo dell'umanità! Leviamoci, dunque, contro i casi fortuiti, consapevoli che la gravità dell'accaduto è inferiore a quanto si va dicendo. 10 È bruciata una città ricca, fregio delle province di cui faceva parte in posizione di spicco e tuttavia costruita su un solo colle e per giunta non molto grande: il tempo cancellerà anche le tracce di tutte queste città di cui ora senti celebrare la magnificenza e la fama. Ma non lo vedi che in Grecia sono ormai corrose le fondamenta di città celebri e non rimane niente che indichi almeno la loro passata esistenza? 11 Non decade solo quello che costruiamo con le nostre mani, il tempo non distrugge soltanto i frutti dell'arte e dell'operosità umana: le vette dei monti si disfano, intere regioni sprofondano, vengono sommersi dalle onde luoghi che erano lontani persino dalla vista del mare; il fuoco, con la sua enorme violenza, ha eroso i colli sui quali risplendeva, e abbassato cime prima altissime, sollievo dei naviganti e punti di vedetta. Anche le opere della natura vengono devastate e perciò dobbiamo sopportare serenamente la rovina delle città. 12 Si ergono destinate a cadere: questa è la fine che le aspetta tutte, sia che la forza interna dei venti e il loro soffio impetuoso attraverso luoghi chiusi faccia precipitare i muri che li serrano, sia che la furia dei torrenti, più terribile nel sottosuolo, infranga ogni resistenza, sia che la violenza delle fiamme crepi la massa compatta del terreno, sia che la vecchiaia, cui niente scampa, le faccia capitolare a poco a poco, sia che il clima insalubre scacci le popolazioni e la muffa guasti quei luoghi ormai deserti. Tutte le vie del destino sarebbe lungo elencarle. Io so solo questo: ogni opera dei mortali è condannata a morte sicura, viviamo fra cose destinate a finire.

13 Perciò al nostro Liberale che arde di un amore straordinario per la sua patria - e forse è stata distrutta per risorgere migliore - rivolgo queste e altre simili parole di conforto. Spesso una disgrazia apre la strada a un destino più felice: molte opere sono risorte più splendide dalla loro rovina. Timagene, ostile alla fortuna di Roma, diceva che gli incendi di quella città lo facevano soffrire solo perché sapeva che sarebbero sorti edifici migliori di quelli bruciati. 14 È probabile che anche in questa città tutti faranno a gara per ricostruire edifici più imponenti e grandiosi di prima. Voglia il cielo che viva nel tempo e sia edificata con auspici più fausti e durevoli! Dalla fondazione di questa colonia sono passati cento anni, che non sono il limite massimo neppure per un uomo. Fondata da Planco, ebbe questo aumento demografico per la sua posizione favorevole: ma quante terribili disgrazie ha subìto nello spazio di una vita umana! 15 Sappia, dunque, il nostro animo comprendere e sopportare il proprio destino, sappia che la fortuna può osare tutto e ha gli stessi diritti sull'autorità e su chi la detiene e lo stesso potere sulla città e sui cittadini. Non indignamoci per questi fatti: sono le leggi che regolano la vita dell'universo di cui facciamo parte. Ti va bene: accettale. Non ti va bene: vattene per la via che preferisci. Potresti sdegnarti se l'ingiustizia fosse deliberata esclusivamente contro di te; ma se questa è una necessità che vincola tutti, dal più piccolo al più grande, riconcìliati col destino, che tutto viola. 16 Non giudicare gli uomini dalla diversità dei monumenti funebri e delle tombe che adornano le strade: la cenere rende tutti uguali. Nasciamo diversi, moriamo uguali. Quanto dico per le città, vale anche per chi le abita: fu conquistata Ardea, fu conquistata Roma. L'autore delle leggi umane ci ha distinto per nascita o per fama solo nell'arco della nostra vita: ma quando giunge la fine per gli uomini, dice: "Vattene, ambizione: la legge sia identica per tutti gli esseri che calcano questa terra." Siamo uguali di fronte alla sofferenza; nessuno è più debole dell'altro, nessuno è più certo del domani.

17 Alessandro, re dei Macedoni, aveva incominciato a studiare la geometria per sapere, infelice, quanto fosse piccola la terra di cui aveva occupato una minima parte. Infelice - dico - perché avrebbe dovuto capire che il suo soprannome era sbagliato: chi può essere grande in pochissimo spazio? Gli argomenti che gli venivano insegnati erano sottili e bisognava studiarli con grande attenzione: non era in grado di capirli un pazzo, che indirizzava i suoi pensieri al di là dell'oceano. "Insegnami nozioni facili," disse. "Sono le stesse per tutti, ugualmente difficili," gli rispose il precettore. 18 Supponi che la natura ti dica: "I mali di cui ti lamenti sono uguali per tutti; non posso darne a nessuno di più sopportabili, ma chi vorrà se li renderà tali." Come? Con l'imperturbabilità. E dovrai soffrire e patire la sete, la fame e invecchiare (se ti toccherà di stare più a lungo tra gli uomini), e dovrai ammalarti e subire delle perdite e morire. 19 Non c'è ragione, però di credere a quelli che gridano intorno a te i loro lamenti: nessuna di queste cose è un male, nessuna è insopportabile o penosa. La paura nasce perché tutti la pensano così. Tu temi la morte come le dicerie: ma non è del tutto insensato un uomo che teme le parole? Acutamente il nostro Demetrio afferma spesso di considerare i discorsi degli ignoranti alla stessa stregua dei rumori del ventre. "Che importa," afferma, "se risuonano su o giù?" 20 Che follia temere di essere screditati da gente screditata. E come è immotivata la tua paura per l'opinione pubblica, così lo sono i timori che hai perché la gente te li ha imposti. Verrebbe danneggiato un uomo onesto se venisse coperto di calunnie? 21 E quindi non dobbiamo giudicare male nemmeno la morte, e la morte ha una cattiva fama. Nessuno di quelli che l'accusano l'ha sperimentata: è da sconsiderati condannare quello che non si conosce. Però sai a quanti è utile, quanti libera dalle sofferenze, dalla povertà, dai lamenti, dalle pene, dalla noia. Nessuno ha potere su di noi, quando noi abbiamo la morte in nostro potere. Stammi bene.

 

92

1 Io e te siamo d'accordo, penso: i beni materiali ce li procuriamo per il corpo, il corpo lo curiamo per onorare l'anima, nell'anima ci sono parti subalterne dateci per l'elemento principale, per mezzo delle quali ci muoviamo e ci nutriamo. In questo elemento principale c'è una parte irrazionale, e ce n'è anche una razionale; la prima è soggetta alla seconda, e questa è la sola a non essere subordinata a niente altro, ma a subordinare tutto a sé. Anche la ragione divina è preposta a tutto, non dipende da nessuno; così è la nostra ragione che da lei nasce.

2 Se siamo d'accordo su questo punto, lo saremo di conseguenza anche sul fatto che la felicità consiste soltanto nell'avere la perfetta ragione. Essa sola non si scoraggia e sta salda contro la fortuna; in qualsiasi condizione conserva la padronanza di sé. Ed è il solo bene che non viene mai spezzato. È felice, secondo me, l'uomo che non può essere sminuito da nulla; è giunto alla sommità e non si appoggia che a se stesso: infatti, chi si sostiene con l'aiuto di qualcuno, può cadere. In caso contrario, cominceranno a prevalere in noi elementi estranei. Ma chi vuole dipendere dalla fortuna o qual è il saggio che ammira se stesso per beni non suoi? 3 Che cos'è la felicità? Uno stato duraturo di sicurezza e di serenità, e ce lo daranno la grandezza d'animo e la continuità nel giudicare sempre rettamente. Come ci si arriva? Esaminando la verità nella sua interezza, conservando nelle proprie azioni l'ordine, la misura, la dignità, una volontà che non fa il male, ma il bene, che non perde di vista la ragione e non se ne allontana mai, degna di essere amata e insieme ammirata. Infine, per dirla in breve, l'animo del saggio deve essere degno di dio. 4 Che cosa può desiderare d'altro chi ha raggiunto ogni virtù? Infatti, se i vizi possono contribuire al raggiungimento del bene supremo, la felicità consisterà in essi, poiché senza di essi non esiste. E che cosa c'è di più vergognoso e sciocco che legare all'irrazionale il bene di un animo razionale?

5 Certi filosofi, tuttavia, ritengono che il sommo bene si accresca, poiché non è perfetto se la sorte è contraria. Anche Antipatro, uno dei grandi rappresentanti della nostra scuola filosofica, attribuisce una certa importanza, sia pure molto scarsa, ai fattori esterni. Pensa che assurdità sarebbe non accontentarsi della luce del giorno e voler accendere una fiammella: che valore può avere una scintilla quando splende il sole? 6 Se non sei contento della sola virtù, è inevitabile che tu voglia aggiungerci o la serenità dello spirito, che i Greci chiamano $Pï÷ëçóßá$, o il piacere. L'una la si può accettare comunque, poiché l'animo libero dagli affanni si dedica all'osservazione dell'universo e niente lo distoglie dalla contemplazione della natura. L'altro, il piacere, è il bene delle bestie; aggiungiamo, dunque, l'irrazionale al razionale, l'immorale al morale, ‹il piccolo› al grande: l'eccitazione dei sensi rende la vita ‹felice›? 7 Perché allora esitate a dire che l'uomo sta bene, se sta bene il palato? E tu, quest'individuo per cui il sommo bene consiste nei sapori, nei colori, nei suoni, lo annoveri non dico fra gli uomini di valore, ma fra gli uomini comuni? Esca da questa bellissima categoria di esseri, seconda unicamente agli dèi; da animale, contento solo di mangiare, si aggreghi alle bestie. 8 L'elemento irrazionale dell'anima si suddivide in due parti: una audace, ambiziosa, sfrenata, immersa nelle passioni, l'altra vile, fiacca, dedita ai piaceri; alcuni tralasciano la prima, sfrenata, e tuttavia migliore, certo più forte e degna di un uomo, e ritengono necessaria alla felicità la seconda, senza nervo e spregevole. 9 Vi hanno asservito la ragione, e il sommo bene dell'animale più nobile lo hanno svilito e reso spregevole, facendolo diventare un impasto mostruoso di parti diverse e disarmoniche. Così il nostro Virgilio parlando di Scilla dice:

nella parte superiore fino al pube ha aspetto umano, di fanciulla dal bel petto; in basso è un mostro marino dal corpo smisurato con code di delfini unite a ventre di lupi.

A questa Scilla sono congiunti animali selvaggi, orribili, veloci: ma costoro, con che razza di mostri l'hanno messa insieme la saggezza? 10 L'elemento principale dell'uomo è la virtù; a essa è unita la carne inutile e caduca, capace solo di ricevere il cibo, come afferma Posidonio. Quella virtù divina finisce in un elemento instabile e alle sue parti eccelse, degne di venerazione e del cielo, si congiunge un animale inerte e putrido. Quanto poi alla serenità dello spirito, di per sé non garantisce niente all'anima, rimuove, però gli ostacoli: il piacere, invece, distrugge e fiacca ogni forza. Si può trovare un'unione di corpi più contrastanti tra loro? A un elemento fortissimo se ne aggiunge uno del tutto inerte, a uno severissimo uno frivolo, a uno irreprensibile uno sfrenato fino all'immoralità.

11 "Ma come?" si obietta, "se la salute, la serenità e l'assenza di dolore non ostacolano la virtù, non cercherai di ottenerle?" E perché no? Non, però; perché sono beni, ma perché sono secondo natura e perché le sceglierò con criterio. Che cosa avranno, allora, di positivo? Solo questo: una scelta opportuna. Quando indosso un vestito adatto, quando cammino come si conviene, quando sto a tavola come si deve, non il pranzo o il camminare o il vestito sono beni, ma la mia intenzione di mantenere in ogni circostanza un comportamento in sintonia con la ragione. 12 Dirò di più: l'uomo deve scegliere una veste pulita, poiché per natura l'uomo è un essere pulito ed elegante. Perciò non è un bene di per sé una veste pulita, ma la scelta di una veste pulita, poiché il bene non consiste nella cosa in sé, ma nel tipo di scelta; oneste sono le nostre azioni, non l'oggetto delle nostre azioni. 13 Quanto ho detto del vestito, fa' conto che lo dica del corpo. Anche questo la natura lo ha messo intorno all'animo come una veste: è il suo manto. Chi ha mai valutato i vestiti in base all'armadio? Il fodero non rende una spada né buona, né cattiva. Quindi, ti rispondo lo stesso anche per il corpo: sceglierò se sarà possibile, la salute e le forze, ma il bene consisterà nel mio giudizio su di esse, non in questi elementi in se stessi.

14 "Certo," dicono, "il saggio è felice; tuttavia, raggiunge il sommo bene solo se ha a disposizione anche i mezzi naturali. Così non può essere infelice chi possiede la virtù, ma non è veramente felice chi ha perso i beni naturali, come la salute o l'integrità fisica." 15 Quello che sembra più incredibile, tu lo ammetti, cioè che un uomo non sia infelice in mezzo a dolori gravissimi e continui, anzi che sia addirittura felice; neghi, invece, la cosa più semplice: che sia veramente felice. Eppure, se la virtù può fare in modo che uno non sia infelice, più facilmente lo renderà molto felice; tra un uomo felice e uno molto felice c'è una distanza inferiore che tra uno infelice e uno felice. Oppure, una cosa che riesce a strappare un uomo alle disgrazie e renderlo felice, non può aggiungere quel che resta e renderlo molto felice? Le mancheranno le forze proprio all'ultimo? 16 Nella vita ci sono beni e mali, entrambi fuori di noi. Se l'uomo virtuoso non è infelice, per quanto oppresso da ogni male, come può non essere molto felice anche se gli manca qualche bene? Come non è abbattuto dal peso dei mali fino a essere infelice, così non è strappato dalla condizione di uomo estremamente felice per la mancanza di beni, ma è molto felice senza beni quanto non è infelice sotto il peso dei mali; altrimenti, il suo bene, se lo si può diminuire, potrà anche essergli tolto. 17 Poco fa dicevo che una fiammella non aggiunge niente alla luce del sole, poiché lo splendore di questo astro nasconde qualunque cosa brilli indipendentemente da lui. "Ma ci sono corpi che fanno da ostacolo anche al sole," dicono. Il sole, però conserva la sua integrità anche in presenza di ostacoli, e, se pure c'è di mezzo qualcosa che ci impedisce di vederlo, è in attività e continua il suo corso; ogni volta che risplende fra le nubi non è più debole e neppure più lento di quando c'è il sereno, poiché è una cosa molto diversa se c'è solo un ostacolo o un vero e proprio impedimento. 18 Così quanto si oppone alla virtù non le sottrae nulla: essa non è più debole, ma riluce meno. Forse non ci è visibile e non brilla allo stesso modo, ma si mantiene identica a se stessa e, senza apparire, esercita la sua forza, come il sole quando è coperto. Così le sventure, le privazioni e le offese hanno sulla virtù lo stesso potere che una nube ha sul sole.

19 C'è chi dice che il saggio, se non ha un fisico sano, non è felice, né infelice. Anche costoro sbagliano, poiché equiparano i beni fortuiti alle virtù e considerano alla stessa stregua l'onesto e il disonesto. Ma che cosa c'è di più ignobile e indegno che paragonare cose di tutto rispetto a cose spregevoli? Meritano rispetto la giustizia, la pietà, la lealtà, la fortezza, la prudenza: al contrario, sono senza valore i beni che spesso toccano con maggiore profusione agli uomini più infimi: gambe robuste, muscoli e denti sani e forti. 20 Inoltre, se non considereremo né felice, né infelice il saggio sofferente nel fisico, ma lo relegheremo in una condizione di mezzo, anche la sua vita non dovrà essere né desiderata, né evitata. Ma che c'è di così assurdo quanto il pensare che la vita del saggio non sia desiderabile? Oppure di così incredibile che esista un tipo di vita da non desiderare e da non evitare? E poi, se i difetti fisici non rendono infelici, permettono di essere felici: quello che non può peggiorare una condizione, non può neppure impedire che questa condizione diventi ottima.

21 "Noi conosciamo il freddo e il caldo," ribattono, "in mezzo c'è il tiepido; così c'è il felice, l'infelice, e chi non è né felice, né infelice." Voglio esaminare questo paragone che ci viene opposto. Se aggiungerò una sostanza più fredda a una tiepida, questa diventerà fredda, se ne aggiungerò una più calda, alla fine diventerà calda. Ma per quanto io aggravi le disgrazie di quest'uomo che non è felice, né infelice, non sarà infelice, come dite; quindi, il paragone non è appropriato. 22 Eccoti, poi, un uomo né infelice, né felice. Gli aggiungo la cecità: non diventa infelice; la debolezza: non diventa infelice; dolori continui e violenti: non diventa infelice. Se tanti mali non lo portano all'infelicità, non possono nemmeno strapparlo alla felicità. 23 Se il saggio, come voi dite, non può ridursi da felice a infelice, non può neppure ridursi all'assenza di felicità. Perché uno che ha incominciato a scivolare dovrebbe a un certo punto fermarsi? Ciò che non lo lascia precipitare fino in fondo lo trattiene in cima. E perché la felicità dovrebbe poter essere distrutta? Non può neppure essere diminuita e per questo la virtù da sola basta a raggiungerla.

24 "Ma come?" continuano, "il saggio che è vissuto più a lungo senza essere distratto da nessun dolore non è più felice di quello che ha lottato sempre con la cattiva sorte?" Rispondimi: è forse migliore e più onesto? Se non è così, non è neppure più felice. Per vivere più felicemente deve condurre una vita più retta: se non può vivere più rettamente, non potrà nemmeno essere più felice. La virtù non si accresce e, perciò, neppure la felicità che da essa nasce. La virtù è un bene così grande che non avverte questi insignificanti complementi, la brevità del tempo, il dolore e le varie malattie, poiché il piacere non è degno di essere preso in considerazione. 25 Qual è la prerogativa della virtù? Non aver bisogno del futuro e non fare il conto dei propri giorni. In un momento conduce a pienezza i beni eterni. Questo ci sembra incredibile e superiore alla natura umana: noi misuriamo la sua grandezza in base alla nostra debolezza e diamo ai nostri vizi il nome di virtù. E dunque? Non sembra ugualmente incredibile che un uomo fra i più atroci tormenti, dica: "Sono felice"? Eppure queste parole si sono sentite proprio nella scuola del piacere. "Vivo questo mio ultimo giorno, il più felice," disse Epicuro, anche se era tormentato da difficoltà urinarie e dal dolore di un'ulcera addominale inguaribile. 26 E perché questo comportamento dovrebbe sembrare incredibile a chi pratica la virtù, quando si ritrova anche in quegli uomini che obbediscono al piacere? Anche questa gente degenere e d'animo vilissimo sostiene che in mezzo alle più gravi sofferenze, alle più terribili disgrazie, il saggio non sarà né infelice, né felice. Eppure anche questo è incredibile, anzi più incredibile ancòra: non vedo come la virtù cacciata dai suoi fastigi non precipiti in fondo. O deve assicurare all'uomo la felicità, oppure, se è costretta a rinunziare, non gli impedirà di diventare infelice. Finché è in lizza, non può ritirarsi: deve vincere o essere vinta.

27 "Solo agli dèi immortali," dicono, "è toccata la virtù e la felicità, a noi un pallido riflesso di quei beni; ci avviciniamo a essi, senza raggiungerli." In realtà la ragione è comune agli dèi e agli uomini; in quelli è perfetta, in noi è suscettibile di perfezione. 28 Ma i nostri vizi ci portano a disperare. Infatti, l'uomo che ha una capacità di giudizio ancòra vacillante e incerta è inferiore, in quanto poco fermo nel mantenere i suoi propositi di virtù. Desìderi pure vista e udito integri, salute, bell'aspetto e una vita lunga senza decadenza fisica. 29 Così si può condurre una vita soddisfacente, ma c'è in quest'uomo imperfetto una certa quantità di malizia, poiché ha un animo incline al male; tuttavia, la sua non è una malizia profondamente radicata e che non ha tregua. Non è ancòra un uomo virtuoso, ma cerca di rendersi tale; però, se a uno manca qualcosa per essere virtuoso, è malvagio. 30 Ma

chi ha coraggio e animo risoluto in corpo

eguaglia gli dèi e tende a loro memore della sua origine. Tutti giustamente si sforzano di risalire là da dove erano scesi. Perché non dovresti credere che ci sia qualcosa di divino in chi è parte di dio? Tutto quello che ci circonda è una sola cosa: dio; e noi ne siamo alleati e membra. La nostra anima ha la capacità di raggiungerlo, se i vizi non la trascinano in basso. Come il nostro corpo ha una posizione eretta e guardiamo al cielo, così l'anima, che può protendersi quanto vuole, desidera per sua formazione naturale le stesse cose degli dèi. E se si avvale delle sue forze e procede nel suo àmbito, tende alla vetta per la via che gli è propria. 31 È una grande fatica salire al cielo: eppure vi fa ritorno. Trovata questa strada, avanza con coraggio, disprezzando ogni cosa; non si volta a guardare il denaro, l'oro e l'argento, del tutto degni delle tenebre in cui giacevano, non li vàluta dallo splendore con cui colpiscono gli occhi degli ignoranti, ma dal fango di vecchia data da cui la nostra avidità li ha separati ed estratti. L'anima sa, dico, che le ricchezze stanno altrove, non dove vengono ammassate; sa che si deve riempire lo spirito, non il forziere. 32 La si può mettere a capo di tutto, darle il possesso della natura, in modo che l'oriente e l'occidente siano i confini delle sue proprietà e sia padrona dell'universo come gli dèi e disprezzi con le sue ricchezze i ricchi; nessuno di loro è mai tanto lieto dei propri beni quanto triste per quelli altrui. 33 Giunta a tale sublime altezza, non ama il corpo, ma se ne cura come di un peso necessario, e non si sottomette a quello cui è stata assegnata. Se uno è schiavo del corpo, non è libero; anche a trascurare gli altri padroni che si trovano, se ci si cura troppo del corpo, il suo dominio è capriccioso ed esigente. 34 Dal corpo l'anima del saggio ora esce serenamente, ora balza fuori con audacia e non si chiede che fine faranno le sue spoglie; ma come non ci curiamo della barba e dei capelli tagliati via, così quell'anima divina quando sta per lasciare l'uomo ritiene che non la riguardi dove andrà a finire quello che era il suo riparo, se lo divori il fuoco o lo ricopra la terra o lo lacerino le fiere, come la placenta non riguarda un bambino appena nato. Che importa a chi non c'è più se il suo corpo viene abbandonato allo strazio dei rapaci ed

è gettato come preda ai pescecani

e divorato? 35 Ma anche quando è ancòra fra gli uomini non teme nessuna minaccia di quegli spauracchi che spingono i nostri timori al di là della morte. "Non mi atterrisce," dice, "l'uncino, né l'orribile vista del cadavere straziato ed esposto all'oltraggio. Non chiedo a nessuno di celebrare le mie esequie, a nessuno affido i miei resti. La natura provvede a non lasciare insepolto nessuno; il tempo ricoprirà i cadaveri abbandonati dalla crudeltà umana." Dice bene Mecenate:

non mi curo della tomba: la natura seppellisce i resti insepolti.

Potresti pensare che a parlare sia stato un grand'uomo: avrebbe avuto un'indole nobile e virile, se il successo non l'avesse infiacchita. Stammi bene.

 

LIBRO QUINDICESIMO

 

 

93

1 Nella lettera in cui lamentavi la morte del filosofo Metronatte, come se avesse potuto e dovuto vivere più a lungo, ho sentito la mancanza di quel senso di giustizia di cui sei ricco in ogni funzione, in ogni attività, e che ti difetta in una sola cosa, come a tutti: ho trovato molte persone giuste verso gli uomini, ma nessuna giusta verso gli dèi. Ogni giorno rimproveriamo il destino: "Perché Tizio è stato rapito nel pieno della vita? Perché non Caio? Perché prolunga una vecchiaia penosa a sé e agli altri?" 2 Ma dimmi: ritieni più giusto che sia tu a obbedire alla natura o la natura a te? Che importanza ha se esci presto o tardi dalla vita? Bisogna in ogni caso uscirne. Non dobbiamo cercare di vivere a lungo, ma di vivere abbastanza; vivere a lungo dipende dal destino, dalla nostra anima vivere quanto basta. La vita è lunga se è piena, e diventa tale quando l'anima ha riconsegnato a se stessa il suo bene e ha preso il dominio di sé. 3 Che cosa servono a quel tizio ottant'anni trascorsi nell'inerzia? Costui non è vissuto, ma si è attardato nella vita, e non è morto tardi, ma lentamente. "È vissuto ottant'anni." L'importante è da che giorno calcoli la sua morte. 4 "Invece quell'altro è scomparso nel fiore degli anni." Ha adempiuto, però ai doveri di onesto cittadino, di fedele amico, di buon figlio; mai è venuto meno ai propri obblighi; anche se è incompleta la sua età, è completa la sua vita. "È vissuto ottant'anni." Anzi è esistito per ottant'anni, a meno che tu non dica che è vissuto, così come si dice che gli alberi vivono. Ti scongiuro, Lucilio mio, facciamo in modo che la nostra vita, come tutte le cose preziose, non conti per la sua estensione, ma per il suo peso; misuriamola dalle azioni, non dal tempo. Vuoi sapere che differenza c'è fra un uomo vigoroso e sprezzante della fortuna, che ha adempiuto a tutti i doveri della vita umana ed è giunto al sommo bene, e un uomo che ha lasciato scorrere gli anni? Il primo vive anche dopo la morte, il secondo si è spento prima di morire. 5 Lodiamo, perciò e mettiamo nel numero degli uomini felici chi ha ben impiegato il poco tempo avuto in sorte. Egli ha visto la vera luce; non è stato uno dei tanti; è vissuto; è stato forte. Talora ha goduto di giorni sereni; talora, come spesso avviene, lo splendore del sole si è mostrato fra le nubi. Perché chiedi quanto è vissuto? Vive ancora: è balzato tra i posteri e si è consegnato al loro ricordo. 6 Non per questo rifiuterei degli anni in più; ma anche se la vita mi viene troncata, dirò che non mi è mancato niente per avere la felicità; non ho regolato la mia esistenza su quel giorno che un'avida speranza mi aveva promesso come ultimo: ogni giorno l'ho guardato come se fosse l'ultimo. Perché mi chiedi la data di nascita o se faccio ancòra parte della lista dei giovani? Ho quello che mi spetta. 7 Un uomo con un fisico più piccolo del normale può essere perfetto, e allo stesso modo può essere perfetta una vita più breve del normale. L'esistenza dipende da fattori esterni. Non dipende da me la lunghezza della vita: da me dipende vivere veramente la vita che avrò. Pretendi questo da me: che non conduca un'esistenza oscura in mezzo alle tenebre, ma che guidi la mia vita senza lasciarmi vivere. 8 Chiedi qual è la vita più lunga? Vivere fino alla saggezza; chi la raggiunge, non tocca la meta più lontana, ma la più importante. Ne sia pure fiero; ringrazi gli dèi e fra gli dèi anche se stesso e imputi alla natura ciò che è stato. E lo farà a ragione: le ha restituito una vita migliore di quella ricevuta. Egli ha dato un esempio di uomo virtuoso, ha dimostrato le sue qualità e il suo valore; se fosse vissuto ancora, tutto sarebbe rimasto uguale. 9 E dunque, fino a quando vogliamo vivere? Siamo ormai arrivati a conoscere tutto: sappiamo su quali princìpî si fondi la natura, che ordinamento dia al mondo, attraverso quali cicli faccia ritornare l'anno, in che modo abbia segnato i confini di tutte le cose future e si sia posta come limite a se stessa; sappiamo che le stelle si muovono per loro impulso, che nessun corpo celeste è fermo, eccetto la terra e che gli altri scorrono veloci ininterrottamente; sappiamo come la luna superi il sole e perché, pur essendo più lenta, si lasci alle spalle quello che è più veloce, come si illumini e si oscuri, per quale causa si avvicendino il giorno e la notte: bisogna andare là dove questi fenomeni si contemplano più da vicino. 10 "Non esco dalla vita con maggiore forza d'animo," dice il saggio, "perché spero che mi sia aperta la strada verso i miei dèi. Mi sono procurato il diritto di essere ammesso tra di loro (e per altro ci sono già stato): il mio spirito è giunto fino a loro e loro a me. Supponi che io scompaia e che dopo la morte dell'uomo non rimanga nulla: io ho lo stesso un'anima grande anche se, uscito dalla vita, non andrò a finire in nessun luogo." 11 "Non visse tanto a lungo quanto avrebbe potuto." Anche un libro di poche righe può essere apprezzabile e utile: hai presente la mole degli annali di Tanusio e che fama li accompagni. La lunga vita di certa gente è simile e segue la stessa sorte degli annali di Tanusio. 12 Secondo te il gladiatore ucciso alla fine dello spettacolo è forse più felice di quello che muore a metà giornata? Pensi che uno sia tanto stupidamente attaccato alla vita da preferire che lo scannino nello spogliatoio piuttosto che nell'arena? Se uno muore prima, non precede un altro di un intervallo maggiore di questo. La morte arriva per tutti, l'assassino segue la vittima. Ci tormentiamo tanto per una sciocchezza. Ma a che serve evitare a lungo l'inevitabile? Stammi bene.

 

94

1 Certi filosofi hanno accolto unicamente quella parte della filosofia che dà insegnamenti particolari sul ruolo che ognuno ricopre nella vita, e non forma l'uomo in generale, ma consiglia al marito come comportarsi verso la moglie, al padre come educare i figli, al padrone come governare i servi, e hanno trascurato le altre parti come fossero per noi inutili, quasi si potessero dare consigli su un aspetto della vita senza averla prima abbracciata nella sua totalità. 2 Secondo lo stoico Aristone, invece, questa parte è poco importante e non penetra nell'intimo, con i suoi insegnamenti da nonnetta; per lui giovano moltissimo i princìpî stessi della filosofia e la definizione del sommo bene; "chi l'ha compresa e imparata bene, può decidere lui stesso il da farsi in ogni singola circostanza." 3 Quando uno impara a scagliare il giavellotto, cerca di colpire il bersaglio ed esercita la mano a dirigere il tiro; raggiunta questa capacità con la disciplina e l'esercizio, se ne serve a suo piacimento, perché non ha imparato a colpire questo o quel bersaglio, ma tutti quelli che vuole; così, se uno è preparato ad affrontare la vita in tutti i suoi aspetti, non ha bisogno di essere consigliato sui particolari, perché è istruito in generale, e non su come vivere con la moglie o con il figlio, ma su come vivere bene: e questo comprende anche come vivere con la moglie o coi figli. 4 Per Cleante anche questa parte è utile, ma è inefficace se non ha origine da una conoscenza universale, se non conosce i precetti e i princìpî stessi della filosofia.

Questa sezione della filosofia, cioè la precettistica particolare, presenta due problemi: se sia utile o inutile e se da sola possa rendere l'uomo virtuoso, o meglio se sia superflua o renda superflue tutte le altre. 5 Chi la ritiene superflua afferma: se un ostacolo impedisce la vista, va rimosso; finché rimane, è tempo perso impartire degli insegnamenti: "camminerai così, stenderai la mano da quella parte." Allo stesso modo quando qualcosa ottenebra l'anima e le impedisce di comprendere la scala dei doveri, chi insegna: "Così vivrai col padre, così con la moglie" non conclude niente. Gli ammaestramenti non serviranno a nulla finché l'errore offusca la mente: se viene eliminato apparirà chiaro come dobbiamo adempiere a ciascun dovere. Altrimenti tu insegni a uno che cosa debba fare un uomo sano, ma non lo rendi sano. 6 Mostri al povero come comportarsi da ricco: ma se rimane povero, come può farlo? All'affamato spieghi che cosa dovrebbe fare se fosse sazio: togligli piuttosto la fame che ha nelle ossa. Lo stesso vale per tutti i vizi: bisogna eliminarli, non insegnare cose impossibili a realizzarsi finché essi rimangono. Se non rimuoverai i pregiudizi che ci affliggono, l'avaro non comprenderà come va usato il denaro, né il vile come disprezzare i pericoli. 7 Devi fargli comprendere che il denaro non è né un bene, né un male e mostrargli persone ricche molto infelici. Devi fargli comprendere che quello che generalmente temiamo non è temibile come si dice, che nessuno soffre a lungo e non muore più di una volta: nella morte, che è inevitabile, c'è un grande motivo di consolazione: non ritorna per nessuno; nel dolore sarà un rimedio la fermezza d'animo, che rende meno penosi i mali se sopportati con coraggio; la natura del dolore è eccellente, perché, se si protrae, non può essere grande, e se è grande, non può protrarsi. Dobbiamo accettare da forti quanto ci comanda la legge dell'universo. 8 Quando, stabiliti questi princìpî, metterai uno davanti alla sua condizione e capirà che si è felici vivendo non secondo piacere, ma secondo natura, quando amerà veramente la virtù come unico bene dell'uomo e fuggirà la disonestà come unico male, quando comprenderà che tutto il resto - ricchezza, onori, salute, forze, poteri - sono cose indifferenti da non annoverarsi né tra i beni, né tra i mali, allora non sentirà il bisogno di uno che lo consigli in ogni situazione e dica: "Cammina così, pranza così; questo comportamento è adatto all'uomo, questo alla donna, questo a chi è sposato, questo al celibe." 9 Chi dà questi consigli così minuziosi non è in grado di metterli in pratica nemmeno lui; il pedagogo impartisce questi insegnamenti all'allievo, la nonna al nipote e il maestro, così proclive all'ira, disputa sulla necessità di non adirarsi. Se entrerai in una scuola, ti renderai conto che i precetti elargiti dai filosofi con estrema alterigia si trovano già nei libri di testo per l'infanzia.

10 E poi, darai ammaestramenti lampanti o dubbi? Quelli lampanti non hanno bisogno di consiglieri; quanto a quelli dubbi non si presta fede a chi li dà: dunque, ammaestrare è inutile. Soprattutto impara questo: se dài consigli oscuri e ambigui, dovrai provarli; se li proverai, le prove addotte hanno più valore e bastano di per sé. 11 "Tratta così con l'amico, così con il concittadino, così con il compagno." "Perché?" "Perché è giusto." Tutti questi insegnamenti mi vengono dalla sezione della filosofia che riguarda la giustizia: lì apprendo che bisogna desiderare la giustizia di per sé, che ad essa non ci costringe la paura o ci induce il guadagno, che non è un uomo giusto chi in questa virtù si compiace di qualcosa al di fuori di essa. Quando mi sono persuaso e sono profondamente convinto di ciò a che servono questi precetti che insegnano a uno già istruito? A chi sa, è inutile dare dei precetti, a chi non sa, è poco, poiché deve apprendere non solo quello che gli viene insegnato, ma anche perché. 12 I precetti, dico io, sono necessari, per chi ha le idee chiare sul bene e sul male, o per chi non le ha? A costui tu non sarai affatto d'aiuto: dicerie contrarie ai tuoi consigli gli otturano le orecchie. Se uno sa esattamente che cosa evitare o che cosa ricercare, sa come deve comportarsi anche senza che tu parli. In conclusione, tutta questa parte della filosofia si può eliminare.

13 Per due motivi noi erriamo: o c'è nell'animo una perversità prodotta da convinzioni malvagie, oppure, anche se esso non è in preda all'errore, vi è incline e, fuorviato dalle apparenze, fa presto a rovinarsi. Perciò dobbiamo o curare bene lo spirito ammalato e liberarlo dai vizi, oppure, se ne è libero, ma è propenso al male, prenderne possesso in tempo. I principî della filosofia hanno sia l'uno che l'altro effetto; pertanto questo genere di insegnamenti non serve a niente. 14 E poi, impartire norme a ognuno è un'impresa immane: sono di un certo tipo per l'usuraio, di un altro per il contadino, per il commerciante, per il cortigiano, per chi cerca l'amicizia dei suoi pari e per chi quella degli inferiori. 15 Nel matrimonio insegnerai come vivere con una donna sposata vergine, o con una che ha avuto un marito in precedenza, come vivere con una donna ricca o con una senza dote. Oppure secondo te non c'è differenza tra una donna sterile e una feconda, fra una matura e una ragazzina, fra una madre e una matrigna? Non possiamo abbracciare tutti i vari casi: eppure ciascuno richiede regole particolari, mentre le norme della filosofia sono brevi e comprendono tutto. 16 I precetti della saggezza, inoltre, devono essere definiti e precisi; se non si possono definire, non fanno parte della saggezza, che conosce i limiti delle cose. Bisogna pertanto eliminare questa parte precettistica, perché non è in grado di garantire a tutti le promesse fatte a pochi; la saggezza, invece, riguarda tutti. 17 Fra la pazzia collettiva e quella curata dai medici non c'è differenza, se non che questa nasce da malattia, quell'altra da false opinioni; l'una affonda le radici della sua frenesia nello stato di salute, l'altra è una malattia dell'anima. Se a un pazzo qualcuno volesse insegnare come parlare, camminare, comportarsi in pubblico e in privato, sarebbe più folle di lui: bisogna curare la bile nera e rimuovere la causa stessa della pazzia. Lo stesso va fatto per la pazzia dello spirito: la si deve scacciare, altrimenti i consigli andranno sprecati.

18 Queste sono le affermazioni di Aristone e noi le controbatteremo una per una. Veniamo alla prima; egli sostiene che, se c'è un ostacolo davanti agli occhi e ne impedisce la vista, deve essere rimosso; anch'io ammetto che per vedere non c'è bisogno di precetti, ma di un rimedio che liberi la vista ed elimini l'ostacolo che la impedisce: la vista è un fatto naturale e rimuovendo ciò che è d'impedimento le restituiamo la sua funzione. Ma la natura non insegna come si debba adempiere a ciascun dovere. 19 In secondo luogo, chi è stato curato di cataratta non può appena riacquistata la vista, restituirla anche ad altri; invece, uno liberato dalla malvagità, può liberare a sua volta gli altri. Non sono necessarie esortazioni e neppure consigli perché l'occhio colga le proprietà dei colori: distinguerà il bianco dal nero anche senza che nessuno glielo insegni. L'anima, invece, ha bisogno di numerosi consigli per comprendere come debba comportarsi nella vita. In realtà, il medico i malati agli occhi non solo li cura, ma dà loro anche dei consigli. 20 "Non esporre sùbito la vista ancora debole a una luce troppo violenta," dice; "prima passa dall'oscurità alla penombra, poi osa di più e abìtuati gradualmente a sopportare la viva luce. Non devi studiare dopo aver mangiato e nemmeno sforzare gli occhi gonfi e tumefatti: evita il vento e il freddo pungente che ti batte in faccia", e altri suggerimenti simili, utili quanto le medicine. L'arte medica aggiunge consigli alle cure.

21 "L'errore," continua Aristone, "è la causa delle nostre mancanze: i precetti non lo eliminano e non dissipano le idee sbagliate sul bene e sul male." Ammetto che i precetti non riescano di per sé a rimuovere le convinzioni errate; ma non per questo non servono, uniti anche ad altri sistemi. Per prima cosa rinfrescano la memoria; poi, quei concetti che, tutti insieme, sembravano piuttosto confusi, divisi in sezioni, possono essere esaminati con più attenzione. Oppure, in questo modo, puoi definire inutili anche i discorsi consolatori e di esortazione: e invece non sono inutili; quindi, non lo sono neppure gli ammonimenti. 22 "È sciocco," dice, "insegnare a un malato che cosa debba fare come se fosse sano; restituiscigli, invece, la salute: senza di essa i precetti sono vani." E che dire del fatto che ad ammalati e sani su certe questioni vanno rivolti consigli uguali? Come ad esempio, non mangiare con avidità ed evitare la spossatezza. Anche per il povero e il ricco ci sono precetti in comune. 23 "Guarisci l'avidità," afferma Aristone, "e non dovrai dare consigli al povero o al ricco, se si è calmata la loro cupidigia." Ma come? Un conto è non desiderare il denaro, un altro è saperlo usare. Gli avari ne ignorano la giusta misura, ma anche chi non è avaro può ignorarne il giusto uso. "Elimina gli errori," dice il filosofo, "e i precetti sono inutili." È falso. Immagina che si sia mitigata l'avidità, domata la dissolutezza, frenata l'imprudenza, spronata l'ignavia: anche se i vizi sono stati eliminati, bisogna imparare che cosa fare e come. 24 "Contro i vizi gravi," egli sostiene, "non riusciranno a niente gli ammonimenti." Nemmeno la medicina vince le malattie inguaribili, eppure viene usata come rimedio per alcune, per altre come sollievo. Nemmeno la potenza stessa dell'intera filosofia, anche se chiama a raccolta tutte le sue forze, potrà sradicare dall'animo un male ormai incallito e di vecchia data; ma perché non guarisce tutto, non si può dire che non guarisca niente.

25 "A che serve," dice Aristone, "insegnare l'evidenza?" Serve moltissimo. Certe volte, infatti, le cose le sappiamo, ma non siamo attenti. Le esortazioni non servono da insegnamento, risvegliano, però l'attenzione, stimolano, mantengono viva la memoria e non la lasciano smarrire. Noi tralasciamo molte cose che pure abbiamo davanti agli occhi: un ammonimento è una forma di esortazione. Spesso l'animo finge di non vedere neppure l'evidenza; e allora bisogna ricordargli anche le cose più note. A questo punto è bene ricordare la frase pronunciata da Calvo contro Vatinio: "Voi lo sapete che c'è stato un broglio e tutti sanno che voi lo sapete." 26 Sai che le amicizie vanno venerate come sacre, ma non lo fai. Sai che è un infame chi pretende dalla moglie il pudore, ma seduce le donne altrui; sai che come lei non deve avere rapporti con un altro, così tu non ne devi avere con un'amante, e non lo fai. Perciò bisogna rinfrescarti sovente la memoria; quei princìpî non devono stare in un canto, ma essere a portata di mano. Tutte le norme salutari vanno esaminate di frequente e meditate; non devono esserci solo note: devono essere sùbito disponibili. Inoltre anche i concetti chiari diventano di solito ancò ra più chiari.

27 "Se i tuoi ammaestramenti sono incerti," continua, "dovrai aggiungere delle prove; perciò utili saranno quelle e non gli ammaestramenti." Ma se a giovare è proprio l'autorità di chi consiglia, anche senza prove? Così come i pareri dei giureconsulti sono validi anche se non se ne dà una spiegazione. E poi gli stessi ammaestramenti hanno molto peso di per sé, soprattutto se messi in versi oppure racchiusi in massime in prosa come quelli di Catone: "compra non l'occorrente, ma l'indispensabile; il superfluo è caro anche a pagarlo un soldo"; 28 e così i responsi dell'oracolo o simili: "risparmia il tempo", "conosci te stesso". Chiederai spiegazioni quando uno ti reciterà questi versi?

L'oblio è il rimedio delle offese.

La fortuna aiuta gli audaci, il pigro è di ostacolo a se stesso.

Sono parole che non richiedono un esperto; toccano i sentimenti e sono utili perché la natura fa sentire la sua forza. 29 L'animo porta in sé i semi di tutte le virtù, questi vengono fatti germogliare dalle esortazioni, come la scintilla, attizzata da un soffio leggero, sviluppa la sua fiamma; la virtù cresce, se è spronata e incitata. Inoltre ci sono nell'animo dei princìpî, non molto evidenti però che cominciano a essere pronti solo quando vengono espressi; altri si trovano sparsi qua e là e la mente poco esercitata non riesce a metterli insieme. Bisogna perciò radunarli e congiungerli perché siano più efficaci e risollevino meglio l'animo. 30 Oppure se i precetti non servono a niente, ogni insegnamento va eliminato e dobbiamo accontentarci della sola natura. Coloro che sostengono questa tesi non si rendono conto che uno è di ingegno vivace e sveglio, lento e ottuso un altro, e che in ogni caso non tutti sono intelligenti allo stesso modo. La forza dell'intelligenza è alimentata dai precetti, cresce, aggiunge nuove convinzioni a quelle innate e corregge le idee distorte.

31 "Se uno non ha dei retti princìpî," continua Aristone, "legato com'è al malcostume, a che cosa gli serviranno gli ammonimenti?" Naturalmente a liberarsene, perché in lui le qualità naturali non sono scomparse, ma soltanto nascoste e oppresse. Anche così esse cercano di risollevarsi e di resistere alla depravazione e, trovato un sostegno e un aiuto nei precetti, riprendono forza, purché non le abbia infettate a morte un male di vecchia data: in questo caso non potrà sanarle neppure la dottrina filosofica impiegando tutte le sue forze. Che differenza c'è, infatti, fra i princìpî filosofici e i precetti se non che i primi sono norme universali, i secondi particolari? Entrambi istruiscono, ma gli uni in generale, gli altri in particolare.

32 "Se uno," egli dice, "ha dei princìpî retti e onesti è inutile dargli dei consigli." Niente affatto; anche costui conosce il suo dovere, ma non ne ha una chiara percezione. Non sono solo le passioni a impedirci di agire virtuosamente, ma l'incapacità di capire che cosa esigano le singole circostanze. Il nostro animo a volte è ben regolato, ma inerte e poco pratico a trovare la via dei doveri, che un buon consiglio ci può invece indicare.

33 "Elimina," egli dice, "le false idee sul bene e sul male, metti al loro posto idee giuste e i consigli saranno inutili." Questo sistema senza dubbio regola l'animo, ma non basta; anche se con argomentazioni logiche si ricava qual è il bene e qual è il male, tuttavia i precetti hanno un loro ruolo. Sia la prudenza che la giustizia sono formate da vari doveri: e i doveri li determinano i precetti. 34 Inoltre, anche il giudizio sul male e sul bene trova conferma nel compimento dei doveri, e a questo ci conducono i precetti. Sono due cose in armonia tra loro: gli uni non possono precedere senza che gli altri seguano e questi seguono un ordine proprio; è quindi evidente che sono i doveri a precedere.

35 "I precetti," dice Aristone, "sono infiniti." Non è vero; sulle questioni più importanti e fondamentali non sono infiniti; ci sono differenze minime determinate dal momento, dal luogo, dalle persone, ma anche in questi casi si dànno precetti generali.

36 "Non si può curare," sostiene, "la pazzia con i precetti; quindi, nemmeno la malvagità." È diverso: se elimini la pazzia restituisci la salute mentale; togliendo di mezzo le idee false, invece, non ce ne deriva immediatamente la capacità di distinguere le azioni da compiere; ma, posto che sia così, un consiglio avvalorerà il nostro giusto giudizio sul bene e sul male. Ed è ugualmente falso che ai pazzi i precetti non servano a nulla. Da soli non giovano, ma sono di aiuto alla cura; i pazzi li frenano sia le minacce che le punizioni - certo, mi riferisco a quelli la cui mente vacilla, ma non è stravolta completamente.

37 "Le leggi," dice, "non riescono a farci comportare come dovremmo, e che altro sono se non precetti misti a minacce?" Prima di tutto le leggi non persuadono proprio perché minacciano, mentre i precetti non costringono, ma cercano di persuadere; le leggi, inoltre, distolgono dal delitto, i precetti esortano al dovere. E poi anche le leggi giovano alla moralità, specialmente se, oltre a comandare, insegnano. 38 In questo non sono d'accordo con l'affermazione di Posidonio: "Disapprovo che alle leggi di Platone siano stati aggiunti dei princìpî. La legge deve essere breve, perché i profani la comprendano meglio. Sia come una voce che viene dal cielo: comandi senza discutere. Per me non c'è niente di più insulso, niente di più inopportuno di una legge preceduta da un preambolo. Consigliami, dimmi che cosa vuoi che faccia: non imparo, ma obbedisco." In realtà le leggi servono; e infatti vedrai che sono corrotte le città governate da cattive leggi. 39 "Ma non servono a tutti." Neppure la filosofia; non per questo, però è inutile e incapace di formare l'animo. E come? La filosofia non è la legge della vita? Ma supponiamo che le leggi non servano: non ne consegue che non siano utili neppure gli ammonimenti. Oppure allo stesso modo dirai che non servono le parole di conforto, di dissuasione, gli incitamenti, i rimproveri, le lodi. Sono tutte forme di ammonimento; per mezzo loro raggiungiamo la perfezione spirituale. 40 Niente rende più virtuosi gli animi e li riconduce sulla retta via, se sono incerti e inclini al male, quanto la compagnia di uomini onesti; a poco a poco essa penetra nell'intimo e la loro vista e il loro ascolto abituale ha la stessa forza dei precetti. Anche il solo incontrarsi coi saggi è utile, per dio, e da un grand'uomo puoi trarre dei vantaggi perfino se tace. 41 Capire che mi è stato utile è per me più facile che dirti in che modo mi è utile. "Certi animaletti quando pungono non li sentiamo," dice Fedone, "tanto debole è la loro forza e ci inganna sul pericolo; il gonfiore rivela la puntura, eppure nel gonfiore stesso non si vede nessuna ferita." Ti accadrà lo stesso nei rapporti coi saggi; non ti accorgerai come o quando ti giovano, ma ti accorgerai che ti hanno giovato.

42 "Dove va a parare questo discorso?" chiedi. I buoni precetti, se li terrai sempre presenti, ti saranno utili quanto i buoni esempi. Pitagora afferma che cambia interiormente una persona che entra in un tempio e vede da vicino le immagini degli dèi e attende il responso di un oracolo. 43 E chi può negare che certi precetti colpiscano nel segno anche gli uomini più ignoranti? Come queste frasi molto concise, ma pregnanti:

Niente di troppo.

Non c'è guadagno che sazi l'animo dell'avaro.

Aspettati da altri ciò che hai fatto al tuo prossimo.

A queste parole rimaniamo come colpiti e nessuno può dubitare o chiedere: "Perché?", tanto la verità è palese anche senza spiegazioni. 44 Se il rispetto frena gli animi e reprime i vizi, perché non dovrebbero avere la stessa efficacia anche gli ammonimenti? Se la punizione è causa di vergogna, perché non dovrebbe essere lo stesso per gli ammonimenti, anche se si avvalgono di semplici precetti? In realtà sono più efficaci e penetrano più a fondo i consigli che sostengono con prove i loro insegnamenti, che aggiungono quali siano le azioni da compiere e le loro motivazioni e quale utile attenda chi agisce in obbedienza ai precetti. Se gli ordini servono, servono anche i consigli; ebbene, gli ordini servono, dunque servono anche i consigli. 45 La virtù si divide in due parti: contemplazione della verità e azione: la prima ce la dànno gli insegnamenti, alla seconda ci spingono i consigli. Le azioni oneste esercitano e mostrano la virtù. Se i consigli giovano a chi intende operare, gli saranno utili anche gli ammonimenti. Quindi, se l'agire onestamente è necessario alla virtù e gli ammonimenti indicano le azioni oneste, anche gli ammonimenti sono necessari. 46 Due cose dànno una grandissima forza all'anima, la fede nella verità e la fiducia in se stessi; entrambe ci vengono dagli ammonimenti, poiché in essi si crede e, quando si è giunti a credere, l'anima concepisce sentimenti elevati e si riempie di fiducia; quindi, gli ammonimenti non sono inutili. M. Agrippa, uomo di straordinario temperamento, l'unico ad aver fortuna nella vita pubblica fra le persone rese famose e potenti dalle guerre civili, spesso diceva di dover molto a questa massima: "Con la concordia i piccoli stati crescono, con la discordia vanno in rovina i più grandi." Affermava che essa lo aveva reso un eccellente amico e fratello. 47 Se massime di questo tipo recepite nell'intimo formano l'animo, perché non potrebbe fare lo stesso anche quella sezione della filosofia che da tali massime è formata? Parte della virtù si basa sull'insegnamento, parte sull'esercizio; devi imparare e poi confermare con le azioni quanto hai appreso. Se ciò si verifica, non servono solo i princìpi della saggezza, ma anche i precetti, che frenano le nostre passioni e le reprimono come in forza di un editto.

48 "La filosofia," dice Aristone, "si divide in conoscenza e stato morale; chi ha imparato e capìto le azioni da compiere e quelle da evitare, non è ancora saggio se il suo animo non si è modellato su quanto ha appreso. Questa terza parte, cioè l'insegnamento, deriva sia dalla dottrina che dallo stato morale, perciò è superflua per conseguire la virtù: bastano le prime due." 49 A questo modo, dunque, sono inutili le parole di conforto (anch'esse derivano da quelle due parti), l'incitamento, il consiglio e la stessa argomentazione, poiché anche questa nasce da uno stato d'animo sereno e forte. Ma sebbene queste cose provengano da un'ottima condizione morale, tale condizione dipende da esse; le origina e ne trae origine. 50 Le tue affermazioni, inoltre, riguardano l'uomo che ha raggiunto la perfezione e il culmine della felicità umana. Ma è una meta a cui si arriva lentamente; intanto all'uomo ancòra imperfetto, ma in via di progresso, bisogna indicare una linea d'azione. Forse il saggio se la darà da solo, anche senza che nessuno lo ammonisca, poiché ha portato l'animo al punto di non potersi muovere se non verso il bene. Ma ai caratteri più deboli è necessario che uno suggerisca: "Evita questo, fa' quello." 51 Inoltre se uno aspetta il momento di sapere da sé che cosa sia meglio fare, nel frattempo si allontanerà dalla retta via e allontanandosene non riuscirà a giungere là dove può essere contento di sé; deve, dunque, essere guidato finché non incomincia a potersi guidare da solo. I ragazzi apprendono in base a un modello: il maestro tiene loro con la mano le dita guidandole lungo i segni delle lettere; quindi li esorta a imitare gli esempi proposti e a uniformare a essi la grafia: allo stesso modo trae giovamento il nostro animo, istruito secondo un modello.

52 Tali prove dimostrano come questa parte della filosofia non sia superflua. Ci si chiede, poi, se da sola basti a formare il saggio. Questo problema lo affronteremo a suo tempo; intanto, messe da parte le prove, non è forse chiaro che abbiamo bisogno di un esperto che ci dia ammaestramenti contrari a quelli della massa? 53 Tutte le parole che ascoltiamo ci danneggiano: ci nuoce chi ci augura il bene come chi ci augura il male. Le maledizioni degli uni ci incutono false paure, e l'amore degli altri, con i suoi buoni augùrî, ci dà dei cattivi insegnamenti, perché ci indirizza verso beni lontani, incerti e dubbi, mentre la nostra felicità la possiamo trovare dentro di noi. 54 Non si può secondo me, procedere per la retta via; ci fanno deviare i genitori, i servi. Nessuno coinvolge negli errori solo se stesso, ma diffonde la sua follia sul prossimo e a sua volta la riceve dagli altri. Per questo i vizi della massa li ritroviamo nei singoli: è stata la massa a trasmetterli. Nel momento in cui uno corrompe, è corrotto; ha imparato il male e lo ha poi insegnato e ne è nata quell'enorme malvagità, poiché si accumulano in un solo individuo i vizi peggiori di ciascuno. 55 Deve, dunque, esserci qualcuno che ci sorvegli, che di volta in volta ci tiri le orecchie, e tenga lontano le chiacchiere della gente e protesti contro le lodi della folla. Sbagli se pensi che i vizi nascano con noi: sono venuti dopo, si sono accumulati in noi. Respingiamo, perciò con moniti frequenti, i pregiudizi che ci rintronano. 56 La natura non ci mette sulla strada del vizio: ci ha generati puri e liberi. Non ha messo in evidenza niente che eccitasse la nostra avidità: ci ha posto sotto i piedi l'oro e l'argento e ci ha dato da calpestare e da schiacciare quello per cui siamo calpestati e schiacciati. Ci ha fatto volgere lo sguardo al cielo e ha voluto che quanto di grandioso e stupendo essa ha creato noi lo vedessimo alzando gli occhi: il sorgere e il tramontare degli astri, il vertiginoso moto su se stesso del mondo che mostra di giorno le bellezze terrene, di notte quelle celesti, il procedere delle stelle, lento se lo paragoni a quello dell'universo, ma velocissimo se pensi che enormi spazi percorrano a velocità costante, le eclissi del sole e della luna che si oscurano a vicenda, e altri fenomeni ancora, degni di ammirazione sia che si manifestino con ordine o che compaiano d'un tratto determinati da cause improvvise, come strisce di fuoco nella notte e lampi nel cielo che si apre senza colpi o tuoni, colonne di fuoco, meteore e varie figure fiammeggianti. 57 Tutto questo la natura lo ha posto sopra di noi, ma l'oro, l'argento e il ferro, che per questi metalli è sempre in guerra, li ha nascosti, come se fosse male affidarceli. Li abbiamo portati noi alla luce e per essi combattiamo, abbiamo tirato fuori noi le cause e gli strumenti dei nostri pericoli fendendo il grembo della terra, noi abbiamo affidato alla fortuna le nostre disgrazie e non ci vergogniamo di tenere nella massima considerazione materiali che stavano sottoterra in profondità. 58 Vuoi sapere che falso splendore ha ingannato i tuoi occhi? Finché essi giacciono coperti e immersi nel fango, non c'è niente di più brutto, di più ignobile. E perché no? Vengono estratti attraverso lunghissimi e oscuri cunicoli. Non c'è niente di più orribile, mentre vengono alla luce e sono liberati dalle impurità. Guarda, infine, gli stessi operai che con le mani ripuliscono questa sorta di terra sterile e sotterranea: vedrai come sono sporchi di fuliggine! 59 Eppure questi metalli insudiciano più l'animo che il corpo e ci si sporca più a possederli che a lavorarli. È necessario, dunque, essere consigliati, aver vicino una persona onesta che ci difenda, e fra tanto strepito e confusione di menzogne dar ascolto finalmente a una voce sola. Quale sarà questa voce? Naturalmente quella che ti sussurri parole salutari, assordato come sei dal gran chiasso dell'ambizione, una voce che dica: 60 non c'è ragione di invidiare gli uomini che il popolo definisce importanti e fortunati; non c'è ragione che il plauso distrugga la tua serenità e la tua salute spirituale, che quel porporato pieno di cariche ti faccia venire a nausea la tua pace, che tu ritenga quell'uomo, al cui passaggio tutti fanno largo, più felice di te che il littore scaccia dalla via. Se vuoi esercitare un potere che ti torni utile e non opprima nessuno, elimina i vizi. 61 Ci sono molti che danno fuoco alle città, e distruggono costruzioni che avevano resistito attraverso i secoli ed erano state al sicuro per lungo tempo, molti che erigono terrapieni alti quanto fortezze, e con arieti e macchine da guerra abbattono mura straordinariamente elevate. Ci sono molti che mettono in fuga eserciti e incalzano minacciosamente i nemici e giungono all'oceano bagnati dal sangue delle stragi: anche loro, però per vincere un nemico sono stati vinti dalle passioni. Nessuno ha resistito alla loro avanzata, ma neanche essi avevano resistito all'ambizione e alla crudeltà; e quando sembrava che inseguissero gli altri, erano loro ad essere inseguiti. 62 Una folle smania di devastare paesi stranieri spingeva l'infelice Alessandro e lo faceva andare verso l'ignoto. Oppure, secondo te, è sano di mente uno che incomincia a far strage proprio in Grecia, dove è stato educato? Che toglie a ognuno quanto ha di meglio e impone a Sparta la schiavitù e ad Atene il silenzio? Non contento dello scempio di tante città, che Filippo aveva vinto e comprato, ne abbatte altre qua e là e porta le armi in tutto il mondo; la sua crudeltà mai esausta non ha tregua, come quella delle belve feroci che sbranano anche se non hanno fame. 63 Ormai ha fuso numerosi regni in uno solo, ormai i Greci e i Persiani temono lo stesso tiranno, ormai anche le popolazioni libere dal giogo di Dario sono sottomesse; e tuttavia egli supera i confini dell'oceano e del sole, non si dà pace che le sue vittorie non calchino le orme di Ercole e di Bacco, e si prepara a lottare anche contro la natura. Non è lui che vuole andare avanti: non può star fermo, come un peso, gettato nel vuoto, il cui moto tende come ultima meta a finalmente giacere. 64 Non era il valore o il raziocinio, ma un insano desiderio di falsa grandezza che spingeva anche Gneo Pompeo alle guerre e alle lotte civili. Ora andava contro la Spagna e gli eserciti di Sertorio, ora a tenere a freno i pirati e a pacificare i mari: solo pretesti per non perdere il potere. 65 Che motivo lo trascinò in Africa, nel nord, contro Mitridate, in Armenia e nelle terre più lontane dell'Asia? Certo una brama insaziabile di diventare sempre più grande, perché solo a lui sembrava di non esserlo abbastanza. Che cosa spinse Cesare alla rovina sua e dello stato? La gloria, l'ambizione e il desiderio sfrenato di eccellere sugli altri. Non riuscì a tollerare neanche uno sopra di sé, quando la repubblica ne tollerava due su di sé. 66 Perché, credi davvero che C. Mario, quella volta che era stato console (unico consolato regolare, gli altri li aveva ottenuti con la violenza) abbia massacrato i Cimbri e i Teutoni, inseguito Giugurta per i deserti d'Africa, affrontando tanti pericoli spinto dalla virtù? Mario guidava l'esercito, l'ambizione guidava Mario. 67 Loro sconvolgevano tutto e come turbini venivano sconvolti: i turbini si trascinano dietro ciò che ghermiscono, ma prima vorticano e per questo si avventano con maggior furia: non hanno controllo di sé; perciò sono una calamità per molti, ma subiscono anch'essi quella pestilenziale violenza con la quale danneggiano i più. Non puoi credere che uno diventi felice se rende infelici gli altri.

68 Bisogna eliminare questo campionario di esempi che ci trapassano gli occhi e le orecchie, e liberare l'animo ingombro di discorsi nocivi. In chi ne è preda bisogna far penetrare la virtù, perché estirpi le menzogne e le convinzioni in contrasto con la verità, perché ci separi dal volgo cui diamo troppa fiducia e ci riconduca a pensieri incorrotti. La saggezza consiste in questo: rifarsi alla natura, ritornare là dove un abbaglio comune ci aveva cacciato. 69 Buon senso significa soprattutto abbandonare chi ci istiga alla follia e tenersi lontani da un connubio dannoso alle due parti. Vuoi rendertene conto? Guarda come in pubblico uno vive diversamente che in privato. La solitudine non è di per sé maestra di onestà o la campagna di frugalità; però, quando se ne sono andati testimoni e spettatori, cessano i vizi, che si beano di essere ostentati e osservati. 70 Chi indossa vesti di porpora per non esibirle? Chi mette le vivande in stoviglie d'oro solo per se stesso? Davvero uno dispiega lo sfarzo del suo lusso, sdraiato in solitudine, all'ombra di un albero nei campi? Nessuno sfoggia per il piacere dei suoi occhi o di poca gente o degli amici, ma sciorina l'apparato dei suoi vizi secondo la folla che lo guarda. 71 È proprio così: la spinta verso tutto quello per cui diamo segni di follia è la presenza di un ammiratore e di un testimone. Spegni il desiderio, se togli la possibilità di ostentazione. L'ambizione, lo sfarzo, la sfrenatezza, hanno bisogno della ribalta: se li tieni nascosti, ne guarirai. 72 E così, se ci troviamo in mezzo allo strepito delle città, ci stia a fianco uno che ci consigli, e alla lode di ingenti patrimoni opponga la lode di chi è ricco con poco e misura le ricchezze dall'uso che se ne fa. Contro coloro che esaltano il favore della massa e il potere, lui sottolinei con ammirazione l'esistenza ritirata dedita agli studi e l'anima che si ripiega su se stessa. 73 Dimostri che quegli uomini giudicati dalla massa felici stanno, invece, tremanti e sbigottiti in quella loro posizione invidiata e di sé hanno un'opinione ben diversa da quella degli altri; quelle che per gli altri sono cime elevate, per loro sono precipizi. E così si scoraggiano e tremano ogni volta che spingono lo sguardo nell'abisso della loro grandezza: pensano alla possibilità di cadute tanto più pericolose quanto più uno sta in alto. 74 Allora hanno paura di quello che desideravano e la prosperità che li rende insopportabili agli altri, pesa su loro ancora più insopportabile. Allora elogiano la vita calma e indipendente, detestano il loro splendore e cercano di fuggire quando la situazione è ancora stabile. Allora li vedi darsi alla filosofia per paura, ragionare saggiamente spinti dal timore della mala sorte. Come se la buona fortuna e il ben ragionare fossero agli antipodi, noi abbiamo più buon senso quando le cose vanno male: quando vanno a gonfie vele, ci tolgono la capacità d'intendere. Stammi bene.

 

95

1 Mi chiedi di trattare sùbito quell'argomento che avevo deciso di rinviare a suo tempo e vuoi che ti scriva se la parte della filosofia che i Greci chiamano "parenetica" e noi "precettistica" basta per raggiungere una perfetta saggezza. So che se io rifiutassi, non te l'avresti a male. A maggior ragione mi impegno e mantengo vivo il proverbio: "Non domandare una seconda volta quello che non volevi ottenere." 2 A volte domandiamo insistentemente cose che rifiuteremmo se qualcuno ce le offrisse. Che sia leggerezza o servilismo, questo comportamento va punito con un pronto assenso. Vogliamo dare l'impressione di voler sapere molte cose, ma non è così. Un autore portò una volta un enorme volume di storia, scritto a caratteri minutissimi e avvolto molto strettamente; dopo averne letto una gran parte, dice: "Se volete, smetto." "Continua, continua", gridano gli ascoltatori, anche se in realtà vorrebbero che tacesse. Spesso vogliamo una cosa e ne chiediamo un'altra e non diciamo la verità neppure agli dèi, ma gli dèi o non ci esaudiscono o hanno compassione di noi. 3 Io non avrò pietà e mi vendicherò infliggendoti una lunga lettera. Se la leggerai mal volentieri, di': "Me lo sono tirato addosso io questo disastro." Fa' conto di essere uno di quegli uomini che hanno sposato una donna dopo averla corteggiata a lungo e adesso lei li tormenta; di quelli che hanno sudato per raggiungere la ricchezza e ora vivono male; di quelli che hanno puntato alle cariche pubbliche con ogni intrigo e con ogni mezzo e ora ne sono torturati, e di tutti gli altri, colpevoli dei propri mali.

4 Ma lasciamo da parte ogni preambolo ed entriamo in argomento. "La felicità," sostengono, "si basa sull'agire onestamente; alle azioni oneste ci portano i precetti; quindi i precetti bastano per arrivare alla felicità." Non sempre i precetti ci portano ad agire onestamente, ma solo se trovano un carattere docile; a volte è inutile impartirli, se l'animo è ingombro di idee distorte. 5 Inoltre, certi individui, anche se agiscono rettamente, non ne sono consapevoli. Nessuno, a meno che non sia educato dall'inizio e regolato dalla ragione perfetta, può adempiere a tutte le regole per sapere quando è opportuno agire, in che limiti, con chi, come e perché. Non può tendere all'onestà con tutte le sue forze e neppure con costanza o volentieri, ma si volterà indietro e avrà delle esitazioni.

6 "Se le azioni oneste sono frutto dei precetti," dicono, "questi sono più che sufficienti per arrivare alla felicità: la prima proposizione è vera, quindi, è vera anche la seconda." A costoro risponderemo che le azioni oneste sono frutto dei precetti, ma non solo di essi.

7 "Se alle altre arti bastano i precetti, essi basteranno anche alla saggezza; anche questa è un'arte, l'arte della vita. Ora, il pilota lo forma chi gli insegna: 'Il timone muovilo così, così ammaina le vele, in questo modo utilizza il vento favorevole, resisti a quello contrario, sfrutta quello variabile e incostante.' I precetti formano anche gli uomini dediti alle altre arti, pertanto avranno lo stesso effetto su chi si occupa dell'arte del vivere." 8 Tutte queste arti si occupano dei mezzi per vivere, non della vita nella sua interezza; ci sono, perciò molti fattori esterni che le impediscono e le ostacolano: la speranza, la cupidigia, il timore. Ma alla saggezza, che esercita l'arte della vita, niente vieta di mettere in atto se stessa; essa abbatte ogni impedimento e rimuove tutti gli ostacoli. Vuoi sapere quanto è diversa la condizione delle altre arti rispetto alla saggezza? Nelle arti è più giustificabile un errore volontario che uno casuale; nella saggezza la colpa più grave è sbagliare volontariamente. 9 Le cose stanno proprio così. Un erudito non arrossisce di un solecismo se l'ha fatto consapevolmente, ma arrossisce se è un errore inconsapevole; un medico, se non capisce che l'ammalato sta morendo, è professionalmente più colpevole che se finge di non capire; ma in quest'arte della vita, la colpa volontaria è più spregevole. E poi, anche gran parte delle arti - e in particolare quelle più liberali, come, ad esempio, la medicina - hanno, oltre alla precettistica, i loro princìpî teorici; perciò le sette di Ippocrate, di Asclepiade, di Temisone sono diverse tra loro. 10 Inoltre, non c'è scienza teoretica che non abbia princìpî propri: i Greci li chiamano dogmata, noi decreta, scita o placita e li trovi anche in geometria e in astronomia. La filosofia è teoretica e pratica insieme: osserva e contemporaneamente agisce. Sbagli se pensi che riguardi solo le attività terrene: vive in una sfera più alta. "Scruto l'universo intero," afferma, "e non mi limito alle relazioni umane, contentandomi di consigliare o dissuadere: mi chiamano problemi grandi, al di sopra di voi.

11 "Comincerò a trattare della suprema essenza del cielo e degli dèi e svelerò i primordi dell'universo; da dove la natura crei tutte le cose, le accresca e le alimenti, e in che cosa, annientandole, di nuovo le dissolva",

così scrive Lucrezio. Ne consegue che, essendo un'attività teoretica, la filosofia ha princìpî propri. 12 E poi, a un lavoro può attendere convenientemente solo chi avrà imparato il metodo per eseguire tutte le funzioni necessarie in ogni circostanza; ma se uno ha ricevuto insegnamenti particolari e non generali, non potrà adempiervi. I precetti particolari sono di per sé inefficaci e, per così dire, senza radici. A premunirci, a tutelare la nostra quiete e tranquillità sono i princìpî generali: essi comprendono la vita intera e l'intera natura delle cose. Tra i princìpî della filosofia e i precetti intercorre la stessa differenza che tra gli elementi e le parti di un organismo: queste dipendono dai primi che sono causa di esse e di tutte le cose.

13 "L'antica saggezza," obiettano, "indicava solo le azioni da compiere e quelle da evitare e a quel tempo gli uomini erano di gran lunga migliori: da quando sono comparsi i dotti, i buoni non ci sono più; quella virtù semplice e chiara si è mutata in una scienza oscura e scaltra: impariamo a discutere, non a vivere." 14 Quell'antica saggezza, soprattutto ai suoi inizi, fu senza dubbio, come dite voi, rozza, come le altre scienze, che nel processo di evoluzione si sono poi affinate. Ma ancòra non c'era il bisogno di studiati rimedi. La malvagità non era ancòra arrivata a tanto, non si era diffusa così ampiamente: i vizi erano semplici e si poteva combatterli con rimedi semplici. Ora le difese devono essere tanto più efficaci quanto più violento è l'attacco.

15 La medicina un tempo consisteva nel conoscere poche erbe per far coagulare il sangue e rimarginare le ferite; poi, a poco a poco, è arrivata all'odierna molteplicità di branche. E non c'è da meravigliarsi che avesse meno da fare allora, quando l'organismo dell'uomo era ancora sano e robusto e il vitto semplice e non alterato dagli artifici e dal piacere: in séguito si cominciò a ricercare il cibo non per soddisfare la fame, ma per stuzzicarla, e si sono escogitati mille condimenti per eccitare l'avidità: quelli che erano alimento per un ventre digiuno, sono un peso per un ventre pieno. 16 Da qui il pallore e il tremito nervoso degli alcolizzati e la magrezza dovuta alle indigestioni, più miserevole di quella per fame; da qui l'incedere incerto e malfermo e il barcollare continuo, come in piena ubriachezza; il sudore a rivoli su tutta la pelle, il ventre rigonfio per la cattiva abitudine di ingurgitare oltre misura; e poi l'itterizia, il volto pallido, il decomporsi degli organi [...] che si putrefanno, le dita rinsecchite per l'irrigidimento delle articolazioni, il torpore dei nervi divenuti insensibili o il loro tremito continuo. 17 E che dire dei capogiri? Dei dolori lancinanti agli occhi e alle orecchie, delle fitte del cervello in fiamme, delle ulcere agli intestini? E ancòra, degli innumerevoli tipi di febbre, alcune violente, altre insinuanti e subdole, altre che si manifestano con brividi e forte tremore? 18 Ma perché elencare le numerosissime malattie, con cui si paga la dissolutezza? Erano immuni da questi mali quegli uomini che non si erano ancòra snervati nei piaceri, che comandavano e servivano se stessi. Irrobustivano il fisico con il lavoro e la fatica vera, stancandosi con la corsa, con la caccia, o arando la terra; e li attendeva un cibo che poteva piacere solo a degli affamati. Perciò non avevano bisogno di tanti arnesi medici, di tanti ferri e vasetti. Le malattie erano semplici e originate da cause semplici: la molteplicità delle portate ha provocato la molteplicità delle malattie. 19 Vedi come la dissolutezza, devastando terra e mare, mescoli una quantità di cose che passano attraverso la gola di uno solo. Perciò sostanze tanto diverse sono necessariamente in contrasto fra loro e, ingoiate, non vengono digerite bene, perché hanno effetti opposti. E non c'è da stupirsi che cibi dissimili causino malattie dal decorso vario e mutevole e che alimenti di natura contraria, cacciati nello stesso ventre, siano rigettati. Perciò le nostre malattie sono nuove, come nuovo è il nostro genere di vita.

20 Il più grande medico, il fondatore della medicina, affermò che le donne non perdono i capelli e non soffrono di gotta: e invece, i capelli li perdono e hanno la gotta. La loro natura non è cambiata: è stata vinta; hanno uguagliato gli uomini in dissolutezza, e li hanno uguagliati pure nelle malattie. 21 Passano le notti vegliando come loro, bevono come loro, con loro gareggiano nella lotta e nel vino; vomitano anch'esse i cibi ingurgitati contro voglia e rigettano tutto il vino; anch'esse rosicchiano pezzi di ghiaccio per dar sollievo allo stomaco in fiamme. Nella libidine poi non sono da meno dei maschi: destinate per natura a un ruolo passivo (che gli dèi le fulminino), hanno escogitato un genere così perverso di impudicizia da montare gli uomini. Non c'è, dunque, da meravigliarsi se il più grande medico, profondo conoscitore della natura, è stato smentito e tante donne sono calve e malate di gotta. Per i vizi hanno perso i vantaggi del loro sesso; si sono spogliate della natura femminile e così sono state condannate alle malattie proprie degli uomini.

22 I medici di una volta ignoravano l'uso di somministrare agli ammalati il cibo con più frequenza e di sostenere col vino una deficienza circolatoria, non conoscevano il salasso e la possibilità di alleviare le malattie croniche con bagni e sudorazioni, non sapevano far affiorare un male nascosto e interno legando braccia e gambe. Non occorreva cercare molte specie di presidî: i pericoli erano pochissimi. 23 Ma ora, che passi da gigante hanno fatto le malattie! È questo il prezzo che paghiamo per i piaceri agognati oltre i giusti limiti. Non stupirti che i malati siano così numerosi: conta i cuochi. Non si studia più e i professori di discipline liberali stanno in aule deserte senza anima viva; le scuole dei retori e dei filosofi sono abbandonate: ma che folla c'è nelle cucine! Quanti giovani si ammassano intorno al focolare degli scialacquatori! 24 E taccio della massa di quei poveri ragazzi che dopo il banchetto sono vittime di altri oltraggi nelle camere; taccio delle schiere di amasi divisi per nazionalità e colore in modo che abbiano tutti la stessa levigatezza, la stessa prima lanuggine, lo stesso tipo di capelli: chi li ha lisci non va mescolato a chi li ha ricci; taccio della torma di fornai e di servi, che, a un ordine, corrono a mettere in tavola. 25 Buon dio, a quanti uomini dà da fare un solo ventre! Ma come? Credi che quei funghi, voluttuoso veleno, non abbiano un effetto nascosto, anche se non istantaneo? Non pensi che quel ghiaccio d'estate produca un indurimento del fegato? E che le ostriche, carne inerte ingrassata nella melma, trasmettano la loro limacciosa pesantezza? E quella salsa che viene dalle province, preziosa poltiglia di pesci guasti, non credi che bruci le viscere col suo piccante marciume? E quella carne purulenta che passa dal fuoco alla bocca secondo te si raffredda nello stomaco senza provocare danni? Eruttano in maniera disgustosa e pestilenziale; che nausea di se stessi provano a mandar fuori i miasmi della crapula del giorno prima! Il cibo non lo assimilano: marcisce. 26 Ricordo che mi è stato raccontato di un piatto famoso in cui il taverniere aveva ammassato, affrettando la sua rovina, tutte quelle vivande che nelle case dei signori vengono servite nel corso di una giornata: conchiglie di Venere, spondili e ostriche tagliate fin dove si possono mangiare, divise e intervallate da ‹tordi›; ricci e triglie fatte a pezzi senza lische, ricoprivano interamente il piatto. 27 Ormai non piace più gustare vivande singole: si mescolano sapori diversi. Durante il pranzo avviene quello che dovrebbe avvenire nello stomaco: ormai mi aspetto che vengano serviti cibi già masticati. E non ci manca molto: si tolgono gusci e ossa e il cuoco svolge la funzione dei denti. "È scomodo far baldoria assaporando le vivande una per una: mettiamo tutto insieme a formare un sapore unico. Perché mettere mano a un solo piatto? Ne vengano serviti molti simultaneamente, si uniscano e si mescolino portate diverse e raffinate. 28 Chi affermava che tutto ciò si fa per ostentazione e desiderio di notorietà sappia che queste vivande non sono messe in mostra, ma presentate al giudizio di ognuno. Quei cibi che di solito si servono separatamente vengano uniti, immersi nello stesso intingolo; non ci siano distinzioni; ostriche, ricci, spondili, triglie siano messi in tavola cotti insieme e mescolati." Il cibo che si vomita non potrebbe essere più mescolato. 29 Le malattie che nascono da piatti così confusi sono complesse, oscure, diverse, multiformi, e per combatterle la medicina ha cominciato a munirsi di svariati metodi e ricette.

Lo stesso ti dico della filosofia. Un tempo, quando le colpe erano meno gravi e vi si poteva porre facilmente rimedio, era più semplice: ma di fronte a un tale sfacelo morale, bisogna tentare di tutto. E volesse il cielo che questa peste fosse infine debellata! 30 La nostra follia interessa la vita privata e anche quella pubblica. Reprimiamo gli omicidi, gli assassini di singoli individui: ma che dire delle guerre e dello sterminio di intere popolazioni, delitti di cui ci si vanta? L'avarizia, la crudeltà non conoscono misura. E finché rimangono nascoste, opera di singole persone, sono meno nocive e meno abominevoli. Ma le atrocità vengono sancite dai decreti del senato e del popolo e si comanda in nome dello stato quello che è proibito in privato. 31 Quei delitti che, compiuti di nascosto, verrebbero puniti con la pena di morte, noi li approviamo perché li hanno commessi degli alti ufficiali? Gli uomini, che pure sono una razza mitissima, non si vergognano di godere delle reciproche stragi, di fare guerre e di lasciarle in eredità ai figli perché le portino avanti, mentre anche le bestie e le fiere non combattono tra loro. 32 Contro un furore così potente e diffuso la filosofia è diventata più attiva e più forte in proporzione alla forza dei mali che doveva combattere. Era facile, in passato, rimproverare gli uomini che indulgevano al vino e ricercavano cibi più raffinati, non serviva una grande forza per riportarli alla frugalità: non se ne erano allontanati molto.

 

33 ora ci vuole mano rapida e grande maestria.

Dovunque si cerca il piacere; nessun vizio rimane dentro i suoi confini: il lusso precipita nell'avidità. L'onestà è dimenticata; non consideriamo ignobile niente di quello che ci alletta. L'uomo, creatura sacra all'uomo, viene ormai ucciso per divertimento e per gioco, e mentre prima era considerato un misfatto insegnare a un individuo a ferire e a essere ferito, ora lo si spinge fuori nudo e inerme, e la morte di un uomo è uno spettacolo che soddisfa. 34 Di fronte a una tale depravazione si sente il bisogno di una forza più vigorosa del comune, che dissipi questi mali inveterati: bisogna agire in base ai princìpî della filosofia per sradicare del tutto le nostre false convizioni. E se ai princìpî uniremo precetti, consolazioni, esortazioni, essi avranno efficacia: da soli non bastano. 35 Se vogliamo vincolare gli uomini al bene e strapparli ai vizi che li legano, imparino che cosa è il bene e che cosa il male, sappiano che ogni cosa, tranne la virtù, cambia nome e diventa un po' un bene, un po' un male. Come il primo vincolo di un soldato è la lealtà giurata, l'amore per la bandiera e il considerare la diserzione un delitto, e quando ha prestato giuramento, gli altri obblighi li si può esigere e comandarglieli facilmente; così in quegli uomini che vuoi condurre alla felicità bisogna gettare le prime fondamenta del bene e insinuare la virtù. Ne abbiano quasi una fanatica venerazione, la amino; vogliano vivere con lei, e senza di lei morire.

36 "Ma come? Individui sprovvisti di un'educazione accurata non sono diventati uomini onesti e hanno conseguito dei risultati notevoli semplicemente adeguandosi a una pura precettistica?" D'accordo, ma avevano un ingegno fertile e gli insegnamenti utili li hanno carpiti al volo. Gli dèi immortali non hanno bisogno di imparare le virtù, le possiedono tutte innate e fa parte della loro natura essere buoni; così ci sono degli uomini dotati dalla fortuna di qualità straordinarie, che arrivano senza un lungo apprendistato a quei concetti che di solito vengono insegnati, e abbracciano i princìpî onesti appena ne sentono parlare; di qui queste menti così pronte a ghermire la virtù, fertili anche di per se stesse. Le nature deboli e ottuse, invece, oppure assediate dalle cattive abitudini, bisogna ripulirle dalla ruggine spirituale. 37 Del resto se uno insegna i princìpî filosofici, come riesce a condurre più rapidamente ai vertici del bene chi vi è incline, così aiuterà anche i più deboli, strappandoli ai pregiudizi sbagliati; e di come siano necessari questi princìpî te ne puoi rendere conto. Ci sono forze in noi che ci rendono pigri per certe cose, temerari per altre; è un'audacia che non può essere contenuta, un'indolenza che non si può scuotere, se non ne sopprimi le cause, e cioè il terrore o l'ammirazione infondati. Finché ne siamo preda, puoi ben dire: "Questo lo devi al padre, questo ai figli, questo agli amici, questo agli ospiti"; anche se uno ci prova, lo bloccherà l'avarizia. Saprà che bisogna battersi per la patria, ma la paura lo distoglierà; saprà che per gli amici bisogna sudare fino all'ultima goccia, ma glielo vieteranno i piaceri; saprà che è un gravissimo affronto per la moglie avere un amante, ma la lussuria lo spingerà ad agire contro virtù. 38 Indicare delle norme non servirà a niente, se prima non togli di mezzo gli ostacoli a queste norme, allo stesso modo che aver messo sotto gli occhi e a disposizione di una persona delle armi non servirà a niente se non gli sleghi le mani per usarle. Perché l'animo possa indirizzarsi agli insegnamenti che gli offriamo, bisogna liberarlo. 39 Supponiamo che qualcuno faccia quanto è necessario: non lo farà in modo né costante, né uniforme; ignora, difatti, perché lo faccia. O per caso, o a forza di provare, certe cose avranno buon esito, ma egli non stringerà in pugno lo strumento che gli consente una verifica, in base a cui possa ritenere giusto quello che ha fatto. Uno buono per caso non garantisce di conservarsi così eternamente.

40 Inoltre i precetti potranno forse metterlo in grado di compiere il proprio dovere, ma non gli indicheranno il modo; e se non lo indicano, non conducono certo alla virtù. Se ammonito, farà il suo dovere, te lo concedo; ma è poco, perché lodevole non è l'azione, ma il come si verifica. 41 Che cosa c'è di più scandaloso che mangiarsi un patrimonio da rango equestre in una cena sontuosa? Che cosa merita maggiore censura se uno, come blaterano questi dissoluti, fa una tale concessione a sé e al suo estro? E tuttavia, uomini frugalissimi, all'entrata in carica, hanno offerto pranzi da un milione di sesterzi. Lo stesso fatto è riprovevole se è una concessione alla gola; ma non lo si può criticare se è per una carica; non è lusso, ma una spesa dovuta alle consuetudini. 42 A Tiberio fu inviata una triglia di dimensioni gigantesche - e perché non specificare il peso e solleticare la golosità di qualcuno? - dicevano che pesasse quattro libbre e mezza. Egli diede ordine che fosse portata al mercato e messa in vendita, dicendo: "Amici, se non mi sbaglio, questa triglia la comprerà o Apicio o P. Ottavio." Ma si andò al di là delle sue previsioni: misero il pesce all'asta, vinse Ottavio e si ricoprì di grande gloria tra i suoi: aveva acquistato per cinquemila sesterzi la triglia venduta da Cesare, che neppure Apicio aveva comprato. Pagare una somma simile fu una vergogna per Ottavio, non per chi aveva acquistato la triglia con l'intenzione di mandarla a Tiberio; per quanto, secondo me, anche costui va criticato: l'ha giudicata straordinaria e ne ha considerato degno l'imperatore. 43 Uno assiste l'amico ammalato: bravo! Ma lo fa per ereditare: è un avvoltoio, aspetta il cadavere. Le stesse azioni possono essere oneste o disoneste: quello che conta è il perché o il modo in cui sono fatte. Ma saranno sempre oneste se ci consacreremo all'onestà e vedremo in essa e in quello che ne trae origine l'unico bene dell'uomo; gli altri sono beni temporanei. 44 Dobbiamo, perciò metterci bene in testa questa convinzione - io la chiamo principio - che riguarda tutta la vita. A tale convinzione le nostre azioni, i nostri pensieri si uniformeranno e la nostra vita a sua volta si uniformerà ad essi. I consigli particolari sono poca cosa per chi vuole dare un ordine all'intera esistenza. 45 M. Bruto nel libro intitolato $ðåñr êáèÞêïíôïò$ dà una ricca precettistica per i genitori, i figli, i fratelli: ma nessuno la seguirà come deve, se non avrà un punto di riferimento. Dobbiamo proporci come fine il sommo bene, tendervi con ogni sforzo e guardare ad esso per tutte le nostre azioni e le nostre parole, così come i marinai devono dirigere la rotta secondo una stella. 46 Se manca un traguardo, la vita è un girovagare. E se questo traguardo bisogna senz'altro proporselo, cominciano a essere necessari i princìpî. Sarai d'accordo, penso, che niente è più riprovevole di un uomo che, pieno di dubbi, di incertezze, di paure, ritorna sui suoi passi. E questo ci capiterà in ogni circostanza se non togliamo di mezzo tutto ciò che trattiene e lega il nostro animo e gli impedisce di avanzare e di lottare con tutto se stesso.

47 Tra le norme più diffuse ci sono quelle che riguardano il culto degli dèi. Ebbene: si proibisca di accendere lumi il sabato: gli dèi non hanno bisogno di luce e per gli uomini il fumo delle lucerne non è piacevole. Si vieti l'adempimento dei saluti mattutini e lo stare seduti alle porte dei templi: solo l'ambizione umana è conquistata da omaggi come questi; onorare dio è conoscerlo. Si vieti che vengano portati a Giove drappi di tela e strìgili e che si regga lo specchio a Giunone: dio non cerca servitori. Perché no? È lui stesso a servire gli uomini, è a disposizione dovunque e di tutti. 48 Anche se uno apprende quali norme deve rispettare nei sacrifici, come debba abbandonare le superstizioni dannose, non avrà mai fatto progressi sufficienti se non ha una giusta concezione di dio, che tutto possiede, tutto offre, ed è benefico senza pretendere una contropartita. 49 Che cosa spinge gli dèi a fare il bene? La loro natura. È un errore credere che non vogliono fare del male; non possono farlo. E non possono né subire, né arrecare offese; offendere ed essere offesi sono cose strettamente unite. La loro natura superiore e più bella di ogni altra li ha sottratti ai pericoli e li ha resi anche non pericolosi per gli altri. 50 Primo atto di venerazione verso gli dèi è credere in loro; poi riconoscerne la maestà e riconoscerne la bontà senza la quale non c'è maestà; sapere che sono loro a governare il mondo, a regolare tutto con la loro forza, a esercitare la tutela dell'umanità, trascurando a volte i singoli individui. Gli dèi non fanno e non subiscono il male; ma riprendono certi uomini, li tengono a freno, li castigano e talora infliggono una punizione sotto l'apparenza di un bene. Vuoi propiziarti gli dèi? Sii buono. Imitarli è un atto di venerazione sufficiente.

51 Ecco un altro problema: come ci si deve comportare con gli uomini? Che facciamo? Che insegnamenti diamo? Di non versare sangue umano? È davvero poco non fare del male al prossimo cui si dovrebbe fare del bene! È proprio un grande merito per un uomo essere mite con un altro uomo! Insegneremo a porgere la mano al naufrago, a mostrare la strada a chi l'ha perduta, a dividere il pane con chi ha fame? Perché elencare tutte le azioni da compiere e da evitare quando posso insegnare questa breve formula che comprende tutti i doveri dell'uomo: 52 tutto ciò che vedi e che racchiude l'umano e il divino, è un tutt'unico; noi siamo le membra di un grande corpo. La natura ci ha generato fratelli, poiché ci ha creato dalla stessa materia e indirizzati alla stessa meta; ci ha infuso un amore reciproco e ci ha fatti socievoli. Ha stabilito l'equità e la giustizia; in base alle sue norme, chi fa del male è più sventurato di chi il male lo riceve; per suo comando le mani siano sempre pronte ad aiutare. 53 Medita e ripeti spesso questo verso:

Sono un uomo, e niente di ciò che è umano lo giudico a me estraneo.

Mettiamo tutto in comune: siamo nati per una vita in comune. La nostra società è molto simile a una vòlta di pietre: cadrebbe se esse non si sostenessero a vicenda, ed è proprio questo che la sorregge.

54 Dopo gli dèi e gli uomini vediamo come dobbiamo valerci delle cose. Le norme che predichiamo sono inutili, se prima non avremo l'esatta opinione su tutto, sulla povertà, la ricchezza, la gloria, il disonore, la patria, l'esilio. Valutiamo queste cose una per una, tralasciando l'opinione generale, e cerchiamo la loro essenza, non il loro nome.

55 Passiamo ora alle virtù. Qualcuno ci raccomanderà di stimare molto la prudenza, di abbracciare la fortezza, di stringerci, se possibile, alla giustizia più che alle altre virtù' ma non arriverà a nessun risultato se noi ignoriamo cos'è la virtù, se è una o più di una, se sono separate o collegate, se chi ne ha una, possiede anche le altre, in che cosa differiscano tra loro. 56 L'artigiano non ha bisogno di chiedere notizie sul suo mestiere, quando è cominciato, quale ne sia l'uso, come non ne ha bisogno il pantomimo sull'arte della danza: tutte queste arti conoscono se stesse, non manca nulla, perché non riguardano la totalità della vita. La virtù è conoscenza delle altre cose e di sé; per apprenderla bisogna studiarla a fondo. 57 Un'azione non sarà onesta, se onesta non sarà la volontà, da cui l'azione deriva. E d'altra parte, la volontà non sarà onesta, se non sarà onesta la disposizione di spirito da cui la volontà deriva. A sua volta, la disposizione di spirito non sarà la migliore se non avrà appreso le leggi dell'intera esistenza e non avrà ricercato che giudizio si debba esprimere su ogni fatto, se non avrà ricondotto le cose alla verità. La serenità la può avere solo chi si è formato un giudizio sicuro e incrollabile. Tutti gli altri cadono più volte, si rimettono in piedi e ondeggiano alternativamente tra rinunce e desideri. 58 Qual è il motivo di questa loro instabilità? Che niente è chiaro per chi si basa sul criterio più incerto: l'opinione pubblica. Se vuoi avere una volontà costante, devi volere sempre la verità. Ma alla verità non si arriva senza princìpî filosofici: essi comprendono tutta la vita. Il bene e il male, l'onestà e la disonestà, la giustizia e l'ingiustizia, la pietà e l'empietà, la virtù e l'esercizio delle virtù, il possesso di comodità materiali, la stima e la dignità, la salute, le forze, la bellezza, l'acutezza dei sensi - tutte queste cose hanno bisogno di uno che ne faccia una stima esatta. Dobbiamo sapere quanto ciascuna vada valutata. 59 Difatti ci inganniamo e certe cose le stimiamo più del loro valore; anzi ci inganniamo al punto da apprezzare moltissimo cose che non valgono un soldo: la ricchezza, il favore della massa, la potenza. Ma il giusto valore non lo potrai conoscere se non esaminerai la base fondamentale per cui queste cose vengono stimate in rapporto tra loro. Le foglie non possono germogliare da sé, hanno bisogno di stare attaccate a un ramo da cui trarre la linfa; analogamente questi precetti, da soli, marciscono; richiedono di essere strettamente legati a una dottrina filosofica.

60 Inoltre, quei filosofi che eliminano i princìpî, non capiscono che questi trovano conferma proprio nel motivo per cui vengono eliminati. Che cosa sostengono costoro? Che per vivere, i precetti sono sufficienti e che i princìpî della saggezza sono superflui. Ma questa stessa loro affermazione, perbacco, è un principio, proprio come se ora io dicessi che bisogna abbandonare i precetti perché inutili e servirsi dei princìpî e concentrarsi solo su questi; darei dei precetti proprio nel momento in cui sostenessi che i precetti vanno tralasciati. 61 Certe parti della filosofia richiedono un ammonimento, certe altre una dimostrazione, e ampia, perché sono oscure e diventano più chiare solo procedendo con grande esattezza e penetrazione. Se le dimostrazioni sono necessarie, sono necessari anche i princìpî che col ragionamento arrivano alla verità. Certi sono chiari, certi oscuri: chiari quelli che si comprendono col buon senso e rimangono nella memoria; oscuri quelli che sfuggono a queste due facoltà. Ma la ragione non si appaga di concetti evidenti: la sua funzione maggiore e più bella si esplica nelle questioni che ci sfuggono. Queste richiedono una dimostrazione, e per la dimostrazione bisogna ricorrere ai princìpî; quindi i princìpî sono necessari. 62 Il senso comune e anche l'intelligenza perfetta sono il prodotto di un giudizio esatto sulle cose; se è vero che senza di esso tutto dentro di noi diventa incerto, i princìpî, che ci forniscono un giudizio immutabile, sono necessari. 63 Infine, quando esortiamo qualcuno ad avere per l'amico la stessa considerazione che per se stesso, a pensare che un nemico può diventare un amico, ad accrescere il suo amore per il primo, a moderare l'odio verso il secondo, noi aggiungiamo: "È giusto, onesto." Ma il giusto e l'onesto dei nostri princìpî lo comprende la ragione; dunque, è necessaria, perché senza di essa non esistono neppure i princìpî. 64 Ma uniamo precetti e princìpî: senza le radici i rami sono inservibili, e d'altra parte le radici si valgono dei rami che hanno generato. Nessuno può ignorare l'utilità delle mani, l'aiuto che dànno è evidente: ma il cuore, che alle mani dà vita, slancio, movimento, è nascosto. Dei precetti possiamo dire lo stesso: sono evidenti, mentre i princìpî della saggezza sono reconditi. Solo gli iniziati conoscono i più sacri misteri del culto, così i misteri della filosofia sono svelati agli individui ammessi e accolti nei suoi penetrali; ma i precetti e gli altri insegnamenti dello stesso tipo sono noti anche ai profani.

65 Secondo Posidonio sono necessarie non solo la precettistica (niente ci proibisce di servirci di questa parola), ma anche il consiglio, il conforto e l'esortazione; aggiunge, inoltre, la ricerca delle cause, o eziologia, e non vedo perché noi non dovremmo osarne l'adozione e l'uso, quando i grammatici, custodi della lingua latina, a buon diritto, se ne servono. Posidonio sostiene anche l'utilità della descrizione di ciascuna virtù, che egli chiama "etologia", mentre altri la definiscono "charatterismos"; essa ci dà le note caratteristiche di ogni virtù e di ogni vizio, grazie alle quali si distinguono cose simili tra loro. 66 L'etologia ha la stessa forza dei precetti; difatti, chi insegna dice: "Fai questo se vuoi essere temperante"; chi descrive dice: "È temperante chi fa questo, chi non fa quest'altro." Vuoi sapere la differenza? Il primo dà precetti di virtù, il secondo ne dà un modello. Confesso che queste descrizioni o rappresentazioni fedeli, per usare una parola da esattori, sono utili: proponiamo esempi lodevoli, troveremo un imitatore. 67 Ritieni utile che ti vengano date delle prove grazie alle quali puoi riconoscere un cavallo di razza, per non concludere un affare sbagliato, per non perder tempo con un animale fiacco? Quanto è più utile conoscere le caratteristiche di un animo straordinario, che da un altro si possono trasferire a sé!

 

68 Un puledro di buona razza avanza eretto nei campi, posando con agilità le zampe; per primo osa muoversi, guadare fiumi minacciosi, attraversare un ponte mai passato e non lo spaventano vani fragori. Ha il collo erto, la testa ben delineata, il ventre piccolo, il dorso pingue e il superbo petto è un rigoglio di muscoli...

...Se sente da lontano risuonare le armi, non sa stare fermo, drizza le orecchie, gli fremono gli arti e soffia dalle narici, cacciando fuori l'ardore accumulato.

 

69 Il nostro Virgilio, senza volerlo, ci ha descritto l'uomo forte: io, almeno, di un grand'uomo farei lo stesso ritratto. Se dovessi rappresentare M. Catone impavido fra i clamori delle guerre civili, nell'atto di attaccare per primo gli eserciti arrivati ormai alle Alpi e di affrontare la guerra civile, non gli darei un aspetto diverso o un diverso atteggiamento. 70 Nessuno poté certamente avanzare con maggiore dignità dell'uomo che si levò contemporaneamente contro Cesare e Pompeo e che mentre si parteggiava per l'una o per l'altra fazione, li sfidò entrambi e mostrò che si potevano anche tenere le parti dello stato. È poco dire di Catone "non lo spaventano vani fragori". E perché no? Visto che non lo spaventano quelli veri e vicini, che alza la sua voce libera contro dieci legioni, le milizie ausiliarie galliche, le forze barbariche miste a quelle civili ed esorta lo stato a non capitolare di fronte alla lotta per la libertà, ma a tentare di tutto, perché cadere in schiavitù è più onorevole che andarle incontro. 71 Che vigore, che audacia c'è in lui, che coraggio in mezzo al panico generale! Sa che è il solo la cui condizione non è in gioco: il problema non è se Catone è libero, ma se vive tra uomini liberi: da qui il suo disprezzo dei pericoli e delle spade. Piace ammirare l'invincibile fermezza di un uomo incrollabile nella rovina generale e dire "e il superbo petto è un rigoglio di muscoli".

72 Sarà utile non solo descrivere le qualità usuali degli uomini virtuosi e ritrarre la loro immagine e i loro tratti caratteristici, ma raccontare e mostrare quali furono; l'estrema e coraggiosissima ferita di Catone attraverso la quale la libertà esalò l'ultimo respiro; la saggezza di Lelio e l'armonia con il suo Scipione; le azioni straordinarie dell'altro Catone, nella sfera privata e in quella pubblica; i letti conviviali di legno di Tuberone, allestiti per un pranzo ufficiale, con pelli di capra anziché coperte, e i vasi di argilla per i banchetti posti proprio davanti alla cella di Giove; che altro significava se non consacrare la povertà sul Campidoglio? Anche se non conoscessi altri suoi gesti per metterlo tra i Catoni, questo ti sembrerebbe poco? Non fu un pranzo, ma una censura. 73 Come ignorano quegli uomini avidi di gloria che cosa essa sia veramente e come la si debba cercare! Quel giorno il popolo romano vide le suppellettili di molte persone, ma ammirò quelle di uno solo. L'oro e l'argento di tutti gli altri è stato spezzato e fuso molte volte: i vasi d'argilla di Tuberone dureranno attraverso le generazioni. Stammi bene.

 

LIBRO SEDICESIMO

 

 

96

1 Tu ti sdegni e ti lamenti per qualche contrarietà e non capisci che in esse non c'è niente di male, se non il tuo sdegno e i tuoi lamenti? Vuoi il mio parere? Secondo me la sola infelicità per l'uomo è ritenere che nella natura ci siano elementi d'infelicità. Non sopporterò più me stesso il giorno in cui non sarò in grado di sopportare qualche disgrazia. Sto male: fa parte del destino. La servitù è malata, i debiti mi opprimono, la casa scricchiola, disgrazie, danni, pene, paure mi sono piombati addosso: sono cose che càpitano. O meglio: dovevano capitare. Non sono avvenimenti casuali: sono decretati. 2 Vuoi credermi? Ora ti svelerò i miei intimi sentimenti: in tutte le situazioni che appaiono avverse e critiche, mi comporto così: non obbedisco a dio, sono d'accordo con lui: lo seguo spontaneamente e non perché è necessario. Qualunque cosa accada non l'accoglierò mostrandomi triste o con volto accigliato: non pagherò nessun tributo controvoglia. Tutto ciò che ci fa piangere o ci atterrisce è un tributo che va pagato alla vita: non sperare, Lucilio mio, l'immunità, non chiederla nemmeno. 3 Soffri di dolori alla vescica, sono arrivate lettere poco piacevoli, hai subìto danni continui, - dirò di più - hai temuto per la vita. Come? Non sapevi che augurandoti la vecchiaia, ti auguravi questo? Sono tutte disgrazie in cui ci si imbatte in una vita lunga, come in un lungo viaggio ti imbatti nella polvere, nel fango, nella pioggia. 4 "Ma io volevo vivere, e non avere, però tutti questi fastidi." Parole così effeminate sono indegne di un uomo. Vedrai tu come accogliere questo mio augurio; te lo faccio di cuore e con animo generoso: dèi e dee non ti permettano di essere nelle grazie della fortuna! 5 Chieditelo: se un dio ti desse facoltà di scelta, vorresti vivere in un mercato o in un accampamento? Ma, caro Lucilio, vivere è fare il soldato. Perciò coloro che sono sbattuti qua e là, e costretti a percorrere per dritto e per traverso strade faticose e difficili e affrontano spedizioni piene di rischi, sono uomini valorosi, i primi tra i soldati; quanti, invece, si lasciano languidamente andare a un ozio nauseante, mentre gli altri si affannano, sono delle colombelle, e si garantiscono la sicurezza con il disonore. Stammi bene.

 

97

1 Hai torto, Lucilio mio, se attribuisci solo al nostro secolo la dissolutezza, l'indifferenza alla moralità, e gli altri vizi che ognuno rimprovera alla propria epoca: sono colpe degli uomini, non dei tempi. Non c'è nessuna età innocente e se tu vuoi passare in rassegna secolo per secolo la sfrenatezza, vedrai - rincresce dirlo - che la depravazione più spudorata ci fu proprio quando visse Catone. 2 Nessuno potrebbe credere che il denaro abbia giocato un ruolo determinante nel processo che vedeva accusato P. Clodio di adulterio; lo aveva commesso in un penetrale con la moglie di Cesare e aveva violato i riti religiosi di un sacrificio che, dicono, si celebra a favore del popolo, e nel quale tutti gli uomini vengono allontanati dallo spazio sacro in maniera così tassativa da arrivare a velare le pitture raffiguranti animali maschi. Eppure i giudici furono comprati e, cosa ancor più abbietta di questo patto, fu preteso per giunta lo stupro di matrone e di nobili giovani. 3 Il delitto fu meno grave dell'assoluzione: l'accusato di adulterio dispensò adulterî e fu sicuro della sua salvezza solo dopo aver reso i giudici identici a se stesso. E questo avvenne nel processo in cui, per non dir altro, uno dei testimoni era Catone. Riferirò proprio le parole di Cicerone perché la cosa ha dell'incredibile. 4 "Chiamò a sé i giudici, promise, supplicò, dette. E poi, buon dio, che infamia! per soprammercato alcuni giudici ottennero anche i favori di determinate donne e le grazie di nobili giovani." 5 Perché recriminare per il denaro? Il peggio è stato nelle aggiunte. "Ti piacerebbe la moglie di quel personaggio così austero? È tua. O di questo tanto ricco? Anche lei sarà tua, te lo garantisco. Se non si combina, condannami pure. Desideri quella bella donna? Verrà. Ti prometto una notte con lei e presto; entro tre giorni manterrò la mia promessa." Dispensare adulterî è più grave che commetterli: questa è un'intimazione alle madri di famiglia. 6 I giudici di Clodio avevano chiesto e ottenuto dal senato una scorta, necessaria solo in caso di condanna; e così, dopo l'assoluzione, Catulo disse loro spiritosamente: "Perché ci avete chiesto una scorta? Per paura che portassero via il denaro?" Scherzi divertenti, ma intanto Clodio, adultero prima del processo, ruffiano durante il processo, la fece franca e sfuggì alla condanna con atti più esecrabili di quelli per cui l'aveva meritata. 7 Secondo te, ci fu mai corruzione maggiore di quando la dissolutezza non la potevano frenare i riti sacri, né i processi, e in un'inchiesta straordinaria, promossa con delibera del senato, si commisero azioni peggiori di quelle inquisite? Si indagava se dopo un adulterio non potesse essere al sicuro: fu chiaro che non si poteva essere al sicuro senza adulterio.

8 Questo avvenne negli anni di Pompeo e Cesare, di Cicerone e Catone, proprio quel Catone durante la cui magistratura, secondo quanto raccontano, il popolo non osò chiedere gli spettacoli della dea Flora con prostitute nude, se ti pare credibile che allora ci fosse più rigidità negli spettacoli che nei verdetti. Questi misfatti sono accaduti e accadranno ancora in futuro: in una città la corruzione può finire a volte per disciplina e per paura, mai spontaneamente. 9 Pertanto non devi credere che abbiamo concesso moltissimo alla sfrenatezza e quasi niente alle leggi: i nostri giovani sono molto più moderati di una volta, quando l'accusato negava davanti ai giudici l'adulterio e i giudici lo confessavano davanti all'accusato, quando si commetteva uno stupro per celebrare un processo, quando Clodio, benvisto per gli stessi vizi per i quali era colpevole, faceva il ruffiano perfino durante la sua difesa. Chi lo crederebbe? Uno condannato per un solo adulterio fu assolto grazie a molti adulterî.

10 Ogni epoca avrà i suoi Clodi, non tutte dei Catoni. Siamo portati al peggio, intanto perché è difficile che ci manchino una guida o un compagno e poi perché la corruzione procede da sola anche senza guida o compagni. La strada al vizio non solo è in discesa, precipita; c'è poi un fatto che rende la gran parte degli uomini incorreggibili: in altri campi gli errori generano vergogna in chi li commette, mortificano chi ha sbagliato, ma degli errori di condotta ci si compiace. 11 Il pilota non gioisce se la barca si rovescia, e nemmeno il medico se il malato finisce nella bara, o l'avvocato se l'imputato perde la causa per colpa della difesa, invece, tutti si rallegrano delle proprie malefatte; uno è soddisfatto dell'adulterio, a cui l'ha spinto proprio la difficoltà di realizzarlo; un altro di una frode o di un furto, e non prova dispiacere per il suo peccato, ma per l'insuccesso del medesimo. La causa sta nelle cattive abitudini. 12 Sappi del resto che il senso del bene, sotto, sotto, si trova anche negli animi più abietti, e che la disonestà non è ignorata, ma trascurata; tutti celano le loro colpe e, anche se hanno un felice esito, ne godono i frutti, ma di nascosto. La buona coscienza, invece, vuole mostrarsi e farsi notare: la malvagità ha paura anche del buio. 13 Quindi, secondo me, Epicuro ha detto bene: "Càpita che un delinquente rimanga nascosto, ma non ne può avere la certezza", oppure, se per te il significato è più chiaro in questo modo: "Ai colpevoli non serve stare nascosti, perché, anche se ne hanno la fortuna, non ne hanno la certezza". È vero, chi commette un delitto può starsene al sicuro, ma non essere tranquillo. 14 Non credo che questo pensiero, spiegato così, sia in contrasto con la nostra scuola. Perché? Perché la prima e più grave punizione dei colpevoli consiste nella colpa commessa, e nessun delitto, per quanto la fortuna lo colmi di doni, lo protegga e lo difenda, rimane impunito: il castigo del delitto sta nel delitto stesso. E tuttavia, a questa punizione se ne aggiungono e incalzano altre: la continua paura, il terrore e l'eterna insicurezza. Perché liberare la malvagità da questo tormento? Perché non tenerla sempre nell'incertezza? 15 Noi non siamo d'accordo con Epicuro quando dice che niente è giusto per natura e che i delitti si devono evitare perché la paura è inevitabile; condividiamo, invece, che le cattive azioni sono torturate dalla coscienza: il suo maggior tormento è l'essere straziata senza tregua da un'ansia continua e il non poter credere a chi promette tranquillità. È proprio questa la prova, caro Epicuro, che noi aborriamo la criminalità per disposizione naturale: tutti i delinquenti hanno paura, anche se sono al sicuro. 16 La sorte libera molti dalla prigione, nessuno dalla paura. Perché? Perché è radicata in noi la ripugnanza per un'azione condannata dalla natura. Per questo anche chi sta nascosto non è mai sicuro di rimanerlo: la coscienza lo accusa e lo smaschera a se stesso. Vivere in ansia è proprio dei colpevoli. Molti delitti sfuggono alla legge, ai giudici, alle pene sancite dalla legge: sarebbe, quindi, grave per gli uomini se i criminali non scontassero sùbito le dure punizioni della natura e la paura non prendesse il posto delle pene. Stammi bene.

 

98

1 Non è felice, credimi, chi dipende dal benessere materiale. Poggia su fragili basi e gode di beni che vengono dal di fuori: la gioia, come è venuta, se ne andrà. Quella che scaturisce dall'intimo, invece, è durevole e stabile, cresce e ci accompagna fino all'ultimo: gli altri beni, apprezzati dalla massa, durano un giorno. "Ma come? Non possono essere utili e piacevoli?" Chi dice di no? Ma solo se dipendono loro da noi, non noi da loro. 2 Tutti i beni soggetti alla fortuna diventano fruttuosi e gradevoli, se chi li possiede, possiede anche se stesso e non è in balia delle cose. È un errore, Lucilio mio, pensare che la fortuna ci concede o il bene o il male: essa ci dà materia di bene e di male e i fondamenti di quello che si tradurrà per noi in male o in bene. L'anima è più forte di ogni fortuna, indirizza da sé le cose in un senso o nell'altro ed è causa della propria felicità o infelicità. 3 Se è malvagia volge tutto in male, anche quello che appariva ottimo; se è virtuosa e pura, corregge i mali della fortuna, addolcisce le difficoltà, gli affanni e sa sopportarli, accoglie la prosperità con gratitudine e moderazione, l'avversità con fermezza e coraggio. Ma sebbene sia saggia e agisca sempre ponderatamente, sebbene non tenti nulla al di sopra delle sue forze, non raggiungerà mai quel bene incorrotto, che non conosce minacce, se non si erge salda contro i capricci della fortuna. 4 Se osserverai gli altri - giudichiamo più serenamente quando non si tratta di noi - o te stesso, cercando di essere obiettivo, ti accorgerai e dovrai ammettere che delle cose desiderabili e gradite nessuna è utile se non sarai pronto ad affrontare la volubilità del caso e dei beni che seguono il caso, se ad ogni male non ripeterai, spesso, senza lamentarti queste parole:

Gli dèi hanno deciso diversamente.

 

5 Anzi, per dio, voglio trovare un verso più incisivo e più giusto per sostenere meglio la tua anima: ogni volta che gli eventi tradiranno le tue aspettative, di': "Gli dèi hanno deciso meglio." Se uno si comporta così, niente lo coglierà di sorpresa. Ma questo atteggiamento lo terrà se avrà preso in considerazione, prima di sperimentarle, le possibili conseguenze delle vicende umane e se godrà dei figli, del coniuge, dei beni come se non dovesse goderne per sempre e non diventasse più infelice perdendoli. 6 È proprio misera l'anima inquieta per il futuro e infelice prima che l'infelicità arrivi, angosciata che i beni di cui gode non durino fino alla morte; non troverà mai pace e nell'attesa del futuro perderà i beni presenti, di cui avrebbe potuto godere. Il dolore per la perdita di un bene e il timore di perderlo sono sentimenti sullo stesso piano. 7 Ma non per questo ti consiglio l'indifferenza. Evita i mali temibili, prevedi quanto si può saggiamente prevedere, spia e allontana molto prima che si verifichi tutto quello che ti può danneggiare. A questo scopo ti servirà molto la fiducia in te stesso e un animo risoluto a sopportare ogni disgrazia. Può guardarsi dalla sorte chi è in grado di sopportarla; certo una persona tranquilla non si lascia sconcertare. Non c'è cosa più misera e sciocca che temere prima del tempo: è da pazzi prevenire i propri mali. 8 Voglio, infine, esprimerti brevemente quello che provo e descriverti questi uomini che si affannano e sono gravosi a se stessi: mancano di misura sia nelle disgrazie che prima. Si duole più del necessario chi si duole prima del necessario: è debole e non sa valutare il dolore, come non sa aspettarlo; con la stessa sfrenatezza immagina eterna la sua felicità, crede che i beni avuti in sorte debbano non solo durare, ma aumentare e, dimentico dell'instabilità delle vicende umane, presagisce per lui solo la stabilità dei doni della fortuna. 9 Secondo me è molto bella l'affermazione di Metrodoro in quella lettera indirizzata alla sorella che aveva perso un figlio di qualità eccezionali: "Ogni bene dei mortali è mortale." Parla dei beni che tutti bramano: il vero bene, saggezza e virtù, non muore, è sicuro ed eterno; è l'unica cosa immortale che tocca ai mortali. 10 Ma gli uomini sono tanto insensati e dimentichi della meta a cui li spinge ogni giorno che passa, che si stupiscono di perdere qualcosa, quando in un solo giorno perderanno tutto. Tutti i beni di cui pretendi d'essere il padrone, li hai con te, ma non sono tuoi; non c'è niente di sicuro per chi è insicuro, niente di eterno e di duraturo per chi è caduco. È inevitabile tanto perdere la vita, quanto perdere i beni e, se lo comprendiamo, proprio questo è un conforto. Impara a perdere tutto serenamente: dobbiamo morire.

11 Per fronteggiare queste perdite che cosa ci può essere di aiuto? Questo: ricordiamoci dei beni perduti e non lasciamo che con essi svaniscano i frutti che ce ne sono derivati. Ce ne viene tolto il possesso, non il fatto di averli posseduti. È davvero un ingrato chi, quando perde qualcosa, non si sente debitore per averla avuta. Il caso ci sottrae un bene, ce ne lascia, però l'usufrutto, e noi lo perdiamo con i nostri ingiusti rimpianti. 12 Di' a te stesso: "Nessuno di questi mali che sembrano terribili, è invincibile." Tanti uomini in passato ne hanno vinto ora l'uno, ora l'altro: Muzio il fuoco, Regolo il supplizio, Socrate il veleno, Catone la morte infertasi con la spada: vinciamone anche noi qualcuno. 13 D'altra parte questi beni che, belli e fecondi in apparenza, attraggono la massa, molti individui li hanno spesso disprezzati. Fabrizio, quando era comandante dell'esercito, rifiutò la ricchezza, e da censore la biasimò; Tuberone giudicò la povertà degna di lui e del Campidoglio, quando, servendosi di stoviglie di terracotta per un pranzo ufficiale, dimostrò che l'uomo deve contentarsi di quello che ancòra si usa nei sacrifici agli dèi. Suo padre, Sestio, che per nascita sarebbe dovuto entrare nella carriera politica, rifiutò le cariche e non accettò la dignità senatoria che Giulio Cesare gli offriva: capiva che quanto può essere dato, si può anche togliere. Compiamo pure noi qualche azione coraggiosa, diventiamo un esempio per gli altri. 14 Perché arrenderci? Perché disperare? Tutto quello che è stato possibile fare in passato, lo si può fare oggi, purché manteniamo pura l'anima e seguiamo la natura: chi se ne allontana, sarà schiavo della paura, delle passioni e del caso. Si può tornare sulla retta via, si può recuperare l'integrità perduta: recuperiamola, potremo sopportare ogni tipo di dolore fisico e dire alla sorte: "Hai a che fare con un vero uomo: per vincere cercati un altro".

15 * * * Con questi discorsi e con altri simili si lenisce la virulenza di quella ferita che io desidero, per dio, si mitighi e guarisca, oppure non peggiori e invecchi con lui. Ma per lui io sono tranquillo; il danno è nostro: ci viene strappato un vecchio straordinario. Egli ha vissuto abbastanza e non vuole vivere ancora per sé, ma per quelli a cui è utile. 16 Vivere, per lui, è un atto di generosità: un altro l'avrebbe ormai fatta finita con questi tormenti: fuggire la morte lo considera infame, quanto rifugiarsi in essa. "Ma come? Se la situazione lo consiglia, non lascerà la vita?" E perché no, se non servirà più a nessuno, non gli resterà altro che soffrire? 17 Questo significa, Lucilio mio, imparare la filosofia attraverso l'azione ed esercitarsi a contatto con la realtà: vedere che coraggio dimostra il saggio di fronte alla morte quando si avvicina, di fronte al dolore quando l'opprime; che cosa si debba fare, impariamolo da chi lo fa. 18 Finora si è cercato di argomentare se si possa resistere al dolore oppure se la morte, una volta vicina, possa piegare anche gli animi grandi. Che bisogno c'è di parole? Veniamo ai fatti: la morte non rende il saggio più coraggioso di fronte al dolore, né il dolore di fronte alla morte. Contro l'una e l'altro egli fa affidamento solo su se stesso e soffre con pazienza non perché speri di morire, e muore volentieri non perché sia stanco del dolore: il dolore lo sopporta, la morte l'aspetta. Stammi bene.

 

99

1 Ti mando la lettera che ho scritto a Marullo: ha perso un figlio ancòra piccolo e, dicono, si comporta da debole: in essa non ho fatto come si fa di solito e non ho ritenuto di doverlo trattare con dolcezza: merita rimproveri più che conforto. Per un po' bisogna essere accomodanti con chi è afflitto e mal sopporta una grave ferita: si sazi o almeno sfoghi il primo impeto di cordoglio: 2 ma se uno sceglie di piangere deve essere rimproverato sùbito e imparare che anche le lacrime sono a un certo modo sconvenienti.

"Aspetti un conforto? Riceverai, invece, dei rimproveri. Ti comporti così da debole per la morte di un figlio; che faresti se avessi perso un amico? È morto un figlio di incerte speranze, ancòra piccolo: il tempo perduto è poco. 3 Noi cerchiamo motivi di dolore e vogliamo, anche a torto, lamentarci della sorte, come se non ci desse fondate ragioni di pianto; ma, per dio, mi sembravi abbastanza forte anche di fronte ai mali concreti, tanto più verso queste parvenze di mali di cui gli uomini si lagnano per abitudine. Se pure avessi perso un amico, che di tutte è la perdita più grave, dovresti cercare di gioire per averlo avuto, più che piangere per averlo perso. 4 Ma la maggior parte della gente non tiene conto dei beni ricevuti, delle gioie provate. Questo dolore ha un difetto tra gli altri: oltre che inutile, è ingrato. E dunque, aver avuto un amico simile è stato infruttuoso? Tanti anni, tanta comunione di vita, tanti studi fatti amichevolmente in comune, non sono serviti a niente? Insieme all'amico seppellisci l'amicizia? E perché ti duoli di averlo perso, se averlo avuto non ti serve a niente? Credimi, gran parte delle persone che abbiamo amato, anche se la morte li ha rapiti, ci rimane vicina; il passato ci appartiene e solo quello che è stato si trova al sicuro. 5 Non siamo riconoscenti per i beni ricevuti, perché speriamo nel futuro, quasi che il futuro, se pure arriva, non si trasformi velocemente in passato. Chi gioisce solo del presente limita a poco i vantaggi della vita: futuro e passato sono fonte di piacere, l'uno con l'attesa, l'altro con il ricordo, ma il primo è incerto e può anche non realizzarsi, il secondo non può non essere esistito. È da pazzi perdere il più sicuro dei beni! Sentiamoci soddisfatti delle gioie già gustate, purché il nostro animo non se le sia lasciate sfuggire tutte, come un vaso rotto perde il contenuto.

6 Sono innumerevoli gli esempi di uomini che hanno celebrato senza piangere i funerali di figli adolescenti, che dal rogo sono tornati in senato o ai pubblici affari e si sono occupati sùbito d'altro. E a ragione: prima di tutto, è inutile dolersi se il dolore non ti serve a niente; e poi è ingiusto lagnarsi di quanto ora succede a uno: è una sorte riservata a tutti; inoltre, querimonie e rimpianti sono da insensati: la distanza fra la persona perduta e chi la rimpiange è breve. Dobbiamo, dunque, rassegnarci, perché seguiamo a ruota chi abbiamo perduto. 7 Considera come il tempo fugga via rapidissimo, pensa alla brevità di questo cammino che percorriamo precipitosamente, di corsa, osserva come l'umanità tutta tenda alla medesima meta, a intervalli brevissimi, anche se sembrano molto lunghi: la persona che secondo te è scomparsa, in realtà ti ha preceduto. Anche tu devi percorrere quel cammino, e allora non è da pazzi piangere chi è andato avanti? 8 Forse che uno piange di un fatto che sapeva sarebbe accaduto? Oppure, se pensava che un uomo potesse essere immortale, si è voluto ingannare da sé. Piange uno di un fatto che lui stesso definiva inevitabile? Chi lamenta la morte di qualcuno, lamenta che sia stato un uomo. Siamo tutti schiavi dello stesso destino; se uno nasce, deve morire. 9 Sia pure in tempi diversi, la fine è uguale per tutti. Il tempo che vivi fra il primo e l'ultimo giorno è vario e indefinito: lungo anche per un bambino, se consideri le pene, breve anche per un vecchio, se ne consideri la rapidità. Tutto è instabile, fallace e più mutevole di ogni burrasca: tutto è sconvolto e muta per i capricci della sorte: fra tanto variare delle vicende umane, la sola cosa certa è la morte; eppure, tutti si lamentano della sola cosa che non inganna nessuno.

10 "Ma è morto bambino." Non ho ancora detto che sia meglio se uno muore presto; passiamo a chi invecchia: come supera di poco un bambino! Immagina di abbracciare l'immensità del tempo e l'universo, poi paragona all'infinito quella che chiamiamo vita umana: vedrai come è poca cosa questa vita che desideriamo e cerchiamo di prolungare. 11 Che parte ne occupano le lacrime, gli affanni? E la morte desiderata prima dell'ora e le malattie e la paura? Che parte ne hanno gli anni dell'inesperienza o quelli inutili della vecchiaia? La metà della vita, poi, la passiamo dormendo. Aggiungi fatiche, dolori, pericoli e capirai che anche di una vita lunghissima se ne vive una minima parte. 12 Ma chi ti dice che non stia meglio chi può tornarsene presto, chi finisce il suo cammino prima di essere stanco? La vita non è un bene, e neppure un male: comprende bene e male. Così quel bambino ha perso solo il rischio, forse la certezza di disgrazie maggiori. Sarebbe potuto diventare un uomo misurato e saggio, formarsi al meglio, sotto le tue cure. Ma - e sono timori fondati - avrebbe potuto diventare simile alla massa. 13 Guarda quei giovani di nobilissima famiglia che la dissolutezza ha gettato nell'arena; guarda quei giovani senza pudore che soddisfano reciprocamente le proprie e le altrui voglie; non passa giorno senza che siano ubriachi, senza che si macchino di qualche grave infamia; ti sarà chiaro che i timori sarebbero stati maggiori delle speranze. Non procurarti, perciò motivi di dolore e non accrescere col tuo sdegno contrarietà di poco conto. 14 Non ti esorto a fare ogni sforzo per sollevarti: non ti giudico così male da pensare che tu debba fare appello a tutta la tua virtù per fronteggiare questa disgrazia. Non è dolore questo, è una fitta: sei tu a farne un dolore. Sicuramente la filosofia ti ha giovato molto, se non ti abbandoni al rimpianto per un bambino più conosciuto alla nutrice che al padre.

15 E che? Ora ti consiglio forse la durezza e voglio che il tuo volto rimanga impassibile perfino durante il funerale e non concedo nemmeno che ti si stringa il cuore? No, niente affatto. È crudeltà, non virtù, guardare la sepoltura dei propri cari con gli stessi occhi con cui li vedevi in vita e non commuoversi al momento del distacco dai familiari. Ma immagina che io te lo vieti: certe reazioni sono incontrollate; le lacrime cadono anche se uno cerca di trattenerle e sgorgando dànno sollievo all'anima. 16 E allora? Lasciamole scendere, ma non a comando; scorrano secondo l'impeto della commozione, non per imitare gli altri. Non accresciamo la nostra tristezza e non esageriamola sull'esempio altrui. L'ostentazione del dolore esige più del dolore: quanti sono tristi per se stessi? Se c'è gente che li ascolta, si lamentano ad alta voce, e mentre da soli se ne stanno calmi e silenziosi, appena vedono qualcuno riprendono di nuovo a piangere; si percuotono il capo (cosa che avrebbero potuto fare più liberamente quando nessuno glielo impediva), si augurano la morte, si rotolano sul letto: scomparso il pubblico, scompare il dolore. 17 Anche in questa, come in altre circostanze, facciamo lo sbaglio di uniformarci all'esempio della maggioranza e badiamo alle consuetudini, non alla convenienza. Ci allontaniamo dalla natura, ci offriamo al popolo, cattivo consigliere sempre, ed estremamente volubile in questo frangente come in tutti gli altri. Vede uno che sopporta con coraggio il proprio dolore? Lo definisce empio e crudele. Vede un altro svenire e gettarsi sul cadavere del parente, dice che è effeminato e debole. 18 Bisogna, dunque, ricondurre tutto alla ragione. La cosa più sciocca è cercare di farsi una nomea di tristezza e considerare giuste le lacrime. Ci sono lacrime, secondo me, alle quali il saggio si abbandona e altre che non può trattenere. Ecco la differenza. Appena arriva, la notizia di una morte prematura ci sconvolge, e quando stringiamo il cadavere che dalle nostre braccia passerà sul rogo, per una legge di natura ci sgorgano le lacrime e il respiro sotto la morsa del dolore ci sconvolge tutto il corpo e pure gli occhi facendone uscire il vicino umore. 19 Queste lacrime ci cadono involontariamente per compressione interna. Invece quelle cui diamo via libera se ripensiamo ai nostri cari scomparsi sono diverse e nella nostra tristezza c'è un che di dolce quando ci tornano alla memoria i loro amabili discorsi, la loro allegra compagnia, il loro premuroso affetto, e in quel momento gli occhi si aprono al pianto come nella gioia. A queste lacrime ci abbandoniamo, dalle prime siamo vinti. 20 Non dobbiamo, perciò trattenerle o versarle perché c'è qualcuno intorno o vicino a noi: fingere è vergognoso sia nell'uno che nell'altro caso: le lacrime scorrano spontanee. Possono, però scorrere in modo pacato e composto; spesso, senza perdere il proprio prestigio, il saggio le ha versate con tale misura da mantenere umanità e decoro. 21 Si può secondo me, seguire la natura salvando la dignità. Al funerale dei propri cari, ho visto persone degne di rispetto che sul volto portavano scritto l'amore, senza manifestazioni esteriori di lutto: ogni atteggiamento scaturiva da sentimenti sinceri. Pure il dolore ha un suo decoro; il saggio lo deve mantenere e, come in tutto il resto, anche nelle lacrime c'è un limite: gli uomini dissennati, invece, eccedono e nella gioia e nel dolore.

22 Accogli serenamente l'inevitabile. Che cosa è successo di straordinario, d'insolito? Per quanti uomini proprio adesso si prendono accordi per il funerale, per quanti si comprano i paramenti funebri, quanti piangono dopo di te! Quando penserai che era solo un bambino, pensa anche che era un uomo, e per l'uomo non ci sono certezze e la fortuna non lo conduce necessariamente alla vecchiaia: lo congeda a suo piacimento. 23 Per il resto parla sovente di lui, esalta quando puoi il suo ricordo: ti ritornerà più spesso alla memoria, se non sarà doloroso: nessuno sta volentieri con una persona triste, tanto meno con la tristezza. Se avevi ascoltato con piacere qualche suo discorso, qualche battuta spiritosa anche se di bambino, ricordali di frequente; afferma senza esitazione che avrebbe potuto realizzare le speranze che tu come padre avevi concepito. 24 Dimenticarsi dei propri cari e seppellirne col cadavere il ricordo, piangere a dirotto e poi ricordarli raramente, è disumano. Gli uccelli, le belve amano così i loro piccoli: il loro amore è ardente e quasi furioso, ma, quando li hanno perduti, si estingue interamente. È un comportamento indegno di un saggio: mantenga il ricordo, ma smetta di piangere.

25 Non sono affatto d'accordo con l'affermazione di Metrodoro: c'è un piacere affine alla tristezza e lo dobbiamo cogliere in queste circostanze. Ti trascrivo qui di seguito proprio le sue parole: $Ìçôñïäþñïõ dðéóôïëí ðñ'ò ôxí PäåëöÞí. IÅóôéí ãÜñ ôéò 1/2äïíx$ ‹$ëýðw óõããåíÞò, |í ÷ñz èçñåý$›$åéí êáôN ôï(tm)ôïí ô'í êáéñüí$. 26 Non ho dubbi sul tuo giudizio in proposito; niente è più infame che dar la caccia al piacere proprio nel dolore, anzi tramite il dolore, e cercare un godimento anche fra le lacrime. Sono questi gli individui che ci rinfacciano un'eccessiva severità e accusano di durezza i nostri insegnamenti, perché diciamo che il dolore non va accolto nell'anima oppure va scacciato subito. E dunque, è più incredibile o più disumano non soffrire per la perdita di un amico o andare in cerca del piacere proprio nel dolore? 27 Il nostro insegnamento è onesto: quando abbiamo versato qualche lacrima e l'urgenza dei sentimenti è, come dire, sbollita, non dobbiamo abbandonarci al dolore. Ma come? Tu vuoi mescolare il piacere al dolore? Così con uno zuccherino consoliamo i bimbi, così ne plachiamo il pianto dandogli del latte. Neppure mentre tuo figlio brucia nel rogo e l'amico si spegne, ammetti che il piacere venga meno, ma vuoi solleticare perfino la tristezza? È più onesto scacciare dall'animo il dolore o accordare il piacere anche al dolore? "Accordare" dico? si cerca di averlo e proprio dal dolore! 28 "Esiste un piacere," affermano, "affine alla tristezza." Questo lo possiamo dire noi, non voi. Voi conoscete un solo bene, il piacere, e un solo male, il dolore: che affinità ci può essere fra il bene e il male? Ma immagina che ci sia: la scopriamo proprio adesso? E scrutiamo il dolore per vedere se porta con sé qualcosa di piacevole e di voluttuoso? 29 Rimedi salutari per certe parti del corpo non si possono usare per altre, perché sono indecenti e sconvenienti, e quello che altrove gioverebbe senza ledere il pudore, diventa indecoroso per il punto della ferita: non ti vergogni di guarire un dolore con il piacere? Questa piaga va curata più seriamente. Ricordati piuttosto che chi è morto non sente nessun male: se lo sente, non è morto. 30 Niente fa soffrire chi non c'è più, ti ripeto: se soffre, è vivo. Pensi che una persona stia male perché non esiste più o perché esiste ancòra? Eppure non può soffrire per il fatto di non esistere (ha forse sensibilità il nulla?) e nemmeno per il fatto di esistere, poiché in questo caso è sfuggito al danno più grave della morte: il non essere. 31 Se uno è in lacrime e rimpiange il figlio morto nella prima infanzia, diciamogli anche questo: noi tutti, giovani e vecchi, per la brevità della nostra vita, se confrontata con l'universo, siamo nella medesima condizione. Di tutto il tempo a noi tocca meno di quello che uno potrebbe definire il minimo, perché il minimo è pur sempre una parte: la nostra vita è quasi un nulla; e tuttavia, pazzi, facciamo progetti a lungo termine.

32 Ti scrivo questo non perché tu aspetti da me un rimedio così tardivo (sono certo che ti sei già detto tutto quanto leggerai), ma per rimproverarti quel breve momento di esitazione in cui hai deviato da te stesso, e incitarti per l'avvenire a farti animo contro la fortuna e a guardare a tutti i suoi colpi non come eventuali, ma come sicuri. Stammi bene.

 

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1 Mi scrivi di aver letto con grande avidità i libri di Fabiano Papirio sulla politica, ma che hanno deluso le tue aspettative; poi, dimenticando che si tratta di un filosofo, ne critichi la forma. Supponiamo che sia come tu dici e che le parole vengano messe giù senza un'architettura precisa. Prima di tutto, questo stile ha una sua attrattiva ed è la bellezza di una prosa che scivola via dolcemente; secondo me scorrere e venir fuori a precipizio sono due cose molto diverse. Inoltre c'è una grande differenza anche in quello che sto per dire: 2 per me Fabiano riversa la sua eloquenza, senza, però uscire dagli argini; è un'eloquenza ampia, pacata, e tuttavia, ha un suo impeto. Questo indica chiaramente e dimostra immediatezza e spontaneità. Ma ammettiamo che tu abbia ragione: l'intento di Fabiano era di dare una regola ai costumi, non alle parole, e ha scritto per educare, non per diletto. 3 E poi, se lo avessi sentito parlare, non avresti avuto modo di badare ai particolari, tutto preso dal succo del discorso; e in genere quello che piace per l'impeto dell'oratore, una volta trascritto rende meno. Ma è già molto che l'opera attragga a prima vista l'attenzione di chi legge, anche se a un esame più accurato si troveranno delle pecche. 4 Vuoi sapere come la penso? Chi strappa un giudizio favorevole vale di più di uno che questo giudizio lo merita; eppure so che quest'ultimo va più sul sicuro, so che può nutrire speranze più audaci di futuri successi. Non è bene che l'eloquenza di un filosofo sia eccessivamente ricercata: se uno si preoccupa per le parole, non può riuscire vigoroso e fermo, non può mettere alla prova se stesso. 5 Fabiano non si curava della forma, ma non era sciatto. Non troverai niente di volgare: le parole sono scelte, non ricercate, non ne capovolge il senso impiegandole in accezioni opposte alla norma secondo la moda di oggi, e, benché siano prese dal linguaggio comune, sono eleganti. I concetti sono nobili ed elevati, espressi piuttosto diffusamente e non ridotti a sentenze. Potremo scoprire qualche ridondanza, qualche frase mal costruita, qualche elemento privo di questa eleganza oggi in uso: ma in tutto l'insieme non troverai pensieri meschini e vuoti. 6 Una casa anche se non ha varietà di marmi, acqua corrente nelle diverse camere, la cosiddetta stanzetta del povero e tutto ciò che il lusso non contento di ornamenti semplici mette insieme, è pur sempre, come si dice, una buona casa.

Inoltre, i pareri sullo stile sono discordi: certi vogliono che la bellezza derivi dalla semplicità, a certi altri piace la durezza al punto che, se per caso qualche frase risulta troppo dolce, la guastano di proposito e spezzano le clausole per renderle inaspettate. 7 Leggi Cicerone: il suo stile è unitario, segue un ritmo lento, è dolce, ma senza eccessi. Invece quello di Asinio Pollione è scabro, ineguale e si ferma quando meno te l'aspetti. Insomma, in Cicerone i periodi terminano, in Pollione si interrompono, tranne pochissime eccezioni in cui sono legati a un ritmo determinato e a un unico modello.

8 Affermi, inoltre, che secondo te in Fabiano tutto è terra terra e poco elevato: a mio parere è un difetto che non ha. Le sue espressioni non sono terra terra, ma pacate, e nascono da uno stato d'animo tranquillo e sereno; non sono basse, ma chiare. Mancano di vigore oratorio, di quella capacità di incitare, che tu chiedi, e di colpire con frasi inattese; ma l'insieme, ne avrai notata l'eleganza, è bello. La sua eloquenza è priva di grandiosità, ne dà, tuttavia, il senso. 9 Citami qualche scrittore da anteporre a Fabiano. Cicerone, i cui libri di filosofia sono all'incirca numerosi quanto quelli di Fabiano; d'accordo, ma se uno è inferiore a chi è grandissimo, non per questo è da poco. Asinio Pollione: va bene; però ti rispondo: occupare il terzo posto in un campo così importante equivale a distinguersi. Fai ancòra il nome di Tito Livio; ha scritto anche dei dialoghi che si possono considerare storici e filosofici, e dei libri specificatamente filosofici: faccio posto anche a lui. Vedi, tuttavia, quanti autori si lasci alle spalle uno che è superato solo da tre e per giunta straordinariamente eloquenti.

10 Fabiano, però non eccelle in tutto: la sua eloquenza non è vigorosa, anche se elevata; non è impetuosa e irruente, anche se sciolta; è schietta, ma non limpida. "Le sue parole," dici "dovrebbero essere più severe contro i vizi, più coraggiose contro i pericoli, più altere contro la fortuna, più oltraggiose contro l'ambizione. Vorrei che biasimasse il lusso, schernisse la libidine, rintuzzasse la prepotenza. Che ci fosse in lui la veemenza dell'oratoria, la grandezza della tragedia, l'asciuttezza della commedia." Tu vorresti che Fabiano badasse a una cosa da poco: le parole; lui si è dedicato alla grandezza dell'argomento, e si è trascinato dietro l'eloquenza come un'ombra, senza curarsene. 11 I singoli elementi sono senza dubbio poco meditati e mal collegati tra loro, non tutte le parole sono accese e pungenti, lo ammetto: molte espressioni passano inosservate, senza colpire, e il discorso talvolta scorre via senza nerbo; ma in ogni pagina ci sono sprazzi di luce e ne puoi scorrere lunghi brani senza annoiarti. Infine, ti sarà chiaro che egli sentiva le cose che ha scritto. Capirai che non ha voluto piacere a te, ma farti sapere ciò che a lui piaceva. L'intera opera tende a rendere migliori, a educare lo spirito: non cerca il plauso.

12 Sono certo che i suoi scritti sono di questo tipo, anche se, più che averli presenti, ne ho un vago ricordo, e le loro caratteristiche non le ho bene impresse, come avviene dopo una lettura recente, ma li ricordo in modo sommario: sono frutto di una conoscenza di vecchia data; quando lo ascoltavo parlare, i suoi discorsi mi sembravano, se non connessi in maniera organica, consistenti, cioè capaci di elevare un giovane di indole onesta e di spingerlo all'emulazione con buone speranze di superare il suo modello: e questo mi pare un incoraggiamento efficacissimo. Distoglie i giovani, chi suscita in loro il desiderio di imitarlo, ma li priva della speranza di riuscire. Del resto la sua eloquenza era sovrabbondante e magnifica nell'insieme, nonostante le singole componenti non avessero pregi particolari. Stammi bene.