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Materiali per Operatori del Benessere Immateriale
LETTERE A LUCILIO di Seneca

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LIBRO DICIOTTESIMO

101

1 Ogni giorno, ogni ora ci mostra che siamo un nulla e con qualche nuovo argomento ricorda a noi dimentichi la nostra caducità, e mentre concepiamo progetti come se fossimo eterni ci costringe a guardare alla morte. Chiedi che cosa significhi questa premessa? Tu conosci Cornelio Senecione, cavaliere romano illustre e cortese: da un'umile origine era arrivato in alto, destinato a ulteriori e facili successi. L'inizio di una carriera è più difficile che il suo sviluppo. 2 Anche il denaro tarda molto ad arrivare, se uno è povero: alla povertà si rimane attaccati, finché non si riesce a tirarsene fuori. Senecione ormai mirava ad arricchirsi e a questo lo portavano due qualità validissime: la capacità di procurarsi il denaro e quella di conservarlo; sarebbe bastata una sola delle due a renderlo ricco. 3 Quest'uomo molto frugale, che aveva cura tanto del patrimonio quanto del suo corpo, mi aveva fatto visita al mattino, come d'abitudine, e aveva poi assistito per l'intera giornata, fino a notte, un amico gravemente malato che giaceva a letto senza speranza di guarigione; dopo aver cenato allegramente, colpito da un male fulminante, l'angina, a stento sopravvisse fino all'alba rantolando con le vie respiratorie bloccate. È morto, dunque, pochissime ore dopo aver svolto tutte le attività proprie di un individuo sano e in forze.

4 Quell'uomo, che faceva girare il denaro per terra e per mare, che aveva partecipato anche a pubblici appalti e non aveva tralasciato nessun tipo di guadagno, proprio quando le cose si mettevano bene, proprio quando il denaro arrivava in abbondanza, è scomparso.

Innesta ora i peri, Melibeo, disponi le viti in filari.

Come è insensato disporre della propria vita, se non siamo padroni neppure del domani! Come sono pazzi quelli che danno il via a progetti lontani nell'avvenire: comprerò, costruirò, darò denaro in prestito, ne riscuoterò, ricoprirò cariche, e alla fine passerò in ozio, stanco e soddisfatto, la vecchiaia. 5 Credimi: tutto è incerto, anche per gli uomini fortunati; nessuno deve ripromettersi niente per il futuro; anche quello che abbiamo fra le mani ci sfugge e il caso tronca l'ora stessa che stringiamo. Il tempo passa secondo una legge determinata, ma a noi sconosciuta: e che mi importa se per la natura è certo quello che per me è incerto? 6 Ci proponiamo lunghi viaggi per mare e un ritorno in patria lontano nel tempo, dopo aver vagato per lidi stranieri; imprese militari e tardive ricompense di fatiche guerresche, amministrazioni di province e avanzamenti di carriera, di carica in carica, mentre la morte ci sta accanto; e poiché non ci pensiamo mai, se non quando tocca agli altri, di tanto in tanto ci vengono messi davanti esempi della nostra mortalità, che, però, durano in noi solo quanto il nostro stupore. 7 Ma niente è più sciocco che stupirsi che accada un giorno quanto può accadere ogni giorno. Il termine della nostra vita sta dove l'ha fissato l'inesorabile ineluttabilità del destino; ma nessuno di noi sa quanto si trovi vicino alla fine; disponiamo, perciò la nostra anima come se fossimo arrivati al momento estremo. Non rinviamo niente; chiudiamo ogni giorno il bilancio con la vita. 8 Il difetto maggiore dell'esistenza è di essere sempre incompiuta e che sempre se ne rimanda una parte. Chi dà ogni giorno l'ultima mano alla sua vita, non ha bisogno di tempo; da questo bisogno nascono la paura e la brama del futuro che rode l'anima. Non c'è niente di più triste che chiedersi quale esito avranno gli eventi futuri; se uno si preoccupa di quanto gli resta da vivere o di come, è agitato da una paura inguaribile. 9 Come sfuggire a questa inquietudine? In un solo modo: la nostra vita non deve protendersi all'avvenire, deve raccogliersi in se stessa; chi non è in grado di vivere il presente, è in balia del futuro. Ma quando ho pagato il debito che avevo con me stesso, quando ho ben chiaro in testa che non c'è differenza tra un giorno e un secolo, posso guardare con distacco il susseguirsi dei giorni e degli eventi futuri e pensare sorridendo al succedersi degli anni. Se uno è saldo di fronte all'incerto, non può turbarlo la varietà e l'incostanza dei casi della vita. 10 Affrettati, perciò a vivere, Lucilio mio, e i singoli giorni siano per te una vita. Chi si forma così e ogni giorno vive compiutamente la sua vita, è tranquillo: se uno vive nella speranza, si sente sfuggire anche il tempo più vicino e subentra in lui l'avidità della vita e l'infelicissima paura della morte che rende altrettanto infelice ogni cosa. Nasce da qui quel vergognosissimo voto di Mecenate che non rifiuta malattie e deformità e in ultimo il supplizio del palo, pur di continuare a vivere anche tra queste sventure:

 

11 rendimi storpio di una mano, zoppo di una gamba, fammi crescere la gobba, fammi cadere i denti: purché continui a vivere, va bene; conservami la vita anche su un palo di tortura.

 

12 Egli si augura un destino che sarebbe molto infelice, se si realizzasse, e pur di vivere, chiede un supplizio continuo. Lo considererei già spregevolissimo se volesse vivere fino al momento di salire al patibolo: "Storpiami pure," dice, "purché lo spirito vitale rimanga in questo corpo senza forze e inservibile; sfigurami, purché, mostruoso e deforme, io possa vivere ancòra un po'; impalami, crocifiggimi": vale la pena comprimere la propria ferita e penzolare dalla forca con gli arti slogati, pur di rimandare la cosa più desiderabile quando si soffre: la fine dei tormenti? Val la pena di avere la vita per esalarla? 13 Che cosa potresti augurargli se non la benevolenza degli dèi? A che mirano questi versi turpemente effeminati? A che questo patto nato da una paura insensatissima? E questo mendicare così sconciamente la vita? Potresti pensare che Virgilio abbia mai recitato a Mecenate questo verso:

Morire è, dunque, così triste?

Egli si augura i mali più atroci e desidera prolungare e sopportare le sofferenze più terribili: che ci guadagna? Una vita più lunga naturalmente. Ma che vita è agonizzare a lungo? 14 C'è qualcuno che preferisce consumarsi tra i tormenti, morire membro a membro ed esalare l'anima ripetutamente in uno stillicidio, invece che morire in un sol colpo? C'è qualcuno che vuole prolungare una vita fonte di tante sofferenze, attaccato a quel maledetto palo, ormai storpio, deforme, con una gobba ripugnante sulla schiena e sul petto, quando avrebbe avuto molti motivi per morire anche senza arrivare alla croce? E dimmi ora che non è un grande beneficio della natura l'ineluttabilità della morte. 15 Molti sono pronti a fare patti ancòra più vergognosi: anche a tradire un amico per vivere più a lungo, e a consegnare di persona i figli allo stupro, pur di poter vedere la luce, testimone di tanti delitti. Scuotiamoci di dosso questa smania di vivere e impariamo che non importa quando subiremo quello che dobbiamo prima o poi subire; conta vivere bene, non vivere a lungo; ma spesso il vivere bene consiste proprio nel non vivere a lungo. Stammi bene.

 

102

1 Quando uno fa un bel sogno, trova fastidiosa la persona che lo sveglia, poiché gli toglie un piacere falso, sì, ma che ha effetti realistici. La tua lettera mi ha procurato un dispiacere analogo: mi ha distolto dalla meditazione conveniente in cui ero concentrato e che, potendo, non avrei interrotto. 2 Indagavo con piacere sull'immortalità dell'anima, anzi, perbacco, ci credevo; ero pronto ad accogliere l'opinione di grandi uomini che promettono, più che dimostrare, una realtà graditissima. Mi abbandonavo a una così straordinaria speranza, provavo ormai disgusto di me stesso, disprezzavo i resti di un'esistenza infranta, per passare all'eternità, nel possesso di ogni tempo, quando l'arrivo della tua lettera mi ha improvvisamente risvegliato e ho perduto un sogno tanto bello. Ma, quando ti avrò congedato, voglio riprenderlo e riconquistarlo.

3 Tu affermi all'inizio della lettera che non ho spiegato interamente la questione, quando ho tentato di dimostrare la tesi degli Stoici: la gloria che si ottiene dopo la morte è un bene. Non avrei, cioè, risposto all'obiezione che ci viene rivolta: "Non c'è bene dove c'è separazione; e, in questo caso, c'è separazione." 4 Quello che mi chiedi, Lucilio mio, rientra nella stessa questione, ma è un altro punto, perciò avevo rimandato questo e altri problemi riguardanti il medesimo argomento; infatti, come sai, certe parti della logica sono unite alla morale. E così, prima ho trattato quella parte che riguarda direttamente la morale: se non sia insensato e inutile spingere le proprie preoccupazioni oltre l'ultimo giorno, se i nostri beni finiscano con noi e non resti più niente della persona scomparsa, se di una cosa che, quando accadrà non la percepiremo, si possa cogliere qualche frutto o almeno cercare di coglierlo prima che essa si verifichi. 5 Tutti questi problemi riguardano la morale; perciò li ho messi al loro posto. Ma le argomentazioni dei dialettici contro questa tesi dovevano essere separate e perciò le ho disgiunte. Ora, poiché esigi una trattazione completa, esporrò tutte le loro obiezioni, poi le confuterò una per una.

6 Perché le mie confutazioni siano chiare, devo fare una premessa. Che premessa? Esistono dei corpi unitari, come l'uomo; altri composti, come una nave, una casa, insomma tutti quelli formati dall'unione di parti diverse; altri costituiti da elementi separati, le cui membra sono divise, come un esercito, un popolo, un'assemblea. Gli individui componenti questi organismi sono uniti per legge o per funzioni analoghe, ma distinti per natura e a se stanti. 7 Ancora una premessa: secondo noi non c'è bene formato da elementi separati tra loro; un bene deve essere racchiuso e retto da un solo principio, unica deve essere la sua essenza. Questo principio, se un giorno vorrai, si dimostra da sé; intanto ho dovuto premetterlo perché ci rivolgono contro le nostre stesse armi.

8 "Voi dite che non c'è bene formato da elementi separati tra loro; ma," ribattono, "la gloria di un uomo nasce dall'opinione favorevole di persone virtuose. Come la fama non è data dalle parole di un unico individuo e l'infamia dalla cattiva opinione di uno solo, così la gloria non la dà l'approvazione di una sola persona virtuosa, ma ci vuole il consenso di molti uomini insigni e ragguardevoli perché si formi. La gloria, però risulta dal parere di più persone, cioè di elementi distinti; quindi non è un bene.

9 "La gloria," continuano, è la lode tributata da uomini virtuosi a un uomo virtuoso; la lode è un'espressione, una frase che indica qualcosa; e una frase, anche se pronunciata da uomini virtuosi, non è un bene. Non tutto quello che fa un uomo virtuoso è un bene; egli applaude e fischia, ma, anche se ogni suo gesto è degno di ammirazione e di lode, un applauso o un fischio, come uno starnuto o un colpo di tosse, nessuno può definirli un bene. Quindi, la gloria non è un bene.

10 "Insomma, diteci se la gloria è un bene di chi loda o di chi è lodato: se dite che è un bene di chi è lodato, fate un'affermazione ridicola, come se diceste che è un bene mio la salute di un altro. Ma lodare chi ne è degno è un'azione virtuosa; perciò è un bene di chi loda, cioè di chi compie l'azione, non nostro, che siamo lodati: e questo è l'oggetto della nostra indagine."

11 Risponderò ora rapidamente a ciascun problema. Prima di tutto ci si chiede se un bene possa derivare da elementi separati e su questo punto i pareri sono discordi. Inoltre, la gloria ha bisogno del consenso di molti? È sufficiente anche il giudizio di una sola persona virtuosa: un uomo virtuoso può giudicare della nostra virtù. 12 "Ma come?" si ribatte, "la fama deriverà dalla stima e l'infamia dalla maldicenza di un solo individuo? Anche la gloria noi la intendiamo ampiamente diffusa," continuano, "poiché richiede il consenso di molti." Si tratta di due condizioni diverse. Perché? Perché se un uomo virtuoso mi giudica bene, per me è come se così mi giudicassero tutti gli uomini virtuosi; tutti, infatti, se mi conoscessero, mi giudicherebbero allo stesso modo. Il loro giudizio è uguale e identico, perché ha un'unica impronta: la verità. Non possono discordare; e dunque è come se tutti fossero del medesimo parere, poiché non possono pensarla diversamente. 13 Per la gloria, invece, o per la fama, non basta l'opinione di una sola persona. Nel caso di prima un solo parere vale quanto quello di tutti, perché, se si domandasse a tutti, uno per uno, unica sarebbe la risposta: nel secondo caso sono diversi i giudizi, poiché sono diverse le persone. Troverai difficilmente approvazione e sempre dubbi, leggerezza, sospetti. Credi che tutti possano esprimere un parere unico? Ma se nemmeno una sola persona ha un parere unico! Gli uomini virtuosi amano la verità e la verità ha una sola forza, una sola faccia: gli altri invece dànno il loro assenso a false opinioni. E il falso è incostante; varia e discorda.

14 "Ma la lode," dicono, "è solo una frase, e una frase non è un bene." Quando affermano che la gloria è una lode tributata a uomini virtuosi da uomini virtuosi, non si riferiscono alle parole, ma al giudizio espresso. Anche se un uomo virtuoso tace, ma giudica uno degno di lode, quest'uomo viene lodato. 15 Inoltre, una cosa è la lode, un'altra il lodare: quest'ultimo richiede anche la parola; perciò nessuno dice lode funebre, ma orazione funebre, poiché è un ufficio che si basa sulla parola. Quando definiamo qualcuno meritevole di lode, non gli promettiamo parole benevoli, ma giudizi benevoli. Dunque, è lode anche quella di chi tace, ma giudica positivamente e loda un uomo virtuoso dentro di sé. 16 E poi, come ho detto, la lode interessa l'animo, non le parole, che fanno da tramite e la rendono nota a più persone. Se uno ritiene dovuta una lode, già loda. Quando quel famoso poeta tragico latino dice che è splendido "essere lodato da un uomo lodato", intende dire da un uomo degno di lode. E quando quell'altro poeta altrettanto antico dice che "la lode alimenta le arti", non intende il lodare, che in realtà corrompe le arti; niente ha guastato tanto l'eloquenza e ogni altra arte rivolta alle orecchie quanto il consenso popolare. 17 La fama ha bisogno in ogni caso della voce; la gloria, invece, può formarsi anche indipendentemente dalla voce, basta un giudizio positivo; anzi non le tolgono nulla non solo il silenzio, ma persino le proteste. Ecco la differenza tra gloria e celebrità: la celebrità si fonda sul giudizio di molti, la gloria su quello delle persone virtuose.

18 "La gloria," chiedono, "cioè la lode tributata a un uomo virtuoso da uomini virtuosi, è un bene di chi è lodato o di chi loda?" Di entrambi. Mio, che vengo lodato; e poiché la natura mi ha generato incline ad amare tutti, godo di aver fatto del bene e mi rallegro di aver trovato grati interpreti delle virtù. Questo essere grati è un bene di molti, ma è anche mio; la mia disposizione d'animo è tale che giudico mio un bene di altri, soprattutto di coloro a cui sono causa di bene. 19 La gloria è un bene anche di chi loda: è un atto della virtù e ogni azione virtuosa è un bene. Ma questo bene non sarebbe toccato loro, se io non fossi quale sono. Perciò una lode meritata è un bene di entrambi, come esprimere un giusto giudizio è un bene di chi giudica e di colui a vantaggio del quale si è pronunciato il giudizio. Dubiti forse che la giustizia sia un bene e per chi la esercita e per colui al quale essa paga un debito? Lodare chi lo merita è una forma di giustizia; dunque, è un bene di entrambi.

20 A questi cavillatori abbiamo risposto abbondantemente. Ma il nostro proposito non deve essere di fare sottili discussioni e di abbassare la filosofia dalla sua altezza a questi ristretti limiti: quanto è meglio avanzare per una via aperta e diritta, invece che costruirsi da sé un tragitto tortuoso da ripercorrere con grave disagio! Queste dispute non sono altro che passatempi di persone che cercano abilmente di sorprendersi a vicenda. 21 Dimmi piuttosto come è conforme alla natura dispiegare la mente nell'immensità dell'universo. L'anima dell'uomo è una cosa grande e nobile; non sopporta che le siano posti altri limiti se non quelli comuni anche agli dèi. Prima di tutto non accetta un'umile patria, sia essa Efeso o Alessandria o qualunque altra terra anche più popolosa e più ricca di case: la sua patria è quella che cinge l'intero universo nel suo cerchio, è tutta la volta celeste entro cui giacciono mari e terre, entro cui l'atmosfera distingue e insieme congiunge l'umano e il divino, in cui sono distribuite tante divinità che attendono vigili all'adempimento delle proprie funzioni. 22 Inoltre l'anima non lascia che le venga assegnata un'esistenza angusta: "Tutti gli anni," afferma, "sono miei; nessun'epoca è preclusa ai grandi spiriti, ogni tempo è aperto al pensiero. Quando arriverà quel giorno che separa questo miscuglio di umano e di divino, lascerò il mio corpo qui dove l'ho trovato, e tornerò tra gli dèi. Non che ora ne sia completamente separata, ma mi trattiene il grave peso terreno." 23 Queste tappe della vita mortale sono una preparazione a quell'altra vita migliore e più lunga. L'utero materno ci ospita per nove mesi e ci prepara non per sé, ma per quel luogo in cui veniamo alla luce già capaci di respirare e di resistere all'aria aperta; allo stesso modo in questo periodo che dall'infanzia si estende alla vecchiaia maturiamo per un altro parto. Ci aspetta un'altra nascita, un altro stato di cose. 24 Noi non possiamo ancora sostenere la vista del cielo, se non a distanza. Perciò guarda intrepido a quell'ora decisiva: è l'ultima, ma per il corpo, non per l'anima. Guarda tutto ciò che ti sta intorno come le suppellettili di una residenza provvisoria: bisogna passare oltre. La natura spoglia chi se ne va, come chi entra. 25 Non possiamo portar via più di quanto avevamo nascendo, anzi bisogna lasciare gran parte anche di ciò che abbiamo portato per vivere: ti sarà tolto questo involucro esterno che ti avvolge, la pelle; ti sarà tolta la carne e il sangue che scorre per l'intero organismo; ti saranno tolte le ossa e i nervi, che sostengono gli elementi liquidi e molli. 26 Questo giorno che temi come ultimo è il primo dell'eternità. Deponi il peso della materia: perché resisti? Anche allora non sei venuto alla luce lasciando il corpo in cui eri celato? Ti aggrappi, opponi resistenza: anche allora tua madre ti ha espulso con un grande sforzo. Gemi, implori: anche questo pianto è proprio di un neonato, ma allora meritavi il perdono: eri venuto al mondo inesperto e ignaro. Uscito dal caldo e morbido rifugio delle viscere materne, ti ha toccato il soffio dell'aria libera, poi hai sentito il contatto di una rozza mano, e ancòra tenero e del tutto inconsapevole sei rimasto attonito di fronte a una realtà sconosciuta: 27 ora invece non è per te una cosa nuova essere separato da un corpo di cui prima facevi parte; abbandona serenamente queste membra ormai inutili e lascia questo corpo a lungo abitato. Sarà lacerato, sepolto, si consumerà: perché ti affliggi? È così: va sempre perduto l'involucro che avvolge chi nasce. Perché ami questo corpo come se fosse tuo? Ti ha solo ricoperto: verrà il giorno che ti staccherà e ti trarrà fuori dalla coabitazione con questo sconcio e fetido ventre. 28 Sottraitene già adesso per quanto ti è possibile, e sii indifferente ai piaceri tranne a quelli che * * * e sono connessi alle necessità della vita, medita fin d'ora su qualcosa di più profondo e nobile: un giorno ti si sveleranno i misteri della natura, si dissiperà codesta nebbia e da ogni parte ti colpirà una luce splendente. Immagina quanto è grande il fulgore di tanti astri che uniscono le loro luci. Nessun'ombra offuscherà il sereno; ogni parte del cielo splenderà ugualmente luminosa: giorno e notte si avvicendano solo nella nostra infima atmosfera. Dirai di essere vissuto nelle tenebre, quando con tutto te stesso vedrai la luce nel pieno del suo fulgore, quella luce che ora vedi confusamente attraverso la strettissima fessura degli occhi, e tuttavia, anche da lontano, la guardi con stupore; quale ti apparirà la luce divina quando la vedrai nella sua sede? 29 Questo pensiero scaccia dall'anima tutto ciò che è meschino, vile, crudele. Ci dice che gli dèi sono testimoni di tutto; comanda di renderci a loro graditi, di prepararci al futuro incontro e di guardare all'eternità. Chi concepisce questo pensiero non ha terrore di nessun esercito, non è spaventato dalla tromba di guerra, nessuna minaccia lo fa temere. 30 Se uno spera nella morte, non può avere paura. Anche chi ritiene che l'anima esista finché è trattenuta dal vincolo del corpo, e che una volta libera si disperda sùbito, opera in modo da poter essere utile anche dopo la morte. Benché venga sottratto alla vista del prossimo, tuttavia

sempre le assedia la mente la straordinaria virtù dell'eroe e la grande nobiltà della sua stirpe.

Pensa quanto ci giovano gli esempi di virtù: saprai che il ricordo dei grandi uomini ci giova quanto la loro presenza. Stammi bene.

 

103

1 Perché ti dài pensiero di cose che possono succederti, ma che possono anche non succederti? Intendo dire un incendio, un crollo e altri eventi che ci càpitano, ma non stanno lì in agguato: tieni d'occhio piuttosto, ed evitali, quei mali che ci spiano e cercano di coglierci di sorpresa. Fare naufragio, finire sotto una vettura sono casi rari, anche se gravi: mentre dall'uomo viene all'uomo un pericolo costante. Prepàrati ad affrontarlo, tienilo sempre attentamente d'occhio; non c'è male più frequente, più tenace, più insinuante. 2 Il cielo è minaccioso prima che si scateni la tempesta, gli edifici scricchiolano prima di crollare, un incendio lo preannuncia il fumo: il danno che proviene dall'uomo è improvviso e si mimetizza con più cura quanto più è vicino. Sbagli a credere al volto di quelli che ti vengono incontro: hanno l'aspetto di uomini, l'animo di belve; quelle, però sono pericolose al primo attacco; se passano oltre, non ti cercano più. Solo la necessità le spinge a nuocere; assalgono o per fame o per paura: all'uomo, invece, piace annientare l'uomo. 3 Ma il pensiero del pericolo che proviene dall'uomo ti faccia pensare al tuo dovere di uomo; da una parte bada a non subire torti, dall'altra a non farne. Gioisci del bene di tutti, commuoviti del male, e ricorda quello che devi fare e quello che devi evitare. 4 Vivendo così quale vantaggio ne avrai? Sfuggirai agli inganni, se non alle offese. Rifùgiati nella filosofia per quanto ti è possibile: ti proteggerà con le sue braccia, nel suo santuario sarai sicuro o, almeno, più sicuro. Cozzano fra loro solo quelli che camminano lungo la stessa strada. 5 Della filosofia, però, non dovrai vantarti; praticarla con insolenza e arroganza si è risolto per molti in un pericolo: serva a emendarti dai vizi, non a rinfacciarli agli altri. Non discordi dalla moralità comune e non faccia in modo che tu sembri condannare tutto quello che non fai. Si può essere saggi senza ostentazione, senza suscitare astio. Stammi bene.

 

104

1 Nella mia villa di Nomento ho cercato scampo, cosa credi? dalla città? No, da una febbre, e insidiosa, che si era già impadronita di me. Il medico, dai battiti del polso alterati e irregolari tanto da turbare le normali funzioni, diagnosticava l'inizio di una malattia. Ho dato, perciò ordine di preparare sùbito la carrozza; e, nonostante l'opposizione di Paolina, mi sono ostinato a partire. Avevo davanti agli occhi lo spettacolo del mio caro Gallione, che si era preso la febbre in Grecia e immediatamente si era imbarcato, proclamando che il male non era del suo fisico, ma di quel posto. 2 Questo l'ho detto alla mia Paolina che mi raccomanda sempre la salute. Sapendo che il suo spirito fa tutt'uno col mio, per un riguardo a lei, comincio a riguardarmi io stesso. E mentre la vecchiaia mi ha reso più forte per tanti versi, perdo questo beneficio dell'età; penso che in questo vecchio c'è anche una giovane cui si deve attenzione. E visto che io non ottengo da lei che mi ami con più forza, lei ottiene da me che io mi ami con più cura. 3 Bisogna assecondare gli affetti onesti; e qualche volta, anche se ci sono dei gravi motivi, anche a costo di sofferenze bisogna richiamare lo spirito vitale per rispetto dei propri cari, bisogna trattenerlo coi denti, visto che un uomo virtuoso deve vivere non fino a quando gli piace, ma fino a quando è necessario: chi non stima la moglie o un amico tanto da prolungare la propria esistenza, chi si ostina a voler morire, è uno smidollato. L'anima deve imporsi, quando lo esige il vantaggio delle persone care, di rimandare, non solo se ha deciso di morire, ma anche se ha cominciato a morire, e di compiacere i suoi. 4 È di un animo nobile tornare alla vita per gli altri e i grandi uomini l'hanno fatto spesso. Ma io, benché il massimo frutto di questa età sia una difesa meno preoccupata di se stessi e un'utilizzazione più coraggiosa della vita, ritengo segno di alta umanità anche curare con più attenzione la propria vecchiaia, se sai che ciò è caro, utile e augurabile per qualcuno dei tuoi. 5 E oltretutto una cosa così è di per sé non poco piacevole e gratificante: che cosa c'è di più gradito che essere tanto caro alla moglie da diventare per questo più caro a te stesso? E così la mia Paolina può imputarmi non solo i suoi timori, ma anche i miei.

6 Ti domandi, dunque, che risultato ha avuto la mia decisione di partire? Appena mi sono lasciato alle spalle l'aria pesante della città e quell'odore delle cucine fumanti che, una volta accese, diffondono con la polvere tutti i vapori pestiferi che hanno assorbito, sùbito mi sono accorto che il mio stato di salute era cambiato. E non sto a dirti come mi sia sentito più in forze, una volta giunto ai miei vigneti. Lasciato libero per il pascolo, mi sono buttato sul cibo. Sùbito mi sono ripreso, è scomparso quel torpore di un fisico malfermo e inerte. 7 Mi getto a capofitto nello studio. Non è tanto il luogo che conta per studiare, ma la concentrazione: se uno vuole, può crearsi un suo spazio anche in mezzo a tutte le occupazioni: ma chi si limita a scegliersi un posto e a cercare un po' di tranquillità, troverà dovunque motivi di distrazione. Si racconta che Socrate, a un tizio che si lagnava di non aver tratto nessun giovamento dai suoi continui viaggi, rispose: "È logico che ti sia successo questo; tu andavi in giro con te stesso." 8 Come si troverebbero bene certe persone se si staccassero da se stesse! E invece si opprimono, si affliggono, si guastano, si spaventano, tutto da soli. Traversare gli oceani, cambiare città, cosa serve? Se vuoi liberarti dai tuoi affanni non devi trasferirti altrove, ma diventare un altro. Fa' conto di essere andato ad Atene o a Rodi; scegli a tuo piacere la città: che importanza hanno gli usi e i costumi locali? Tu ci porti i tuoi. 9 Se giudichi un bene il denaro, ti angustierà una povertà - e questa è la cosa più triste - falsa. Per quanto tu possieda molto, se c'è uno più ricco di te, ti sentirai inferiore proprio di quanto lui ha in più. A tuo parere sono gran cosa le cariche: e allora ti tormenterà che Tizio sia stato nominato console, che Caio sia stato rieletto; proverai invidia ogni volta che leggerai ripetutamente il nome di qualcuno negli atti ufficiali. Il furore della tua ambizione sarà così violento che non ti parrà di avere nessuno dietro di te, se hai qualcuno davanti a te. 10 Giudicherai la morte il peggiore dei mali, mentre in realtà nella morte non c'è nulla di male, se non appunto ciò che la precede, il timore. Ti spaventeranno non i pericoli, ma piuttosto i sospetti; sarai sempre agitato da vani fantasmi. E allora che vantaggio ti avrà dato

essere riusciti a scampare a tante città argoliche, essere riusciti a fuggire in mezzo ai nemici?

La pace stessa scatenerà le tue paure; una volta che la mente è turbata, non ci si fida più neppure di ciò che è sicuro, e quando questi timori infondati diventano un'abitudine, non si è più in grado di tutelare se stessi: i pericoli non li evitiamo, li fuggiamo, e se uno gira le spalle, è più vulnerabile. 11 Perdere una persona cara lo giudicherai un male gravissimo, e, invece, questo atteggiamento è sciocco quanto piangere perché le belle piante che adornano la tua casa perdono le foglie. Guarda le cose che ti dànno gioia allo stesso modo in cui guarderesti quelle piante: godine, finché sono fiorenti. Il caso strappa alla vita un giorno uno, un giorno un altro; ma come la perdita delle foglie è facile sopportarla perché rinascono, così è facile sopportare anche la perdita di quelli che amavi e che consideravi la gioia della tua vita, perché, se pure non rinascono, puoi sostituirli. 12 "Ma non saranno gli stessi." Neppure tu sarai lo stesso. Ogni giorno, ogni ora che passa, ti cambia; ma negli altri questo saccheggio del tempo è più evidente, in noi passa inosservato, perché non è manifesto. Gli altri ci vengono strappati, ma noi siamo sottratti a noi stessi furtivamente. A questo non pensi e non cerchi di curare le ferite, ma ti crei da te motivi di preoccupazione ora con la speranza, ora con la disperazione? Se sei saggio, tempera l'una con l'altra: non sperare senza disperarti e non disperare senza qualche speranza.

13 Un viaggio, di per sé, che giovamento ha mai potuto dare? Non modera i piaceri, non frena le passioni, non reprime l'ira, non fiacca gli indomabili impulsi dell'amore, insomma non libera l'anima da nessun male. Non rende assennati, non dissipa l'errore, ma ci attrae temporaneamente con qualche novità come un bambino che ammiri cose sconosciute. 14 Rende, invece, lo spirito, già gravemente infermo, ancora più incostante, e questo agitarsi lo fa diventare più instabile e volubile. E così gli uomini abbandonano con più smania quei posti che avevano tanto smaniosamente cercato, li oltrepassano a volo e se ne vanno più velocemente di quanto erano venuti. 15 Viaggiare ti farà conoscere altre genti, ti mostrerà monti di forme mai viste, pianure di straordinaria grandezza e valli irrigate da corsi d'acqua perenni; attirerà la tua attenzione sulla natura particolare di qualche fiume, come il Nilo che d'estate è gonfio di acque, o come il Tigri che scompare alla vista e, dopo aver percorso un tratto sottoterra, ritorna in tutta la sua grandezza, o come il Meandro, piacevole palestra di tutti i poeti, che si avvolge su se stesso con un corso sempre tortuoso, e spesso, quando è vicino al suo alveo, devia, prima di affluire nelle proprie acque: ma non ti renderà migliore né più assennato. 16 Dobbiamo applicarci allo studio e avere familiarità coi maestri di saggezza per imparare i frutti delle loro ricerche e ricercare le verità non ancora scoperte. Così, sottraendo l'animo alla più misera schiavitù, si rivendica la propria libertà. Ma fino a quando ignorerai che cosa si deve fuggire, che cosa ricercare, che cosa è necessario o superfluo, giusto o ingiusto, questo non sarà viaggiare, ma vagabondare. 17 Correre qua e là non ti servirà a niente: tu vai in giro con le tue passioni, e i tuoi mali ti seguono. E almeno ti seguissero! Sarebbero abbastanza lontani: e invece, non li precedi, li porti con te. Perciò ti assillano dovunque e ti bruciano con la stessa intensità. 18 Il malato deve cercare la medicina adatta, non un nuovo paese. Uno si è rotto una gamba o si è provocato una distorsione: non sale su una carrozza o su una nave, ma chiama il medico, perché gli riduca la frattura o gli sistemi la lussazione. E allora? Secondo te, cambiando paese, puoi guarire un'anima che ha subìto tante fratture e distorsioni? Questo male è troppo grave per curarlo con una passeggiata in vettura. 19 Viaggiare non rende medici o oratori; non c'è scienza che si impari da un luogo: e dunque? La saggezza, la più importante di tutte le scienze, si può forse acquisire in viaggio? Non c'è via, credimi, che ti porti fuori dalle passioni, dall'ira, dalla paura; oppure, se ci fosse, l'umanità vi si dirigerebbe in massa. Questi mali ti incalzeranno e ti tormenteranno nei tuoi vagabondaggi per terra e per mare finché ne porterai con te le cause. 20 Ti stupisci che fuggire non ti serva? I mali che fuggi sono in te. Correggiti, dunque, lìberati dai pesi che porti, e contieni i tuoi desideri entro limiti convenienti; estirpa dall'anima ogni malvagità. Se vuoi fare dei viaggi piacevoli, guarisci chi ti accompagna. L'avarizia ti resterà attaccata addosso, finché vivrai insieme a un avaro taccagno; e così l'orgoglio, finché frequenterai un superbo; non ti libererai della tua crudeltà, se stai con un carnefice; l'amicizia degli adùlteri infiammerà la tua libidine. 21 Se vuoi spogliarti dei vizi, devi stare lontano da esempi di vizi. L'avaro, il corruttore, il crudele, il truffatore, che già nuocerebbero molto se fossero vicini a te, tu li hai dentro di te. Passa a compagni migliori: vivi con Catone, Lelio, Tuberone. E, se ti piace anche stare insieme ai Greci, intrattieniti con Socrate, Zenone: l'uno ti insegnerà a morire se sarà necessario, l'altro prima che sia necessario. 22 Vivi con Crisippo, con Posidonio: essi ti trasmetteranno la conoscenza dell'umano e del divino, ti inviteranno all'operosità e non solamente a parlare con eleganza e a ostentare belle parole per il piacere dell'uditorio, ma a rafforzare l'animo e a ergerlo contro tutte le minacce. In questa vita incerta e agitata c'è un solo porto: disprezzare il futuro, essere fermi e risoluti e pronti a ricevere i colpi della fortuna, in pieno petto, senza nascondersi o temporeggiare. 23 La natura ci ha generati magnanimi, e come a certi animali ha dato la ferocia, ad altri l'astuzia, ad altri la paura, a noi ha dato uno spirito desideroso di gloria e di grandezza, che cerca non dove possa vivere completamente tranquillo, ma dove possa vivere in modo assolutamente onesto, uno spirito molto simile a quell'universo che egli segue e imita per quanto è consentito alle forze umane; si fa avanti, crede di essere lodato e ammirato. 24 È signore di tutto, è superiore a tutto; non si sottometta, perciò a niente; non giudichi niente gravoso, niente capace di piegare un uomo.

Fantasmi terribili a vedersi, la Morte, la Sofferenza.

No assolutamente, se si è in grado di guardarle con sguardo fermo, vincendo le tenebre; molti fantasmi che di notte ci atterriscono, di giorno ci fanno sorridere.

Fantasmi terribili a vedersi, la Morte, la Sofferenza,

ha detto bene il nostro Virgilio: terribili a vedersi, non nella sostanza, cioè sembrano, non sono. 25 Che c'è in loro, ti chiedo, di tanto spaventoso quanto si va dicendo? ma via, per quale ragione, Lucilio mio, un uomo dovrebbe temere la sofferenza, la morte? Tante volte incontro persone che giudicano irrealizzabile tutto quello che loro non possono fare, e sostengono che noi parliamo di cose superiori a quelle che la natura umana può sostenere. 26 Ma io ho di loro una migliore opinione! Anch'essi sono in grado di fare queste cose, ma non vogliono. E poi, hanno mai deluso chi ha tentato? All'atto pratico non sono apparse più facili? Non perché siano difficili non osiamo: sono difficili perché non osiamo.

27 Se poi volete un esempio, prendete Socrate, vecchio paziente, travagliato da sventure di ogni tipo; non lo vinse la povertà, resa più grave dagli oneri familiari, e nemmeno i disagi, che sopportò anche in guerra. In casa, poi, fu messo a dura prova: ‹pensa› sia alla moglie, scorbutica di carattere e petulante, sia ai figli, ribelli e più simili alla madre che al padre. ‹Inoltre› visse o in guerra o sotto la tirannide o in una libertà più crudele della guerra e della tirannide. 28 La guerra durò ventisette anni; quando finì, la città si sottomise al funesto dominio dei trenta tiranni, di cui la maggior parte gli era ostile. In ultimo, fu condannato con accuse gravissime: lo incolpavano di vilipendio alla religione, di corruzione dei giovani, che, si disse, aveva istigato contro gli dèi, gli avi, la città. E poi ci furono il carcere e il veleno. Ma tutto ciò non turbava l'animo di Socrate e neppure il suo volto. Che merito straordinario e singolare! Fino al momento supremo nessuno vide Socrate più allegro o più triste; fu sempre uguale in mezzo a una fortuna tanto mutevole.

29 Vuoi un altro esempio? Prendi M. Catone, il giovane: contro di lui la sorte fu ancòra più ostile e accanita. Sebbene lo avesse sempre avversato, e da ultimo anche in punto di morte, tuttavia egli dimostrò che un uomo valoroso può vivere e morire a dispetto della fortuna. Passò tutta la vita o in mezzo alle guerre civili o in una pace che alimentava nel suo seno la guerra civile e si potrebbe dire che, come Socrate, si tirò fuori dalla schiavitù, a meno che non si pensi che Gneo Pompeo, Cesare e Crasso si allearono per la libertà. 30 Lo stato cambiò mille volte, ma nessuno vide mutamenti in Catone; si mostrò sempre lo stesso in ogni condizione, nella pretura, nella sconfitta elettorale, nei momenti dell'accusa, nel governo della provincia, nei discorsi, nell'esercito, nella morte. Infine, in quel turbamento generale dello stato, mentre da una parte Cesare era sostenuto da dieci bellicosissime legioni e da interi presidî di milizie straniere, e dall'altra c'era Gneo Pompeo, che bastava da solo contro tutti, mentre alcuni parteggiavano per Cesare, altri per Pompeo, unicamente Catone prese le parti della repubblica. 31 E a voler esaminare il quadro del tempo, si vedrà da un lato la plebe e tutto il popolino teso alle novità, dall'altro gli ottimati e i cavalieri, che rappresentavano la parte migliore e più onesta della città, e in mezzo, soli, la repubblica e Catone. Ti stupirai di sicuro vedendo:

l'Atride e Priamo e Achille a entrambi ostile;

egli disapprova entrambi e vorrebbe disarmare sia l'uno che l'altro. 32 Su loro pronuncia questo giudizio: se vincerà Cesare, morirà; se Pompeo, andrà in esilio. Che aveva da temere se egli stesso, vincitore o vinto, si era assegnato una pena quale potevano assegnargli i nemici più acerrimi? Morì, dunque, per sua decisione. 33 Vedi che gli uomini possono sopportare la fatica: egli condusse a piedi l'esercito attraverso i deserti dell'Africa. Vedi che è possibile sopportare la sete: su aride colline, senza salmerie, trascinandosi dietro i resti dell'esercito sconfitto, sopportò la mancanza d'acqua con la corazza addosso e, tutte le volte che trovavano da bere, bevve per ultimo. Vedi che si possono disprezzare onore e infamia: nel giorno stesso della sua sconfitta elettorale giocò a palla dove si tenevano i comizi. Vedi che si può non temere la potenza dei più forti: sfidò Pompeo e Cesare insieme, mentre nessuno osava offendere l'uno se non per accattivarsi la benevolenza dell'altro. Vedi che si possono disprezzare sia l'esilio che la morte: egli si impose sia l'esilio che la morte, e nel frattempo la guerra. 34 Possiamo, perciò contro queste sventure dimostrare un uguale coraggio, purché vogliamo liberare il collo dal giogo. Per prima cosa dobbiamo rifiutare i piaceri: snervano, rendono languidi, pretendono molto e questo molto va preteso dalla fortuna. Poi dobbiamo disdegnare le ricchezze: sono il compenso della schiavitù. Lasciamo da parte l'oro, l'argento e tutto ciò che riempie le case dei ricchi: la libertà non è gratuita. Se l'apprezzi molto, devi disprezzare tutto il resto. Stammi bene.

 

105

1 Ecco che regole devi osservare per vivere più tranquillo. Ritengo opportuno, però che tu ascolti questi insegnamenti come se io ti consigliassi la maniera di salvaguardare la tua salute nella zona di Ardea. Considera i motivi che spingono un uomo a fare del male a un altro uomo; troverai la speranza, l'invidia, l'antipatia, la paura, il disprezzo. 2 Di tutti questi il disprezzo è il meno grave, tanto che molti vi si rifugiano per mettersi al riparo. Se uno disprezza, calpesta, è vero, ma poi passa oltre; nessuno fa del male con tenacia, con accanimento a una persona che disprezza; anche in battaglia non si bada al caduto, si combatte contro chi sta in piedi.

3 La speranza dei malvagi potrai evitarla se non possiedi niente che susciti la maligna cupidigia degli altri, niente che si distingua; si desiderano, infatti, anche beni da poco, se sono insoliti o rari. All'invidia sfuggirai evitando di metterti in mostra, di ostentare i tuoi beni, e se saprai godere interiormente. L'odio, o nasce da un'offesa, e lo eviterai non provocando nessuno; o è gratuito, e allora te ne difenderà il buon senso. Molti, però hanno corso questo pericolo: sono stati odiati senza avere un nemico. 4 Perché la gente non debba aver paura di te, saranno sufficienti sia una modesta fortuna, sia un'indole mite: si sappia che ti si può offendere senza rischio di ritorsioni; sii pronto e risoluto nel riconciliarti. Essere temuti è dannoso sia in casa che fuori, sia dagli schiavi che dagli uomini liberi: tutti sono sufficientemente forti per fare del male. Inoltre, chi è temuto, teme: e se uno terrorizza gli altri, non può vivere tranquillo. 5 Rimane il disprezzo: se uno se lo impone da sé, se viene disprezzato per volontà sua e non perché sia giusto così, può regolarne la misura. Dal fastidio che ci provoca ci liberano e i sani princìpî e l'amicizia delle persone influenti presso un potente; con costoro sarà utile essere in relazione, ma non troppo stretta, perché il rimedio non sia peggiore del pericolo.

6 Non c'è niente, però che giovi quanto starsene tranquilli e parlare pochissimo con gli altri e il più possibile con se stessi. Le parole hanno una dolcezza che si insinua carezzevole e, come fanno l'ubriachezza o l'amore, tira fuori i segreti. Nessuno manterrà il silenzio su quello che ha udito, nessuno dirà solo quanto ha udito; chi riferisce un fatto, ne riferirà anche l'autore. Ognuno ha un amico cui confidare quanto è stato confidato a lui stesso; per quanto tenga a freno la sua loquacità e si contenti di raccontare la cosa a uno solo, a poco a poco il numero delle persone che sanno si ingigantirà; e così il segreto diventa di dominio pubblico.

7 Quanto alla sicurezza, gran parte di essa consiste nel comportarsi bene con tutti: i prepotenti vivono una vita turbata e inquieta, le loro paure sono proporzionali al male che fanno, e non stanno mai tranquilli. Le cattive azioni compiute li rendono trepidanti e incerti; la loro coscienza non li lascia occuparsi d'altro e li costringe a comparire davanti al suo tribunale. L'attesa del castigo è già una pena; e chi sa di meritarlo, lo attende. 8 Se uno ha sulla coscienza un delitto, può a volte rimanere impunito, ma non sarà mai sereno; anche se non viene scoperto, pensa di poterlo essere; fa sonni agitati e ogni volta che si parla del delitto di un altro, pensa al suo; non gli sembra sufficientemente dimenticato, sufficientemente coperto. Un malfattore può avere la fortuna di rimanere na-

scosto, ma non ne ha mai la certezza. Stammi bene.

 

106

1 Rispondo con un certo ritardo alle tue lettere, non perché sia preso dagli impegni. Guàrdati bene dal credere a una simile scusa: il tempo ce l'ho e ce l'hanno tutti, basta volerlo. Gli impegni non inseguono nessuno: sono gli uomini ad abbracciarli e a ritenerli un segno di felicità. Perché, allora, non ti ho risposto sùbito? L'argomento di cui domandavi rientrava nel piano della mia opera; 2 tu sai che voglio trattare la filosofia morale nel suo complesso ed esaminarne tutti i problemi connessi. Perciò ero in dubbio se rimandare la risposta finché non fossi arrivato al punto, oppure soddisfare la tua richiesta, senza seguire la successione degli argomenti: mi è sembrato più cortese non far aspettare chi viene da tanto lontano. 3 Estrapolerò dunque, questo tema dalla successione di quelli ad esso concatenati e se ce ne saranno altri simili, te li riferirò spontaneamente senza che tu lo chieda.

Vuoi sapere di che si tratta? Di problemi la cui conoscenza è più piacevole che utile, come l'oggetto della tua domanda: il bene ha un corpo? 4 Il bene agisce, perché è utile; e quello che agisce è un corpo. Il bene sprona l'anima e in un certo modo la forma e la disciplina, e queste sono attività di un corpo. I beni del corpo sono corpi, quindi lo sono anche i beni dell'animo, perché anche l'anima è un corpo. 5 Il bene dell'uomo è necessariamente un corpo, perché l'uomo è corporeo. Mentirei se affermassi che anche le sostanze che lo alimentano e che gli garantiscono la salute o gliela restituiscono non sono corpi, quindi, anche il suo bene è corpo. Non penso che tu dubiterai che i sentimenti, come l'ira, l'amore, la tristezza, sono corpi (e questo per aggiungere anche argomenti di cui non domandi), se non dubiti che ci fanno cambiare espressione, corrugare la fronte, distendere il volto, arrossire, impallidire. E allora? Non credi che solo un corpo possa provocare delle reazioni così chiaramente fisiche? 6 Se sono corpi i sentimenti, lo saranno anche i mali dell'anima, come l'avarizia, la crudeltà, i vizi incalliti e ormai incorreggibili; e quindi anche la malvagità e tutte le sue forme, ossia il malanimo, l'invidia, la superbia; 7 e di conseguenza, anche i beni, prima di tutto perché sono il loro contrario, poi perché si presentano con i medesimi segni. O forse non vedi che vigore dia allo sguardo la fortezza? Che intensità la prudenza? Che aria di modestia e di calma la verecondia? Che serenità la gioia? Che comportamento austero la gravità? Che senso di remissività la dolcezza? Quindi, sono corpi quei fattori che cambiano il colore e lo stato dei corpi e che esercitano su di essi il loro potere. Ora, tutte le virtù che ho elencato, e tutto quello che ne deriva, sono beni. 8 Non c'è dubbio poi che, se una cosa ha la capacità di toccare, sia corpo.

Niente può infatti, toccare o essere toccato, se non il corpo

dice Lucrezio. Ma tutte le cose sopraddette non potrebbero trasformare un corpo, se non lo toccassero; dunque, sono corpi. 9 Ora, anche quegli elementi che hanno tanta forza da spingere, costringere, trattenere, inibire sono corpi. Ebbene? Il timore non ci trattiene? L'audacia non ci spinge? La fortezza non ci incita e ci dà slancio? La moderazione non ci frena e ci richiama? La gioia non ci esalta? La tristezza non ci abbatte? 10 Infine, ogni nostra azione ce la comanda o la malvagità o la virtù: ciò che comanda il corpo, è corpo, ciò che fa violenza al corpo, è corpo. Il bene del corpo è corporeo, il bene dell'uomo è anche bene del corpo, perciò è corporeo.

11 Poiché ho obbedito al tuo desiderio, ora esprimerò io stesso quel giudizio che, penso, esprimerai tu: facciamo dei giochetti inutili e ci perdiamo in sottigliezze superflue: questi ragionamenti non ci rendono virtuosi, ma dotti. 12 Il sapere è una cosa più chiara, anzi più semplice: basta poco studio per arrivare alla saggezza; noi, invece, disperdiamo in speculazioni inutili anche la filosofia come tutto il resto. Pure negli studi soffriamo di intemperanza come in ogni altra attività: impariamo per la scuola, non per la vita. Stammi bene.

 

107

1 Dove è finita la tua prudenza? Dove il tuo acuto discernimento? E la tua grandezza d'animo? Una simile inezia ti turba? Le tue occupazioni hanno fornito ai tuoi schiavi l'opportunità di fuggire. Se ti ingannassero degli amici (designiamoli pure col nome che abbiamo dato loro a torto e chiamiamoli così per non usare termini troppo dispregiativi) * * * ma a tutto il tuo patrimonio mancano ora delle persone che disprezzavano la tua attività e ti giudicavano gravoso per il prossimo. 2 Non c'è niente di insolito, niente di inaspettato; urtarsi per fatti del genere è ridicolo come lagnarsi di essere spruzzati in un bagno pubblico o spinti in mezzo alla folla o imbrattati stando nel fango. Nella vita è lo stesso che al bagno pubblico o tra la folla o durante un viaggio: qualche torto ti viene fatto di proposito, qualche altro è fortuito. Vivere non è una delizia. Hai intrapreso un lungo cammino: scivolerai, cozzerai, cadrai, ti sentirai stanco, invocherai - mentendo - la morte. Qui lascerai un compagno, là ne seppellirai un altro, più avanti un altro ancora ti farà paura: devi affrontare simili avversità per percorrere questo aspro sentiero. 3 Vogliamo morire? Prepariamoci, invece, ad ogni evenienza, persuasi di essere arrivati dove scoppia il fulmine; dove:

hanno il loro covo il Pianto e gli Affanni vendicatori, dove abitano le pallide Malattie e la triste Vecchiaia.

Con questi compagni dobbiamo vivere. Non puoi sfuggirli, ma puoi disprezzarli; e li disprezzerai, se rifletterai spesso e saprai prevedere quelli che ti colpiranno. 4 Tutti affrontano con maggiore coraggio gli eventi cui si sono preparati a lungo, e resistono anche alle difficoltà, se le hanno previste: chi, invece, è impreparato teme anche le piccolezze. Facciamo in modo che niente ci giunga inaspettato: e poiché l'imprevisto aggrava ogni disgrazia, una riflessione continua ti porterà a non farti sorprendere da nessun male.

5 "Gli schiavi mi hanno abbandonato." Qualche altro lo hanno spogliato, accusato, ucciso, tradito, malmenato, hanno attentato alla sua vita col veleno e con false imputazioni: qualunque sventura nomini, è capitata e in sèguito ‹capiterà› a molti. Tanti e tanto vari sono i colpi diretti contro di noi. Alcuni ci hanno già feriti, altri balenano e stanno per arrivare, altri, che non erano diretti a noi, ci sfiorano. 6 Non stupiamoci di cose alle quali siamo destinati dalla nascita; nessuno se ne deve lagnare: sono uguali per tutti. Lo ripeto, uguali per tutti; anche se uno sfugge a quei colpi, avrebbe potuto subirli. Una legge è equa non perché serve a tutti, ma perché è promulgata per tutti. Imponiamoci pacatezza e paghiamo senza lamentarci il tributo della nostra mortalità. 7 L'inverno porta il freddo: avremo freddo. L'estate porta il caldo: avremo caldo. Il tempo variabile attenta alla nostra salute: rassegniamoci a star male. In qualche posto ci imbatteremo in una belva oppure in un uomo più pericoloso di tutte le belve. Qualcosa ce la toglierà l'acqua, qualcosa il fuoco. Questa situazione non la possiamo cambiare: possiamo, però formarci un animo grande e degno di un uomo virtuoso, per sopportare da forti gli imprevisti ed essere in armonia con la natura. 8 La natura governa coi cambiamenti il regno che tu vedi: alle nuvole succede il sereno; il mare è calmo e poi si agita; i venti soffiano ora in una direzione, ora nell'altra; il giorno segue la notte; una parte del cielo si leva, un'altra sprofonda: è la legge degli opposti a perpetuare l'universo. 9 A essa noi dobbiamo uniformare il nostro spirito; seguiamola, obbediamole; e ogni avvenimento stimiamolo necessario: non rimproveriamo la natura. L'atteggiamento migliore è sopportare quello che non si può correggere e seguire la volontà di dio senza lagnarsi: tutto proviene da lui; non è un buon soldato chi segue il comandante e si lamenta. 10 Accogliamo perciò gli ordini senza pigrizia, prontamente, e non abbandoniamo il corso di questa meravigliosa opera, intessuta anche di ogni nostra sofferenza; e a Giove, che governa e dirige l'universo, rivolgiamoci con quegli eloquentissimi versi con cui gli si è rivolto il nostro Cleante e che io, sull'esempio di Cicerone, uomo di grande eloquenza, mi permetto di tradurre nella nostra lingua. Se ti piacciono prendili per buoni; in caso contrario sai che ho seguìto in questo l'esempio di Cicerone.

 

11 Conducimi dove vuoi, Padre e Signore dell'alto cielo: non esiterò a ubbidirti; sono pronto. Se non volessi, dovrei seguirti piangendo e dovrei subire di malanimo ciò che potevo fare volentieri. Il fato guida chi è consenziente, trascina chi si oppone.

 

12 Sia questa la nostra vita, siano queste le nostre parole; il destino ci trovi pronti e attivi. È grande l'anima che si abbandona al destino: ma è meschina e vile se lotta contro di esso e disprezza l'ordine dell'universo e preferisce correggere gli dèi piuttosto che se stessa. Stammi bene.

 

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1 L'argomento su cui mi interroghi è uno di quelli che importa sapere solo per il gusto di sapere. Ma poiché importa saperlo, hai fretta e non vuoi aspettare i libri che proprio ora sto preparando e che riguardano tutta quanta l'etica. Ti accontenterò sùbito; prima, però, voglio scriverti come va regolata, perché non sia di impedimento a se stessa, questa avidità di sapere, di cui, lo vedo, tu bruci. 2 Non bisogna attingere qua e là, e nemmeno gettarsi con avidità su tutto il sapere: attraverso le singole parti arriverai alla conoscenza del tutto. Bisogna adattare il peso alle forze: non dobbiamo accollarcene uno superiore alle nostre capacità. Attingi non quanto vuoi, ma quanto puoi contenere. Solo, mantieni l'animo onesto: capacità e volere si equivarranno. L'animo più riceve, più si dilata.

3 Attalo, ricordo, mi insegnava questo, quando frequentavo la sua scuola ed ero il primo a entrare e l'ultimo a uscire, e lo invitavo a qualche discussione anche mentre passeggiava; egli non era solo disponibile, ma veniva anche incontro ai suoi discepoli. "Maestro e allievo devono avere lo stesso proposito," diceva, "l'uno far progredire, l'altro voler progredire." 4 Chi frequenta un filosofo, ne tragga ogni giorno un qualche profitto: ritorni a casa o più sano o più sanabile. E ritornerà così: l'efficacia della filosofia è tale da giovare non solo a chi vi si applica con fervore, ma anche a chi si limita a un semplice contatto. Se uno sta al sole, si abbronza anche se non era questo il suo scopo; se uno si è fermato in una profumeria e vi si è trattenuto per un po', gli rimane addosso l'odore; anche chi frequenta un filosofo, sia pure distrattamente, ne trae per forza un qualche vantaggio. Attento, però alle mie parole: distrattamente, non opponendo resistenza.

5 "E come? Non conosciamo certe persone che hanno frequentato per anni un filosofo senza riportarne nemmeno un'infarinatura?" E come non conoscerli? Tenacissimi e assidui, per me sono inquilini, non allievi dei filosofi. 6 Certi vengono per ascoltare, non per imparare, come si va a teatro per il piacere di farsi accarezzare le orecchie da un bel discorso o una bella voce o un bel lavoro. Per gran parte dei frequentatori, lo vedrai, la scuola di un filosofo è un luogo dove passare il tempo libero. Non cercano di liberarsi di qualche vizio, di apprendere una legge di vita per regolare il proprio comportamento, ma di godere dei piaceri dell'udito. Certi portano anche un taccuino per segnarvi non concetti, ma parole che ripeteranno senza profitto per gli altri come le ascoltano senza profitto per sé. 7 Alcuni poi si infiammano nell'udire splendidi discorsi e con volto e animo commosso si immedesimano in chi parla e si eccitano come fanno gli eunuchi al suono del flauto frigio invasati da quel segnale. Li trascina e li stimola la bellezza dei concetti, non il vano suono delle parole. Se qualcuno parla con coraggio contro la morte, o con sprezzo contro la fortuna, vogliono sùbito mettere in pratica le parole ascoltate. Rimangono impressionati da quei discorsi e si comportano come è stato loro comandato, se rimangono nella medesima disposizione di spirito, se la folla che scoraggia sempre i sentimenti onesti, non infrange sùbito il loro nobile slancio: pochi riescono a ritornare a casa con i primitivi propositi. 8 È facile spingere chi ascolta a desiderare il bene: in ogni uomo la natura ha gettato le fondamenta e il seme delle virtù. Siamo nati tutti per compiere il bene: se c'è uno che ci stimola, quei nobili istinti come sopiti, si risvegliano. Non senti in teatro l'eco degli applausi quando risuonano quelle frasi che tutti riconosciamo, che all'unanimità proclamiamo vere?

 

9 Alla povertà manca molto, all'avarizia tutto.

L'avaro non è buono verso nessuno, pessimo con se stesso.

Anche l'avaraccio applaude questi versi e gode che i suoi vizi siano scherniti: secondo te questo non accade ancor più quando è un filosofo a parlare, quando ai precetti salutari si inframmezzano versi, che li faranno penetrare con più efficacia nell'animo degli ignoranti? 10 Diceva Cleante: "Il nostro fiato produce un suono più squillante quando passa attraverso lo stretto e lungo canale di una tromba e ne fuoriesce alla fine da un'apertura più grande, così i ristretti vincoli della poesia rendono più vivi i nostri pensieri." Gli stessi concetti si ascoltano più distrattamente e colpiscono meno se detti in prosa: quando si aggiunge il ritmo e versi ben determinati esprimono in forma concisa un pensiero significativo, quella stessa massima è come scagliata da un braccio più vigoroso. 11 Si parla molto del disprezzo del denaro e con lunghissimi discorsi si insegna agli uomini che la ricchezza sta nell'anima, non nei beni materiali, che è veramente ricco chi si adatta alla sua povertà e si fa ricco con poco; gli animi, però sono più colpiti da versi di questo tipo:

Ha pochissime necessità l'uomo che ha pochissimi desideri.

Se uno vuole quanto basta, ha ciò che vuole.

 

12 Quando ascoltiamo queste e altre massime del genere, siamo indotti a riconoscerne la veridicità; anche coloro che non sono mai sazi mostrano ammirazione, acclamano, dichiarano odio per il denaro. Quando vedrai questo loro stato d'animo, incalza, premi, coprili di esortazioni, lasciando da parte le ambiguità, i sillogismi, i cavilli e gli altri giochi di sottigliezze inutili. Parla contro l'avarizia, parla contro la dissolutezza; quando ti renderai conto di aver guadagnato terreno e di aver colpito l'animo degli ascoltatori, incalza con più energia: è straordinaria l'efficacia di questo tipo di eloquenza tesa a risanare e interamente volta al bene di chi ascolta. È facilissimo indirizzare all'amore dell'onestà e della virtù l'animo dei giovani: sono ancora plasmabili e incorrotti, e la verità, se trova un buon avvocato, se ne impadronisce facilmente. 13 Io, almeno, quando ascoltavo Attalo fustigare i vizi, le aberrazioni, i mali della vita, ho spesso provato compassione dell'umanità e l'ho giudicato un'anima nobile e superiore a ogni grandezza terrena. Diceva di essere un re, ma a me sembrava superiore, poiché i re li poteva censurare. 14 Quando poi cominciava a lodare la povertà e a dimostrare come tutto ciò che eccede il bisogno è un peso superfluo e pesante a reggersi, tante volte avrei voluto uscire povero dalla scuola. Quando cominciava a schernire i piaceri, a lodare la castità, la frugalità, la purezza di un'anima aliena non solo dai piaceri illeciti, ma anche da quelli superflui, avrei voluto limitare la mia gola e il mio ventre. 15 Di questi insegnamenti qualcosa mi è rimasto, Lucilio mio; avevo cominciato tutto con grande slancio; poi, ritornato alla vita della città, ho mantenuto pochi dei miei buoni propositi. Da allora ho rinunciato per tutta la vita alle ostriche e ai funghi: non sono cibi, ma leccornie che fanno mangiare anche quando si è sazi (cosa graditissima agli ingordi e a chi si rimpinza oltre misura), vanno giù con facilità, con facilità si vomitano. 16 Da allora per tutta la vita non ho usato profumi, perché il miglior odore sul corpo è non averne nessuno; da allora non ho più bevuto vino. Da allora ho sempre evitato i bagni caldi: ritengo inutile e insieme segno di mollezza far cuocere il corpo ed esaurirlo col sudore. Le altre abitudini che avevo eliminato sono ritornate; non ho mantenuto l'astinenza totale, ma ho conservato una misura molto vicina all'astinenza, forse più difficile, poiché certe consuetudini è più facile troncarle che moderarle.

17 Visto che ho cominciato a raccontarti come da giovane mi sono accostato alla filosofia con uno slancio maggiore di quello con cui continuo da vecchio, non mi vergognerò di confessarti il mio amore per la filosofia pitagorica. Sozione spiegava perché Pitagora si era astenuto, dal mangiar carne e perché in sèguito se ne era astenuto Sestio. Le loro motivazioni erano diverse, ma entrambe nobili. 18 Secondo Sestio l'uomo dispone di una quantità sufficiente di alimenti senza che versi sangue e inoltre, quando si straziano dei corpi per il proprio piacere, si crea un'abitudine alla crudeltà. Aggiungeva poi che dobbiamo ridurre i motivi di dissolutezza; e concludeva che la varietà di alimenti è dannosa alla salute e nociva al nostro corpo. 19 Pitagora, invece, sosteneva l'esistenza di una parentela di tutti gli esseri fra loro e la trasmigrazione delle anime da una forma di vita all'altra. Nessun'anima, secondo lui, muore o rimane inerte, se non nell'attimo in cui passa in un altro corpo. Vedremo in sèguito attraverso quali avvicendamenti e quando, dopo aver cambiato più dimore, l'anima ritorni in un uomo: diciamo intanto che egli ha fatto nascere negli uomini la paura di un delitto e di un parricidio, data la possibilità d'imbattersi, senza saperlo, nell'anima di un genitore, e di oltraggiarla scannando o mangiando un essere in cui alberga lo spirito di qualche congiunto. 20 Sozione mi espose queste teorie e vi aggiunse argomentazioni sue proprie, poi mi chiese: "Non credi che le anime siano assegnate successivamente a corpi diversi e che quella che chiamiamo morte sia solo un trapasso? Non credi che negli animali domestici o feroci o acquatici possa esserci l'anima che un tempo fu di un uomo? Non credi che nulla finisca in questo mondo, ma muti unicamente sede? Che non solo i corpi celesti percorrano un cammino prefissato, ma anche gli esseri animati abbiano i loro cicli e che le anime seguano una loro orbita? 21 Grandi uomini hanno creduto a queste teorie. Astieniti perciò da un giudizio e lascia tutto in sospeso. Se queste teorie sono vere, l'astinenza dalle carni ci rende immuni da colpe; se sono false, ci rende frugali. Che danno te ne deriva a crederci? Ti impedisco di nutrirti come i leoni e gli avvoltoi." 22 Stimolato da questi discorsi, cominciai ad astenermi dalle carni: dopo un anno era diventata per me un'abitudine non solo facile, ma anche piacevole. Avevo la sensazione che il mio spirito fosse più vivace, ma oggi non potrei dirti con sicurezza se lo fosse veramente. Vuoi sapere come ho abbandonato questa pratica? La mia giovinezza coincise con i primi anni del regno di Tiberio: i culti stranieri erano allora messi al bando e l'astinenza dalle carni di certi animali era considerata una prova di pratiche superstiziose. Per le preghiere di mio padre, che non temeva le false accuse, ma odiava la ffldsofia, ritornai alle vecchie abitudini; egli mi convinse senza difficoltà a mangiare meglio. 23 Attalo, poi, raccomandava di dormire su un materasso duro: e io anche ora, da vecchio, ne uso uno su cui non rimane il segno del corpo.

Ti ho raccontato questo per dimostrarti come siano impetuosi da principio gli slanci dei novizi verso tutte le virtù, se qualcuno li stimola e li sprona. Ma qualche errore si commette per colpa dei maestri che ci insegnano a discutere, non a vivere, qualche altro per colpa dei discepoli che frequentano le scuole non col proposito di esercitare lo spirito, ma l'ingegno. Così quella che fu filosofia è diventata filologia. 24 È molto importante, però, il proposito con cui ci si accosta a una qualunque materia. Se uno studia Virgilio come grammatico, non legge quello straordinario verso:

Fugge inesorabile il tempo

con questo spirito: "Bisogna stare all'erta; se non ci affrettiamo, rimarremo indietro; i giorni ci incalzano e si incalzano veloci; siamo trascinati via e non ce ne rendiamo conto; rimettiamo tutto al futuro e indugiamo mentre ogni cosa precipita": nota, invece, come ogni volta che parla della celerità del tempo, Virgilio usa questo verbo: "fugge".

I giorni migliori della vita sfuggono per primi ai miseri mortali; sopraggiungono le malattie la triste vecchiaia la sofferenza, e ci trascina via la morte spietata e crudele.

 

25 Chi ha di mira la filosofia, interpreta questi stessi versi nella maniera dovuta. "Virgilio," osserva, "non dice mai che i giorni passano, ma che fuggono, verbo che indica il modo più rapido di correre, e che i giorni migliori ci vengono strappati per primi: perché dunque non ci incitiamo a uguagliare la rapidità di una cosa tanto veloce? Il meglio svanisce, subentra il peggio." 26 Come da un'anfora fuoriesce prima il vino più schietto, mentre il più pesante e torbido sedimenta, così della nostra esistenza la parte migliore è la prima. E noi lasciamo che altri l'attingano e ce ne riserviamo la feccia? Imprimiamoci nell'anima questi versi e consideriamoli quasi il responso di un oracolo:

I giorni migliori della vita sfuggono per primi al miseri mortali.

 

27 Perché i migliori? Perché quanto rimane è incerto. Perché i migliori? Perché da giovani possiamo imparare, possiamo indirizzare al meglio l'anima ancora docile e duttile; perché questo periodo è adatto alle fatiche, adatto a stimolare la mente con gli studi e a esercitare il corpo con il lavoro: negli anni che ci rimangono siamo più deboli e fiacchi e più vicini alla fine. Perseguiamo perciò un unico scopo con tutta l'anima e, tralasciato ogni motivo di distrazione, diamoci da fare solo a questo fine: che non ci si debba accorgere, quando ormai siamo rimasti indietro, di questa rovinosissima e irrefrenabile velocità del tempo. Apprezziamo i nostri primi giorni come i migliori e traiamone profitto. Impadroniamoci del tempo che fugge. 28Se uno legge questi versi con gli occhi dell'erudito non pensa che i primi giorni siano i migliori perché poi subentrano le malattie, la vecchiaia incalza e sovrasta gli uomini quando ancòra pensano all'adolescenza, ma nota come Virgilio colleghi sempre malattie e vecchiaia, e a ragione: la vecchiaia è una malattia inguaribile. 29"Inoltre" egli aggiunge "Virgilio dà alla vecchiaia questo attributo, la chiama 'triste':

subentrano le malattie e la triste vecchiaia.

In un altro passo scrive:

vi abitano le pallide Malattie e la triste Vecchiaia."

Non c'è da meravigliarsi che dalla stessa materia ciascuno ricavi argomenti convenienti ai suoi studi: in uno stesso prato il bue cerca l'erba, il cane la lepre, la cicogna le lucertole.

30Quando un fdologo, un grammatico e un filosofo prendono in mano il De re publica di Cicerone, ciascuno rivolge la sua attenzione a elementi diversi. Il filosofo si meraviglia che si sia potuto parlare tanto contro la giustizia. Se alla stessa lettura si dedica invece il filologo, nota che ci sono due re di Roma di cui non si conosce dell'uno a padre, dell'altro la madre. Infatti non si sa con certezza chi fu la madre di Servio, di Anco non si menziona il padre: viene indicato come nipote di Numa. 31 Osserva inoltre che fi magistrato che noi chiamiamo dittatore e che nei libri di storia viene così nominato, gli antichi lo chiamavano "maestro del popolo". E oggi questo risulta evidente dal libro degli àuguri, e lo prova il fatto che la persona nominata dal dittatore è il "maestro della cavalleria". Analogamente osserva che Romolo morì durante un'eclissi di sole; che ci si poteva appellare al popolo anche contro le sentenze dei re; così risulterebbe dai libri dei pontefici secondo Fenestella e altri studiosi. 32 Se è il grammatico a fare l'esegesi dei medesimi libri, annota sùbito che Cicerone scrive reapse cioè re ipsa e sepse cioè se ipse. Poi passa a quelle espressioni che sono cambiate nel tempo, come in quel passo di Cicerone

poiché la sua interruzione ci ha riportati indietro dalla calce.

La meta nel circo che ora chiamiamo creta, un tempo si chiamava calx. 33 Quindi raccoglie i versi di Ennio, e soprattutto quelli sull'Africano:

cui nessun concittadino o nemico potrà reddere opis pretium per le sue imprese.

Egli ne deduce che in passato ops significava non solo 'aiuto', ma anche 'opera'. Ennio, infatti, vuol dire che nessun concittadino o nemico poté compensare l'opera di Scipione. 34 Si riterrà poi felice per aver trovato il modello di Virgilio:

e sopra di lui tuona l'immensa porta del cielo.

Dirà che Ennio l'ha preso da Omero, e Virgilio da Ennio; poiché in Cicerone, negli stessi libri del De re publica, si trova questo epigramma di Ennio:

se è lecito a un uomo salire alle regioni celesti, per me solo si apre l'immensa porta del cielo.

 

35 Ma per non finire anch'io, che ho ben altri intenti, tra i filologi e i grammatici, ti ricordo che i filosofi vanno ascoltati o letti avendo di mira la felicità e non per cogliere gli arcaismi o i neologismi, le metafore insensate e le figure retoriche, bensì i precetti utili, le massime nobili e coraggiose da mettere sùbito in pratica. Assimiliamo questi insegnamenti in modo che le parole si traducano in opere. 36 Da parte mia non giudico nessuno più dannoso all'umanità di quegli uomini che hanno imparato la filosofia come un'arte per arricchirsi e vivono in contrasto con i loro insegnamenti. Diventano loro stessi esempio di una disciplina inutile, schiavi come sono di tutti i vizi che condannano. 37 Un simile maestro mi è utile quanto un timoniere che vomita in piena tempesta. Bisogna tener saldo il timone contro la violenza delle onde, lottare col mare, sottrarre le vele alla furia del vento: come può essermi di aiuto un timoniere stordito e in preda al vomito? Non pensi che la nostra vita sia sconvolta da tempeste più violente che una nave? C'è bisogno di una guida sicura, non di parole. 38 Tutti i princìpî che espongono, che vanno ripetendo alla folla in ascolto, sono di altri: di Platone, Zenone, Crisippo, Posidonio e di un vasto gruppo di tanti insigni filosofi. Ecco come possono dimostrare che questi princìpî sono i loro: agiscano come parlano.

39 Ti ho ormai detto quanto volevo; soddisfarò ora il tuo desiderio e ti scriverò tutte le spiegazioni che hai richiesto, ma in un'altra lettera: non voglio che affronti stanco una questione spinosa che va ascoltata con molta attenzione. Stammi bene.

 

109

1 Tu vuoi sapere se un saggio può essere utile a un altro saggio. Noi diciamo che il saggio ha in sé ogni bene e ha raggiunto la perfezione: come può dunque qualcuno essere utile a chi possiede il sommo bene? Eppure i buoni si giovano vicendevolmente, poiché praticano le virtù e mantengono costante la loro saggezza; ognuno di loro sente il bisogno di un altro con cui comunicare, con cui discutere. 2 I lottatori esperti si tengono in esercizio con combattimenti continui; il musicista viene stimolato da un collega abile quanto lui. Anche il saggio deve esercitare le sue virtù; e come è di sprone a se stesso, così è spronato da un altro saggio. 3 Come potrà un saggio essere utile a un altro saggio? Gli darà slancio, gli indicherà le occasioni per agire virtuosamente. Gli manifesterà inoltre certi suoi pensieri; gli comunicherà le sue scoperte, poiché anche al saggio rimarrà sempre qualcosa da scoprire e in cui il suo spirito possa spaziare. 4 Il malvagio nuoce al malvagio, lo rende peggiore eccitandone l'ira, secondandone la durezza, approvandone i piaceri; i malvagi si trovano a mal partito soprattutto quando uniscono i loro vizi e la loro cattiveria forma un tutt'uno. Quindi all'opposto il buono sarà utile al buono. 5 "Come?" tu chiedi. Gli porterà gioia, consoliderà il suo coraggio. Alla vista della reciproca serenità, crescerà in entrambi la contentezza. Gli trasmetterà inoltre la conoscenza di certe nozioni: il saggio non conosce tutto, e quand'anche conoscesse tutto, qualcun altro potrebbe escogitare e indicargli vie più brevi per divulgare più facilmente tutta la sua opera. 6 Il saggio sarà utile al saggio, non soltanto con le proprie forze, ma anche con quelle di chi viene aiutato. Certamente anche se è lasciato a se stesso il saggio può svolgere i propri compiti: lo farà procedendo alla sua velocità; anche un corridore, però, è aiutato da uno che lo sprona.

"Il saggio non giova al saggio, ma a se stesso. Ne vuoi una prova? Sottraigli la forza e non potrà fare più nulla." 7 Con questo criterio potresti dire che il miele non è dolce; infatti, se chi deve mangiarlo non ha lingua e palato conformati in modo da apprezzare un sapore simile, ne rimarrà nauseato; ci sono certe persone che per una malattia sentono amaro il miele. I saggi devono essere entrambi in pieno vigore, cosi che l'uno sia in grado di giovare, e l'altro gli offra materia adatta.

8 "Ma," si ribatte, "come è inutile riscaldare un corpo che ha raggiunto il massimo calore, così è inutile dare aiuto a chi ha raggiunto il sommo bene. L'agricoltore fornito di tutti gli attrezzi chiede forse di riceverne da un altro? Un soldato armato sufficientemente per scendere in campo, sente forse il bisogno di altre armi? Quindi neppure il saggio: ha attrezzi e armi sufficienti per affrontare la vita." 9 Rispondo: anche un corpo che ha raggiunto il massimo calore ha bisogno di calore aggiuntivo per mantenere costante la temperatura. "Ma," si obietta, "il calore si conserva da sé." Prima di tutto c'è una grande differenza tra gli elementi del confronto: il calore è unico, l'aiuto vario. E poi, perché il calore sia tale, non serve un'aggiunta di calore: il saggio invece non può mantenere il suo stato spirituale se non si crea amici simili a lui da rendere partecipi delle proprie virtù. 10 Tutte le virtù sono, inoltre, in amicizia tra loro; perciò giova chi ama le virtù di qualcuno a lui simile e gli offre a sua volta virtù da amare. Le somiglianze sono gradite, soprattutto quando si tratta di persone oneste che sanno apprezzare e farsi apprezzare. 11 E poi nessun altro, se non il saggio, può influire con perizia sull'animo del saggio, come solo l'uomo può influire razionalmente sull'uomo. Per influire sulla ragione, occorre dunque la ragione, così per influire su una ragione perfetta occorre una ragione perfetta. 12 Generalmente si definiscono utili persone che ci elargiscono beni indifferenti: denaro, favori, incolumità e altri ancòra graditi o necessari ai bisogni della vita; in questo, si dirà, anche lo stolto può essere utile al saggio. Ma essere utili, significa indirizzare un'aníma secondo natura con la propria virtù. Ciò si tradurrà in un bene sia dell'oggetto che del soggetto di questa azione perché chi esercita la virtù altrui necessariamente esercita anche la propria. 13 Ma pur lasciando da parte i beni sommi o le loro cause, i saggi possono lo stesso giovarsi a vicenda. Per il saggio, infatti, trovare un altro saggio è di per sé desiderabde, poiché per natura ogni bene è caro a chi è buono e così ognuno va d'accordo con chi è buono come con se stesso.

14 L'argomento richiede che da questo problema io passi a un altro. Si discute se il saggio debba decidere da solo o domandare consiglio ad altri. Questo deve farlo quando si tratta di questioni civili, familiari e, per così dire, mortali; per esse ha bisogno di essere consigliato come ha bisogno del medico, del timoniere, dell'avvocato, del giudice. Talvolta il saggio sarà, dunque, utile al saggio consigliandolo. Ma anche nei problemi grandi e riguardanti il divino, come si è detto, gli potrà essere utile nel compiere insieme il bene, in comunione di anime e di pensieri. 15 Inoltre è secondo natura sia essere uniti agli amici, sia rallegrarsi dei loro progressi come dei propri; se non agiremo così, non manterremo viva in noi la virtù che trae la sua forza dall'esercizio del pensiero. La virtù ci esorta a disporre bene il presente, a provvedere per il futuro, a meditare e a elevare l'anima; questa elevazione e questo sviluppo spirituale saranno più facili per chi si sarà preso un compagno. Cercherà pertanto o un uomo perfetto o in via di progredire e vicino alla perfezione. E quest'uomo perfetto sarà utile se alle decisioni darà l'apporto della comune saggezza. 16 Si dice che gli uomini vedano più chiaro nelle faccende altrui [...]. Questo accade a chi è accecato dall'amore di sé, oppure a chi nei pericoli si lascia prendere dal panico e perde di vista ciò che è utile: incomincerà a mostrarsi assennato quando è ormai tranquillo e libero dalla paura. Ci sono, tuttavia, faccende in cui anche i saggi vedono con più chiarezza per gli altri che per se stessi. Il saggio inoltre offrirà al saggio quel "volere e non volere le stesse cose", così ricco di dolcezza e di virtù, e insieme sotto lo stesso giogo compiranno la loro nobile opera.

17 Ho pagato il mio debito come chiedevi, sebbene tutto questo si trovasse tra gli argomenti trattati nei miei libri di filosofia morale. Rifletti su quello che spesso ti ripeto: con simili questioni noi esercitiamo solo la nostra intelligenza. Tante volte torno a chiedermi: a che mi serve questo genere di speculazioni? Rendimi, invece, più forte, più giusto, più temperante. Non ho tempo per questi esercizi mentali: ho ancora bisogno del medico. 18 Perché mi è richiesta una conoscenza inutile? Mi sono state fatte grandi promesse: che vengano mantenute! Mi dicevi che sarei rimasto imperterrito anche in mezzo al balenare delle spade, anche col pugnale alla gola; che non avrei avuto paura neanche tra il divampare di un incendio, neanche se un'improvvisa tempesta avesse trascinato la mia nave per tutti i mari: aiutami a disprezzare il piacere, a disprezzare la gloria. Mi insegnerai dopo a sciogliere i nodi, a distinguere le ambiguità, a capire concetti oscuri: per ora insegnami quello che è necessario. Stammi bene.

 

LIBRO DICIANNOVESIMO

 

 

110

1 Ti mando un saluto dalla mia villa di Nomento e ti esorto a mantenere un'anima onesta, ossia ad avere propizi tutti gli dèi: essi sono benigni con chi è in pace con se stesso e lo favoriscono. Metti da parte per ora ciò che credono alcuni: che ciascuno di noi abbia un dio come guida, non uno dei maggiori; ma una divinità di grado inferiore, tra quelle che Ovidio definisce "divinità plebee". Metti da parte queste credenze, ma ricorda che i nostri antenati che le seguivano erano Stoici; essi attribuivano ad ogni uomo un Genio e una Giunone. 2 Vedremo in seguito se gli dèi hanno il tempo di occuparsi dei nostri affari privati; intanto sappi questo: sia che siamo assegnati a una divinità, sia che siamo abbandonati a noi stessi e dati in balia della sorte, non puoi mandare a nessuno una maledizione più grave che quella di non essere in pace con se stesso. Ma, se per te uno merita una punizione, non c'è motivo di desiderare che abbia nemici gli dèi: li ha nemici, io dico, anche se apparentemente è accompagnato dal loro favore. 3 Fai attenzione e guarda alla realtà delle nostre cose, non al loro nome; ti renderai conto che i mali, in gran parte, arrivano a proposito, e non ci càpitano per caso. Quante volte quella che consideravamo una disgrazia è stata causa e principio di prosperità! Quante volte un avvenimento accolto con grande gioia è stato il primo passo verso la rovina e ha innalzato ancòra di più uno che già stava in alto, quasi che la sua posizione gli consentisse ancora di salvarsi da una caduta. 4 Ma anche una caduta in se stessa non è un male se guardi al termine ultimo oltre il quale la natura non ha mai abbattuto nessuno. È vicina la fine di tutto; è vicina, ti dico, sia la fine di quella prosperità da cui viene cacciato chi è felice, sia di quelle disgrazie da cui è liberato l'infelice: noi le prolunghiamo entrambe e le protraiamo con la speranza o con il timore. Ma, se sei saggio, misura tutto in base alla condizione umana; abbrevia le tue gioie e i tuoi timori. Vale la pena non godere a lungo di niente per non temere niente a lungo.

5 Ma perché voglio ridurre questo male? Non c'è cosa che tu debba giudicare terribile: sono vane le paure che ci turbano, che ci lasciano attoniti. Nessuno di noi ha controllato che cosa ci fosse di vero, ma la paura l'uno l'ha trasmessa all'altro; nessuno ha osato accostarsi a ciò che lo turbava per conoscere la natura del suo timore e quel che c'è in esso di bene. Perciò una visione falsa e vana trova credito perché non ne è stata dimostrata l'infondatezza. 6 Val la pena aguzzare la vista: vedremo sùbito come siano brevi, incerte e senza pericolo le cose che temiamo. La confusione del nostro animo è proprio quale la giudicò Lucrezio:

Come i fanciulli trepidano e tutto temono nell'oscurità delle tenebre, così noi temiamo in piena luce.

E allora? Non siamo più insensati di un fanciullo, noi che abbiamo paura in piena luce? 7 Ma non è così, Lucrezio mio, non abbiamo paura in piena luce: ci siamo circondati di tenebre. Non vediamo niente, né utilità, né danno, per tutta la vita urtiamo contro degli ostacoli, ma non per questo ci fermiamo o avanziamo con più circospezione. Ti rendi conto che è da pazzi correre nelle tenebre! Ma, perbacco, in questo modo dobbiamo poi essere richiamati da più lontano e, pur ignorando dove siamo diretti, continuiamo a tutta velocità nella direzione intrapresa. 8 Eppure, se volessimo, potrebbe risplendere la luce. E c'è un'unica maniera: avere conoscenza delle cose umane e divine, ma deve essere una conoscenza profonda, non superficiale: per quanto si sappiano, le cose bisogna riesaminarle e riferirle a se stessi di frequente, bisogna chiedersi che cosa sia il bene, quale cosa sia il male, al di là delle false definizioni, indagare sull'onestà e l'abiezione, sulla provvidenza. 9 Ma la penetrante intelligenza umana non si ferma a questi problemi: vuole guardare anche al di là del mondo, comprendere la sua meta, la sua origine, e verso quale fine si diriga così velocemente l'universo. Abbiamo distolto l'animo dalla contemplazione del divino per trascinarlo a cose meschine e spregevoli al servizio della nostra avidità, perché, dimentico del mondo, dei suoi confini, dei signori che regolano ogni cosa, scavi la terra e cerchi di tirarne fuori altri mali, non contento di quelli che già ha davanti. 10 Tutto quanto poteva esserci utile, dio, nostro padre, ce lo ha messo vicino; non ha aspettato che noi lo cercassimo, ce lo ha dato spontaneamente: le cose nocive, invece, le ha nascoste nelle viscere della terra. Possiamo lagnarci solo di noi stessi: abbiamo portato alla luce le cause della nostra rovina, facendo violenza alla natura che ce le nascondeva. Abbiamo assoggettato l'anima al piacere, e indulgervi è l'inizio di tutti i mali; l'abbiamo consegnata all'ambizione, alla sete di gloria, e ad altre aspirazioni ugualmente vane e futili.

11 Che cosa ti consiglio allora? Niente di nuovo, non stiamo cercando rimedi per mali nuovi. Ma una cosa soprattutto ti consiglio: cerca di capire cos'è necessario e che cosa è superfluo. Il necessario ti si offrirà spontaneamente dappertutto, il superfluo dovrai cercarlo sempre con grandi sforzi. 12 Non devi compiacerti troppo per aver disprezzato letti d'oro e suppellettili ornate di pietre preziose; che virtù c'è a disprezzare il superfluo? Potrai avere ammirazione per te stesso solo quando disprezzerai il necessario. Non fai una gran cosa se puoi vivere senza una magnificenza regale, se non senti il bisogno di cinghiali enormi o di lingue di fenicottero e altre straordinarie trovate di un lusso che ha ormai a nausea gli animali interi e di ognuno sceglie determinate parti: avrai la mia ammirazione se disprezzerai anche il pane nero, se ti convincerai che l'erba, in caso di necessità, spunta non solo per le bestie, ma anche per l'uomo, se capirai che il nostro ventre possono saziarlo i germogli delle piante, e invece vi ammassiamo cibi pregiati come se potesse conservare quello che riceve. Va riempito senza fare gli schizzinosi: cosa importa che alimento riceve, se va tutto perso? 13 Ti piace vedere in tavola animali marini e terrestri: gli uni sono più graditi se arrivano freschi sulla tavola, gli altri se, nutriti a lungo e ingrassati a forza, grondano grasso e sembra quasi che scoppino; ti piace la loro squisitezza ottenuta ad arte. Ma perbacco, queste pietanze procurate con enorme fatica e preparate in tanti modi diversi, quando finiranno nello stomaco, diventeranno un unico ammasso ripugnante. Vuoi disprezzare il piacere del cibo? Guarda che fine fa.

14 Ricordo che Attalo diceva tra l'ammirazione generale: "Le ricchezze mi hanno ingannato a lungo. Rimanevo colpito quando le vedevo splendere qua e là: pensavo che la sostanza fosse simile all'apparenza. Ma in occasione di una solennità vidi tutti i tesori di Roma, oggetti cesellati in oro e argento e con pietre più preziose dell'oro e dell'argento, colori raffinati e vesti arrivate da terre al di là non solo dei nostri confini, ma anche dei confini dei nemici; da una parte uno stuolo di giovani schiavi di rara bellezza ed eleganza, dall'altra di schiave, e altri beni, che la fortuna dell'impero più potente del mondo aveva esposto passando in rassegna le sue ricchezze. 15 Cos'è questo," mi chiedo, "se non stimolare la cupidigia degli uomini già di per sé eccitata? Che fine ha questa parata di ricchezza? Siamo venuti qui per imparare l'avidità?" E invece, perbacco, me ne vado meno avido di quando sono venuto. Disprezzo la ricchezza non perché è superflua, ma perché è cosa di poco conto. 16 Hai visto? Quel corteo, sebbene procedesse lento e ordinato, è sfilato in poche ore. E allora dovrà occupare tutta la nostra vita una cosa che non ha potuto occupare un giorno intero? E per giunta queste ricchezze mi sono sembrate superflue per i possessori come lo sono state per gli spettatori. 17 Perciò ogni volta che qualcosa di simile mi abbaglia, ogni volta che mi trovo davanti a una casa sontuosa o a un elegante stuolo di schiavi o a una lettiga sostenuta da servi di bell'aspetto, dico a me stesso: "Perché guardi ammirato? Perché rimani sbalordito? È uno sfoggio. Queste ricchezze sono messe in mostra, non sono veramente possedute; piacciono e già passano." 18 Volgiti piuttosto alla vera ricchezza; impara ad essere contento di poco e grida con forza ed entusiasmo: abbiamo acqua, abbiamo polenta; gareggiamo in felicità con Giove stesso. Ma, ti prego, gareggiamo con lui anche se ci mancano entrambe; è vergognoso riporre la felicità nell'oro e nell'argento, ma è ugualmente vergognoso riporla nell'acqua e nella polenta. 19 "Che farò, dunque, se mi mancheranno anche questi cibi?" Chiedi qual è il rimedio all'indigenza? La fame mette fine alla fame: altrimenti che differenza c'è se a ridurti in schiavitù sono beni grandi o piccoli? Che importa quanto poco sia ciò che la sorte ti può negare? 20 Anche acqua e polenta dipendono dalla volontà altrui: è veramente libero non l'uomo contro cui la fortuna ha poco potere, bensì quello contro cui non può nulla. È così: non devi aver bisogno di niente se vuoi competere con Giove che non ha bisogno di niente."

Questo è quanto ci ha detto Attalo, questo quanto la natura ha detto a tutti gli uomini; e se vi rifletterai spesso, otterrai di essere felice, non di sembrarlo, e di sembrarlo a te stesso, non agli altri. Stammi bene.

 

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1 Tu vuoi sapere come si chiamino in latino i sophismata. Si è spesso tentato di trovare un sostantivo adatto, ma nessuno ha attecchito; evidentemente, poiché non era da noi recepito il concetto e non era nell'uso comune, si è respinto anche il termine.

Tuttavia il sostantivo più adatto mi sembra quello usato da Cicerone: cavillationes. 2 Chi vi si dedica, tesse questioncelle davvero acute, che non servono, però a vivere: non diventa più forte o più temperante o più nobile. Se uno, invece, esercita la filosofia per migliorarsi, diventa magnanimo, pieno di fiducia, e appare insuperabile e superiore a chi gli si accosta. 3 Capita così con le alte montagne: a guardarle da lontano sembrano più basse, ma avvicinandosi si vede quanto siano elevate le loro cime. Così è, Lucilio mio, il vero filosofo: tale a fatti, non con raggiri. Sta in alto, degno di ammirazione, fiero, veramente grande; non si alza sulla pianta dei piedi, non cammina sulle punte come le persone che cercano di aumentare con l'inganno la loro statura e vogliono sembrare più alte di quanto non siano; è contento della sua altezza. 4 E perché non dovrebbe essere contento di essere cresciuto fino al punto in cui la fortuna non può raggiungerlo? È, dunque, al di sopra delle vicende umane, uguale a se stesso in ogni situazione, sia che il corso della vita proceda favorevole, sia che ondeggi e avanzi tra avversità e ostacoli: i cavilli, di cui si parlava poco prima, non possono darci questa fermezza. Con essi l'anima gioca, non progredisce, e trascina la filosofia giù dalla sua altezza in basso. 5 Non è che ti proibisca di dedicarti talvolta a questi cavilli, ma solo quando non vorrai fare nulla. Hanno, però questo di veramente dannoso: procurano un certo diletto, trattengono e fanno indugiare l'animo con la loro apparente sottigliezza, mentre lo aspetta una massa di problemi, e la vita intera non basta a imparare una sola cosa: il disprezzo della vita. "E per governarla?" chiedi. Questo lo imparerai in un secondo momento; la vita nessuno può governarla bene, se prima non la disprezza. Stammi bene.

 

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1 Per dio, certamente vorrei che il tuo amico si potesse formare ed educare come vuoi tu, ma l'hai trovato già molto indurito, anzi, ed è più grave, proprio imbelle e infiacchito da cattive abitudini di vecchia data. 2 Voglio farti un esempio, preso dalla mia attività agricola. Non tutte le viti sopportano l'innesto: se la pianta è vecchia e corrosa, se è malata e fragile, o non riceverà la marza o non riuscirà a nutrirla, e non si verificherà l'unione e il passaggio di natura e di qualità. Perciò di solito si taglia la vite al livello del terreno, così che, se l'innesto non riesce, si possa tentare la sorte un'altra volta e ripetere l'operazione sotto terra. 3 La persona di cui scrivi e che raccomandi non ha forza: ha secondato troppo i vizi. È marcito e si è indurito nello stesso tempo; non può accogliere in sé la ragione, né può nutrirla. "Ma è lui stesso a desiderarlo." Non crederci. Non dico che voglia mentirti: è convinto di volerlo. La sua dissolutezza gli è venuta a nausea: ma presto vi si riconcilierà. 4 "Ma afferma di essere disgustato dalla sua vita." Non dico di no; e chi non ne proverebbe disgusto? Gli uomini amano e insieme odiano i loro vizi. Lo giudicheremo pertanto quando ci dimostrerà con certezza che detesta quella vita corrotta: al momento è solo in disaccordo. Stammi bene.

 

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1 Vuoi che ti scriva il mio parere sulla questione di cui abbiamo discusso: se la giustizia, la fortezza, la prudenza e le altre virtù siano animali. Con queste sottigliezze, carissimo Lucilio, diamo l'impressione di esercitare la mente in questioni vane e di perdere tempo in discussioni inutili. Farò tuttavia, come vuoi e ti esporrò il parere dei filosofi stoici; ma ti confesso di avere un'opinione diversa: secondo me ci sono problemi più convenienti a chi veste con calzari bianchi e pallio. Ti esporrò dunque, le questioni che hanno interessato gli antichi filosofi o meglio, le questioni di cui essi si sono interessati.

2 Si sa che l'anima è animale, poiché ci rende esseri animati, e gli esseri animati hanno derivato da lei questo nome; la virtù non è niente altro che un certo stato dell'anima: quindi è animale. Inoltre, la virtù agisce; ma non si può mai agire senza slancio: se ha slancio, che è una prerogativa degli animali, è animale. 3 "Se la virtù è animale," si ribatte, "ha in sé la virtù." E perché non dovrebbe possedere se stessa? Il saggio agisce sempre attraverso la virtù, allo stesso modo la virtù agisce attraverso se stessa. "Quindi," continuano, "anche tutte le arti sono animali e tutti i nostri pensieri e tutto quello che abbracciamo con la mente. Ne consegue che nello spazio ristretto del nostro petto abitano molte migliaia di animali, e ciascuno di noi è formato da molti animali oppure abbiamo in noi molti animali." Vuoi sapere che cosa si può controbattere? Ciascuna di queste cose sarà un animale, ma non ci saranno molti animali. Perché? Te lo dirò se mi dedicherai tutta la tua attenzione e l'acume della tua intelligenza. 4 I singoli animali devono avere ciascuno una propria essenza; tutte queste cose, invece, hanno una sola anima; perciò possono esistere singolarmente, ma non possono essere molte. Io sono uomo e animale, e tuttavia non potresti dire che siamo in due. Perché? Perché devono essere due elementi distinti. Per essere due, ti dico, l'uno deve essere separato dall'altro. Tutto ciò che è molteplice in un unico essere, fa parte di un'unica natura; perciò è uno. 5 La mia anima è un animale, io sono un animale e tuttavia non siamo due esseri. Perché? Perché l'anima è parte di me stesso. Una cosa conta per se stessa, quando sussiste di per sé; fino a quando sarà parte di un altro essere, non potrà esserne distinta. Perché? Te lo spiego: perché un essere distinto deve appartenere totalmente a sé, avere caratteristiche proprie ed essere completo e compiuto in se stesso.

6 Ho già detto che la penso diversamente; infatti, se si accetta questa teoria, non saranno animali solo le virtù, ma anche i vizi a esse contrari, e le passioni, come l'ira, la paura, il cordoglio, il sospetto. Ma si può andare oltre: saranno animali tutte le idee, tutti i pensieri. Ma questo è assolutamente inaccettabile: non tutto ciò che è fatto dall'uomo è uomo. 7 "La giustizia cos'è?" si chiede. Una condizione dell'anima. "Perciò se l'anima è un animale, lo è anche la giustizia." Niente affatto; è un modo di essere dell'anima e una forza. L'anima stessa assume vari aspetti, ma non diventa un animale diverso tutte le volte che agisce in modo diverso; e neppure quello che viene fatto dall'anima è animale. 8 Se la giustizia è un animale, se lo sono la fortezza e le altre virtù, esse cessano di essere animali di volta in volta e ricominciano ad esserlo, oppure lo sono sempre? Le virtù non possono finire. Quindi, nell'anima si trovano molti, anzi innumerevoli animali. 9 "Non sono molti," si ribatte, "poiché sono legati a un unico essere e ne sono parti e membra." Ci immaginiamo, dunque, l'anima simile all'Idra dalle molte teste, di cui ognuna combatte e fa del male da sola. Eppure nessuna di quelle teste è animale, ma una testa di animale: l'Idra stessa è un solo animale. Nessuno ha mai detto che nella Chimera il leone o il drago fossero animali: entrambi ne erano parte e le parti non sono animali. 10 Come arrivi dunque alla conclusione che la giustizia è un animale? "Agisce," si risponde, "ed è utile; ciò che agisce ed è utile ha uno slancio; e ciò che ha uno slancio è un animale." Questo è vero, se ha un proprio slancio; ma lo slancio non è della giustizia, bensì dell'anima. 11 Ogni animale è lo stesso dalla nascita alla morte: l'uomo è uomo fino alla morte, il cavallo cavallo, il cane cane; non può diventare un altro. La giustizia, cioè l'anima che si trova in un determinato stato, è un animale. Ammettiamolo pure: allora è un animale anche la fortezza, cioè l'anima che si trova in un determinato stato. E quale anima? Quella che prima era giustizia? Ma è prigioniera nell'animale precedente e non può passare in un altro; deve continuare in quell'animale in cui ha cominciato a esistere. 12 Inoltre, una sola anima non può essere di due animali, e tanto meno di più animali. Se la giustizia, la fortezza, la temperanza e le altre virtù sono animali, come avranno un'unica anima? Ciascuno deve avere la sua, oppure non sono animali. 13 Un solo corpo non può essere di più animali. Questo lo ammettono anche loro stessi. Qual è il corpo della giustizia? "L'anima." E il corpo del coraggio? "La medesima anima." Ma un solo corpo non può appartenere a due animali. 14 "È la stessa anima," ribattono, "che prende l'aspetto della giustizia, della fortezza, della temperanza." Questo potrebbe verificarsi se, nel momento in cui l'anima è giustizia, non fosse coraggio, e, quando è fortezza, non fosse temperanza: in realtà tutte le virtù esistono contemporaneamente. Allora come potranno essere animali le singole virtù, se l'anima è una sola e non può formare più di un solo animale? 15 Infine, nessun animale è parte di un altro animale; la giustizia è parte dell'anima, dunque non è un animale.

Mi sembra di perdere tempo per una questione così evidente; questo argomento più che discussione merita sdegno. Nessun animale è uguale a un altro. Osservane i corpi: ciascuno ha un suo colore, un suo aspetto, una sua statura. 16 Secondo me l'ingegno del divino artefice fra l'altro va ammirato anche per questo: in tanta varietà di esseri non si è mai ripetuto. Anche quelli che sembrano simili, messi a confronto, sono diversi. Ha creato tanti tipi di foglie: ciascuna con caratteristiche proprie; tanti animali: nessuno è grande quanto un altro; c'è sempre qualche differenza. Ha preteso da sé che esseri diversi fossero dissimili e disuguali. Tutte le virtù, come dite, sono uguali; quindi non sono animali. 17 Ogni animale agisce da sé; la virtù non agisce da sé, ma con l'uomo. Tutti gli animali o sono razionali, come gli uomini e gli dèi, o irrazionali, come le fiere e le bestie domestiche; le virtù sono senz'altro razionali; ma non sono né uomini, né dèi; quindi non sono animali. 18 Ogni animale razionale non agisce se non sotto lo stimolo di un'immagine, poi prende lo slancio e quindi l'assenso conferma questo slancio. Ecco cos'è l'assenso. Devo camminare: camminerò solo quando lo avrò detto a me stesso e avrò approvato questa mia idea; devo sedermi: mi siederò solo alla fine di questa trafila. Questo assenso non c'è nella virtù. 19 Supponiamo che si tratti della prudenza: come darà il proprio consenso alla necessità di camminare? La natura non lo ammette. La prudenza guarda alla persona alla quale appartiene, non a se stessa; non può passeggiare, né sedere. Quindi, non ha l'assenso e, dal momento che non ha l'assenso, non è animale razionale. La virtù, se è un animale, è razionale; ma razionale non è, quindi non è un animale. 20 Se la virtù è un animale e la virtù è ogni bene, ogni bene è un animale. Questo è il pensiero dei nostri filosofi. È un bene salvare il padre, è un bene fare in senato discorsi saggi, è un bene giudicare con giustizia; quindi, salvare il padre è un animale e fare un discorso saggio è un animale. La questione arriverà a un punto in cui non ci si potrà più trattenere dal ridere: tacere al momento opportuno è un bene, cenare ‹frugalmente› è un bene; così tacere e cenare sono animali.

21 Perbacco, non smetterò di dilettarmi e di giocare con queste sciocche sottigliezze. La giustizia e la fortezza, se sono animali, sono senz'altro terrestri; tutti gli animali terrestri sentono il freddo, la fame, la sete; quindi la giustizia sente il freddo, la fortezza la fame, la clemenza la sete. 22 E poi? Non chiederò ai filosofi che aspetto hanno questi animali? Di uomo, di cavallo o di fiera? Se attribuiranno loro una forma rotonda come a dio, chiederò se l'avarizia, la dissolutezza, la follia sono parimenti rotonde; anch'esse, infatti, sono animali. Se anche a queste attribuiscono una forma rotonda, chiederò ancora se passeggiare compostamente sia un animale. Dovranno rispondere affermativamente e di conseguenza dire che passeggiare è un animale e per di più rotondo.

23 Non pensare ora che io sia il primo degli Stoici a non seguire le vecchie teorie e a esprimere un'opinione personale; Cleante e il suo discepolo Crisippo non sono d'accordo su che cosa sia il passeggiare. Cleante dice che è lo spirito vitale che passa dall'elemento principale ai piedi, Crisippo invece che è l'elemento principale stesso. Perché, dunque, ognuno sull'esempio di Crisippo non rivendica la propria libertà e non se la ride di tutti questi animali che l'universo intero non potrebbe contenere?

24 "Le virtù," si dice, "non sono molti animali, e tuttavia sono animali. Come uno può essere poeta e oratore, e tuttavia è un unico individuo, così queste virtù sono animali, ma non molti animali. L'anima e l'anima giusta e saggia e forte, che si trova in una certa disposizione di fronte alle singole virtù, è la stessa." 25 Eliminata ‹la controversia› siamo d'accordo. Anch'io ammetto intanto che l'anima è un animale, riservandomi di esaminare in sèguito il mio parere su questo argomento: nego, però che le sue azioni siano animali. Altrimenti saranno animali anche tutte le parole e tutti i versi. Difatti se un discorso saggio è un bene, e ogni bene è un animale, un discorso sarà un animale. Un verso saggio è un bene, ogni bene è un animale; dunque, un verso è un animale. Così

canto le armi e l'uomo

è un animale, ma non possono dire che è rotondo visto che ha sei piedi. 26 "L'argomento in questione è, per dio, proprio capzioso," affermi. Scoppio dal ridere quando mi immagino come animali solecismi, barbarismi, sillogismi e attribuisco loro una figura appropriata come fossi un pittore. Discutiamo di questo argomento con i sopraccigli corrugati e la fronte aggrottata? Non posso pronunciare a questo punto quel famoso verso di Celio: "Che squallide sciocchezze!" Sono addirittura ridicole.

Perché piuttosto non trattiamo qualche argomento salutare e a noi utile e non cerchiamo come si possa arrivare alla virtù e quale strada ci conduca a essa? 27 Insegnami non se la fortezza è un animale, ma che nessun animale è felice senza la fortezza, se non si è rafforzato contro i casi fortuiti e non è in grado di dominare ogni evento con la riflessione prima di essere colto di sorpresa. Cos'è la fortezza? La difesa inespugnabile della debolezza umana, e chi se ne circonda resiste senza timore all'assedio della vita; impiega armi e forze sue. 28 A questo punto voglio riferirti una massima del nostro Posidonio: "Non pensare mai di essere al sicuro grazie alle armi della fortuna: combatti con le tue. La fortuna non fornisce armi contro se stessa; perciò anche se abbiamo il necessario per combattere i nemici, siamo inermi di fronte a lei." 29 Alessandro metteva in fuga i Persiani, gli Ircani, gli Indi e tutti i popoli orientali fino all'oceano, e ne devastava i territori, ma egli stesso, ora per l'uccisione di un amico, ora per la perdita di un altro, giaceva nelle tenebre, afflitto dai suoi delitti o dal rimpianto; egli, vincitore di tanti re e di tanti popoli, soccombeva all'ira e all'afflizione; aveva cercato di tenere tutto in suo potere, ma non le passioni. 30 Quanto si ingannano quegli uomini che bramano di spingere il loro dominio al di là del mare e pensano di essere veramente felici se occupano militarmente molte regioni e alle vecchie ne aggiungono di nuove, e sono ignari di quale sia quello straordinario potere, pari al potere degli dèi: il dominio di se stessi è il più grande dominio. 31 Insegnami quanto è sacra la giustizia che guarda al bene altrui e a sé non chiede nulla, se non di essere praticata. Non abbia niente a che spartire con la fama e l'ambizione; piaccia solo a se stessa. Ognuno di noi deve innanzitutto convincersi di una cosa: bisogna essere giusti senza sperarne una ricompensa. Ma è poco. Dobbiamo anche essere persuasi che tutto va speso volontariamente per questa bellissima virtù; i nostri pensieri devono essere totalmente alieni da interessi privati. Non bisogna guardare quale sia il premio di una azione giusta: il premio maggiore consiste nella giustizia. 32 Mettiti bene in testa quello che dicevo poco fa: non importa in quanti conoscono la tua equità. Se uno vuole esibire la sua virtù, si dà pensiero non della virtù, ma della gloria. Non vuoi essere giusto senza averne gloria? Ma, perdio, dovrai spesso essere giusto a prezzo del disonore e allora, se sei saggio, ti compiacerai di una cattiva fama ben acquistata. Stammi bene.

 

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1 Mi chiedi perché in certi periodi si sia sviluppato un genere corrotto di eloquenza e come mai uomini d'ingegno siano apparsi inclini a determinati difetti; così che talvolta è stato in auge un modo di esprimersi gonfio, talvolta spezzato e strascicato come una cantilena; perché si siano apprezzati ora concetti arditi e assurdi, ora frasi rotte ed enigmatiche, piene di sottintesi; perché in un periodo si sia fatto abuso della metafora. Il motivo è quello che senti dire da tutti e che presso i Greci è diventato un proverbio: il linguaggio degli uomini è uguale alla loro vita. 2 L'agire di ciascuno è simile ‹al suo modo› di parlare; così a volte, se un popolo manca di disciplina e si è dato ai piaceri, il modo di parlare si modella su i pubblici costumi. Un'eloquenza corrotta, se non si ritrova in uno o due individui, ma è accettata e recepita da tutti, è segno di una dissolutezza generale. 3 Non può la mente avere caratteristiche diverse dallo spirito. Se questo è sano, regolato, austero, temperante, anche la mente è sobria e assennata: se è corrotto, ne è anch'essa contagiata. Non vedi? Se lo spirito langue, si trascinano le membra e si cammina a fatica. Se è effeminato, la sua rilassatezza è evidente già nell'incedere. Se è fiero e animoso, il passo è concitato. Se è pazzo o in preda all'ira, passione simile alla pazzia, i movimenti del corpo sono alterati; non avanza, ma è come trascinato. Non pensi che questo si verifichi ancor più con la mente che è tutt'uno con lo spirito? Ne è plasmata, gli obbedisce e ne trae la sua legge.

4 Il modo di vivere di Mecenate è troppo noto perché sia ora necessario raccontare come passeggiasse, quanto fosse raffinato, come desiderasse mettersi in mostra e non volesse nascondere i suoi vizi. E allora? La sua eloquenza non fu trasandata come lo era lui? Le sue parole non sono particolari quanto la sua eleganza, il suo sèguito, la sua casa, la sua consorte? Sarebbe stato un uomo di grande ingegno, se lo avesse indirizzato su una via più retta, se non avesse ricercato l'oscurità, se non fosse stato rilassato anche nel linguaggio. Ti troverai di fronte all'eloquenza propria di un uomo ubriaco, involuta, degenerata, corrotta. 5 "Il fiume e la riva chiomata di selve." Che c'è di più brutto? Vedi come "arino con le barche il letto del fiume e, rivoltando le onde, si lascino dietro i giardini." E che dire? se uno "arriccia il viso ammiccando alla sua donna e fa il colombo con le labbra e comincia sospirando, come con la stanca cervice infuriano i tiranni del bosco." "Implacabile fazione, frugano nei banchetti, tentano le case con la bottiglia e passano la morte sperando." "Un Genio testimone a stento del suo giorno festivo." "I fili dell'esile candela e la focaccia crepitante." "La madre o la sposa adornano il focolare." 6 Appena leggerai queste parole ti verrà in mente che si tratta di quell'individuo che andava sempre girando per la città con la tunica sciolta; anche quando in assenza di Augusto ne faceva le veci, si faceva notare per la veste discinta; che in tribunale, sulle tribune, in ogni pubblica adunanza appariva col capo coperto dal mantello, da cui spuntavano solo le orecchie, come fanno nel mimo gli schiavi fuggitivi di un ricco; che mentre infuriavano con più violenza le guerre civili e nella città turbata tutti i cittadini erano in armi, si mostrava in pubblico scortato da due eunuchi, e tuttavia più virili di lui; che si sposò mille volte, pur avendo una sola moglie. 7 Queste parole disposte tanto male, gettate là con trascuratezza, collocate in maniera assolutamente inconsueta, dimostrano che anche le sue abitudini erano altrettanto insolite, corrotte e singolari. La sua qualità più lodevole è la mansuetudine: si astenne dall'usare la spada, dal versare sangue e il suo potere lo mostrò solo con la sua dissolutezza. Ma questo suo merito lo ha sciupato con le raffinatezze del suo linguaggio assolutamente fuori dall'ordinario; fu evidentemente un uomo debole, non un mite. 8 Questi componimenti contorti, queste trasposizioni di parole, questi concetti strani, spesso grandi, ma espressi senza nerbo, dimostrano chiaramente a tutti una cosa: l'eccessiva prosperità gli aveva dato alla testa. E questo difetto può caratterizzare un uomo o un intero periodo. 9 Quando la prosperità genera una diffusa dissolutezza, si manifesta dapprima una cura più ricercata del fisico; quindi ci si preoccupa per le suppellettili; poi si rivolge ogni attenzione alla casa: deve estendersi vasta come una campagna, le pareti devono risplendere di marmi importati d'oltre oceano, i soffitti essere screziati d'oro, lo splendore dei pavimenti corrispondere a quello dei soffitti; poi la sontuosità passa alla tavola e si cerca di renderla più pregevole con le stranezze e sovvertendo l'ordine abituale: si presentano come primi piatti quelli che di solito concludono il pranzo, e agli invitati che se ne vanno si servono quei cibi che si davano all'arrivo. 10 Quando l'anima arriva ad avere a nausea le consuetudini e a ritenerle spregevoli, cerca novità anche nel linguaggio; ora riprende e tira fuori parole vecchie e obsolete, ora ne conia persino di nuove e distorce i significati, ora, e questa è l'ultima moda, considera segno di eleganza audaci e frequenti metafore. 11 C'è chi tronca i concetti e spera di ottenere il favore degli ascoltatori lasciando in sospeso le frasi e suggerendone appena il senso; c'è chi si dilunga e dilata i pensieri; c'è chi non arriva fino a questi difetti - e deve fare così lo scrittore che si cimenta con grandi opere - e tuttavia li ama.

Pertanto dovunque vedrai compiacimento per un'eloquenza corrotta, ci sarà certamente anche una corruzione dei costumi. Banchetti e vestiti sfarzosi sono indice di una comunità malata, allo stesso modo la licenza del linguaggio, se è diffusa, mostra che anche gli animi da cui hanno origine le parole sono in decadenza. 12 Non stupirti che questo tipo di eloquenza corrotta sia accolta con favore non solo dalla cerchia degli spettatori più grossolani, ma anche dalla massa di quelli più colti; essi differiscono tra loro nelle vesti, non nei giudizi. Piuttosto puoi stupirti che siano lodate non solo le opere piene di difetti, ma i difetti stessi. È sempre stato così: nessun uomo d'ingegno è stato apprezzato senza che gli venisse perdonata qualche mancanza. Citami un uomo famoso, quello che vuoi: ti dirò che cosa i suoi contemporanei gli hanno perdonato, che cosa hanno consapevolmente finto di non vedere. Ti indicherò molti che non sono stati danneggiati dai loro difetti, e alcuni ai quali i difetti hanno addirittura giovato. Ti indicherò, ripeto, uomini famosissimi, fatti oggetto di ammirazione, che distruggeresti se volessi correggerli: i vizi sono così uniti alle virtù da trascinarle via con sé.

13 Il linguaggio, inoltre, non ha regole fisse: lo trasformano le consuetudini sociali in continua, rapida evoluzione. Molti prendono i termini da un altro periodo, parlano la lingua delle Dodici Tavole; per loro Gracco, Crasso, Curione sono troppo raffinati e moderni, tornano indietro fino ad Appio e Coruncanio. Altri, invece, cercano solo espressioni trite e consuete e cadono nel triviale. 14 Tutti e due gli stili sono corrotti, sia pure in modo diverso, come, perbacco, quando si vogliono usare solo vocaboli splendidi, altisonanti e poetici, ed evitare quelli indispensabili e usuali. A mio parere sbagliano sia gli uni che gli altri: i primi per troppa cura, i secondi per troppa trascuratezza, quelli si depilano anche le gambe, questi neppure le ascelle.

15 Passiamo ora alla disposizione delle parole. Quanti tipi di errori ti posso indicare? Ad alcuni piacciono le frasi spezzate e ineguali; le scompigliano di proposito se hanno un andamento troppo scorrevole; non vogliono concatenazioni senza scabrosità: per loro sono virili e forti quelle che colpiscono l'orecchio con la loro disuguaglianza. Altri più che costruire le frasi, le modulano; tanto sono carezzevoli e scorrono dolcemente. 16 Che dire poi del periodo in cui le parole sono rinviate, si fanno attendere a lungo e compaiono a stento alla fine? Che dire del periodo come quello di Cicerone che si avvia lento scorrevole e che indugia mollemente e segue l'andamento e il ritmo abituali?

Ma i difetti non si trovano solo * * * nel tipo dei concetti, se sono gretti e puerili o malvagi e spudorati, se sono fioriti e troppo sdolcinati, se cadono nel vuoto e non hanno altro effetto che il loro suono.

17 Questi difetti li introduce uno che in quel momento detta legge nel campo dell'eloquenza; gli altri li imitano e se li trasmettono l'un l'altro. Così quando era in auge Sallustio venivano considerati eleganti i pensieri tronchi, le parole che arrivano inaspettate, le locuzioni stringate e oscure. L. Arrunzio, uomo di eccezionale sobrietà, che scrisse una storia della guerra punica, fu un sallustiano e si distinse in quel genere di prosa. Si trova in Sallustio: "Fece l'esercito col denaro", cioè lo allestì col denaro. Ad Arrunzio piacque questa espressione e la inserì in ogni pagina. Dice in un passo: "Fecero la fuga ai nostri", e in un altro: "Gerone, re di Siracusa, fece la guerra", e ancora: "Questa notizia fece che i Palermitani si consegnassero ai Romani." 18 Ti ho voluto dare un assaggio: ma tutto il libro è intessuto di simili espressioni. Rare in Sallustio, in lui sono frequenti e quasi continue, e c'è un motivo: per Sallustio erano occasionali, mentre Arrunzio le ricercava di proposito. Vedi, dunque, quali sono le conseguenze quando un difetto è preso a esempio. 19 Scrive Sallustio: "acque invernali." Arrunzio, nel primo libro della guerra punica, dice: "D'improvviso il tempo divenne invernale", e in un altro punto, volendo dire che quell'anno era stato freddo, scrive: "Tutto l'anno fu invernale", e in un altro: "Di lì inviò sessanta navi da carico leggere oltre ai soldati e ai marinai necessari sotto un aquilone invernale", e questo termine lo ha ficcato continuamente dappertutto. Sallustio dice in un passo: "Mentre durante le guerre civili aspirava alle reputazioni di uomo giusto e onesto." Arrunzio non seppe trattenersi dallo scrivere sùbito nel primo libro che grandi erano "le reputazioni" di Regolo. 20 Questo e altri difetti simili, che si acquistano per imitazione, non sono segno di dissolutezza né di un animo corrotto; devono essere personali e nati da quello stesso individuo per giudicare in base a essi i sentimenti di un uomo: un linguaggio iracondo è proprio di una persona iraconda, uno troppo concitato di una persona appassionata, uno voluttuoso e fiacco di un uomo effeminato. 21 Se fai caso, questo modo di esprimersi lo seguono quelli che si tagliano la barba o se la sfoltiscono, che si radono accuratamente i baffi o li tagliano via, ma conservano e fanno crescere i peli nelle altre parti, che indossano mantelli di colori stravaganti, vesti trasparenti e non vogliono fare niente che passi inosservato agli occhi degli altri: suscitano il loro interesse e lo attirano su di sé, accettano persino il biasimo pur di farsi notare. Tale è l'eloquenza di Mecenate e di tutti gli altri che non commettono errori di stile per caso, ma consapevolmente e di proposito. 22 All'origine c'è un profondo malessere spirituale: quando uno beve, la lingua si inceppa solo se la mente soccombe al peso del vino e vacilla o si abbandona, così questa forma di ubriachezza del linguaggio non è dannosa finché l'anima rimane salda. Curiamo perciò l'anima: da essa scaturiscono i pensieri, le parole, da essa deriva il nostro comportamento, l'espressione del volto, l'incedere. Se l'anima è sana e vigorosa, anche il linguaggio è energico, forte, virile: se l'anima soccombe, anche il resto la segue nella caduta.

 

23 Finché il re è incolume tutti sono concordi: quando scompare, è violata ogni promessa.

Il nostro re è l'anima; finché è incolume, le altre parti adempiono al proprio dovere, obbediscono e sono sottomesse; quando essa vacilla un po', tutto nello stesso momento diventa incerto. Quando cede al piacere, anche le sue capacità, le sue azioni si indeboliscono e tutti gli impulsi sono fiacchi e senza nerbo.

24 Poiché ho usato questo esempio continuerò così. La nostra anima ora è un re, ora un tiranno: re quando guarda alla virtù, ha cura della salute del corpo affidatole e non gli comanda niente di abietto o di meschino; ma quando è sfrenata, avida, voluttuosa, assume un nome detestabile e funesto e si trasforma in un tiranno. Allora diventa preda e vittima di sfrenate passioni; all'inizio ne gode, come fa il popolo che quando c'è un'elargizione si riempie inutilmente a suo danno e arraffa quello che non può trangugiare; 25 quando poi il male ha consumato via via le forze e la lussuria è penetrata nelle midolla e nei nervi, l'anima si compiace alla vista di quelle dissolutezze di cui si è resa incapace per l'eccessiva avidità, e considera come suoi piaceri lo spettacolo di quelli altrui, complice e testimone di dissolutezze, del cui godimento si è privata approfittandone. E il piacere di avere in abbondanza queste delizie non è pari all'angustia di non poter far passare attraverso la gola e il ventre tutto quello che è stato imbandito, di non potersi avvoltolare con tutta quella massa di amasi e femmine, e si affligge perché gran parte della sua felicità è impedita e viene meno per le sue carenze fisiche. 26 Questa pazzia, caro Lucilio, non consiste forse nel fatto che nessuno di noi pensa di essere debole e mortale? Anzi, che nessuno di noi pensa di essere uno solo? Guarda le nostre cucine e i cuochi che corrono tra tanti fornelli: ti sembra che con un simile trambusto si prepari cibo per un ventre solo? Guarda le nostre provviste di vino vecchio e le cantine piene delle vendemmie di molte generazioni: ti sembra che vini di tanti anni e di tante regioni si conservino per un ventre solo? Guarda in quanti luoghi si vanga la terra, quante migliaia di contadini arano, zappano: ti sembra che per un solo ventre si semini in Sicilia e in Africa? 27 Saremo sani e avremo desideri moderati se ciascuno conterà se stesso, e contemporaneamente misurerà il proprio corpo e comprenderà che non può contenere molto, né per lungo tempo. Niente, però ti servirà tanto per essere temperante in tutto quanto il pensare di frequente che la vita è breve e incerta: qualunque cosa tu faccia, guarda alla morte. Stammi bene.

 

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1 Non voglio, Lucilio mio, che tu ti dia eccessivo pensiero delle parole e della loro disposizione: ho questioni più importanti di cui tu debba curarti. Preòccupati del contenuto, non della forma; e non tanto di scrivere, ma di sentire ciò che scrivi, in modo da rivolgere a te e quasi di imprimerti nell'animo ciò che senti. 2 Quando vedi uno esprimersi con un linguaggio ricercato ed elegante, sappi che anche la sua anima è ugualmente presa dalle meschinità. Una persona magnanima parla in maniera più pacata e quieta. Tutte le sue parole rivelano più sicurezza che cura formale. Conosci certi bellimbusti con la barba e i capelli tirati a lucido, tutti agghindati: non puoi aspettarti da loro niente di forte, di solido. Il linguaggio è ornamento dell'anima: se è ricercato, artificioso ed elaborato, dimostra che anche l'anima non è sana e ha delle debolezze. La ricercatezza non è ornamento virile. 3 Se noi potessimo guardare dentro l'anima di un uomo onesto, che straordinaria bellezza, che sacralità, che fulgore di magnificenza e di serenità vedremmo; vi splenderebbero la giustizia, la fortezza, la temperanza e la saggezza! E oltre a queste, la frugalità, la moderazione, la pazienza, la generosità, l'affabilità e il senso di umanità, bene raro - chi lo crederebbe? - in un uomo, diffonderebbero su di essa la loro luce. Poi la prudenza insieme alla correttezza e alla magnanimità, la più insigne tra queste virtù, quanta bellezza, buon dio, quanta gravità e peso le aggiungerebbero, quanta autorità e quanto credito! Tutti la definirebbero meritevole di amore e insieme di venerazione. 4 Se qualcuno vedesse questa bellezza più vivida e splendente di quanto si è soliti vedere tra le cose umane, non si fermerebbe attonito come se si trovasse di fronte a una divinità e pregherebbe in silenzio: "Sia lecita questa visione"; poi invitato dall'espressione benevola del volto, non la adorerebbe supplicandola e, dopo averla a lungo contemplata così eminente e alta più della statura delle cose che siamo abituati a vedere, con gli occhi pieni di dolcezza e tuttavia ardenti di un vivido fuoco, preso da sacro rispetto e sbalordito non pronuncerebbe, infine, quel verso del nostro Virgilio:

 

5 Come debbo chiamarti, o vergine? Non hai aspetto mortale e la tua voce non è umana... sii propizia, chiunque tu sia, e allevia i nostri affanni.

Ci assisterà e ci aiuterà se vorremo venerarla. Ma non la si venera sacrificando pingui tori, e nemmeno con doni votivi d'oro e d'argento o con offerte versate al tesoro del tempio, ma con pii e onesti propositi. 6 Tutti, dico, arderemmo d'amore per lei se ci toccasse di vederla; per ora molti sono gli ostacoli che accecano i nostri occhi con l'eccessivo splendore o li impediscono con le tenebre. Ma come con certi medicamenti noi rendiamo più acute e limpide le nostre capacità visive, così se vorremo liberare la vista dell'anima da ogni impedimento, potremo scorgere la virtù anche sotto il peso del corpo, anche se la povertà le fa da schermo, anche attraverso l'umile condizione e il disonore; 7 vedremo, insomma, la sua bellezza anche coperta di cenci. E d'altra parte la malvagità e il torpore di un'anima travagliata li vedremo ugualmente, anche se il vivo splendore irradiato dalla ricchezza fa da ostacolo, e la falsa luce degli onori e dei grandi poteri colpisce chi guarda. 8 Ci renderemo conto allora che ammiriamo beni spregevoli, come i bambini che tengono in gran conto ogni gioco e ai genitori e ai fratelli preferiscono monili di poco prezzo. L'unica differenza tra noi e loro, come dice Aristone, è che noi facciamo follie per quadri e statue pagando a più caro prezzo la nostra scempiaggine. Quelli si divertono con i sassolini variegati e lisci che trovano sulla spiaggia, noi con grandi colonne variopinte, importate dalle sabbie dell'Egitto e dai deserti africani, che sostengono un portico o una sala da pranzo capace di contenere una grande folla. 9 Ammiriamo le pareti ricoperte da marmi sottili, eppure sappiamo che cosa c'è sotto. Inganniamo i nostri occhi e quando ricopriamo d'oro i soffitti, ci compiaciamo di un inganno: sappiamo che quell'oro nasconde delle brutte travi. Ma ricoperti da sottile ornamento non sono solo le pareti e il soffitto: anche la felicità di tutti costoro che vedi camminare a testa alta è unicamente esteriore. Guarda bene e vedrai quanto male si annidi sotto questa sottile patina di dignità. 10 Da quando si è cominciato a onorare il denaro, che incatena tanti magistrati e tanti giudici, che crea magistrati e giudici, le cose hanno perduto il loro vero valore, e noi, diventati ora mercanti, ora merce in vendita, non consideriamo la qualità, ma il prezzo; per interesse siamo onesti, per interesse disonesti, e la virtù la pratichiamo finché c'è una speranza di guadagno, pronti a un voltafaccia se la scelleratezza promette di più. 11 È colpa dei nostri genitori se noi ammiriamo l'oro e l'argento, e la cupidigia, che ci è stata inculcata fin da piccoli, ha messo profonde radici ed è cresciuta insieme a noi. Il popolo intero, discorde su altre questioni, è concorde su questo punto: ammirano l'oro, lo desiderano per i loro cari, lo consacrano agli dèi come il più grande dei beni umani, quando vogliono dimostrare la loro gratitudine. Infine l'immoralità è tale che la povertà è maledetta ed è considerata infamante, disprezzata dai ricchi, invisa ai poveri. 12 Si aggiungono inoltre le opere dei poeti, che infiammano le nostre passioni e che lodano la ricchezza come unico lustro e ornamento della vita. Per costoro gli dèi immortali non possono concedere o possedere niente di meglio.

 

13 La reggia del sole si ergeva su alte colonne, splendida d'oro scintillante.

E guarda il carro del sole:

D'oro era l'asse, il timone d'oro, d'oro il cerchio delle ruote, d'argento la serie dei raggi.

Infine chiamano aurea l'età che vogliono indicare come la migliore. 14 Neppure nei tragici greci mancano personaggi che barattano per interesse l'onestà, la salute spirituale, la reputazione.

Mi stimino pure il peggiore degli uomini, purché mi stimino ricco.

Tutti chiediamo se uno è ricco, nessuno chiede se è onesto.

Vogliono sapere solo che cosa uno possegga, non perché e come lo possegga.

Dappertutto ogni uomo è stimato tanto quanto possiede.

Chiedi quale possesso è vergognoso per noi? Non averne.

Se ricco, voglio vivere, se povero, morire.

Muore bene chi muore mentre guadagna.

Denaro, grande bene del genere umano, cui non può essere pari l'amore della madre o dei dolci figli, non il genitore venerando per i suoi meriti; se qualcosa nel volto di Venere brilla con tanta dolcezza, a ragione la dea fa innamorare dèi e uomini."

 

15 Quando furono recitati questi ultimi versi della tragedia euripidea la folla si alzò d'impeto tutta insieme per cacciare l'autore e interrompere lo spettacolo, finché Euripide stesso si precipitò fuori chiedendo che aspettassero di vedere che fine avrebbe fatto quell'ammiratore dell'oro. In quella tragedia Bellerofonte pagava il fio che ognuno paga nella propria esistenza. 16 L'avidità si accompagna sempre alla punizione, sebbene essa sia già di per sé una pena sufficiente. Quante lacrime, quanti affanni esige! Quanto è infelice per ciò che brama, quanto è infelice per ciò che si è procurata! E poi ci sono le preoccupazioni quotidiane che affliggono ognuno in rapporto ai propri averi. Possedere denaro dà più tormento che acquistarlo. E come ci si lagna per le perdite che, se pure sono considerevoli, sembrano ancòra più grandi. Infine, anche se la sorte non sottrae niente, si considera una perdita tutto ciò che non si riesce ad avere. 17 "Ma gli uomini lo chiamano fortunato e ricco e desiderano ottenere quanto lui possiede." Sì, è vero, e allora? Pensi che ci sia una persona in condizioni peggiori di chi è povero e invidioso? Oh, se quando uno desidera la ricchezza interrogasse i ricchi; e quando uno aspira alle cariche politiche interrogasse gli ambiziosi e quelli che hanno raggiunto i più alti livelli del potere! Certo i suoi desideri cambierebbero, vedendo che costoro concepiscono nuovi desideri e rinnegano quelli precedenti. Non c'è nessuno che è soddisfatto della propria prosperità, anche se è arrivata rapidamente; ci si lamenta e delle decisioni prese e dei successi ottenuti, e si preferisce sempre quanto si è lasciato. 18 La filosofia ti garantirà questo bene, il più grande che ci sia, io ritengo: non ti pentirai mai delle tue azioni. A questa felicità così solida, che nessuna tempesta può scuotere, non ti condurranno frasi ben costruite o un linguaggio dolcemente scorrevole: le parole fluiscano pure liberamente, purché l'anima mantenga il suo ordine, purché sia grande, noncurante dei pregiudizi e approvi se stessa per quelle azioni che gli altri non approvano, e giudichi i suoi progressi in base alla sua vita, e ritenga di essere saggia solo in quanto non ha desideri né timori. Stammi bene.

 

116

1 Si è spesso discusso se è meglio nutrire passioni moderate o non averne affatto. Gli Stoici le eliminano, i Peripatetici le moderano. Io non vedo come una malattia, sia pure leggera, possa essere salutare o utile. Non temere: non ti tolgo niente di quello che tu non vuoi ti sia negato. Mi mostrerò benevolo e indulgente verso le cose cui aspiri e che ritieni necessarie alla vita, oppure utili o piacevoli: ti strapperò solo il vizio. Ti proibirò infatti, di nutrire desideri sfrenati, ma non di volere: così farai le stesse cose senza timore e con maggiore risolutezza e godrai più intensamente anche dei piaceri; perché non dovresti sentirli maggiormente se sarai tu a dominarli, invece che esserne schiavo? 2 "Ma è naturale," ribatti, "che io mi tormenti per la scomparsa di un amico: considera legittime queste lacrime così giuste. È naturale tener conto del giudizio altrui e rattristarsi se è sfavorevole: perché non vuoi concedermi questo onesto timore di avere una cattiva reputazione?" Ogni vizio ha una sua giustificazione; da principio sono tutti moderati e domabili, poi però si diffondono. Se permetti che nascano, non riuscirai a stroncarli. 3 All'inizio ogni passione è debole, poi si infiamma e, strada facendo, acquista forza: tenerle lontane è più facile che estirparle. Tutte le passioni scaturiscono da un'origine, per così dire, naturale, chi lo nega? La natura ci ha affidato la cura di noi stessi, ma quando vi indulgiamo troppo, nasce il vizio. La natura ha mescolato il piacere alle necessità della vita, non perché lo ricercassimo, ma perché questo complemento ci rendesse più gradite le cose indispensabili alla nostra esistenza: se, però, il piacere detta legge, nasce la dissolutezza. Impediamo, quindi, che le passioni penetrino in noi, perché, come ho detto, non accoglierle è più facile che scacciarle. 4 "Concedimi almeno un certo grado di dolore, di paura." Ma questo "un certo grado" si dilata e non finisce dove vuoi tu. Il saggio è al sicuro senza doversi sorvegliare attentamente, e le sue lacrime, i suoi piaceri li arresta quando vuole: per noi, visto che non è facile tornare indietro, la cosa migliore è non avanzare affatto. 5 Panezio, secondo me, diede una bella risposta a quell'adolescente che gli chiedeva se il saggio possa amare. "Del saggio," disse, "parleremo in sèguito; io e te, che siamo ancora molto lontani dalla saggezza, non dobbiamo rischiare di cadere in un sentimento impetuoso e incontrollabile, che ci rende schiavi di altri e spregevoli a noi stessi. Se chi amiamo ci corrisponde, la sua dolcezza ci infiamma; se invece ci disprezza, ci eccita la sua superbia. Fortuna e sfortuna in amore sono ugualmente nocive: dell'una siamo preda, contro l'altra lottiamo. Perciò consci della nostra debolezza, stiamocene quieti; la nostra anima è debole: non affidiamola al vino o alla bellezza, all'adulazione o agli allettamenti." 6 La risposta di Panezio al ragazzo che lo interrogava sull'amore, io la estendo a tutte le passioni: allontaniamoci il più possibile dai terreni melmosi; anche su quelli asciutti stiamo in piedi a fatica.

7 A questo punto replicherai con quella obiezione che generalmente si rivolge agli Stoici: "Fate promesse troppo grandi, date precetti troppo severi. Noi siamo creature deboli; non possiamo negarci tutto. Ci dorremo, ma poco; avremo desideri, ma moderati; ci adireremo, ma poi ci calmeremo." 8 Sai perché non possiamo agire così? Perché non crediamo di farcela. Anzi, perbacco, il motivo in realtà è un altro: difendiamo i nostri vizi perché li amiamo e preferiamo scusarli piuttosto che eliminarli. La natura ha dato all'uomo forza sufficiente perché ne facciamo uso, a patto che chiamiamo a raccolta le nostre forze e le muoviamo tutte in nostro favore, non contro di noi. Il vero motivo è la mancanza di volontà, l'impossibilità è un pretesto. Stammi bene.

 

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1 Mi metti in grave imbarazzo e, senza saperlo, mi impegni in una grossa e fastidiosa disputa con le questioncelle che mi proponi: io non posso dissentire dagli Stoici conservando il loro favore, e nemmeno essere d'accordo con loro senza fare torto alla mia coscienza. Gli Stoici affermano che la saggezza è un bene, e l'essere saggi non lo è, e tu chiedi se è vero. Prima ti esporrò la teoria stoica, e solo dopo oserò dire il mio parere.

2 Per gli Stoici il bene è corpo, poiché ciò che è bene agisce e tutto ciò che agisce è corpo. Ciò che è bene giova; ma, per giovare, deve agire; e se agisce è corpo. Dicono che la saggezza è un bene; ne consegue necessariamente che anch'essa deve essere definita corporea. 3 Secondo loro, però l'essere saggi non è la stessa cosa. È una cosa incorporea e accessoria dell'altra, cioè della saggezza; pertanto non agisce e non giova. "E come?" si ribatte. "Non diciamo: essere saggi è un bene?" Lo diciamo riferendoci a quello da cui l'essere saggi dipende, cioè alla saggezza.

4 Senti ora che cosa controbattono gli altri, prima che io abbandoni questo argomento, per soffermarmi su un altro. "In questo modo," dicono, "neppure vivere felici è un bene. Volenti o nolenti bisogna rispondere che una vita felice è un bene, ma non è un bene vivere felici." 5 E ancòra si obietta: "Voi volete essere saggi; quindi l'essere saggi è cosa desiderabile; e se è desiderabile, è buona." Gli Stoici sono costretti a stravolgere i termini e a inserire in expetere una sillaba, mentre la nostra lingua non lo permetterebbe. Se permetti, io l'aggiungo. "Expetendum - dicono - è ciò che è bene, expetibile è ciò che ci tocca quando abbiamo conseguito un bene. Esso non si ricerca come un bene, ma si aggiunge al bene che si ricerca."

6 Io non la penso così e ritengo che gli Stoici arrivano a questa affermazione perché sono vincolati all'esordio e non possono cambiare formula. Noi di solito attribuiamo una grande importanza alle opinioni generali e il fatto che un'opinione sia condivisa da tutti è per noi indizio di verità; l'esistenza degli dèi, ad esempio, l'argomentiamo tra l'altro anche da questo: in tutti è insito il concetto della divinità e non c'è popolo così al di fuori delle leggi e dei costumi civili che non creda in un qualche dio. Quando discutiamo dell'immortalità dell'anima, ha per noi un peso determinante il fatto che tutti gli uomini o temono o onorano gli inferi. Mi rifaccio all'opinione generale: non troverai nessuno che non giudichi un bene sia la saggezza, sia l'essere saggi.

7 Non farò come fanno di solito i vinti: non mi appellerò al popolo; comincerò a combattere con le mie armi. Ciò che accade a una cosa è fuori o dentro alla cosa alla quale accade? Se è dentro alla cosa alla quale accade, è corpo come la cosa alla quale accade. Niente, infatti, può accadere senza contatto e quello che crea contatto è corpo: niente può accadere senza un'azione e quello che agisce è corpo. Se è al di fuori, se ne stacca, dopo essere accaduto; ciò che si stacca ha un movimento e ciò che ha movimento è corpo. 8 Tu ti aspetti che io dica che la corsa e il correre non sono cose diverse come il calore e l'essere caldo, lo splendore e il risplendere: ammetto che siano cose diverse, ma non di diversa specie. Se la salute è indifferente, anche lo star bene è indifferente; se la bellezza è indifferente, lo è anche l'essere belli. Se la giustizia è un bene, lo è anche l'essere giusti; se la bruttezza è un male, anche essere brutti è un male, come, perbacco, se la cisposità è un male, anche l'essere cisposi è un male. Sappi, dunque, che l'una cosa non può esistere senza l'altra: chi possiede la saggezza è saggio; chi è saggio possiede la saggezza. È talmente impossibile mettere in dubbio che siano cose uguali, che ad alcuni sembrano addirittura identificarsi. 9 Mi piacerebbe, però chiedere, poiché ogni cosa o è male o è bene o è indifferente, l'essere saggi in che categoria rientra? Dicono che non sia un bene; eppure non è un male; ne consegue che sia una via di mezzo. Noi definiamo via di mezzo o indifferente, ciò che può capitare sia al malvagio che al buono, come il denaro, la bellezza, la nobiltà. La saggezza, può capitare solo all'uomo buono, quindi non è indifferente. Ma non è neppure un male, perché non può capitare al malvagio, quindi è un bene. Ciò che possiede solo l'uomo buono è bene; l'essere saggi è un possesso del buono, quindi è un bene. 10 "È," dicono, "una circostanza accidentale della saggezza." Dunque, quello che chiami essere saggi, crea la saggezza o la subisce? Sia che la crei, sia che la subisca, in entrambi i casi è corpo, poiché sia ciò che è creato, sia ciò che crea è corpo. Se è corpo, è un bene; una sola cosa gli impediva, infatti, di essere un bene, l'incorporeità.

11 I Peripatetici sostengono che non c'è differenza tra la saggezza e l'essere saggi, poiché in ognuna delle due cose c'è anche l'altra. Perché, tu non pensi che sia saggio solo chi ha la saggezza? E che abbia la saggezza solo chi è saggio? 12 Gli antichi Dialettici fanno una distinzione che è arrivata fino agli Stoici. Ecco di che cosa si tratta. Altro è un campo, altro è possedere un campo, e perché no? Possedere un campo riguarda il possessore, non il campo. Così, altro è la saggezza, altro è l'essere saggi. Ammetterai, ritengo, che si tratta di due cose distinte, la cosa posseduta e il possessore; la saggezza è posseduta, chi è saggio possiede. La saggezza è lo spirito perfetto o arrivato al culmine di ogni bene; è l'arte della vita. Cos'è l'essere saggi? Non posso definirlo "spirito perfetto", ma ciò che tocca a chi ha uno spirito perfetto; così altro è uno spirito onesto, altro è avere uno spirito onesto.

13 "C'è," si dice, "diversità nella natura dei corpi, questo è uomo, quest'altro cavallo; gli impulsi dell'anima sono enunciativi dei corpi e si uniformano alla loro natura. Gli impulsi hanno qualcosa di proprio, diverso dal corpo; vedo passeggiare Catone: è ciò che mi mostrano i sensi, l'animo vi crede. È il corpo che vedo e ad esso sono rivolti occhi e spirito. Poi dico: Catone passeggia. Ora non parlo del corpo," si continua, "ma di qualcosa che è enunciativo del corpo: alcuni lo chiamano 'enunciato', altri 'proposizione', altri 'sentenza'. Così, quando diciamo 'saggezza', intendiamo qualcosa di corporeo; quando diciamo 'è saggio' parliamo del corpo. Ma c'è una grande differenza se indichi una cosa o ne parli."

14 Ammettiamo per il momento che siano due cose distinte (non esprimo ancora il mio pensiero): che cosa impedisce che siano diverse, ma entrambe beni? Dicevo poco prima che una cosa è un campo, un'altra possedere un campo. Perché no? Il possessore ha una natura, la cosa posseduta ne ha un'altra: questa è terra, quello uomo. Ma nel caso in questione entrambe hanno la stessa natura, sia la saggezza, sia chi la possiede. 15 Inoltre, nel primo esempio altro è la cosa posseduta, altro il possessore: in questo la cosa posseduta e il possessore si identificano. Il campo si possiede per legge, la saggezza per natura; quello può essere ceduto e trasmesso ad altri, questa non si distacca da chi la possiede. Non si possono dunque paragonare cose tra loro diverse.

Avevo cominciato col dire che queste possono essere due cose distinte e tuttavia essere entrambe beni, come la saggezza e l'essere saggio sono due cose distinte e tuttavia ammetti che entrambe sono beni. Nulla impedisce, dunque, che sia la saggezza sia chi la possiede siano beni; così nulla impedisce che tanto la saggezza quanto il possederla, cioè l'essere saggi, siano beni. 16 Io voglio essere saggio per avere la saggezza. E allora? Non è questo un bene senza il quale neppure l'altro è un bene? Voi sostenete che la saggezza, se non si potesse farne uso, non varrebbe la pena di conquistarla. Ma qual è l'uso della saggezza? L'essere saggi: è questa la sua caratteristica più preziosa, se la eliminiamo, la saggezza diventa superflua. Se la tortura è un male, l'essere torturati è un male, ma non sarebbero mali qualora se ne potessero eliminare le conseguenze. La saggezza è lo stato dello spirito perfetto, l'essere saggi è l'uso dello spirito perfetto: e come può non essere un bene l'uso della saggezza che, se non è usata, non è un bene? 17 Ti chiedo se bisogna aspirare alla saggezza: rispondi di sì. Ti chiedo se bisogna aspirare all'uso della saggezza: rispondi ancora di sì. E dici che non la vorresti, se non potessi usarla. Ma ciò cui bisogna aspirare è un bene. Essere saggi è l'uso della saggezza, come parlare è l'uso del linguaggio, come vedere è l'uso degli occhi. Quindi, essere saggi è l'uso della saggezza e all'uso della saggezza bisogna aspirare; bisogna, quindi aspirare ad essere saggi; e se bisogna aspirarvi, è un bene.

18 Già da un pezzo mi condanno da me: imito chi accuso e spendo parole per una questione evidente. Chi può mettere in dubbio che se il caldo è un male, anche aver caldo è un male? E se il freddo è un male, è un male anche aver freddo? E se la vita è un bene, anche vivere è un bene? Tutto ciò riguarda la saggezza, ma non la sostanza della saggezza; ed è su di essa che noi dobbiamo soffermarci. 19 Anche se vogliamo spaziare un po', la saggezza ci offre ampi e vasti orizzonti: possiamo investigare sulla natura degli dèi, su ciò che dà vita agli astri, sulle svariate orbite dei corpi celesti; indagare se l'evoluzione delle vicende umane dipende dal loro influsso, se il corpo e l'anima di tutti gli uomini ricevano impulso da qui, se anche gli eventi cosiddetti fortuiti obbediscano a leggi precise e niente in questo mondo accada inaspettatamente o senza seguire un ordine. Questi temi esulano dalla questione morale, ma sollevano lo spirito e lo innalzano al livello degli argomenti trattati; i problemi di cui parlavo poco fa, invece, lo sminuiscono e lo abbassano e non lo rendono più acuto, come dite voi, ma più debole. 20 Ma via, dobbiamo proprio dedicare a questioni, non so se false, ma certo inutili, la nostra attenzione che invece sarebbe necessario rivolgere a problemi più importanti e profondi? A che mi servirà sapere se la saggezza e l'essere saggi sono due cose diverse? A che mi servirà sapere se quella è un bene e questo non lo è? Voglio essere temerario ed espormi al rischio di questo augurio: tocchi a te la saggezza, a me l'essere saggio. Saremo pari. 21 Cerca piuttosto di indicarmi la via che mi porti a questa meta. Dimmi che cosa devo evitare, a che cosa aspirare, con quali occupazioni possa rafforzare il mio spirito vacillante, come allontanare da me i mali che all'improvviso mi colpiscono e mi incalzano, come possa fronteggiare tante sventure, come respingere queste disgrazie che mi si sono riversate addosso e quelle che mi sono procurate io stesso. Insegnami come sopportare le tribolazioni senza un lamento, e la felicità senza provocare i lamenti altrui, come non aspettare quell'ora estrema e inevitabile, ma rinunciare io stesso alla vita, quando mi sembrerà opportuno. 22 Per me la cosa più vergognosa è desiderare la morte. Se vuoi vivere, perché desideri morire? Se non vuoi, perché chiedi agli dèi una cosa che ti hanno dato al momento della nascita? È stabilito che un giorno o l'altro tu muoia, anche se non vuoi, e d'altra parte tu hai la facoltà di morire quando vuoi; la prima è una necessità, la seconda una possibilità. 23 Ho letto in questi giorni un esordio davvero vergognoso di uno scrittore che pure è eloquente: "Possa io morire al più presto." Che insensato, tu desideri una cosa tua. "Possa io morire al più presto." Forse sei diventato vecchio a furia di dire queste parole; altrimenti che cosa ti fa indugiare? Nessuno ti trattiene: fuggi per la strada che credi; scegli un qualunque elemento naturale e fatti offrire una via di uscita. Gli elementi su cui si regge il mondo sono questi: acqua, terra, aria e sono tutti sia fondamento di vita, sia mezzi di morte. 24 "Possa io morire al più presto": questo "al più presto" che cosa significa per te? Quale giorno gli destini? Può accadere più presto di quanto tu desideri. Sono le parole di uno spirito debole che con questa imprecazione vuole suscitare pietà. Chi si augura di morire, non vuole morire. Chiedi agli dèi vita e salute: se hai deciso di morire, il primo vantaggio della morte è non avere più desideri.

25 Occupiamoci di questi problemi, Lucilio mio, educhiamo con essi lo spirito. Questa è la saggezza, questo l'essere saggi, e non l'esercitare una sterilissima sottigliezza intellettuale con vane discussioncelle. La sorte ti ha messo di fronte a tanti problemi, non li hai ancora risolti: e stai lì a cavillare? È da sciocchi, ricevuto il segnale di combattimento, dare colpi a vuoto. Metti da parte queste armi-giocattolo: ci vogliono armi vere. Dimmi come posso evitare che la tristezza e la paura turbino l'anima mia, come scaricare il peso delle mie segrete passioni. Bisogna fare qualcosa! 26 "La saggezza è un bene, l'essere saggi non è un bene": si finisce così per affermare che non siamo saggi e che tutto questo impegno viene deriso poiché è dedicato ad attività inutili.

E che diresti sapendo che si pone pure la questione se è un bene la saggezza futura? Ma via, si può forse dubitare che i granai sono inconsapevoli del grano che conterranno, e che il fanciullo, indipendentemente dalle sue forze e dalla sua robustezza, non si rende conto di quale sarà la sua adolescenza? Al malato, finché è tale, non giova affatto la salute futura, come un riposo che verrà dopo molti mesi non può al momento ridare forza al corridore o al lottatore. 27 Tutti sanno che non è un bene ciò che dovrà venire, proprio perché dovrà venire. Un bene giova senz'altro; e può giovare solo ciò che è presente. Se non giova, non è un bene; se giova, lo è già. Diventerò saggio; questo sarà un bene quando lo diventerò: intanto non è un bene. Prima bisogna che una cosa esista, poi che abbia una qualità. 28 Su via, come può essere un bene una cosa ancòra inesistente? E come vuoi che ti provi che una cosa non esiste, più che dicendoti "sarà"? È chiaro che ciò che verrà non è ancòra venuto. Verrà la primavera: so che ora è inverno. Verrà l'estate: so che non è estate. La prova più evidente che una cosa non esiste ancòra è che esisterà. 29 Sarò saggio; lo spero, ma intanto non lo sono; se possedessi quel bene, sarei immune da questo male. Sarò saggio: da questo puoi arguire che ancòra non lo sono. Non posso avere al tempo stesso questo bene e questo male; il bene e il male non coesistono e non possono trovarsi insieme nella medesima persona.

30 Lasciamo da parte queste futili sofisticherie e rivolgiamoci a quegli argomenti che possono esserci di una qualche utilità. Se uno pieno d'ansia corre a chiamare l'ostetrica per la figlia che sta per partorire, non si ferma a leggere l'avviso e l'ordinanza dei giochi; chi si precipita verso la sua casa in fiamme, non studia sulla scacchiera la mossa per liberare una pedina chiusa. 31 Ma, per dio, da ogni parte ti vengono annunciate tutte queste disgrazie: la casa in fiamme, i figli in pericolo, la patria assediata, i beni saccheggiati; e poi, naufragi, terremoti e tutti gli altri possibili motivi di apprensione: turbato da tanti pensieri, hai il tempo di dedicarti a questi passatempi? Cerchi la differenza tra la saggezza e l'essere saggi? Intrecci e sciogli nodi quando ti sovrasta un simile macigno? 32 La natura non ci ha concesso con generosità un'abbondanza tale di tempo che ce ne rimanga un po' da perdere. Vedi quanto ne sciupano anche le persone più attente: un po' ce lo tolgono le malattie nostre, un po' quelle dei familiari; una parte gli affari privati, una parte quelli pubblici; il sonno poi ci sottrae metà della vita. A che serve spendere in sciocchezze la maggior parte di questo tempo così esiguo e veloce, che trascina via anche noi? 33 L'animo, inoltre, prende l'abitudine di svagarsi, invece che curarsi, e di fare della filosofia un divertimento, mentre è un rimedio. Non so che differenza ci sia tra la saggezza e l'essere saggi: so che a me non importa saperlo o non saperlo. Dimmi: quando avrò imparato che differenza c'è fra la saggezza e l'essere saggi, sarò saggio? Perché mi fai indugiare più sui termini della saggezza che sulle sue opere? Rendimi più forte, rendimi più tranquillo, rendimi pari, anzi superiore, alla sorte. E posso esserne superiore, se indirizzerò a questo scopo ogni mia conoscenza. Stammi bene.

 

LIBRO VENTESIMO

 

 

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1 Tu vuoi che ti scriva più spesso. Facciamo un po' i conti: sei tu in debito; eravamo d'accordo che scrivessi tu per primo: tu scrivevi e io rispondevo. Ma non farò il difficile: so che ti si può fare credito. Pagherò anticipatamente e non farò quello che l'eloquentissimo Cicerone invitava Attico a fare: "Scrivi quello che ti viene sulle labbra, anche se non hai niente da dire." 2 A me gli argomenti non mancano mai, anche a tralasciare tutti quelli che riempiono le lettere di Cicerone: quale candidato sia in difficoltà; chi combatta con forze altrui, chi con le proprie; chi aspiri al consolato con l'appoggio di Cesare, chi con quello di Pompeo, chi col proprio patrimonio; che usuraio spietato sia Cecilio: da lui i parenti non possono cavare un soldo a un interesse inferiore al dodici per cento. È meglio occuparsi dei propri mali invece che di quelli altrui, esaminarsi a fondo e vedere a quante cose aspiriamo senza impegno. 3 Non chiedere nulla e tralasciare tutti i bei discorsi della fortuna, questa, Lucilio mio, è la scelta migliore che ci rende sereni e liberi. Nel periodo delle elezioni, quando i candidati, tormentati dall'incertezza, se ne stanno negli spazi loro riservati e uno promette denaro, un altro si dà da fare attraverso i suoi scagnozzi, un terzo consuma di baci le mani a persone da cui, una volta eletto, non vorrà neppure essere toccato, quando tutti aspettano ansiosi la voce del banditore, non pensi che sia piacevole starsene in ozio a guardare quel mercato senza comprare o vendere niente? 4 Quanto è più felice chi guarda senza darsene pensiero non solo ai comizi per l'elezione dei pretori o dei consoli, ma anche a quei grandi comizi in cui si cercano cariche annuali o poteri perpetui, imprese vittoriose e trionfi oppure ricchezze o matrimoni e figli o salute per sé e per i propri familiari! Che grandezza d'animo dimostra chi, solo, non chiede nulla, non supplica nessuno e dice: "Non ho niente a che spartire con te, o sorte; non mi faccio tuo schiavo. So che tu respingi i Catoni e porti al successo i Vatinii. Io non chiedo niente." Questo significa mettere da parte la fortuna.

5 Noi possiamo, dunque, scriverci a vicenda su questi argomenti e trattare una materia sempre nuova, vedendo intorno a noi tante migliaia di uomini inquieti che, per conseguire una meta rovinosa, attraverso il male ricercano il male e aspirano a beni da cui devono fuggire o di cui hanno disgusto. 6 Quando la si desidera, una cosa sembra straordinaria, ma dopo averla ottenuta nessuno è soddisfatto. La prosperità non è avida, come comunemente si crede, è cosa di poco conto; perciò non sazia nessuno. Tu pensi che tali mete siano eccelse perché sono lontane; ma a chi le raggiunge sembrano poco elevate e cerca ancòra, ne sono sicuro, di salire: questa che tu ritieni la vetta è solo un gradino. 7 Ignorare la verità è un male per tutti. Gli uomini, ingannati dall'opinione generale, si fanno attirare da falsi beni, poi, quando li hanno conquistati dopo molte vicissitudini, si accorgono che sono mali oppure che sono vani o inferiori alle loro aspettative; essi, in gran parte, guardano le cose da lontano e sbagliano; tengono in gran conto quelli che sono beni per la massa.

8 Ricerchiamo, dunque, che cosa sia il bene perché non càpiti anche a noi la stessa cosa. Del bene sono state date diverse interpretazioni: c'è chi l'ha definito in un modo, chi in un altro. Per alcuni "il bene è ciò che attrae l'anima e la chiama a sé." Ma sùbito si obietta: e se la attrae verso la rovina? Sai bene quanti mali sono lusinghieri. Il vero e il verosimile sono diversi tra loro. Così il bene è strettamente congiunto al vero; non è un bene se non è vero. Ma ciò che attrae e alletta è verosimile: si insinua, stimola, trascina a sé. 9 Per altri "il bene è ciò che induce al desiderio di sé, o meglio, suscita lo slancio dell'anima, che ad esso tende." Anche in questo caso si può fare la stessa obiezione; ci sono molte cose che suscitano uno slancio dell'anima e arrecano gravi mali a chi le ricerca. Quest'altra definizione è migliore: "Il bene è ciò che suscita verso di sé uno slancio dell'anima secondo natura e che deve essere ricercato solo quando merita di essere ricercato." Si identifica così con l'onestà, poiché l'onestà va senz'altro ricercata. 10 È necessario a questo punto che io spieghi la differenza tra il bene e l'onesto. Essi hanno tra loro qualcosa di comune e di inseparabile: non c'è bene che non abbia in sé qualcosa di onesto e l'onesto coincide senz'altro col bene. Dunque, che differenza c'è tra i due? L'onesto è il bene nella sua perfezione, rende la vita compiutamente felice e al suo contatto ogni altra cosa diventa un bene. 11 Intendo dire: certe cose non sono né beni, né mali, come la carriera militare o politica o giuridica. Quando queste attività vengono svolte onestamente, cominciano ad essere beni e da una condizione indeterminata passano al bene. Il bene è tale se congiunto all'onesto; l'onesto è di per sé un bene; il bene scaturisce dall'onesto, l'onesto da se stesso. Quello che è un bene avrebbe potuto essere un male; ciò che è onesto non avrebbe potuto essere altro che bene.

12 Certi hanno dato quest'altra definizione: "Il bene è ciò che è secondo natura." Attento alle mie parole: ciò che è bene è secondo natura, ma ciò che è secondo natura non è senz'altro anche un bene. Molte cose sono conformi a natura, ma sono di così poco conto che non si può definirle beni; sono insignificanti, disprezzabili. Non c'è nessun bene disprezzabile perché di poco conto. Difatti, finché è una cosa di scarso valore, non è un bene e quando comincia ad essere un bene, non è più di scarso valore. Da che cosa si riconosce il bene? Dalla sua perfetta conformità alla natura. 13 "Sostieni," tu dici, "che il bene è secondo natura; questa è la sua caratteristica. Sostieni, inoltre, che anche altre cose sono secondo natura, ma non sono beni. Come, dunque, quello è un bene, mentre queste non lo sono? Come arriva ad avere una caratteristica distinta, quando a entrambi è comune la prerogativa di essere secondo natura?" 14 Naturalmente per la grandezza di questa prerogativa. E non è strano che certi esseri crescendo cambino. È stato un bimbo; è diventato un adulto; il suo carattere distintivo è cambiato; prima era un essere irrazionale, ora razionale. Certi esseri con la crescita non solo diventano più grandi, ma mutano condizione. 15 "Se una cosa diventa più grande," si ribatte, "non per questo cambia. Non importa se di vino riempi un fiasco o una botte: in entrambi c'è la caratteristica propria del vino. Così una piccola o una grande quantità di miele non hanno un sapore diverso." Tu porti esempi non pertinenti; in questi casi, infatti, la qualità è la stessa e rimane tale anche se la quantità aumenta. 16 Certe cose, accrescendosi, mantengono la propria specie e la propria caratteristica; altre, dopo molti incrementi, cambiano con l'ultima aggiunta che imprime loro una qualità nuova, diversa dalla precedente. È una sola la pietra che forma la vòlta: quella che s'incunea tra i due fianchi inclinati e li congiunge. Perché l'ultima aggiunta è determinante, anche se è piccola? Perché non accresce, ma porta a compimento. 17 Ci sono, poi, cose che, sviluppandosi, perdono la forma precedente e ne acquistano una nuova. Quando mentalmente ampliamo una cosa e non riusciamo più a seguirne la grandezza, essa prende il nome di infinito: è diventata molto diversa da come era quando sembrava grande, ma finita. Nello stesso modo pensiamo a una massa difficile a dividersi: in ultimo, crescendo la difficoltà, si concepisce l'indivisibile. Così da un corpo che si muove a mala pena arriviamo al concetto di immobilità. Per lo stesso motivo una cosa è secondo natura: ingrandendosi, passa ad altre caratteristiche e diventa un bene. Stammi bene.

 

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1 Ogni volta che scopro qualcosa di nuovo, non aspetto che tu mi dica: "Fammela sapere": me lo dico da me. Chiedi che cosa ho trovato? Apri la borsa: c'è solo da guadagnare. Ti insegnerò come puoi diventare ricco al più presto. Come ardi dalla voglia di saperlo! E a ragione: ti condurrò alla più grande ricchezza per una scorciatoia. Avrai, però bisogno di qualcuno che ti faccia credito: per darsi al commercio, occorre fare debiti; ma non voglio che tu li contragga attraverso un intermediario, non voglio che i mediatori mettano in giro il tuo nome. 2 Ti indicherò uno pronto a farti credito, lo suggerisce Catone: contrai un mutuo con te stesso. Per quanto piccolo sia, sarà sufficiente se quello che manca lo chiederemo solo a noi. Non fa differenza, Lucilio mio, tra non desiderare e avere. Unico è il risultato: non ti tormenti. Il mio consiglio non è di negare qualcosa alla natura - è ostinata, invincibile, chiede quello che le spetta - sappi, però che quanto va al di là della natura è effimero e non è indispensabile. 3 Ho fame: devo mangiare. Ma se il pane è comune o raffinato, questo non riguarda la natura: non vuole far godere lo stomaco, vuole riempirlo. Ho sete: se l'acqua l'ho attinta dalla vicina cisterna oppure l'ho messa sotto la neve per rinfrescarla artificialmente, non riguarda la natura: chiede solo di estinguere la sete. E non importa neppure se beviamo da una coppa d'oro o di cristallo o di murra o in un calice di Tivoli o nel cavo della mano. 4 Di ogni cosa guarda il fine e tralascerai quelle superflue. La fame si fa sentire: afferro la prima cosa che mi càpita; sarà proprio la fame a rendermi gradito qualunque cibo io prenda. Chi ha fame, non rifiuta niente.

5 Vuoi, dunque, sapere che cosa mi è piaciuto? Questa massima che mi sembra eccellente: "Il saggio è il più accanito ricercatore delle ricchezze naturali." "Tu mi regali un piatto vuoto," dici. "Ma che cos'è? Avevo già preparato le casse e cercavo in quale mare mi sarei dato al commercio, quale appalto assumere, che merci importare. Questo è un inganno: promettere la ricchezza e predicare la povertà." E così, secondo te, è povero l'uomo a cui non manca nulla? "Per merito suo," ribatti, "e della sua pazienza, non della sorte." Perciò dunque, se a uno non può venir meno la ricchezza, non lo giudichi ricco? 6 Preferisci avere molto o quanto basta? Chi possiede molto desidera di più, e questa è la prova che non possiede ancòra abbastanza; chi possiede abbastanza ha raggiunto una cosa che mai tocca a un ricco: la fine dei desideri. Oppure per te non sono ricchezze perché per esse nessuno è mai stato proscritto? Perché nessuno è mai stato avvelenato dalla moglie o dal figlio? Perché sono sicure in guerra? E tranquille in tempo di pace? Perché il loro possesso non è pericoloso e non è faticoso amministrarle?

7 "Ma non possiede molto chi semplicemente non soffre il freddo, né ha fame o sete." Giove non possiede di più. Non è mai poco quello che basta e non è mai molto ciò che non basta. Dopo aver sconfitto Dario e gli Indiani, Alessandro è sempre povero. Non è forse vero? Cerca nuove conquiste, esplora mari sconosciuti, invia nell'oceano nuove flotte e vuole quasi infrangere le barriere che cingono il mondo. 8 Ciò che basta alla natura non basta all'uomo. C'è chi desidera ancòra qualcosa dopo aver avuto tutto: tanta è la cecità mentale e a tal punto ciascuno dimentica i propri primi passi, una volta raggiunto il successo. L'uomo che poco prima dominava, non senza contrasti, un oscuro, piccolo territorio, raggiunto l'estremo limite del mondo, si rammarica di ritornare attraverso la terra ormai sua. 9 Il denaro non ha mai reso ricco nessuno, anzi ha suscitato in tutti una cupidigia maggiore. Ne chiedi il motivo? Chi più possiede è in condizione di possedere ancòra di più. Ebbene, nominami pure chi vuoi tra quanti sono considerati alla pari di Crasso e Licino; porti il registro dei suoi averi e faccia pure la somma di quanto possiede e di quanto spera di possedere: costui, per me, è povero; per te, può esserlo. 10 Chi, invece, si conforma alle esigenze della natura, la povertà non solo non la sente, ma nemmeno la teme. Sappi, tuttavia, che è molto difficile ridurre le proprie ricchezze nei limiti voluti dalla natura: proprio quella persona che abbiamo limitato, che tu chiami povera, possiede anche qualcosa di superfluo. 11 Eppure le ricchezze accecano la massa e l'attraggono, se da una casa esce molto denaro contante, se anche il tetto è ricoperto d'oro, se la servitù è prestante fisicamente ed è ben vestita. La felicità di costoro è tutta esteriore: l'uomo che abbiamo sottratto al condizionamento della gente e della fortuna, invece, è felice dentro. 12 Questi individui, chiamati a torto ricchi e in realtà poveri, pieni di cose da fare, hanno la ricchezza come noi diciamo di avere la febbre: in realtà è la febbre che ha noi. Spesso diciamo anche all'opposto: "Lo ha preso la febbre"; analogamente bisognerebbe dire: "Lo ha preso la ricchezza."

La raccomandazione principale che vorrei farti e che non si fa mai abbastanza a nessuno, è di prendere sempre come misura i desideri naturali, soddisfarli ti costerà poco o niente: bada solo a non confondere i vizi con i desideri. 13 Vuoi sapere su quale tavola, con che argenteria, da quali servitori tutti uguali e con la pelle liscia debba essere servito il cibo? La natura richiede solo il cibo.

Forse che, quando la sete ti brucia la gola, domandi coppe d'oro? E quando hai fame disdegni tutto tranne il pavone o il rombo?

 

14 La fame non chiede molto, basta saziarla; del come non si cura troppo. È la malaugurata intemperanza a dare questi tormenti: cerca come aver fame anche dopo essersi saziata, e non come riempire lo stomaco, ma come rimpinzarlo, come far ritornare la sete placata con la prima coppa. Perciò Orazio dice bene che alla sete non importa in quale tazza o con quanta eleganza venga servita l'acqua. Se pensi che sia importante che ti serva uno schiavo dai capelli lunghi e che il bicchiere sia splendente, significa che non hai sete. 15 Il vantaggio maggiore che tra gli altri ci ha dato la natura è di aver tolto al bisogno ogni schifiltosità. Solo il superfluo consente di scegliere: questo è poco conveniente, quest'altro poco sfarzoso, questo offende i miei occhi. Dio, quando ha creato l'universo e ci ha dato le norme di vita, si è preoccupato della nostra sopravvivenza, e non della nostra schifiltosità: tutto è pronto e a portata di mano per vivere; soddisfare i nostri piaceri, invece, ci costa affanni e sofferenze. 16 Usufruiamo, dunque, di questo grande beneficio della natura e pensiamo che il suo maggior merito nei nostri confronti consiste nel poter prendere senza disgusto quello di cui abbiamo necessità. Stammi bene.

 

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1 Nella tua lettera tocchi diversi piccoli problemi, ma ti soffermi su uno in particolare e vuoi che venga risolto: come, cioè, abbiamo raggiunto la cognizione del bene e dell'onesto. Per altri filosofi questi sono due concetti diversi, per noi soltanto distinti. Ecco di che si tratta. 2 Alcuni ritengono che il bene coincida con l'utile. Perciò dànno questo nome alla ricchezza, al cavallo, al vino, alle scarpe. Tanto è scarso il valore che attribuiscono al bene e tanto in basso è sceso! Per loro è onesto ciò che concorda con un giusto concetto di dovere, come prendersi amorevolmente cura del vecchio padre, aiutare l'amico povero, comportarsi con valore in una spedizione militare, parlare con saggezza e moderazione. 3 Per noi sono due cose distinte, ma con un unico fondamento. È un bene solo ciò che è onesto; e l'onesto è senz'altro un bene. Ritengo superfluo aggiungere quale differenza ci sia tra loro, dal momento che l'ho ripetuto spesso. Dirò solo questo: noi non pensiamo che sia un bene ciò di cui si può fare anche un cattivo uso; e tu vedi quanti fanno cattivo uso della ricchezza, della nobiltà, della forza.

Ritorno ora all'argomento di cui vuoi che si parli, ossia come abbiamo acquistato la prima cognizione del bene e dell'onesto. 4 Non ha potuto insegnarcela la natura: essa ci ha dato i semi della scienza, non la scienza. Certi sostengono che questa cognizione l'abbiamo acquisita per caso, ma è inverosimile che la virtù ci sia arrivata per caso. Secondo noi, l'ha originata l'osservazione e il confronto di fatti ricorrenti; gli Stoici ritengono che si sia arrivati a comprendere l'onesto e il bene per analogia. Poiché i grammatici latini hanno riconosciuto a questa parola il diritto di cittadinanza, penso che non si debba scartarla, anzi va riportata alla cittadinanza che le è propria. Me ne servirò, dunque, non solo come di un termine acquisito, ma ormai di uso comune. Ti spiegherò ora cos'è l'analogia. 5 Conoscevamo la salute del corpo: in base a essa pensammo che ve ne fosse anche una dell'anima. Conoscevamo le forze fisiche: partendo da esse abbiamo concluso che ci fosse anche una forza spirituale. Certe azioni generose o piene di umanità o di coraggio ci hanno sbalordito: abbiamo cominciato ad ammirarle come immagini di perfezione. A esse si accompagnavano molti vizi nascosti dalla bellezza e dallo splendore di un'azione insigne: questi abbiamo finto di non vederli. La natura ci porta a ingigantire le azioni degne di lode, tutti esaltano un gesto glorioso al di là della verità: da qui, dunque, abbiamo derivato l'immagine di un bene smisurato. 6 Fabrizio rifiutò l'oro di Pirro: per lui poter disprezzare le ricchezze di un re valeva più di un regno. Lui stesso, quando il medico di Pirro promise che avrebbe avvelenato il re, avvertì Pirro di guardarsi dal tradimento. Fu un segno della medesima nobiltà d'animo non farsi vincere dall'oro e non voler vincere col veleno. Abbiamo ammirato quell'uomo straordinario, che non si è lasciato piegare dalle promesse di un re, né da quelle fatte contro un re, tenace esempio di virtù, e cosa difficilissima, onesto anche in guerra; per lui certe azioni erano illecite pure contro i nemici, e nella sua estrema povertà, di cui andava orgoglioso, ricusò sia la ricchezza che il veleno. "Vivi," disse, "per merito mio, Pirro, e rallégrati per ciò di cui prima ti dolevi: Fabrizio è incorruttibile." 7 Orazio Coclite da solo sbarrò lo stretto passaggio del ponte e ordinò che gli fosse tagliata alle spalle la via del ritorno, pur di impedire l'accesso ai nemici, e resistette al lungo assalto, finché sentì crollare le travi a pezzi. Guardò indietro e quando si accorse che la patria era fuori pericolo a prezzo del suo pericolo personale, gridò: "Venga, chi vuole seguirmi, per questa via", e si gettò a capofitto nel Tevere; preoccupandosi di salvare dai gorghi del fiume tanto le armi quanto la vita, riuscì a mantenere l'onore delle armi vittoriose e ritornò sicuro come se fosse venuto dal ponte. 8 Queste e altre azioni simili ci hanno dato l'immagine della virtù.

Aggiungerò un'affermazione che può sembrare strana: a volte i mali si presentano sotto l'apparenza dell'onestà e il bene supremo emerge dal suo contrario. Ci sono, infatti, come sai, vizi che confinano con la virtù; e anche azioni disoneste e infami apparentemente somigliano al bene: così il prodigo si spaccia per liberale, pur essendoci una grande differenza tra chi sa dare e chi non sa conservare. Ci sono molte persone, caro Lucilio, che non donano, ma gettano: non posso chiamare liberale uno che ha in odio il proprio denaro. L'indifferenza somiglia alla condiscendenza, la temerità al coraggio. 9 Questa somiglianza ci ha costretto a fare attenzione e a distinguere fatti apparentemente affini, ma molto diversi tra loro nella sostanza. Osservando quegli uomini resi famosi da qualche gloriosa impresa, abbiamo cominciato a notare chi aveva agito con magnanimità e slancio, ma in una sola occasione. Si è visto che uno era coraggioso in guerra, ma vile nel foro, che sopportava con fermezza la povertà, ma era debole di fronte al disonore: abbiamo lodato l'impresa, ma disprezzato l'uomo. 10 Abbiamo notato che un altro era benevolo verso gli amici, moderato verso i nemici, irreprensibile e virtuoso sia nella vita pubblica che in quella privata; paziente nel sopportare e saggio nell'agire. Lo abbiamo visto donare a piene mani quando occorreva essere liberali; tenace, risoluto e capace di ovviare alla stanchezza fisica con le risorse dello spirito nella fatica. Inoltre era sempre uguale a se stesso in ogni sua azione, istintivamente onesto e arrivato con l'abitudine alla virtù al punto non solo di agire correttamente, ma di non poter agire se non correttamente. 11 Abbiamo compreso che in lui la virtù era perfetta. La virtù poi, l'abbiamo suddivisa in sezioni: bisognava frenare le passioni, reprimere le paure, decidere con saggezza il da farsi, dare a ciascuno il suo: abbiamo capito cos'è la temperanza, la fortezza, la saggezza, la giustizia e abbiamo attribuito a ciascuna i suoi còmpiti. Da che cosa, dunque, ci è derivato il concetto di virtù? Ce lo hanno indicato l'ordine, la bellezza, la fermezza che le sono proprie, l'armonia di tutte le sue azioni tra loro, e la sua grandezza che si solleva al di sopra di tutto. Da qui è nata l'idea della vita felice che scorre propizia, interamente padrona di sé. 12 E come siamo arrivati a questa idea? Ecco: l'uomo perfetto che ha raggiunto la virtù non si è mai scagliato contro la fortuna, non si è lasciato affliggere dalle disgrazie: le ha subite come fatiche impostegli, sentendosi cittadino dell'universo e soldato. Le avversità di ogni tipo non le ha rifiutate come un male assegnatogli dalla sorte, ma le ha accolte come un impegno: "Comunque sia la situazione, è affar mio; è dura, è difficile, devo impegnarmi a fondo." 13 Non poteva, perciò, non apparire grande l'uomo che non ha mai pianto sui suoi mali e non si è lamentato mai del suo destino; si è fatto comprendere da molti, ha brillato come una fiaccola nelle tenebre e si è attirato la benevolenza generale col suo carattere mite e moderato, ugualmente giusto con gli uomini e con gli dèi. 14 Aveva un animo perfetto e giunto al massimo livello, oltre il quale c'è solo lo spirito divino, di cui una parte è discesa anche nell'anima mortale; e proprio quando medita sulla sua mortalità e si rende conto che l'uomo è nato per morire, l'anima rivela di essere divina: questo corpo non è la sua casa, ma solo un albergo, e per un breve soggiorno, e bisogna lasciarlo quando ci si accorge di essere sgraditi all'ospite.

15 Per me, caro Lucilio, la prova più lampante della provenienza dell'anima da una sede più elevata è che ritiene di trovarsi in una condizione ignobile e misera e non teme di uscire da questa vita: chi ricorda la propria origine, sa dove andrà a finire. Non vediamo forse quanti disagi ci tormentano, come a noi mal si adatti questo corpo? 16 Ora lamentiamo mal di testa, ora di pancia, ora di petto e di gola; a volte ci fanno soffrire i nervi, a volte i piedi, ora la diarrea, ora il catarro; ci càpita di avere un flusso eccessivo, oppure insufficiente di sangue: siamo sbattuti e gettati qua e là, come succede a chi non abita in casa propria. 17 Eppure, benché ci sia toccato in sorte un corpo tanto guasto, facciamo progetti senza termine e spingiamo le nostre speranze fino all'estremo limite della vita, e non c'è denaro, né potere che ci contenti. È un atteggiamento veramente sfacciato e stupido. Non ci basta niente: eppure siamo destinati a morire, anzi stiamo morendo; ogni giorno ci avviciniamo all'ultimo giorno e ogni ora ci spinge a quell'istante da cui dovremo precipitare nella morte. 18 Vedi la nostra cecità mentale! Quello che definisco futuro accade ora, anzi, in gran parte è già accaduto: il tempo che abbiamo vissuto è là dove era prima che lo vivessimo. Sbagliamo a temere l'ultimo giorno: ogni giorno concorre in egual misura alla morte. La nostra fine non la segna quel gradino su cui cadiamo: la rende solo evidente; alla morte ci porta l'ultimo giorno, ma tutti ci avvicinano a essa; la morte ci consuma giorno per giorno, non ci trascina via all'improvviso. Perciò un'anima grande, conscia della sua natura superiore cerca di comportarsi con onestà e con impegno in questa dimora in cui è stata posta; e non ritiene suo niente di quanto la circonda, ma, simile a un viaggiatore frettoloso, ne fa uso come se lo avesse in prestito.

19 Vedendo un uomo così coerente, era inevitabile che ci colpisse la vista di un'indole fuori del comune; soprattutto se la sua coerenza mostrava, come ho detto, che questa era vera grandezza. Il vero è costante, il falso discontinuo. Certi sono a volte Vatinii, a volte Catoni; e ora giudicano poco austero Curio, poco povero Fabrizio, poco frugale e parco Tuberone, ora invece gareggiano con Licino nella ricchezza, con Apicio nei banchetti, con Mecenate nei piaceri. 20 Che un'anima è corrotta lo prova inequivocabilmente la sua instabilità, l'ondeggiare continuo tra la simulazione della virtù e l'amore dei vizi.

Aveva ora duecento, ora dieci servi, ora parlava di grandi cose, di re e di tetrarchi, ora diceva "mi basta un tavolo a tre piedi e una conchiglia di sale schietto, una toga anche rozza, che possa difendermi dal freddo", ma se tu avessi dato un milione di sesterzi a quest'uomo parco e contento di poco, entro cinque giorni non avrebbe avuto più un soldo.

 

21 Ci sono molti uomini uguali a questo descritto da Orazio Flacco, una persona mai uguale e neppur simile a se stessa, tale è la sua incoerenza. Ho detto molti? In realtà sono così quasi tutti. Ognuno cambia ogni giorno idee e desideri: ora vuole una moglie, ora un'amante, ora si atteggia a re, ora non c'è schiavo più servizievole di lui, ora è tronfio e detestabile, ora si abbassa e si riduce al di sotto degli umili, ora spreca il denaro, ora lo rapina. 22 Ecco come si rivela un animo sconsiderato: passa da un atteggiamento all'altro, e, quello che per me è più vergognoso, non è mai coerente con se stesso. Credi: è una gran cosa che un uomo sia sempre lo stesso. Ma nessuno, eccetto il saggio, è così, noi tutti siamo mutevoli. Ora ti sembreremo frugali e seri, ora prodighi e frivoli; cambiamo spesso maschera e ne indossiamo una opposta a quella che ci siamo tolti. Imponiti, dunque, di mantenerti fino alla morte quale hai deciso di essere; fa' in modo di meritare lodi, o almeno di essere riconosciuto. Di qualcuno che hai visto ieri potresti giustamente chiederti: "Chi è costui?", tanto è cambiato. Stammi bene.

 

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1 Nascerà una discussione, lo so bene, quando ti esporrò una questioncella su cui oggi mi sono soffermato a lungo; griderai ripetutamente: "Che c'entra questo con la morale?" Grida pure: io prima ti opporrò altri avversari, Posidonio e Archidemo - non rifiuteranno di essere chiamati in causa - e poi ti dirò: non tutto ciò che è in rapporto con la morale influisce sulla moralità. 2 Ci sono questioni che riguardano l'alimentazione dell'uomo, altre il lavoro, il vestire, l'insegnamento, lo svago; toccano tutte l'uomo, anche se non tutte lo rendono migliore. Ce ne sono poi altre che riguardano la moralità, ognuna in maniera diversa: certe la correggono e la regolano, certe studiano la sua natura e la sua origine. 3 Quando ricerco perché la natura abbia generato l'uomo, perché lo abbia privilegiato rispetto agli altri animali, secondo te ho lasciato da parte il problema morale? Certamente no. Come saprai qual è la condotta da seguire, se non troverai cos'è il meglio per l'uomo, se non ne studierai la natura? Le cose da fare e quelle da evitare, le capirai quando avrai imparato quali siano i tuoi naturali doveri. 4 "Io," dici, "voglio imparare ad avere meno desideri, meno timori. Liberami dalla superstizione; insegnami che è fugace e vana la cosiddetta felicità: la si inverte molto facilmente aggiungendo una sillaba." Soddisferò il tuo desiderio: stimolerò le virtù e flagellerò i vizi. Mi giudichino pure eccessivo e smodato su questo argomento, ma io continuerò a perseguitare la depravazione, a reprimere le passioni più violente, a frenare i piaceri destinati a tramutarsi in dolore, a dichiarare la mia condanna contro i desideri dell'uomo. E perché no? Abbiamo desiderato i mali peggiori, ce ne siamo compiaciuti e ne è nato quello su cui discutiamo.

5 Intanto permettimi di prendere in considerazione dei problemi che possono sembrare un po' troppo lontani dal nostro argomento. Ci chiedevamo se tutti gli animali avessero coscienza della loro natura. Che sia così lo dimostra il fatto che i loro movimenti sono appropriati e spediti come se le membra fossero esercitate; tutti hanno una grande agilità fisica. L'artigiano maneggia con facilità i suoi attrezzi, il pilota dirige abilmente il timone della nave, il pittore distingue sùbito i numerosi e diversi colori che si è messo davanti per fare un ritratto e passa facilmente con lo sguardo e con le mani dalla cera al quadro; con la stessa rapidità gli animali fanno uso dei loro arti. 6 Ammiriamo i mimi perché sono abili a interpretare con le mani tutte le situazioni e i sentimenti, e i loro gesti uguagliano la velocità delle parole: questo in loro è frutto di arte, nell'animale di qualità naturali. Nessuno fatica a muovere le membra, nessuno è incerto nell'usare le proprie capacità. Lo fanno sùbito appena nati; vengono al mondo con queste cognizioni; nascono ammaestrati. 7 Si ribatte: "Gli animali muovono le loro membra nel modo giusto, perché se le muovessero diversamente sentirebbero dolore. Come dite voi, sono costretti, ed è la paura, non la volontà, a determinare i loro corretti movimenti." Non è vero; i movimenti fatti per necessità sono cauti, quelli spontanei sono agili. Non è la paura di soffrire che costringe gli animali: essi tendono ai movimenti naturali, anche se sono impediti dal dolore. 8 Così il bimbo che tende a star dritto e si abitua a reggersi in piedi, appena comincia a provare le sue forze, cade e ogni volta si rialza piangendo finché attraverso la sofferenza arriva a compiere i movimenti naturali. Certi animali dal dorso rigido, se si rovesciano, si contorcono a lungo, tirano fuori le zampe e si piegano su un fianco finché non si rimettono a posto. La tartaruga non soffre se è supina, tuttavia smania e vuole riprendere la sua posizione naturale, e non smette di tentare e di agitarsi finché non si rimette dritta. 9 Tutti gli animali hanno, quindi, coscienza della loro natura, perciò muovono così speditamente le membra: e la prova più evidente che nascono con questa nozione sta nel fatto che tutti gli animali conoscono l'uso delle loro capacità.

10 "La costituzione," ribattono, "come dite voi, è l'elemento fondamentale dell'anima nell'atteggiamento che assume nei confronti del corpo. Come può un neonato capire un concetto così complesso e sottile, che voi stessi riuscite a spiegare a stento? Bisognerebbe che tutti gli animali nascessero maestri di dialettica per comprendere questa definizione oscura a gran parte delle persone istruite." 11 L'obiezione sarebbe giusta se io dicessi che gli animali comprendono la definizione di costituzione, non la costituzione in se stessa. La natura è più facile capirla che spiegarla. Pertanto il neonato non conosce l'essenza della sua costituzione, ma conosce la sua costituzione; e non sa che cosa sia un animale, ma sente di essere un animale. 12 Inoltre, la sua stessa costituzione può comprenderla solo in maniera grossolana, per sommi capi e confusamente. Anche noi sappiamo di avere un'anima, ma non ne conosciamo l'essenza, la sede, la natura e l'origine. Come noi abbiamo coscienza della nostra anima, sebbene ne ignoriamo la natura e la sede, così tutti gli animali hanno coscienza della loro costituzione. Devono avere coscienza di quell'elemento attraverso il quale percepiscono anche le altre cose; devono avere coscienza di ciò a cui obbediscono e che li governa. 13 Ciascuno di noi comprende che esiste un qualcosa che determina i suoi impulsi: ma ignora che cosa sia. Sa di avere un istinto, ma non sa quale sia e da dove nasca. Così anche i neonati e gli animali non hanno una coscienza sufficientemente limpida e chiara della loro essenza.

14 "Voi sostenete," ribattono, "che ogni animale si adatta sùbito alla sua costituzione; la costituzione dell'uomo è razionale e perciò l'uomo si adatta a se stesso non come a un animale, ma come a un essere razionale: l'uomo è caro a sé per quell'elemento che lo fa uomo. Come, dunque, il neonato può adattarsi alla sua costituzione di essere razionale, se non è ancora in grado di ragionare?" 15 Ogni età ha una sua costituzione, quella del neonato, del bambino, del giovane, del vecchio sono diverse: tutti si adattano alla costituzione in cui si trovano. Il neonato è senza denti: si adatta a questa sua costituzione. Gli spuntano i denti: si adatta a questa nuova costituzione. Anche l'erba che si trasformerà in messe e grano, quando è tenera e spunta appena dal solco, ha una costituzione; ne assume, poi, un'altra quando è cresciuta e si erge sullo stelo ancòra cedevole, ma capace di sopportare il suo peso, e un'altra ancòra, quando, oramai bionda e con la spiga dura, aspetta di essere portata sull'aia: qualunque costituzione assuma, la mantiene e vi si adatta. 16 L'infanzia, la fanciullezza, la giovinezza e la vecchiaia sono età diverse; e tuttavia io sono lo stesso che fui bambino, fanciullo, adolescente. Così, benché ogni età abbia una diversa costituzione, l'adattamento alla sua costituzione è sempre lo stesso. La natura non mi affida il fanciullo o il giovane o il vecchio, ma me stesso. Il neonato, dunque, si adatta alla sua attuale costituzione di neonato, non a quella futura di giovane: anche se deve passare a uno stadio superiore, non significa che lo stadio in cui è nato non sia secondo natura. 17 L'animale per prima cosa si adatta a sé, poiché ci deve essere un punto di riferimento per tutto il resto. Aspiro al piacere; per chi? Per me; quindi mi curo di me stesso. Fuggo il dolore; per chi? Per me; quindi mi curo di me stesso. Se faccio tutto per curarmi di me stesso, antepongo a tutto la cura di me stesso. Tutti gli animali hanno questo istinto che non viene dall'esterno, ma è innato. 18 La natura genera i suoi figli e non li abbandona, e poiché la difesa più sicura viene da chi è più vicino, ciascuno è affidato a se stesso. Perciò come ho detto nelle lettere precedenti, gli animali, anche giovani, appena usciti dall'utero materno o dall'uovo, sanno sùbito che cosa li minacci ed evitano i rischi mortali; gli animali preda degli uccelli rapaci ne temono anche l'ombra quando questi passano in volo. Non c'è animale che nasca senza la paura della morte.

19 "Come può" ci si domanda, "un animale appena nato capire se una cosa è salutare o mortifera?" Prima di tutto bisogna chiedersi se capisce, e non come capisce. Che essi capiscano si evince dal fatto che si comportano come se capissero. Perché la gallina non fugge il pavone o l'oca, ma lo sparviero, che nemmeno conosce e che è tanto più piccolo? Perché i pulcini temono il gatto e non il cane? È chiaro che hanno innato il senso del pericolo: se ne guardano prima di poterlo sperimentare. 20 Inoltre, questo comportamento non è casuale; temono solo quello che devono e non dimenticano mai di difendersi con circospezione: fuggono costantemente dal pericolo. E poi non diventano più pavidi nel corso della loro esistenza; è, quindi, evidente che non è l'esperienza a renderli tali, ma un naturale istinto di conservazione. L'insegnamento dell'esperienza arriva tardi ed è diverso da essere a essere: il bagaglio di nozioni naturali è uguale per tutti e immediato. 21 Ma, se proprio vuoi, ti spiegherò come ogni animale sia portato a riconoscere il pericolo. Sente di essere fatto di carne e percepisce, perciò che cosa può tagliare o bruciare o schiacciare la carne, e quali sono gli animali in grado di nuocere: di questi si forma un'immagine nemica e ostile. Si tratta di due istinti strettamente legati tra loro; infatti, non appena l'animale si adatta alla sua conservazione, ricerca quello che può giovargli, teme ciò che può danneggiarlo. L'impulso verso l'utile è naturale, come naturale è l'avversione alle cose nocive; i comandi della natura vengono attuati, ma non è la riflessione a dettarli, non sono frutto di un calcolo. 22 Non vedi con quanta precisione le api plasmano la loro casa, con quanta generale concordia attendono alla loro parte di lavoro? Non vedi che nessun uomo può imitare la tela del ragno, quanto sia laborioso disporne i fili - alcuni diritti per creare un sostegno, altri sistemati in cerchio da più fitti a più radi - e come vi rimangano impigliati, quasi in una rete, gli animali più piccoli, contro cui sono stati tesi? 23 Quest'arte è innata, non si impara. Perciò non c'è un animale più esperto di un altro: vedrai che le tele dei ragni sono uguali, e uguali sono nei favi tutti i fori. L'insegnamento che ci viene da un'arte è incerto e disuguale: uguale è invece quello che ci dà la natura. Essa insegna solo un'abile difesa di se stessi, perciò gli animali incominciano contemporaneamente a imparare e a vivere. 24 Non è strano che nascano con quelle capacità senza le quali non potrebbero sopravvivere. E per sopravvivere il primo mezzo che la natura ha dato loro è proprio la capacità di adattamento e l'amore di sé. Non avrebbero potuto sopravvivere, se non lo volessero; e la volontà da sola non servirebbe a niente, ma senza di essa niente sarebbe servito. Non c'è essere che si disprezzi o si trascuri; anche gli animali muti e privi di ragione per quanto tardi in tutto il resto, quando è in gioco la vita, sono scaltri. Vedrai che esseri inutili agli altri non trascurano se stessi. Stammi bene.

 

122

1 Le giornate si sono ormai accorciate; sono molto più brevi, eppure c'è ancora tempo sufficiente se ci si alza, come dire, col giorno. Più zelante e lodevole è chi lo aspetta in piedi e vede l'alba: è vergognoso che uno, col sole già alto, se ne stia a letto dormicchiando e si svegli a mezzogiorno; per molte persone questa è ancòra un'ora antelucana! 2 C'è gente che scambia la notte per il giorno e non apre gli occhi appesantiti dalla baldoria della sera precedente prima che si faccia buio. Inversa alla nostra è la condizione di quegli uomini che la natura, come scrive Virgilio, ha collocato agli antipodi:

Quando Oriente coi cavalli ansanti ci alita addosso, per loro Vespero rosseggiante accende tarde luci.

Così nel caso di costoro inversa alla nostra è la loro vita, non la regione. 3 Ci sono nella medesima città degli uomini agli antipodi che, come dice Catone, non hanno mai visto il sorgere o il tramontare del sole. Secondo te sanno come vivere, se non sanno neppure quando? E costoro temono la morte, quando sono dei sepolti vivi? Portano male come gli uccelli notturni. Anche se passano le notti tra il vino e i profumi, anche se trascorrono tutto il tempo della loro veglia a rovescio in pranzi di molte portate ben cotte, non banchettano, ma celebrano il proprio funerale. Per i morti almeno i funerali si celebrano di giorno. Però per dio, se uno si dà da fare, il giorno non è mai lungo. Allunghiamo la vita: l'agire ne è il dovere e la base. Limitiamo la notte e trasferiamone una parte nel giorno. 4 I volatili destinati ai banchetti vengono tenuti chiusi al buio, perché nell'immobilità ingrassino facilmente; così, stando fermi senza muoversi mai, il loro corpo impigrito si gonfia e un grasso molliccio cresce sulle loro membra. Il fisico di questi uomini che si sono votati alle tenebre è ripugnante a vedersi: hanno un colorito più impressionante del pallore degli ammalati: sono bianchicci, deboli e fiacchi; sono vivi, ma la loro carne è morta. E tuttavia questo è il male minore: quanto più fitte sono le tenebre della loro anima! È istupidita, avvolta nell'oscurità più dei ciechi. Chi mai ha avuto gli occhi per vivere al buio?

5 Chiedi come si possa diventare così depravati da aborrire il giorno e trasferire nella notte tutta la propria vita? Tutti i vizi sono contro natura e vengono meno all'ordine prestabilito; l'uomo dissoluto vuol godere di gioie perverse e non solo devia dal retto cammino, ma se ne allontana più che può fino a trovarsi agli antipodi. 6 Secondo te non vivono contro natura quelle persone che bevono a digiuno, che ricevono il vino nelle vene vuote e siedono a tavola già ubriachi? Eppure questo è un vizio frequente nei giovani che vogliono esercitare le forze, e bevono, anzi tracannano, il vino fin sulla soglia del bagno tra i compagni nudi, e si detergono ripetutamente il sudore provocato dalle numerose bevande calde. Bere dopo il pranzo o la cena è da cafoni; lo fanno i villani che non conoscono il vero piacere: loro, invece, godono del vino puro che non galleggia sul cibo, che penetra liberamente fino ai nervi, trovano piacere nell'ubriachezza a digiuno. 7 E quelli che indossano abiti da donna secondo te non vivono contro natura? E quelli che cercano di apparire come giovinetti in fiore, quando ormai la loro stagione è passata? Che c'è di più crudele, di più miserabile? Non diventare mai un uomo per sottostare a lungo a un uomo? E mentre il sesso avrebbe dovuto sottrarli a quella violenza, non li sottrarranno nemmeno gli anni? 8 E non vivono contro natura quelli che vogliono avere le rose d'inverno e con l'impiego di acqua calda e con opportuni trapianti fanno spuntare i gigli nella stagione fredda? Non vivono contro natura quelli che piantano frutteti in cima alle torri? E quelli che sui tetti delle loro case nei punti più alti hanno boschetti ondeggianti: le radici di questi alberi nascono là dove a stento sarebbe potuta arrivare la cima. Non vive contro natura chi getta le fondamenta delle terme nel mare e il nuoto non gli dà piacere se le vasche d'acqua calda non le colpiscono le onde in tempesta? 9 Stabiliscono di voler tutto contro natura, e alla fine se ne allontanano completamente. "Si fa giorno: è ora di dormire. Tutto è tranquillo: facciamo ginnastica ora, facciamo una passeggiata, pranziamo. Oramai è l'alba: è ora di cenare. Non bisogna fare quello che fa il popolo; è squallido vivere la solita vita ordinaria. Abbandoniamo il giorno come lo vivono tutti gli altri: per noi deve esserci un mattino speciale." 10 Costoro per me sono come morti; quanto sono vicini alla fine e anche prematura, vivendo alla luce di fiaccole e ceri!

Ricordo che in uno stesso periodo furono molti a condurre questo tipo di vita; tra costoro c'era anche un ex pretore, Acilio Buta; dopo aver dilapidato un ingente patrimonio, quando confidò a Tiberio la sua povertà, questi gli rispose: "Ti sei svegliato tardi." 11 Giulio Montano, un poeta discreto, noto per l'amicizia e la successiva inimicizia con Tiberio, era solito leggere le sue poesie. Spessissimo vi cacciava in mezzo albe e tramonti; una volta un tale, seccato che costui avesse recitato i suoi versi per un giorno intero, sosteneva che non si dovesse più andare alle sue letture, e Natta Pinario disse: "Posso forse comportarmi più gentilmente? Sono pronto ad ascoltarlo dall'alba al tramonto." 12 Una volta egli aveva letto questi versi:

Febo comincia a emettere fiamme ardenti e la luce rosseggiante a diffondersi; già la mesta rondine tornando più volte ai nidi pigolanti comincia a portare il cibo e lo distribuisce delicatamente col becco.

E Varo, cavaliere romano, amico di M. Vinicio, frequentatore assiduo di cene prelibate che si guadagnava con la sua maldicenza, esclamò: "E Buta comincia a dormire." 13 Poi, sùbito dopo, quando ebbe recitato questi altri versi:

Ormai i pastori hanno rinchiuso gli armenti nelle stalle, ormai la pigra notte comincia a spargere il silenzio sulle terre addormentate.

Varo di nuovo aggiunse: "Come? È già notte? Andrò a dare il buongiorno a Buta."

Era ben nota la sua vita contraria alla normalità; e, come ho detto, in quel periodo erano in molti a vivere così. 14 Certi lo fanno non perché pensino che la notte sia più piacevole, ma perché non apprezzano ciò che è consueto; e poi, chi ha la coscienza sporca non gradisce la luce, e chi è abituato a desiderare o a disdegnare le cose a seconda che il prezzo sia alto o basso, ha ripugnanza per la luce che non costa niente. Inoltre, questi uomini dissoluti vogliono che della loro vita si parli mentre sono ancòra in vita; se passano sotto silenzio, pensano di sciupare il proprio tempo. Perciò a volte agiscono in modo da suscitare vasta eco. Molti sperperano i loro beni, molti hanno delle amanti: per farsi un nome tra costoro non basta la dissolutezza, bisogna distinguersi; in una società così affaccendata una ordinaria perversità non fa nascere chiacchiere. 15 Pedone Albinovano, elegantissimo narratore, ci raccontava una volta di aver abitato sopra l'abitazione di Sesto Papinio, uno di questa compagnia di nottambuli. "Verso le nove di sera," dice, "sento schioccare la frusta. Chiedo che stia facendo: mi rispondono che si fa fare i conti. Verso mezzanotte sento delle grida concitate. Chiedo che accada: mi dicono che esercita la voce. Verso le due chiedo che significhi quel rumore di ruote: mi riferiscono che va a passeggio. 16 All'alba sento correre, chiamare gli schiavi, agitarsi i cantinieri e i cuochi. Domando che accada: mi rispondono che ha chiesto vino mielato e orzata ed è appena uscito dal bagno. 'Il suo pranzo, allora, durava più di una giornata?' No; viveva molto frugalmente; non consumava niente altro che la notte." Perciò Pedone a chi lo definiva gretto e avaro, rispondeva: "Chiamatelo anche nottambulo."

17 Non devi stupirti di trovare tante varietà di vizi: sono diversi, hanno innumerevoli forme, non si possono classificare tutti. La ricerca del bene è semplice, quella del male complessa e assume sempre nuove deviazioni. Lo stesso accade per i modi di vivere: se conformi a natura sono semplici, liberi e presentano scarse differenze; se perversi, sono in contrasto tra loro e con se stessi. 18 Tuttavia, la causa prima di questa corruzione sta per me nel disgusto per la vita normale. Si distinguono dagli altri per l'eleganza, per la raffinatezza delle cene, per il lusso delle carrozze, e allo stesso modo vogliono differenziarsi anche per l'uso del tempo nelle sue successioni. Per loro una cattiva reputazione è il premio dei loro vizi, perciò non vogliono commettere i peccati soliti. E tutti questi che, per così dire, vivono al contrario, cercano appunto una cattiva reputazione. 19 Perciò Lucilio mio, dobbiamo seguire la vita segnata dalla natura, senza allontanarcene: se uno la percorre, tutto gli diventa facile e comodo; se va in senso contrario, vive come se remasse controcorrente. Stammi bene.

 

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1 Sfinito da un viaggio più scomodo che lungo arrivo nella mia villa di Alba a notte alta: non trovo niente di pronto tranne il mio stomaco. Perciò stanco mi getto sul divano, senza prendermela per il ritardo del cuoco e del fornaio. Se una cosa si prende alla leggera, mi dico, non è grave e niente dovrebbe mandarci in collera, purché non lo ingrandiamo noi stessi col nostro sdegno. 2 Il mio fornaio non ha pane; ne hanno, però il fattore, il custode, il colono. "Pane cattivo," dirai. Aspetta: diventerà buono; la fame renderà morbido e bianco anche questo. Perciò non bisogna mangiare finché la fame non lo comanda. Aspetterò dunque, e non mangerò prima di avere un buon pane oppure di non provare più disgusto per quello cattivo. 3 Abituarsi al poco è necessario: anche chi è ricco e ha tutto si troverà in luoghi e circostanze sfavorevoli che impediranno la soddisfazione dei suoi piaceri. Nessuno può avere tutto quello che vuole, ma può non volere quello che non ha e godere delle gioie che gli si offrono. Gran parte della libertà consiste in un ventre moderato e capace di sopportare gli stenti. 4 Non si può immaginare quanto piacere mi dia il sentire che la stanchezza se ne va da sé; non cerco né massaggiatori, né bagni, unico rimedio è il tempo: il riposo elimina le conseguenze della fatica. Una cena qualunque sarà più piacevole di un banchetto inaugurale. 5 [...] Ho messo, dunque, il mio animo alla prova all'improvviso e perciò ne ho tratto un'esperienza più schietta e vera. Se l'animo si prepara e si impone di essere paziente, la sua reale fermezza non è chiara. Le prove più sicure sono quelle improvvise: se di fronte ai dispiaceri non è solo rassegnato, ma tranquillo; se non dà in escandescenze e non attacca briga; se supplisce a ciò che avrebbe dovuto ricevere non desiderandolo, e pensa che manchi qualcosa alle sue abitudini, ma non a lui stesso.

6 Dell'inutilità di molte cose ci accorgiamo solo quando cominciano a mancare: le usiamo non per bisogno, ma perché le abbiamo. E quante cose, poi, ci procuriamo perché le hanno gli altri o perché le posseggono quasi tutti! Ecco una delle cause dei nostri mali: viviamo imitando il prossimo e non ci facciamo regolare dalla ragione, ma trascinare dall'abitudine. Una cosa che se la facessero in pochi, non vorremmo imitare, quando diventa una moda la seguiamo, quasi fosse più giusta perché è più diffusa; l'errore, quando diventa comune, occupa in noi il posto del bene. 7 Tutti ormai viaggiano come se li precedesse la cavalleria numidica e una schiera di battistrada: sarebbe una vergogna non avere nessuno che faccia scansare i passanti e mostri, alzando un polverone, che arriva un uomo importante! Tutti hanno ormai muli carichi di vasellame di cristallo, di murra, cesellato a mano da grandi artisti: sarebbe una vergogna se sembrasse che nei bagagli porti solo roba infrangibile! Tutti si trascinano dietro giovani schiavi col viso unto di crema perché il sole o il freddo non rovinino la loro pelle delicata: sarebbe una vergogna se nel tuo seguito ci fosse qualche schiavo col viso fresco senza bisogno di creme.

8 Evitiamo di parlare con tutti questi individui, sono loro a trasmettere i vizi e a diffonderli da un posto all'altro. Sembrava che i calunniatori fossero la razza peggiore: e invece ci sono quelli che diffondono i vizi. I loro discorsi sono veramente dannosi: anche se lì per lì non hanno nessun effetto, seminano nella nostra anima i germi del male e ci seguono anche quando ne siamo lontani: il male si svilupperà in seguito. 9 Quando uno ha ascoltato un concerto nelle orecchie gli risuona il ritmo e la soavità di quella musica, che gli impedisce di pensare e di occuparsi di cose serie; così i discorsi degli adulatori e di quanti lodano le cattive azioni ci rimangono impressi anche quando non li sentiamo più. E non è facile liberarsi di quella dolce musica: ci perseguita persistentemente e a intervalli ritorna. Rifiutiamoci, perciò fin dall'inizio di ascoltare quelle parole disoneste, perché la loro audacia aumenta quando prendono piede e noi le accogliamo. 10 Allora si arriva a questi discorsi: "La virtù, la filosofia, la giustizia sono parole vuote e altisonanti; l'unica felicità è vivere bene, mangiare, bere, godersi le ricchezze: questa è vita, questo è ricordarsi che dobbiamo morire. I giorni scorrono via e la vita fugge inesorabile. Abbiamo dei dubbi? A che serve la saggezza e imporsi di essere frugali alla nostra età, mentre ora possiamo godere dei piaceri (in futuro non saremo in grado di farlo), anzi ne sentiamo l'esigenza, e così precedere la morte e privarsi già adesso di tutto quello che essa ci porterà via? Non hai un'amante, non hai un ragazzo che susciti la gelosia dell'amante; ogni giorno ti mostri sobrio; e mangi come se dovessi sottoporre a tuo padre il libro dei conti: questo non è vivere, ma guardare vivere gli altri. 11 Che pazzia avere cura del patrimonio destinato all'erede e privarsi di tutto per farsi di un amico un nemico con una cospicua eredità; la sua gioia per la tua morte sarà proporzionata al lascito. Questi severi e arcigni censori della vita altrui, nemici della propria, precettori universali, non tenerli in nessun conto e non esitare a preferire una buona vita a una buona reputazione." 12 Bisogna fuggire queste voci come quelle davanti a cui Ulisse non volle passare se non legato. Il loro potere è identico: allontanano dalla patria, dai genitori, dagli amici, dalle virtù e ci spingono *** a una vita disonorevole e infelice. Quanto è meglio seguire la retta via e arrivare a gioire solo dell'onestà. 13 E questo intento lo realizzeremo rendendoci conto che sono due le categorie di cose ad attrarci o a respingerci. La ricchezza, i piaceri, la bellezza, l'ambizione e quanto altro c'è di lusinghiero e suadente ci attraggono; ci respingono la fatica, la morte, il dolore, il disonore, un tenore di vita troppo austero. Esercitiamoci, dunque, a non temere le une e a non desiderare le altre. Combattiamo in due modi diversi: ritiriamoci davanti agli allettamenti, affrontiamo le difficoltà. 14 Non vedi come è diversa la posizione di uno che scende e di uno che sale? Chi scende porta il peso del corpo indietro, chi sale si piega in avanti. Portare in avanti il peso del corpo in discesa o portarlo indietro in salita significa, caro Lucilio, tenere una posizione viziata. La strada verso i piaceri è in discesa, quella verso azioni difficili e impegnative è in salita: in questo caso dobbiamo spingere il corpo in avanti, nell'altro frenarlo.

15 Pensi che ora io dichiari pericoloso per le nostre orecchie solo chi loda il piacere e chi ci incute la paura del dolore, cose già di per sé temibili? Secondo me ci nuocciono anche quelle persone che sotto la maschera dello stoicismo ci esortano ai vizi. Vanno dicendo che solo l'uomo saggio e istruito sa amare. "È il solo adatto a quest'arte; ed è pure il più esperto nel bere e nel mangiare in compagnia. Vediamo fino a che età si debbano amare i giovani." 16 Queste abitudini lasciamole ai Greci, noi piuttosto porgiamo le orecchie a queste massime: "Nessuno è onesto per caso: la virtù va imparata. Il piacere è una cosa vile e meschina, di nessun valore, comune anche alle bestie: vi aspirano gli esseri inferiori e più spregevoli. La gloria è cosa vana ed effimera, più instabile dell'aria. La povertà è un male solo per chi non l'accetta. La morte non è un male: chiedi cos'è? La sola legge uguale per tutti gli uomini. La superstizione è pura follia: teme le divinità che dovrebbe amare e profana quelle che venera. Che differenza c'è, infatti, tra il negare gli dèi e il disonorarli?" 17 Queste massime vanno imparate, anzi imparate a memoria: la filosofia non deve fornire scuse al vizio. Non ha speranza di guarire un ammalato se il medico lo spinge all'intemperanza. Stammi bene.

 

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1 Posso riferirti molti precetti degli antichi, se non rifiuti e non ti annoia la conoscenza di cure semplici.

Ma tu non rifiuti e non respingi le minuzie: la tua finezza non si limita alla ricerca dei grandi problemi; così approvo anche la tua volontà di trarre profitto da ogni argomento e il fatto che ti urti solo quando l'eccessiva sottigliezza non porta nessun frutto. Da parte mia cercherò che questo ora non avvenga.

Si discute se il bene si abbracci coi sensi o con la mente; in quest'ultimo caso ne sarebbero esclusi gli animali e i neonati. 2 Tutti quei filosofi che mettono al primo posto il piacere ritengono che il bene sia percettibile; invece per noi, che il bene lo attribuiamo all'anima, è intellegibile. Se a giudicare il bene fossero i sensi, non respingeremmo nessun piacere perché ci allettano e ci attraggono tutti, e d'altra parte non ci sottoporremmo volontariamente a nessun dolore, perché tutti i dolori colpiscono i sensi. 3 E poi non meriterebbe biasimo chi ama troppo il piacere e chi il dolore lo teme moltissimo. Noi disapproviamo i golosi e i lussuriosi e disprezziamo i vili perché hanno paura del dolore. Ma qual è la loro colpa se obbediscono ai sensi, giudici del bene e del male? Ad essi hai affidato la valutazione di quello che va ricercato e di quello che va fuggito. 4 E, invece, naturalmente, questo è còmpito della ragione: del bene e del male come della felicità, della virtù, dell'onestà è lei a decidere. Costoro attribuiscono alla parte più vile dell'uomo la facoltà di giudicare sulla migliore: del bene deciderebbero i sensi, che sono ottusi e deboli, meno sviluppati nell'uomo che negli animali. 5 Che diresti se uno pretendesse di distinguere col tatto e non con gli occhi gli oggetti minuscoli? A questo scopo non c'è forza più acuta e intensa di quella visiva, ma potrebbe forse dare la facoltà di distinguere il bene dal male? Vedi quanto ignori la verità e come svilisca cose elevate o divine chi giudica con i sensi il sommo bene e il sommo male.

6 "Tutte le scienze," si ribatte, "e tutte le arti devono avere qualche elemento manifesto e tangibile da cui nascono e si sviluppano; così la felicità trae le sue fondamenta e il suo inizio da elementi manifesti e concreti. Siete voi stessi a dire che la felicità trae la sua origine da fattori manifesti." 7 Noi definiamo felice quello che è secondo natura; che cosa poi sia secondo natura appare sùbito evidente, come l'integrità di un oggetto. Ciò che è secondo natura e riguarda un neonato, non lo definisco un bene, ma l'inizio di un bene. Tu attribuisci all'infanzia il sommo bene, cioè il piacere; il neonato comincia, quindi, dal punto a cui arriva l'uomo perfetto: così metti la cima della pianta al posto delle radici. 8 Se uno dicesse che il feto nascosto nell'utero materno, di sesso ancora incerto, delicato, imperfetto e informe ha già un qualche bene, apparirebbe chiaro che sbaglia. Ebbene, che differenza c'è tra il bimbo appena nato e il feto che pesa dentro le viscere materne? Entrambi, per ciò che riguarda la cognizione del bene e del male, sono ugualmente immaturi e il neonato non è capace di bene più di una pianta o di un animale. Ma perché in una pianta o in un animale non c'è il bene? Perché sono privi di ragione. Per questo il bene non c'è nemmeno nel neonato, anche lui è privo di ragione. Arriverà al bene solo quando arriverà alla ragione. 9 Ci sono esseri irrazionali, altri non ancora razionali, altri razionali, ma imperfetti: in nessuno di loro c'è il bene, lo porta con sé la ragione. Che differenza c'è allora tra i gruppi suddetti? Nell'essere irrazionale non ci sarà mai il bene; nell'essere non ancòra razionale non può ancòra esserci il bene; nell'essere razionale, ma imperfetto, potrebbe esserci il bene, ma non c'è. 10 Io la penso così, Lucilio: il bene non si trova in qualunque corpo, a qualunque età, ed è tanto lontano dall'infanzia quanto dal primo l'ultimo, quanto una cosa compiuta dal suo inizio. Quindi in un piccolo corpo delicato ancòra in formazione, non c'è. Perché? È lo stesso che in un seme. 11 Diciamo così: in un albero o in una pianta riconosciamo un certo bene, ma questo non c'è in un virgulto appena spunta dalla terra. Un certo bene c'è nel grano: ma non c'è nell'erbetta ancora bianca e neppure quando la tenera spiga si libera dalla scorza, ma solo quando l'estate e il naturale sviluppo hanno maturato il frumento. La natura in ogni suo aspetto non rivela il proprio bene se non arriva a perfezione, così il bene proprio dell'uomo non è presente nell'individuo se non quando la ragione è perfetta. 12 Ma qual è questo bene? Uno spirito libero, fiero, che tutto assoggetta a sé, ma non si assoggetta a nessuno. L'infanzia non può possedere questo bene; la fanciullezza non può sperarlo; e l'adolescenza è difficile che lo realizzi; può considerarsi fortunato il vecchio che lo raggiunge dopo un lungo e intenso studio. Se questo è il bene, è pure intellegibile.

13 "Tu hai detto," qualcuno obietta, "che c'è un bene dell'albero e dell'erba; e allora può esserci anche un bene del neonato." Il vero bene non si trova negli alberi e nemmeno nelle bestie: il bene che è in loro è chiamato in maniera impropria bene. "E qual è allora?" chiedi. Ciò che è conforme alla natura di ognuno. Il bene non può in nessun modo andare a finire in una bestia; è proprio di una natura più felice e migliore. Il bene si trova solo dove c'è la ragione. 14 Ci sono questi quattro tipi di natura: vegetale, animale, umana, divina: le ultime due che sono razionali, hanno la stessa natura; sono, però diverse in quanto l'una è immortale, l'altra mortale. Il bene dell'uno, quello di dio naturalmente, è insito nella sua natura, il bene dell'altro, ossia dell'uomo, nasce dal suo impegno. Gli altri esseri sono perfetti solo nell'ambito della loro natura, ma non sono veramente perfetti, perché non possiedono la ragione. Perfetto è solo ciò che è tale secondo la natura universale, e la natura universale è razionale: gli altri esseri possono essere perfetti solo nel loro genere. 15 L'essere in cui non può esserci la felicità non può avere neppure ciò che produce la felicità; e a produrre la felicità è il bene. Nelle bestie non c'è felicità e nemmeno ciò che produce la felicità: nelle bestie, quindi, non c'è il bene. 16 L'animale percepisce coi sensi la realtà che lo circonda; e del passato si ricorda quando si imbatte in qualcosa che stimola i suoi sensi, così il cavallo ricorda la strada quando lo portano dove comincia. Nella stalla, invece, non ha nessun ricordo della strada anche se l'ha percorsa spesso. La terza dimensione temporale, cioè il futuro, non ha importanza per le bestie. 17 Come, dunque, può ritenersi perfetta la loro natura se non hanno una perfetta nozione del tempo? Il tempo consta di tre parti, passato, presente, futuro. Gli animali hanno solo la nozione della parte più breve e fugace, il presente: del passato hanno un vago ricordo e solo l'impatto col presente glielo richiama alla memoria. 18 Quindi il bene che è proprio di una natura perfetta non può sussistere in una natura imperfetta, oppure se una tale natura lo possiede, lo possiedono anche le piante. Non nego che le bestie provino forti e violenti slanci verso ciò che appare secondo natura, ma sono slanci disordinati e confusi; mentre il bene non è mai disordinato e confuso. 19 "Ma come?" chiedi, "le bestie si muovono in maniera disordinata e confusa?" Potrei dire che si muovono in maniera disordinata e confusa se la loro natura obbedisse a una regola: ma in realtà si muovono secondo la loro natura. È disordinato quello che certe volte può anche seguire un ordine; è turbato quello che può anche essere tranquillo. Vizioso è solo chi può avere la virtù: nelle bestie questi movimenti sono del tutto naturali. 20 Ma, per non tirarla alla lunga, ci sarà nelle bestie un qualche bene, ci sarà una qualche virtù, ci sarà una qualche perfezione, ma non il bene, né la virtù, né la perfezione in assoluto. Questi toccano solo agli esseri razionali, ai quali è concesso conoscere il perché, i limiti e le modalità dell'agire. Così il bene non è presente in nessun essere che non sia razionale.

21 Certo ti chiedi a che miri questa discussione e che utilità abbia per il tuo spirito. Ecco: lo esercita, lo rende più acuto e impegna la sua attività in una occupazione onesta. E poi giova perché trattiene chi tende al male. Inoltre, il modo in cui posso esserti più utile è mostrandoti il tuo bene, facendo una distinzione tra le bestie e mettendoti affianco a dio. 22 Perché, ti domando, coltivi ed eserciti le forze fisiche? La natura le ha concesse in misura maggiore agli animali domestici e feroci. Perché curi la tua bellezza? Per quanto tu faccia, gli animali ti vinceranno in bellezza. Perché ti acconci i capelli con tanta cura? Anche se li porterai sciolti come i Parti o legati come i Germani o scompigliati come gli Sciti, la criniera di un qualsiasi cavallo ondeggerà più folta, e sul collo del leone se ne drizzerà una più bella. Per quanto ti eserciterai nella corsa, non eguaglierai mai un leprotto. 23 Accantona tutto quello in cui è inevitabile che tu sia vinto, poiché tendi a mete a te estranee, e ritorna al tuo bene. Qual è? Avere un animo irreprensibile e puro, emulo di dio, e che si erga al di sopra delle vicende umane, tutto compreso in se stesso. Tu sei un animale fornito di ragione. Qual è, dunque, il bene in te? La ragione perfetta. Richiamala alla sua meta, lascia che si sviluppi il più possibile. 24 Stìmati felice solo quando ogni gioia nascerà dal tuo intimo, quando, alla vista di quei beni che gli uomini cercano di afferrare, desiderano e custodiscono gelosamente, non troverai nulla che, non dico preferisci, ma neppure desideri. Ti darò una piccola regola per valutare i tuoi progressi e per renderti conto di avere ormai raggiunto la perfezione: possiederai il tuo bene quando capirai che gli uomini considerati felici sono in realtà i più infelici. Stammi bene .