Si distinsero due specie di commedie, «d'intreccio»
e «di carattere». «Commedia d'intreccio» fu detta, dove l'interesse
nasce dagli sviluppi dell'azione, come erano tutte le commedie e novelle
di quel tempo e anche tragedie. Si cercava l'effetto nella stranezza
e nella complicazione degli accidenti. Commedia di carattere fu detta,
dove l'azione è mezzo a mettere in mostra un carattere. E sono definizioni
viziose. Hai da una parte commedie sbardellate per troppo cumulo d'intrighi,
dall'altra commedie scarne per troppa povertà d'azione. Machiavelli
riunisce le due qualità. La sua commedia è una vera e propria azione,
vivacissima di movimenti e di situazioni, animata da forze interiori,
che ci stanno come forze o istrumenti, e non come fini o risultati.
Il carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non come qualità
astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le
forme più allegre e più corpulente fino della più volgare e cinica buffoneria,
come è il «Don Cuccù», e la «palla di aloè». Ci è lì tutto Machiavelli,
l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo scrittoio.
Di ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una parte
è morta, quella per la quale e venuto a trista celebrità. È la sua parte
più grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte
sua vitale, così vitale che è stata detta il «machiavellismo» Anche
oggi, quando uno straniero vuol dire un complimento all'Italia, la chiama
patria di Dante e di Savonarola e tace di Machiavelli. Noi stessi non
osiamo chiamarci «figli di Machiavelli». Tra il grande uomo e noi ci
è il machiavellismo. È una parola, ma una parola consacrata dal tempo,
che parla all'immaginazione e ti spaventa come fosse l'orco.
Del Machiavelli è avvenuto quello che del Petrarca. Si è chiamato «petrarchismo»
quello che in lui è un incidente ed è il tutto ne' suoi imitatori. E
si è chiamato «machiavellismo» quello che nella sua dottrina è accessorio
e relativo, e si è dimenticato quello che vi è di assoluto e di permanente.
Così è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo e
dal meno interessante. È tempo di rintegrare l'immagine.
Ci è nel Machiavelli una logica formale e c'è un contenuto.
La sua logica ha per base la serietà dello scopo, ciò ch'egli chiama
«virtù». Proporti uno scopo, quando non puoi o non vuoi conseguirlo,
è da femmina. Essere uomo significa «marciare allo scopo». Ma nella
loro marcia gli uomini errano spesso, perchè hanno l'intelletto e la
volontà intorbidata da fantasmi e da sentimenti, e giudicano secondo
le apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli quelli che stimano le cose,
come le paiono e non come le sono: a quel modo che fa la plebe. Cacciar
via dunque tutte le vane apparenze, e andare allo scopo con lucidità
di mente e fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver la stoffa
d'uomo. Quest'uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono
o un tristo. Ciò è fuori dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo.
Ciò a che guarda Machiavelli è di vedere se è un uomo ciò a che mira
è rifare le radici alla pianta «uomo» in declinazione. In questa sua
logica la virtù è il carattere o la tempra, e il vizio è l'incoerenza,
la paura, l'oscillazione.
Si comprende che in questa generalità ci è lezioni per tutti, pe' buoni
e pe' birbanti, e che lo stesso libro sembra agli uni il codice de'
tiranni, e agli altri il codice degli uomini liberi. Ciò che vi s'impara
è di essere un uomo, come base di tutto il resto. Vi s'impara che la
storia, come la natura, non è regolata dal caso, ma da forze intelligenti
e calcolabili, fondate sulla concordanza dello scopo e de' mezzi; e
che l'uomo, come essere collettivo o individuo, non è degno di questo
nome, se non sia anch'esso una forza intelligente, coerenza di scopo
e di mezzi. Da questa base esce l'età virile del mondo, sottratta possibilmente
all'influsso dell'immaginazione e delle passioni, con uno scopo chiaro
e serio, e con mezzi precisi.
Questo è il concetto fondamentale, l'obbiettivo del Machiavelli. Ma
non è principio astratto e ozioso: ci è un contenuto, che abbiamo già
delineato ne' tratti essenziali.
La serietà della vita terrestre, col suo istrumento, il lavoro; col
suo obbiettivo, la patria; col suo principio, l'eguaglianza e la libertà;
col suo vincolo morale, la nazione, col suo fattore, lo spirito o il
pensiero umano, immutabile ed immortale, col suo organismo, lo Stato,
autonomo e indipendente, con la disciplina delle forze, con l'equilibrio
degl'interessi, ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo
del Machiavelli, a cui è di corona la gloria, cioè l'approvazione del
genere umano, ed è di base la virtù o il carattere, «agere et pati
fortia».
Il fondamento scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come
te la porge l'esperienza e l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento,
l'astrazione sono così perniciosi nella scienza, come nella vita. Muore
la scolastica, nasce la scienza.
Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi giovane ancora. È il programma
del mondo moderno, sviluppato, corretto, ampliato, più o meno realizzato.
E sono grandi le nazioni che più vi si avvicinano. Siamo dunque alteri
del nostro Machiavelli. Gloria a lui, quando crolla alcuna parte dell'antico
edificio. E gloria a lui, quando si fabbrica alcuna parte del nuovo.
In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa, e annunziano
l'entrata degl'Italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida
il «viva» all'unità d'Italia. Sia gloria al Machiavelli.
Scrittore, non solo profondo, ma simpatico. Perchè nelle sue transazioni
politiche discerni sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale, antimperiale,
antifeudale, civile, moderno e democratico. E quando, stretto dal suo
scopo, propone certi mezzi, non di rado s'interrompe, protesta, ha quasi
aria di chiederti scusa e di dirti: - Guarda che siamo in tempi corrotti;
e se i mezzi son questi, e il mondo è fatto così, la colpa non è mia.
-
Ciò che è morto del Machiavelli non è il sistema, è la sua esagerazione.
La sua «patria» mi rassomiglia troppo l'antica divinità, e assorbe in
sè religione, moralità, individualità. Il suo «Stato» non è contento
di essere autonomo esso, ma toglie l'autonomia a tutto il rimanente.
Ci sono i dritti dello Stato: mancano i dritti dell'uomo. La «ragione
di Stato» ebbe le sue forche, come l'Inquisizione ebbe i suoi roghi,
e la «salute pubblica» le sue mannaie. Fu stato di guerra e in quel
furore di lotte religiose e politiche ebbe la sua culla sanguinosa il
mondo moderno. Dalla forza uscì la giustizia. Da quelle lotte uscì la
libertà di coscienza, l'indipendenza del potere civile e più tardi la
libertà e la nazionalità. E se chiamate machiavellismo quei mezzi, vogliate
chiamare anche machiavellismo quei fini. Ma i mezzi sono relativi e
si trasformano, sono la parte che muore: i fini rimangono eterni. Gloria
del Machiavelli è il suo programma, e non è sua colpa che l'intelletto
gli abbia indicati de' mezzi, i quali la storia posteriore dimostrò
conformi alla logica del mondo. Fu più facile il biasimarli, che sceglierne
altri. Dura lex, sed ita lex.
Certo, oggi il mondo è migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non
sarebbero più tollerati, e produrrebbero un effetto opposto a quello
che se ne attendeva Machiavelli, allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio
politico, il tradimento, la frode, le sette, le congiure sono mezzi
che tendono a scomparire. Presentiamo già tempi più umani e civili,
dove non sieno più possibili la guerra, il duello, le rivoluzioni, le
reazioni, la ragion di Stato e la salute pubblica. Sarà l'età dell'oro.
Le nazioni saranno confederate, e non ci sarà altra gara che d'industrie,
di commerci e di studi.
È un bel programma. E quantunque sembri un'utopia, non dispero. Ciò
che lo spirito concepisce, presto o tardi viene a maturità. Ho fede
nel progresso e nell'avvenire.
Ma siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche da' nostri tempi. E non
è co' criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire
che possiamo giudicare e condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti
a dire: - Crudele è la logica della storia; ma quella è. -
Nel machiavellismo ci è una parte variabile nella qualità e nella quantità,
relativa al tempo, al luogo, allo stato della coltura, alle condizioni
morali de' popoli. Questa parte, che riguarda i mezzi, è molto mutata,
e muterà in tutto, quando la società sia radicalmente rinnovata. Ma
la teoria de' mezzi è assoluta ed eterna, perchè fondata sulle qualità
immutabili della natura umana. Il principio, dal quale si sviluppa quella
teoria, è questo, che i mezzi debbono avere per base l'intelligenza
e il calcolo delle forze che movono gli uomini. È chiaro che in queste
forze c'è l'assoluto e il relativo, e il torto del Machiavelli, comunissimo
a tutt'i grandi pensatori, è di avere espresso in modo assoluto tutto,
anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile.
Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l'uomo
considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella
sua natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della
sua grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società. Su questa
base sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze sociali. Gl'inizi
della scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla
coltura classica unisca esperienza grande, e un intelletto chiaro e
libero. Questo è il machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi
il pensiero moderno trova la sua base e il suo linguaggio. Come contenuto,
il machiavellismo su' rottami del medio evo abbozza un mondo intenzionale,
visibile tra le transazioni e i vacillamenti dell'uomo politico, un
mondo fondato sulla patria, sulla nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza,
sul lavoro, sulla virilità e serietà dell'uomo.
In letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo
è la storia e la politica emancipate da elementi fantastici, etici,
sentimentali, e condotte in forma razionale; è il pensiero volto agli
studi positivi dell'uomo e della natura, messe da parte le speculazioni
teologiche e ontologiche; è il linguaggio purificato della scoria scolastica
e del meccanismo classico, e ridotto nella forma spedita e naturale
della conversazione e del discorso. È l'ultimo e più maturo frutto del
genio toscano. Su questa via incontriamo prima Francesco Guicciardini
con tutti gli scrittori politici della scuola fiorentina e veneta, poi
Galileo Galilei con la sua illustre coorte di naturalisti.
Francesco Guicciardini, ancorche di pochi anni più giovane di Machiavelli
e di Michelangiolo, già non sembra della stessa generazione. Senti in
lui il precursore di una generazione più fiacca e più corrotta, della
quale egli ha scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse
aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole
l'Italia unita. Vuole anche la libertà, concepita a modo suo, con una
immagine di governo stretto e temperato, che si avvicina a' presenti
ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici desidèri, e non metterebbe
un dito a realizzarli.
«Tre cose, - scrive - desidero vedere innanzi alla
mia morte, ma dubito, ancora che vivessi molto, non ne vedere alcuna:
uno vivere di repubblica bene ordinato nella città nostra, Italia liberata
da tutt'i barbari, e liberato il mondo della tirannide di questi scelerati
preti.»
Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e l'autonomia
delle nazioni, l'affrancamento del laicato, ecco il programma del Machiavelli,
divenuto il testamento del Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera
di tutta la parte liberale e civile europea.
Si può credere che questi fossero i desidèri anche delle classi colte.
Ma erano amori platonici, senza influsso nella pratica della vita. Il
ritratto di quella società è il Guicciardini, che scrive: «Conoscere
non è mettere in atto». Altro è desiderare, altro è fare. La teoria
non è la pratica. Pensa come vuoi, ma fa come ti torna. La regola della
vita è «l'interesse proprio», «il tuo particolare».
Il Guicciardini biasima «l'ambizione, l'avarizia e la mollizie de' preti»
e il dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, «per vedere
ridurre questa caterva di scelerati a' termini debiti, cioè a restare
o senza vizi o senza autorità»; ma «per il suo particolare» è necessitato
«amare la grandezza de' pontefici» e servire a' preti e al dominio temporale.
Vuole emendata la religione in molte parti; ma non ci si mescola, lui,
«non combatte con la religione, nè con le cose, che pare che dependono
da Dio; perchè questo obbietto ha troppa forza nella mente delli sciocchi».
Ama la gloria e desidera di fare «cose grandi ed eccelse», ma a patto
che non sia «con suo danno o incomodità». Ama la patria, e, se perisce,
glie ne duole, non per lei, perchè «così ha a essere», ma per sè, «nato
in tempi di tanta infelicità». È zelante del ben pubblico, ma «non s'ingolfa
tanto nello Stato» da mettere in quello tutta la sua fortuna. Vuole
la libertà, ma quando la sia perduta, non è bene fare mutazioni, perchè
«mutano i visi delle persone, non le cose, e non puoi fare fondamento
sul populo», e quando la vada male, ti tocca «la vita spregiata del
fuoruscita». Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che «governano
non ti abbiano in sospetto e neppure ti pongano fra' malcontenti». Quelli
che altrimenti fanno, sono uomini «leggieri». Molti, è vero, gridano
libertà, ma «in quasi tutti prepondera il rispetto dell'interesse suo».
Essendo il mondo fatto così, hai a pigliare il mondo com'è, e condurti
di guisa che non te ne venga danno, anzi la maggiore comodità possibile.
Così fanno gli uomini «savi».
La corruttela italiana era appunto in questo, che la coscienza era vuota,
e mancava ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in fondo
al cammino della vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non
ci è più il cielo per lui, ma ci è ancora la terra. Il Guicciardini
ammette anche lui questi fini, come cose belle e buone e desiderabili,
ma li ammette sub conditione, a patto che sieno conciliabili
col tuo «particulare», come dice, cioè col tuo interesse personale.
Non crede alla virtù, alla generosità, al patriottismo, al sacrificio,
al disinteresse. Ne' più prepondera l'interesse proprio, e mette se
francamente tra questi più, che sono i savi: gli altri li chiama «pazzi»,
come furono i fiorentini, che «vollero contro ogni ragione opporsi»,
quando «i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta», e intende
dell'assedio di Firenze, illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi,
tra' quali erano Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela
italiana, e non dispera del suo paese. Ha le illusioni di un nobile
cuore. Appartiene a quella generazione di patrioti fiorentini, che in
tanta rovina cercavano i rimedi, e non si rassegnavano, e illustrarono
l'Italia con la loro caduta. Nel Guicciardini comparisce una generazione
già rassegnata. Non ha illusioni. E perchè non vede rimedio a quella
corruttela, vi si avvolge egli pure, e ne fa la sua saviezza e la sua
aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana codificata
e innalzata a regola della vita.
Il dio del Guicciardini è il suo particolare. Ed è un dio non meno assorbente
che il Dio degli ascetici, o lo Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali
scompariscono. Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme
un popolo, è spezzato. Non rimane sulla scena del mondo che l'individuo.
Ciascuno per sè, verso e contro tutti. Questo non è più corruzione,
contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata,
è l'arte della vita.
Il Guicciardini si crede più savio del Machiavelli, perchè non ha le
sue illusioni. Quel venir fuori sempre con l'antica Roma lo infastidisce,
e rompe in questo motto sanguinoso:
«Quanto s'ingannano coloro che ad ogni parola allegano
i romani! Bisognerebbe avere una città condizionata com'era la loro,
e poi governarsi secondo quello esemplo: il quale a chi ha le qualità
disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che
uno asino facesse il corso di un cavallo.»
In questo concetto della vita il Guicciardini è di
così buona fede, che non sente rimorso, e non mostra la menoma esitazione,
e guarda con un'aria di superiorità sprezzante gli uomini che fanno
altrimenti. Il che avviene, a suo avviso, non per virtù o altezza d'animo,
ma «per debolezza di cervello», avendo offuscato lo spirito dalle apparenze,
dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle passioni. Ci si
vede l'ultimo risultato a cui giunge lo spirito italiano, già adulto
e progredito, che caccia via l'immaginazione e l'affetto e la fede,
ed è tutto e solo cervello, o, come dice il Guicciardini, «ingegno positivo».
Perchè l'ingegno sia positivo si richiede la «prudenza naturale», la
«dottrina» che dà le regole, l'«esperienza» che dà gli esempli, e il
«naturale buono», tale cioè che stia al reale, e non abbia illusioni.
E non basta. Si richiede anche la «discrezione» o il discernimento,
perchè è «grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente
e assolutamente e per dire così per regola, perchè quasi tutte hanno
distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si trovano
scritte in su' libri, ma bisogna lo insegni la discrezione». Il vero
libro della vita è dunque «il libro della discrezione», a leggere il
quale si richiede da natura «buono e perspicace occhio». La dottrina
sola non basta, e non è bene stare al giudicio di quelli che scrivono,
e in ogni cosa «volere vedere ognuno che scrive: così quello tempo che
s'arebbe a mettere in speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza
d'animo e di corpo, in modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica
di facchini che di dotti».
L'uomo positivo vede il mondo altro da quello che «a' volgari» pare.
Non crede agli astrologi, ai teologi, a' filosofi e a tutti quelli che
scrivono le cose sopra natura, o che non si veggono, «e dicono mille
pazzie: perchè in effetti gli uomini sono al buio delle cose, e questa
indagazione ha servito e serve più a esercitare gl'ingegni che a trovare
la verità».
Questa base intellettuale è quella medesima del Machiavelli, l'esperienza
e l'osservazione, il fatto e lo «speculare» o l'osservare. Nè altro
è il sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega,
e in forma anche più recisa, e ammette quello che il Machiavelli ammette.
Ma è più logico e più conseguente. Poichè la base è il mondo com'è,
crede un'illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe di
cavallo, quando esso le ha di asino, e lo piglia com'è e vi si acconcia,
e ne fa la sua regola e il suo istrumento. Conoscere non è mettere in
atto. Ciò che è nella tua mente e nella tua coscienza non può essere
di regola alla tua vita. Vivere è conoscere il mondo e voltarlo a benefizio
tuo. Tienti bene con tutti, perchè «gli uomini si riscontrano». Stai
con chi vince, perchè «te ne viene parte di lode e di premio». «Abbi
appetito della roba», perchè la ti dà riputazione, e la povertà è spregiata.
Sii schietto, perchè, «quando sia il caso di simulare, più facilmente
acquisti fede». Sii stretto nello spendere, perchè «più onore ti fa
uno ducato che tu hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi». Studia
di «parere buono», perchè «il buon nome vale più che molte ricchezze».
Non meritarti nome di sospettoso, ma, perchè più sono i cattivi che
i buoni, «credi poco e fidati poco», Questo è il succo dell'arte della
vita seguita da' più, ancorchè con qualche ipocrisia, come se ne vergognassero.
Ma il Guicciardini ne fa un codice, fondato sul divorzio tra l'uomo
e la coscienza, e sull'interesse individuale. È il codice di quella
borghesia italiana, tranquilla, scettica, intelligente e positiva, succeduta
a' codici d'amore e alle regole della cavalleria.
Ma il Guicciardini con tutta la sua saviezza trovò un altro più savio
di lui, e volendo usare Cosimo a benefizio suo, avvenne che fu lui istrumento
di Cosimo. Così finì la vita, come il Machiavelli, nella solitudine
e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni e i suoi disinganni,
meno nobili, meno degni della posterità, perchè si riferivano al suo
particolare. Ritirato nella sua villa d'Arcetri, usò gli ozi a scrivere
la Storia d'Italia.
Se guardiamo alla potenza intellettuale, è il lavoro più importante
che sia uscito da mente italiana. Ciò che lo interessa non è la scena,
la parte teatrale o poetica, sulla quale facevano i loro esercizii rettorici
il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli altri storici. I fatti più
maravigliosi o commoventi sono da lui raccontati con una certa sprezzatura,
come di uomo che ne ha viste assai e non si maraviglia e non si commove
più di nulla. Non ha simpatie e antipatie, non ha tenerezze e indignazioni,
e neppure ha programmi e preconcetti intorno a' risultati generali dei
fatti e alle sorti del suo paese. Il suo intelletto chiaro e tranquillo
è chiuso in sè, e non vi entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo
svii. È l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo notate,
e che in lui sono egregie, la prudenza naturale, la dottrina, l'esperienza,
il naturale buono e la discrezione. Maravigliosa è soprattutto la sua
discrezione nel non riconoscere princìpi, nè regole assolute, e giudicare
caso per caso, guardando in ciascun fatto la sua individualità, quel
complesso di circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non
un altro: dov'è la vera distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno.
Con queste disposizioni è naturale che lo interessa meno la scena che
il dietroscena, dove penetra con sicurezza il suo occhio perspicace.
Ha comune col Machiavelli il disprezzo della superficie, di ciò che
si vede e si dice il parere, e lo studio dell'essere, di ciò che è al
di sotto, e che non si vede. Hai innanzi non la sola descrizione de'
fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione, li vedi nascere e svilupparsi.
I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con la stessa calma
di spirito che i motivi più nobili. Ciò che l'interessa non è il carattere
etico o morale di quelli, ma la loro azione su' fatti. Il motivo determinante
è l'interesse, ed è sagacissimo nell'indagazione non meno degl'interessi
privati che degl'interessi detti pubblici, e sono interessi di re e
di corti. Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono sotto
il manto di fini più nobili, come la gloria, l'onore, la libertà, l'indipendenza,
fini che escono in mezzo, quando si vuol cattivare i popoli o gli eserciti.
Di che nasce, massime nelle concioni, una specie di rettorica, ad
usum delphini, voglio dire ad uso de' volgari, che non guardano
nel fondo, e si lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e gli
eserciti vi stanno come istrumenti, e i veri e principali attori sono
pochi uomini, che li movono con la violenza e con l'astuzia, e li usano
a' fini loro.
Lo storico avea intenzioni letterarie. La sua prosa, massime ne' Ricordi,
ha la precisione lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e semplicità
e perfetta evidenza, che l'avvicina agli esempli più finiti della prosa
francese, senza che ne abbia i difetti. Lo stile e la lingua in questi
due scrittori giunge per vigore intellettuale ad un grado di perfezione
che non è stato più avanzato. Ma il Guicciardini, di un giudizio così
sano nell'andamento de' fatti umani, avea de' preconcetti in letteratura,
opinioni ammesse senza esame, solo perchè ammesse da tutti. Lo scrivere
è per lui, come per i letterati di quel tempo, la traduzione del parlare
e del discorso naturale in un certo meccanismo molto complicato e a
lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima volta le sue prove.
Molti uomini mediocri, quali il Casa, o il Castiglione, o il Salviati,
o lo Speroni, vi riescono con minore difficoltà, come disciplinati ed
educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida
percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi
del suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare
in quelle pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta
la sua franchezza spinta sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari
e rettorici. E sono rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni,
le sue orazioni, le sue sentenze morali, un certo calore d'immaginazione
e di sentimento, una certa solennità di tuono. Al di sotto di questi
splendori artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di un
perfetto organismo, freddo come la logica ed esatto come la meccanica,
e che non è forse in fondo se non un corso di forze e d'interessi seguiti
nei loro più intimi recessi da un intelletto superiore.
La Storia d'Italia è in venti libri e si stende dal 1494 al 1532 Comincia
con la calata di Carlo ottavo, finisce con la caduta di Firenze. Apparisce
in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo terzo,
il papa della Inquisizione e del Concilio di Trento. Questo periodo
storico si può chiamare la «tragedia italiana», perchè in questo spazio
di tempo l'Italia dopo un vano dibattersi cesse in potestà dello straniero.
Ma lo storico non ha pur sentore dell'unità e del significato di questa
tragedia; e il protagonista non è l'Italia e non è il popolo italiano.
La tragedia c'è, e sono le grandi calamità che colpiscono gl'individui,
le arsioni, le prede, gli stupri, tutt'i mali della guerra. Avvolto
fra tanti «atrocissimi accidenti», sagacissimo a indagarne i più riposti
motivi nel carattere degli attori e nelle loro forze, l'insieme gli
fugge. La Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e Francesco
primo, la trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l'Italia
bilanciata di Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e
soggetta, questi fatti generali preoccupano meno lo storico che l'assedio
di Pisa e i più oscuri pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista,
che studi e classifichi erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura
interna e la loro fisiologia, che li fa essere così o così. L'uomo vi
apparisce come un essere naturale, che operi così fatalmente come un
animale, determinato all'azione da passioni, opinioni, interessi, dalla
sua natura o carattere, con la stessa necessità che l'animale è determinato
da' suoi istinti e qualunque essere vivente dalle sue leggi costitutive.
Considerando l'uomo a questo modo, lo storico conserva quella calma
dell'intelletto, quell'apatia e indifferenza che ha un filosofo nella
spiegazione de' fenomeni naturali. Ferruccio e Malatesta gl'ispirano
lo stesso interesse; anzi Malatesta è più interessante, perchè la sua
azione è meno spiegabile e attira più la sua attenzione intellettuale.
Di che si stacca questo concetto della storia, che l'uomo, ancora che
sembri nelle sue azioni libero, è determinato da motivi interni, o dal
suo carattere, e si può calcolare quello che farà e come riuscirà quasi
con quella sicurezza che si ha nella storia naturale. Perciò chi perde,
ha sempre torto, dovendo recarne la cagione a se stesso, che ha mal
calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di fisica
storica non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui come una
specie di macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla plebe, a noi
poco interessanti, perchè sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno
da cui escono quei miracoli, e tutto il nostro interesse è concentrato
nello studio dell'ingegno.
Il Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di fisica sociale,
come si direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gl'individui,
ma la società e il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione, umanità,
classi sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni,
gl'interessi, le opinioni, le forze che movono gl'individui. E se vogliamo
trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo ad
imparare nelle sue opere. Indi è che, come carattere morale, il segretario
fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati,
che sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine,
e come forza intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini
una virtù sintetica, una larghezza di vista, che manca in quello. Lui,
è un punto di partenza nella storia, destinato a svilupparsi; l'altro
è un bel quadro, finito e chiuso in sè.
XVI - PIETRO ARETINO
Il mondo teologico-etico del medio evo tocca l'estremo
della sua contraddizione in questo mondo positivo del Guicciardini,
un mondo puramente umano e naturale, chiuso nell'egoismo individuale,
superiore a tutt'i vincoli morali che tengono insieme gli uomini. Il
ritratto vivente di questo mondo nella sua forma più cinica e più depravata
è Pietro Aretino. L'immagine del secolo ha in lui l'ultima pennellata.
Pietro nacque nel 1492 in uno spedale di Arezzo da Tita, la bella cortigiana,
la modella scolpita e dipinta da parecchi artisti. Senza nome, senza
famiglia, senza amici e protettori, senza istruzione. «Andai alla scuola,
quanto intesi la santa croce, componendo ladramente merito scusa, e
non quegli che lambiccano l'arte de' greci e de' latini.» A tredici
anni rubò la madre e fuggì a Perugia, e si allogò presso un legatore
di libri. A diciannove anni attirato dalla fama della corte di Roma
e che tutti vi si facevano ricchi, vi giunse che non aveva un quattrino,
e fu ricevuto domestico presso un ricco negoziante, Agostino Chigi,
e poco poi presso il cardinale di San Giovanni. Cercò fortuna presso
papa Giulio, e non riuscitogli, vagando e libertineggiando per la Lombardia,
da ultimo si fe' cappuccino in Ravenna. Salito al pontificato Leone
decimo, e concorrendo a quella corte letterati, buffoni, istrioni, cantori,
ogni specie di avventurieri, gli parve lì il suo posto, smise l'abito
e corse a Roma, e vestì la livrea del papa, divenne suo valletto. Spiritoso,
allegro, libertino, sfacciato, mezzano, in quella scuola compì la sua
educazione e la sua istruzione. Imparò a chiudere in quattordici versi
le sue libidini e le sue adulazioni e le sue buffonerie, e ne fe' traffico
e ne cavò di bei quattrini. Ma era sempre un valletto, e poco gli era
a sperare in una corte, dove s'improvvisava in latino. Armato di lettere
di raccomandazione, va a Milano, a Pisa, a Bologna, a Ferrara, a Mantova,
e si presenta a principi e monsignori sfacciatamente, con aria e prosunzione
di letterato. Studia come una donna l'arte di piacere, e aiuta la ciarlataneria
con la compiacenza. «A Bologna mi fu cominciato a essere donato; il
vescovo di Pisa mi fe' fare una casacca di raso nero ricamata in oro,
che non fu mai la più superba; presso il signor Marchese di Mantova
sono in tanta grazia, che il dormir e il mangiar lascia per ragionar
meco, e dice non avere altro piacere, ed ha scritto al cardinale cose
di me che veramente onorevolmente mi gioveranno, e son io regalato di
trecento scudi. Tutta la corte mi adora, e par beato chi può avere uno
de' miei versi, e quanti mai feci, il signore li ha fatti copiare, e
ho fatto qualcuno in sua lode. E sto qui, e tutto il giorno mi dona,
e gran cose, che le vedrete ad Arezzo.» Gli dànno del messere e del
signore; il valletto è un gentiluomo, e torna a Roma «tra paggi di taverna,
e vestito come un duca», compagno e mezzano de' piaceri signorili, e
con a lato gli Estensi e i Gonzaga che gli hanno familiarmente la mano
sulla spalla. Continua il mestiere così bene incominciato. Una sua «laude»
di Clemente settimo gli frutta la prima pensione; sono versacci:
Or queste sì che saran lodi, queste
lodi chiare saranno, e sole e vere,
appunto come il vero e come il sole.
Il suo spirito, il suo umore gioviale, l'estro libidinoso
gli acquistarono tanta riputazione, che fuggito di Roma per i suoi sedici
sonetti illustrativi de' disegni osceni di Giulio Romano, fu cercato
come un buon compagnone da Giovanni de' Medici, capo delle Bande Nere,
detto il gran diavolo. Aveva poco più che trent'anni. Giovanni e Francesco
primo se lo disputano. Giovanni voleva fare signore di Arezzo il suo
compagno di orgie e di libidini, quando una palla tedesca gli troncò
il disegno e la vita. Pietro avea coscienza oramai della sua forza.
E lasciando le corti, riparò in Venezia come in una rocca sicura, e
di lì padroneggiò l'Italia con la penna. Udiamo lui stesso, come si
dipinge nelle sue lettere: «Dopo ch'io mi rifugiai sotto l'egida della
grandezza e delle libertà veneziane, non ho più nulla da invidiare.
Nè il soffio dell'invidia, nè l'ombra della malizia non potranno offuscare
la mia fama, nè togliere la possanza della mia casa. - Io sono un uomo
libero per la grazia di Dio. - Non mi rendo schiavo de' pedanti. - Non
mi si vede percorrere le tracce nè del Petrarca nè di Boccaccio. Bastami
il genio mio indipendente. Ad altri lascio folleggiar la purezza dello
stile, la profondità del pensiero; ad altri la pazzia di torturarsi,
di trasformarsi, mutando sè stessi. Senza maestro, senz'arte, senza
modello, senza guida, senza luce, io avanzo, e il sudore de' miei inchiostri
mi fruttano la felicità e la rinomanza. Che avrei di più a desiderare?
- Con una penna e qualche foglio di carta me ne burlo dell'universo.
Mi dicono ch'io sia figlio di cortigiana; ciò non mi torna male; ma
tuttavia ho l'anima di un re. Io vivo libero, mi diverto, e perciò posso
chiamarmi felice. - Le mie medaglie sono composte d'ogni metallo e di
ogni composizione. La mia effigie è posta in fronte a' palagi. Si scolpisce
la mia testa sopra i pettini, sopra i tondi, sulle cornici degli specchi,
come quella di Alessandro, di Cesare, di Scipione. Alcuni vetri di cristallo
si chiamano vasi aretini. Una razza di cavalli ha preso questo nome,
perchè papa Clemente me ne ha donato uno di quella specie. Il ruscello
che bagna una parte della mia casa è denominato l'Aretino. Le mie donne
vogliono esser chiamate Aretine. Infine si dice stile aretino. I pedanti
possono morir di rabbia prima di giungere a tanto onore.» E non erano
ciarle. L'Ariosto dice di lui: «il flagello de' principi, il divin Pietro
Aretino». Un pedante, parlando delle lettere dell'Aretino e del Bembo,
diceva al Bembo: «Chiameremo voi il nostro Cicerone, e lui il nostro
Plinio.» «Purchè Pietro se ne contenti», rispose il Bembo. E non se
ne contentava. A Bernardo Tasso, che vantava le sue lettere, scrive:
«Stimando di troppo le proprie vostre opere, e non abbastanza le altrui,
voi avete messo in compromesso il vostro giudizio. Nello stile epistolare
voi siete l'imitator mio, e voi camminate dietro di me a piè nudi. Voi
non potete imitare nè la facilità delle mie frasi, nè lo splendore delle
mie metafore. Son cose che si veggono languire nelle vostre carte, e
che nascono vigorose nelle mie. Convengo che voi avete qualche merito,
una certa grazia di stile angelico e di armonia celeste, che risuona
gradevolmente negl'inni, nelle odi e negli epitalami. Ma tutte queste
dolcitudini non convengono alle Epistole, che hanno d'uopo di espressione
e di rilievo, non di miniatura e di artifizio. È colpa del vostro gusto
che preferisce il profumo de' fiori al sapore de' frutti. Ma non sapete
chi son io? Non sapete quante lettere ho pubblicate, che sonosi trovate
maravigliose? Io non mi starò qui a fare il mio elogio, il quale finalmente
non sarebbe che verità. Non vi dirò che gli uomini di merito dovrebbero
riguardare siccome un giorno memorabile il dì della mia nascita: io
che, senza seguire e senza servir le corti, ho costretto tutto quanto
vi ha di grande sulla terra, duchi, principi e monarchi, a diventar
tributarii del mio ingegno! Per quanto è lungo e largo il mondo, la
fama non si occupa che di me. Nella Persia e nell'India trovasi il mio
ritratto e vi è stimato il mio nome. Finalmente io vi saluto, e statevi
ben certo, che se molte persone biasimano il vostro modo di scrivere,
ciò non è per invidia - e se qualche altre lo lodano, egli e per compassione.»
Tale si teneva e tale lo teneva il mondo. Fu creduto un grand'uomo sulla
sua fede. Non mirava alla gloria; dell'avvenire se ne infischiava; voleva
il presente. E l'ebbe, più che nessun mortale. Medaglie, corone, titoli,
pensioni, gratificazioni, stoffe d'oro e d'argento, catene e anella
d'oro, statue e dipinti, vasi e gemme preziose, tutto ebbe che la cupidità
di un uomo potesse ottenere. Giulio III lo nominò cavaliere di San Pietro.
E per poco non fu fatto cardinale. Avea di sole pensioni ottocentoventi
scudi. Di gratificazioni ebbe in diciotto anni venticinquemila scudi.
Spese durante la sua vita più di un milione di franchi. Gli vennero
regali fino dal corsaro Barbarossa e dal sultano Solimano. La sua casa
principesca è affollata di artisti, donne, preti, musici, monaci, valletti,
paggi, e molti gli portano i loro presenti, chi un vaso d'oro, chi un
quadro, chi una borsa piena di ducati, e chi abiti e stoffe. Sull'ingresso
vedi un busto di marmo bianco coronato di alloro: è Pietro Aretino.
Aretino a dritta, Aretino a manca; guardate nelle medaglie d'ogni grandezza
e d'ogni metallo sospese alla tappezzeria di velluto rosso: sempre l'immagine
di Pietro Aretino. Morì a sessantacinque anni, il 1557, e di tanto nome
non rimase nulla. Le sue opere poco poi furono dimenticate, la sua memoria
è infame; un uomo ben educato non pronunzierebbe il suo nome innanzi
a una donna.
Chi fu dunque questo Pietro, corteggiato dalle donne, temuto dagli emuli,
esaltato dagli scrittori, così popolare, baciato dal papa, e che cavalcava
a fianco di Carlo quinto? Fu la coscienza e l'immagine del suo secolo.
E il suo secolo lo fece grande.
Machiavelli e Guicciardini dicono che l'appetito è la leva del mondo.
Quello che essi pensarono, Pietro fu.
Ebbe da natura grandi appetiti e forze proporzionate. Vedi il suo ritratto,
fatto da Tiziano. Figura di lupo che cerca la preda. L'incisore gli
formò la cornice di pelle e zampe di lupo; e la testa del lupo assai
simile di struttura sta sopra alla testa dell'uomo. Occhi scintillanti,
narici aperte, denti in evidenza per il labbro inferiore abbassato,
grossissima la parte posteriore del capo, sede degli appetiti sensuali,
verso la quale pare che si gitti la testa, calva nella parte anteriore.
«Figlio di cortigiana, anima di re», dice lui. Legatore di libri, valletto
del papa, miserie! I suoi bisogni sono infiniti. Non gli basta mangiare;
vuole gustare; non gli basta il piacere; vuole la voluttà; non gli basta
il vestire; vuole lo sfarzo; non gli basta arricchire; vuole arricchire
gli altri, spendere e spandere. E a chi se ne maraviglia risponde: «Ebbene,
che farci a questo? Se io son nato per vivere così, chi m'impedirà di
vivere così?» I suoi sogni dorati sono vini squisiti, cibi delicati,
ricchi palagi, belle fanciulle, belli abiti. Di ciò che appetisce, ha
il gusto. E nessuno è giudice più competente in fatto di buoni bocconi
e di godimenti leciti e illeciti. È in lui non solo il senso del piacere,
ma il senso dell'arte. Cerca ne' suoi godimenti il magnifico, lo sfarzoso,
il bello, il buon gusto, l'eleganza.
Ed ha forze proporzionate a' suoi appetiti, un corpo di ferro, una energia
di volontà, la conoscenza e il disprezzo degli uomini, e quella maravigliosa
facoltà che il Guicciardini chiama discrezione, il fiuto, il da fare
caso per caso. Sa quello che vuole. La sua vita non è scissa in varie
direzioni: uno è lo scopo, la soddisfazione de' suoi appetiti, o, come
dice il Guicciardini, il suo particolare. Tutti i mezzi sono eccellenti,
e li adopera secondo i casi. Ora è ipocrita, ora è sfacciato. Ora è
strisciante, ora è insolente. Ora adula, ora calunnia. La credulità,
la paura, la vanità, la generosità dell'uomo sono in mano sua un ariete
per batterlo in breccia ed espugnarlo. Ha tutte le chiavi per tutte
le porte. Oggi un uomo simile sarebbe detto un camorrista, e molte sue
lettere sarebbero chiamate ricatti. Il maestro del genere è lui. Specula
soprattutto sulla paura. Il linguaggio del secolo è officioso, adulatorio;
il suo tono è sprezzante e sfrontato. Le calunnie stampate erano peggio
che pugnali; cosa stampata voleva dir cosa vera; e lui mette a prezzo
la calunnia, il silenzio e l'elogio. Non gli spiacea aver nome di mala
lingua, anzi era parte della sua forza. Francesco primo gl'inviò una
catena d'oro composta di lingue incatenate e con le punte vermiglie,
come intinte nel veleno, con sopravi questo esergo: «Lingua eius
loquetur mendacium». Aretino gli fa mille ringraziamenti. Quando
non gli conviene dir male delle persone, dice male delle cose, tanto
per conservarsi la reputazione, come sono le sue intemerate contro gli
ecclesiastici, i nobili, i principi. Così l'uomo abbietto fu tenuto
un apostolo, e fu detto flagello de' principi. Talora trovò chi non
aveva paura. Achille della Volta gli die' una pugnalata. Nicolò Franco,
suo segretario, gli scrisse carte di vitupèri. Pietro Strozzi lo minaccia
di ucciderlo, se si attenta a pronunziare il suo nome. È bastonato,
sputacchiato. È lui allora che ha paura, perchè era vile e poltrone.
Sir Howel lo bastona, ed egli loda il Signore che gli accorda la facoltà
di perdonare le ingiurie. Giovanni, il gran diavolo, morendo gli disse:
«Ciò che più mi fa soffrire è vedere un poltrone.» Ma in generale amavano
meglio trattarlo come Cerbero, e chiudergli i latrati, gittandogli un'offa.
Le sue lettere sono capilavori di malizia e di sfrontatezza. Prende
tutte le forme e tutti gli abiti, dal buffone e dal millantatore sino
al sant'uomo calunniato e disconosciuto. Come saggio, ecco una sua lettera
alla piissima e petrarchesca marchesa di Pescara, che lo aveva esortato
a cangiar vita e a scrivere opere pie:
«Confesso che non sono meno utile al mondo e meno gradevole
a Gesù, spendendo le mie veglie per cose futili, che se le impiegassi
in opere di pietà. Ma quale ne è la causa? La sensualità altrui e la
mia povertà. Se i principi fossero così divoti, come io sono bisognoso,
la mia penna non traccerebbe che miserere. Illustrissima madonna,
tutti al mondo non possedono l'ispirazione della grazia divina. Il fuoco
della concupiscenza divora la maggior parte; ma Voi, voi non ardete
che di fiamma angelica. Per noi musiche e commedie sono quel che è per
voi la preghiera e la predica. Voi non rivolgereste gli occhi per vedere
Ercole nelle fiamme o Marsia scorticato; noi altrettanto per non riguardare
san Lorenzo sulla graticola o san Bartolomeo spoglio della sua pelle.
Vedete un po': io ho un amico, per nome Brucioli, il quale dedicò la
sua Bibbia al Re Cristianissimo. Dopo cinque anni non ne ebbe tampoco
risposta. La mia commedia, invece, la Cortigiana, acquistossi
dal medesimo re una ricca collana. Di guisa che la mia cortigiana si
sentirebbe tentata a beffarsi del Vecchio Testamento, se non fosse cosa
troppo indecorosa. Accordatemi mille scuse, Signora, per le baie che
vi ho scritte, non per malizia, ma per vivere. Che Gesù v'ispiri di
farmi tenere da Sebastiano da Pesaro il resto della somma, sulla quale
ho già ricevuto trenta scudi, e di cui vi sono anticipatamente debitore.»
All'ultimo una stoccata, come si direbbe oggi. È una
lettera tirata giù di un fiato da un genio infernale. Con che bonomia
si beffa della pia donna, avendo aria di farne l'elogio! Con che cinismo
proclama le sue speculazioni sulla libidine e sulla oscenità umana,
come fossero la cosa più naturale di questo mondo! Specula pure sulla
divozione, e con pari indifferenza scrive libri osceni e vite di santi,
il Ragionamento della Nanna e la Vita di santa Caterina da
Siena, la Cortigiana errante e la Vita di Cristo.
E perchè no? Posto che traeva guadagno di qua e di là. Scrisse di ogni
materia, e in ogni forma, dialoghi, romanzi, epopee, capitoli, commedie,
e anche una tragedia, l'Orazia. Immagina quali eroi possono essere
gli Orazii, quale eroina l'Orazia, e che specie di popolo romano può
uscire dall'immaginazione di Pietro. Pure è il solo lavoro che abbia
intenzioni artistiche, fatto ch'era già vecchio e sazio e cupido più
di gloria che di danari. Gli riuscì una freddura, un mondo astratto
e pedestre, di cui non comprese la semplicità e la grandezza. Negli
altri suoi lavori senti lui nella verità della sua natura, dedito a
piacere al suo pubblico, a interessarlo, a guadagnarselo, a fare effetto.
Ci è innanzi a lui una specie di mercato morale: conosce qual è la merce
più richiesta, più facile a spacciare e a più caro prezzo. Si fa una
coscienza e un'arte posticcia, variabile secondo i gusti del suo padrone,
il pubblico. Perciò fu lo scrittore più alla moda, più popolare e meglio
ricompensato. I suoi libri osceni sono il modello di un genere di letteratura,
che sotto nome di racconti galanti invase l'Europa. L'oscenità era una
salsa molto ricercata in Italia dal Boccaccio in poi; qui è essa l'intingolo.
Le vite di santi sono veri romanzi, dove ne sballa di ogni sorta, solleticando
la natura fantastica e sentimentale delle pinzochere. Fabbro di versi
assai grossolano, senti ne' suoi sonetti e capitoli la bile e la malignità
congiunta con la servilità. Così, alludendo alla munificenza di Francesco
primo, dice a Pier Luigi Farnese:
Impara tu, Pier Luigi ammorbato,
impara, ducarel da tre quattrini,
il costume da un Re tanto onorato.
Ogni signor di trenta contadini
e d'una bicoccazza usurpar vuole
le cerimonie de' culti divini.
Pietro non è un malvagio per natura. È malvagio per
calcolo e per bisogno. Educato fra tristi esempi, senza religione, senza
patria, senza famiglia, privo di ogni senso morale, con i più sfrenati
appetiti e con molti mezzi intellettuali per soddisfarli, il centro
dell'universo è lui, il mondo pare fatto a suo servizio. Su questa base,
la sua logica e uguale alla sua tempra. Ha una chiara percezione de'
mezzi, e nessuna esitazione o scrupolo a metterli in atto. E non lo
dissimula, anzi se ne fa gloria, è lì la sua forza, e vuole che tutti
ne sieno persuasi. Il mondo era un po' a sua immagine, molti erano che
avrebbero voluto imitarlo, ma non avevano il suo ingegno, la sua operosità,
la sua penetrazione, la sua versatilità, il suo spirito. Perciò l'ammiravano.
Fra tanti avventurieri e condottieri, di cui l'Italia era ammorbata,
gente vagabonda senza princìpi, senza professione e in cerca di una
fortuna a qualunque costo, il principe, il modello era lui. Tiziano
lo chiama il condottiero della letteratura. E lui non se ne offende,
se ne pavoneggia. Lasciato alla sua spontaneità, quando non lo preme
il bisogno, e non opera per calcolo, scopre buone qualità. È allegro,
conversevole, liberale, anzi magnifico, amico a tutta prova, riconoscente,
ammiratore de' grandi artisti, come di Michelangiolo e di Tiziano. Aveva
la logica del male e la vanità del bene.
Pietro come uomo è un personaggio importante, il cui studio ci tira
bene addentro ne' misteri della società italiana, della quale era immagine
in quella sua mescolanza di depravazione morale, di forza intellettuale
e di sentimento artistico. Ma non è meno importante come scrittore.
La coltura tendeva a fissarsi e a meccanizzarsi. Non si discuteva più
se si aveva a scrivere in volgare o in latino. Il volgare aveva conquistato
oramai il suo dritto di cittadinanza. Ma si discuteva se il volgare
si avesse a chiamare toscano o italiano. E non era contesa di parole,
ma di cose. Perchè molti scrittori pretendevano di scrivere come si
parlava dall'un capo all'altro d'Italia, e non erano disposti di andare
a prender lezione in Firenze. Amavano meglio latinizzare che toscaneggiare
Riconoscevano come modelli il Boccaccio e il Petrarca, ma non davano
alcuna autorità alla lingua viva. Lingua viva era per loro il linguaggio
comune, che atteggiavano alla latina e alla boccaccevole. Questo meccanismo
era accettato generalmente; se non che in Firenze il fondo della lingua
non era il linguaggio comune, mescolato di elementi locali, siculi,
lombardi, veneti, ma l'idioma toscano, così com'era stato maneggiato
dagli scrittori. E Firenze, esaurita la produzione intellettuale, alzò
le colonne di Ercole nel suo vocabolario della Crusca, e disse: non
si va più oltre. Il Bembo e più tardi il Salviati fissarono le forme
grammaticali. E le regole dello scrivere in tutt'i generi furono fissate
nelle rettoriche, traduzioni o raffazzonamenti di Aristotile, Cicerone
e Quintiliano. Si giunse a questo, che Giulio Camillo pretendea d'insegnare
tutto il sapere mediante un suo meccanismo. Tendenza al meccanizzare:
che è fenomeno costante in tutte le età che la produzione si esaurisce,
e la coltura si arresta, e si raccoglie nelle sue forme e si cristallizza.
Pietro, di mediocrissima coltura, considera tutte queste regole come
pedanteria. La sua vita interiore così spontanea e piena di forza produttiva
mal vi si può adagiare. Il pedantismo è il suo nemico e lo combatte
corpo a corpo. E chiama pedantismo quel veder le cose non in sè stesse
e per visione diretta, ma a traverso di preconcetti, di libri e di regole.
Quegl'inviluppi di parole e di forme gli sono così odiosi, come l'ipocrisia,
quel «covrirsi della larva di un'affettata modestia, invilupparsi nella
pelle della volpe e predicar l'umiltà e la decenza senza valer meglio
degli altri.» Non ascoltate quest'ipocriti,» scrive al cardinale di
Ravenna «pedanti comentatori di Seneca, i quali, dopo di aver passata
la lor vita nell'assassinare i morti, non sono contenti se non quando
crocifiggono i vivi. Sì, monsignore, egli è il pedantismo, che ha avvelenato
i Medici; è il pedantismo che ha ucciso il duca Alessandro; è il pedantismo
che ha prodotto tutt'i mali di questo mondo; è desso che per la bocca
del pedante Lutero ha provocata l'eresia e l'ha armata contro la nostra
santa fede. Lorenzino si fe' assassino per pedanteria, e per pedanteria
si fe' eretico Lutero, cioè a dire operarono per preconcetti, secondo
i libri, e senza nessuna intelligenza de' tempi loro.» Non è meno implacabile
verso il pedantismo letterario. Al Dolce scrive: «Andate pur per le
vie che al vostro studio mostra la natura. Il Petrarca e il Boccaccio
sono imitati da chi esprime i concetti suoi con la dolcezza e con la
leggiadria con cui dolcemente e leggiadramente essi andarono esprimendo
i loro, e non da chi gli saccheggia, non pur de' «quinci», de' «quindi»,
de' «soventi» e degli «snelli», ma de' versi interi. Il pedante che
voglia imitare, «rimoreggia» dell'imitazione, e mentre ne schiamazza
negli scartabelli, la trasfigura in locuzione, ricamandola con parole
tisiche in regola. O turba errante, io ti dico e ridico che la poesia
è un ghiribizzo della natura nelle sue allegrezze, il qual si sta nel
furor proprio, e mancandone, il cantar poetico diventa un cimbalo senza
sonagli e un campanile senza campane, per la qual cosa chi vuol comporre
e non trae cotal grazia dalle fasce è un zugo infreddato. Imparate ciò
ch'io favello da quel savio pittore, il quale, nel mostrare a colui
che il dimandò, chi egli imitava, una brigata d'uomini col dito, volle
inferire che dal vivo e dal vero toglieva gli esempi, come gli tolgo
io parlando e scrivendo. La natura di cui son secretario mi detta ciò
ch'io compongo. È certo ch'io imito me stesso, perchè la natura è una
compagnona badiale, e l'arte una piattola che bisogna che si appicchi;
sicchè attendete a esser scultore di sensi e non miniator di vocaboli.»
Parecchi scrivevano allora così alla naturale, e basta citare fra tutti
il Cellini, tutto vita e tutto cose. Ma il Cellini si teneva un ignorante,
e voleva che il Varchi riducesse la sua Vita nella forma de'
dotti, dove l'Aretino si teneva superiore a tutti gli altri, e dava
facilmente del pedante a quelli che lambiccavano le parole. Ci è in
lui una coscienza critica così diritta e decisa, che in quel tempo ci
dee parere straordinaria. La stessa libertà e altezza di giudizio portò
nelle arti, di cui aveva il sentimento. A Michelangiolo scrive: «Ho
sospirato di sentirmi sì piccolo e di saper voi così grande». Il suo
favorito è il suo amico e compare Tiziano, il cui realismo così pieno
e quasi sensuale si affà alla sua natura. Preso di febbre, si appoggia
alla finestra, e guarda le gondole e il Canal grande di Venezia, e rimane
pensoso e contemplativo, lui, Pietro Aretino! La vista della bella natura
lo purifica, lo trasforma. E scrive al Tiziano: «Quasi uomo che fatto
noioso a se stesso non sa che farsi della mente, non che de' pensieri,
rivolgo gli occhi al cielo, il quale, da che Dio lo creò, non fu mai
abbellito da così vaga pittura di ombre e di lumi, onde l'aria era tale,
quale vorrebbono esprimerla coloro che hanno invidia a voi, per non
esser voi. I casamenti, benchè sien pietre vere, parevano di materia
artificiata. E di poi scorgete l'aria, ch'io compresi in alcun luogo
pura e viva, in altra parte torbida e smorta. Considerate anche la maraviglia
ch'io ebbi de' nuvoli, i quali nella principal veduta mezzi si stavano
vicini a' tetti degli edificii, e mezzi nella penultima, perocchè la
diritta era tutta di uno sfumato pendente in bigio nero. Mi stupii certo
del color vario di cui essi si dimostravano: i più vicini ardevano con
le fiamme del foco solare, e i più lontani rosseggiavano d'un ardore
di minio non così bene acceso. O con che belle tratteggiature i pennelli
naturali spingevano l'aria in là, discostandola da' palazzi con il modo
che la discosta il Vecellio nel far de' paesi! Appariva in certi lati
un verde azzurro, e in alcuni altri un azzurro veramente composto dalle
bizzarrie della natura maestra de' maestri. Ella con i chiari e con
gli scuri sfondava e rilevava in maniera, che io, che so come il vostro
pennello è spirito dei suoi spiriti, e tre e quattro volte esclamai:
- O Tiziano, dove sete mo? - Per mia fe' che, se voi aveste ritratto
ciò ch'io vi conto, indurreste gli uomini nello stupore che confuse
me.» È notabile che questo sentimento della natura vivente, de' suoi
colori e de' suoi chiaroscuri, non produce nella sua anima alcuna impressione
o elevatezza morale, ma solo una ammirazione o stupore artistico, come
in un italiano di quel tempo. Vede la natura a traverso il pennello
di Tiziano e del paesista Vecellio, ma la vede viva, immediata, e con
un sentimento dell'arte che cerchi invano nel Vasari. Fra tante opere
pedantesche di quel tempo intorno all'arte e allo scrivere, le sue lettere
artistiche e letterarie segnano i primi splendori di una critica indipendente,
che oltrepassa i libri e le tradizioni, e trova la sua base nella natura.
Quale il critico, tale lo scrittore. Delle parole non si dà un pensiero
al mondo. Le accoglie tutte, onde che vengano e quali che sieno, toscane,
locali e forestiere, nobili e plebee, poetiche o prosaiche, aspre e
dolci, umili e sonore. E n'esce uno scrivere, che è il linguaggio parlato
anche oggi comunemente in Italia dalle classi colte. Abolisce il periodo,
spezza le giunture, dissolve le perifrasi, disfà ripieni ed ellissi,
rompe ogni artificio di quel meccanismo che dicevasi forma letteraria,
s'accosta al parlar naturale. Nel Lasca, nel Cellini, nel Cecchi, nel
Machiavelli ci è la stessa naturalezza, ma ci senti l'impronta toscana,
tutta grazia. Questi è un toscano ineducato, figlio della natura, vivuto
fuori del suo paese, e che parla tutte le lingue fra le quali esercita
le sue speculazioni. Fugge il toscaneggiare, come una pedanteria; non
cerca la grazia, cerca l'espressione e il rilievo. La parola è buona,
quando gli renda la cosa atteggiata come è nel suo cervello, e non la
cerca, gli viene innanzi cosa e parola, tanta e la sua facilità. Non
sempre la parola è propria, e non sempre adatta, perchè spesso scarabocchia,
e non scrive, abusando della sua facilità. Il suo motto è: «Come viene,
viene», e nascono grandi ineguaglianze. Di Cicerone e del Boccaccio
non si dà fastidio, anzi fa proprio l'opposto, cercando non magnificenza
e larghezza di forme, nelle quali si dondola un cervello indolente,
ma la forma più rapida e più conveniente alla velocità delle sue percezioni.
E neppure affetta brevità, come il Davanzati, cervello ozioso, tutto
alle prese con le parole e gl'incisi, perchè la sua attenzione non è
al di fuori, è tutta al di dentro. Abbandona i procedimenti meccanici,
non cura le finezze e le lascivie della forma. Ha tanta forza e facilità
di produzione, e tanta ricchezza di concetti e d'immagini, che tutto
esce fuori con impeto e per la via più diritta. Non ci è intoppo, non
ci è digressione o distrazione: pronto e deciso nello stile, come nella
vita. Mai non fu così vero il detto, che lo stile è l'uomo. Come il
suo io è il centro dell'universo, è il centro del suo stile.
Il mondo che rappresenta non esiste per sè, ma per lui, e lo tratta
e lo maneggia come cosa sua, con quel capriccio e con quella libertà
che il Folengo tratta il mondo della sua immaginazione. Se non che nel
Folengo si sviluppa l'umore, perchè il suo mondo è immaginario, e lo
tratta senz'alcuna serietà, solo per riderne; dove il mondo di Pietro
è cosa reale, e ne ha una perfetta conoscenza, e lo tratta per sfruttarlo,
per cavarne il suo utile. Perciò non rispetta il suo argomento, non
si cala e non si obblia in esso; ma ne fa il suo istrumento, i suoi
mezzi, anche a costo di profanarlo indegnamente. Tratta Gesù Cristo
come un cavaliere errante, e «che importa» dice «la menzogna che io
mescolo a queste opere? Dacchè io parlo de' Santi, che sono il nostro
rifugio celeste, le mie parole diventano parole di evangelio». Di santa
Caterina scrive che «Io non avrei fatto sei pagine di tutto, se avessi
voluto attenermi alla tradizione e alla storia. Le mie spalle hanno
assunto tutto il peso dell'invenzione; perchè infine queste cose tornano
alla più gran gloria di Dio». Talora si secca per via, il cervello è
vuoto, e ammassa aggettivi con uno sfoggio di pompa oratoria, che rivela
il ciarlatano: «Come lodare il religioso, il chiaro, il grazioso, il
nobile, l'ardente, il fedele, il veridico, il soave, il buono, il salutare,
il santo e il sacro linguaggio della giovane Caterina, vergine, sacra,
santa, salutare, nobile, graziosa, chiara, religiosa e facile?» Sembra
una campana che ti assorda, e ti turi le orecchie. Questo dicevasi stile
fiorito, e l'Aretino te ne regala, quando non ha di meglio. Talora vuol
pur dire, ma non ha vena, e non sentimento, ed esce nelle più sbardellate
metafore e nelle sottigliezze più assurde, massime ne' suoi elogi, che
gli erano così ben pagati. «Essendo i meriti vostri» scrive al duca
d'Urbino «le stelle del Ciel della Gloria, una di loro, quasi pianeta
dell'ingegno mio, lo inclina a ritràrvi con lo stil delle parole la
imagine dell'anima, acciocchè la vera faccia delle sue virtù, desiderata
dal mondo, possa vedersi in ogni parte; ma il poter suo, avanzato dall'altezza
del subbietto, non ostante che sia mosso da cotale influsso, non può
esprimere in qual modo la bontà, la clemenza e la fortezza di pari concordia
vi abbiano concesso, per fatal decreto, il vero nome di Principe.» È
un periodo alla boccaccevole, stiracchiato ne' concetti e nella forma.
Qui non ci è il «come viene, viene»; ma ci è il non voler venire e il
farlo venire per forza. I suoi panegirici sono tutti rettorici, metaforici,
miniati, falsamente pomposi, gonfiati sino all'assurdo, e sembrano quasi
caricature ironiche sotto forma di omaggi. Il dir bene non era per lui
cosa tanto facile, quanto il dir male, dove spiega tutto il vigore della
sua natura cinica e sarcastica. Assume un tuono enfatico, e cerca peregrinità
di concetti e di modi, un linguaggio prezioso, composto tutto di perle,
ma di perle false: preziosità passata in Francia con Voiture e Balzac
e castigata da Molière, e che in Italia dovea divenire la fisonomia
della nostra letteratura. Ecco alcune di queste perle false, messe in
circolazione dall'Aretino: «Io pesco nel lago della mia memoria con
l'amo del pensiero. - Il mio merito risplende della vernice della vostra
grazia. - Il chiodo della riconoscenza conficca il nome de' miei amici
nel mio cuore. - Non seppellite le mie speranze nella tomba delle vostre
false promesse. - La vostra grandezza ascende le scale del cielo con
istupor delle genti. - La vostra eloquenza si move dal natural dell'intelletto
con tanta facondia, che si riman confusa nella maraviglia la lingua
che le proferisce i concetti e l'orecchie che l'ascoltano. - Tòrre a
Solimano, in servigio della Cristianità, l'animo dall'anima, l'anima
dal corpo, e il corpo dalle armi. - Raccogliete l'affezione mia in un
lembo della vostra pietà. - Mi dono a voi, padri de' vostri popoli,
fratelli de' vostri servi, erarii della caritade e subbietti della clemenza.
- La faccia della liberalità ha per ispecchio il cuore di coloro a cui
si porge. - La vostra Eccellenza ricerca da me qualche ciancia per farne
ventaglio del caldo grande che arde questi dì.» Questo stile fiorito
o prezioso è traversato a quando a quando da lampi di genio: paragoni
originali, immagini splendide, concetti nuovi e arditi, pennellate incisive,
e trovi pure, quando è abbandonato a sè e non cerca l'effetto, verità
di sentimento e di colorito, come in questa lettera così commovente
nella sua semplicità: «Le scarpe azzurro-turchine, ricamate in oro,
che ho ricevute insieme con la vostra lettera, m'han fatto tanto piangere,
quanto m'hanno arrecato di piacere. La giovinetta che doveva adornarsene,
questa mattina ha ricevuto gli olii santi, ed io non posso scrivervene
di più, tanto sono commosso.» La dissoluzione del meccanismo letterario
è una forma di scrivere più vicina al parlare, libera da ogni preconcetto
e immediata espressione di quel di dentro, uno stile ora fiorito, ora
prezioso, che sono le due forme della declinazione dell'arte e delle
lettere, ecco ciò che significa Pietro Aretino, come scrittore. La sua
influenza non fu piccola. Aveva attorno secretari, allievi e imitatori
della sua maniera, come il Franco, il Dolce, il Landi, il Doni, e altri
mestieranti. «Io vivo di Kirieleison» scrive il Doni. «I miei
libri sono scritti prima di esser composti, e letti prima di esser stampati».
La sua Libreria si legge ancora oggi per un certo brio e per
curiose notizie.
Ma Pietro ha ancora una certa importanza, come scrittor di commedie.
C'era un mondo comico convenzionale, la cui base era Plauto e Terenzio,
con accessorii cavati dalla vita plebea e volgare di quel tempo. La
base erano equivoci, riconoscimenti, viluppi di accidenti, che tenessero
viva la curiosità. Intorno vi si schieravano caratteri divenuti convenzionali,
il parassito, il servo ghiottone, la cortigiana, la serva furba e mezzana,
il figliuolo prodigo, il padre avaro e burlato, il poltrone che fa il
bravo, il sensale, l'usuraio. Lo studio de' nostri comici è interessante,
chi voglia conoscer bene addentro i misteri di quella corruttela italiana.
Vedrà i legami di famiglia sciolti, e figli scioperati accoccarla a'
padri, zimbello essi medesimi di usurai, cortigiani e mezzani, tra le
risa del rispettabile pubblico. Codesto mondo era la commedia, con sue
forme fisse alla latina, sparsa di lazzi e di lubricità. Il più fecondo
scrittor comico fu il Cecchi, morto il 1587, che in meno di dieci giorni
improvvisava commedie, farse, storie e rappresentazioni sacre. Ha il
brio e la grazia fiorentina comune col Lasca, ma ha meno spirito e movimento,
anzi talora ti par di stare in una morta gora. Il suo mondo e i suoi
caratteri sono come un repertorio già noto e fissato, e la furia gl'impedisce
di darvi il colore e la carne. Ti riesce non di rado scarno e paludoso.
Pietro dà dentro in tutto questo meccanismo, e lo disfà. Non riconosce
regole e non tradizioni e non usi teatrali. «Non vi maravigliate», dice
nel prologo della Cortigiana «se lo stil comico non si osserva
con l'ordine che si richiede, perchè si vive d'un'altra maniera a Roma,
che non si vivea in Atene». Fra le regole c'era questa, che i personaggi
non potevano comparire più di cinque volte in iscena. Pietro se ne burla
con molto spirito: «Se voi vedessi uscire i personaggi più di cinque
volte in iscena, non ve ne ridete, perchè le catene, che tengono i molini
sul fiume, non terrebbono i pazzi di oggidì». Mira all'effetto; tronca
gl'indugi, sgombra gl'intoppi; evita le preparazioni, gli episodi, le
descrizioni, le concioni, i soliloqui spessi; cerca in tutto l'azione
e il movimento, e ti gitta fin dal principio nel bel mezzo di quel suo
mondo furfantesco vivamente particolareggiato. Non ha la sintesi del
Machiavelli, quell'abbracciare con sicuro occhio un vasto insieme, e
legarlo e svilupparlo con fatalità logica, come fosse un'argomentazione.
Non è ingegno speculativo, è uomo d'azione, e lui stesso personaggio
da commedia. Perciò non ti dà un'azione bene studiata e ordita come
è la Mandragola; gli fugge l'insieme, il mondo gli si presenta
a pezzi e a bocconi. Ma come il Machiavelli, egli ha una profonda esperienza
del cuore umano e grande conoscenza de' caratteri, i quali si sviluppano
ben rilevati e sporgenti tra la varietà degli accidenti, e dominano
la scena, e generano invenzioni e situazioni piccanti. Come ci gode
questo furfante fra tante bricconate che mette in iscena! Perchè infine
quel mondo comico è il suo mondo, quello dove ha fatto tante prove di
malizia e di ciarlataneria. Il concetto fondamentale è che il mondo
è di chi se lo piglia, e perciò è de' furbi e degli sfacciati, e guai
agli sciocchi! Tocca ad essi il danno e le beffe, perchè sono loro abbandonati
alle risa del pubblico, sono loro la materia comica. L'Ipocrita è
l'apoteosi di un furfante, che a furia d'intrighi e di malizia diviene
ricco, proprio come l'Aretino. La Talanta è una cortigiana che
l'accocca a tutt'i suoi amanti, e finisce ricca, stimata e maritata
a un suo antico e fedele amante, alla barba degli altri. Il Filosofo,
mentre studia Platone e Aristotile, se la fa fare dalla moglie, e poi
il buon uomo si riconcilia con essa. Nella Cortigiana messer
Maco, che vuol divenire cardinale, e Parabolano che in grazia delle
sue ricchezze crede di avere a' suoi piedi tutte le donne, sono per
tutta la commedia zimbello di cortigiane, di mezzani e di furfanti.
Il Marescalco o grande scudiere, per non far dispiacere al duca
di Mantova, suo signore, consente a sposarsi con una donna, che non
ha mai visto, lui nemico delle donne e del matrimonio. Nè questo è un
mondo immaginario e subbiettivo, anzi è proprio quella società lì, co'
suoi costumi egregiamente rappresentati nel più fino e nel più minuto.
Pietro vi gavazza entro, come nel suo elemento, lanciando satire, elogi,
epigrammi, bricconerie e laidezze, con un brio e un ardore di movenze,
come fossero fuochi artificiali. Alcuni caratteri sono rimasti celebri,
e tutti son vivi e veri. Il suo Marescalco ha ispirato Rabelais e Shakespeare,
ed è uno scherzo originalissimo. Il suo Parabolano è rimasto l'appellativo
degli uomini fatui e vani. Messer Maco è il tipo, da cui usciva il Pourceaugnac.
Il suo ipocrita è un Tartufo innocuo e messo in buona luce. Il suo filosofo,
che egli chiama Plataristotile, è una caricatura de' Platonici di quel
tempo. A sentirlo sentenziare è savissimo, ma non ha pratica del mondo,
e il servo la sa più lunga di lui, e più lunga del servo la sa Tessa,
la moglie. Questo filosofo, a cui la moglie gliela fa sul naso, pronunzia
sentenze bellissime sulle donne, mentre il servo, che sa tutto, gli
fa la boccaccia:
«Plataristotile - La femmina è guida del male
e maestra della scelleratezza.
Servo - Chi lo sa, nol dica.
Plataristotile - Il petto della femmina è corroborato d'inganni.
Servo - Tristo per chi non la intende.
Plataristotile - Solo quella è casta che da nessuno è pregata.
Servo - Questo sì ch'io stracredo.
Plataristotile - Chi sopporta la perfidia della moglie, impara
a perdonare le ingiurie.
Servo - Bella ricetta per chi è polmone.»
E il servo conchiude: «Vostra Saviezza pigli quello
che vi potria intervenire in buona parte, e non si lasci tanto andar
dietro agli speculamenti dottrineschi, che il diavolo non vi lasciasse
poi andare per i canneti».
«Tu parli da eloquente, » risponde il filosofo; «ma non ci son per considerar
sopra, per lo appetito della gloria che conseguisco filosofando».
Il suo Boccaccio è uno di quei merli capitati nelle unghie di una cortigiana
e scorticati vivi. La sua serva tende l'imboscata:
«Boccaccio - Che cosa move la tua madonna a
voler parlare a me, che son forestiere?
Lisa - Forse la grazia ch'è in voi; maffe sì ch'ella c'è, or
via.
Boccaccio - Tu ti diletti da ben dire.
Lisa - Mi venga la morte, se non ispasima di favellarvi.
Boccaccio - Chi è gentile, il dimostra.
Lisa - Nel vederla manderete a monte le bellezze d'ogni altra...
State saldo, fermatevi, e mirate il sole, la luna e le stelle, che si
levano là su quell'uscio.
Boccaccio - Che brava appariscenzia!
Lisa - Il vostro giudizio ha garbo.
Boccaccio - Purch'io sia l'uom ch'ella cerca. I nomi alle volte
si strantendono.
Lisa - Il vostro è sì dolce che si appicca alle labbra. Eccola
corrervi incontro a braccia aperte.»
Le cortigiane sono il suo tema favorito. La sua Angelica
è il tipo di tutte le altre. E la sua Nanna è la maestra del genere.
Questa è la commedia che poteva produrre quel secolo, l'ultimo atto
del Decamerone, un mondo sfacciato e cinico, i cui protagonisti
sono cortigiani e cortigiane, e il cui centro è la corte di Roma, segno
a' flagelli dell'uomo, che nella sua rocca di Venezia erasi assicurata
l'impunità.
Secondo una tradizione popolare molto espressiva Pietro morì di soverchio
ridere, come morì Margutte, e come moriva l'Italia.
XVII - TORQUATO TASSO
L' Ariosto, il Machiavelli, l'Aretino sono le tre forme
dello spirito italiano a quel tempo un'immaginazione serena e artistica,
che si sente pura immaginazione e beffa se stessa; un intelletto adulto,
che dà bando alle illusioni dell'immaginazione e del sentimento, e t'introduce
nel santuario della scienza, nel mondo dell'uomo e della natura; una
dissoluzione morale, senza rimorso, perchè senza coscienza, perciò sfacciata
e cinica. Intorno all'Ariosto si schierano gl'innumerabili novellieri,
romanzieri e comici, pasto avido di popolo colto e ozioso, che vive
di castelli incantati, perchè non prende più sul serio la vita reale.
Intorno al Machiavelli si stringono tutta una schiera d'illustri statisti
e storici, come il Guicciardini, il Giannotti, il Paruta, il Segni,
il Nardi, e tutt'i grandi pensatori, che cercano la redenzione nella
scienza. Attorno all'Aretino si move tutto il mondo plebeo de' letterati,
istrioni, buffoni, cortigiani, speculatori e mestieranti. L'Ariosto
spinge l'immaginazione fino al punto che provoca l'ironia. Il Machiavelli
spinge la sua realtà e la logica a tal segno che produce il raccapriccio.
E l'Aretino spinge il suo cinismo a tal grado che produce il disgusto.
Queste tre forme dello spirito si riflettono in loro ingrandite e condensate.
Quello era il tempo che i grandi Stati d'Europa prendevano stabile assetto,
e fondavano ciascuno la «patria» di Machiavelli, cioè una totalità politica
fortificata e cementata da idee religiose, morali e nazionali. E quello
era il tempo che l'Italia non solo non riusciva a fondare la patria,
ma perdeva affatto la sua indipendenza, la sua libertà, il suo primato
nella storia del mondo.
Di questa catastrofe non ci era una coscienza nazionale, anzi ci era
una certa soddisfazione. Dopo tante calamità venivano tempi di pace
e di riposo, e il nuovo dominio non parve grave a popoli stanchi di
tumulti e di lotte, avvezzi a mutare padroni, e pazienti di servitù,
che non toccava le leggi, i costumi, le tradizioni, le superstizioni,
e assicurava le vite e le sostanze. Alcun moto di plebe ci fu, come
a Napoli per l'Inquisizione e per la gabella de' frutti, cagionato da
poca abilità ne' governanti, anzi che da elevatezza di sentimenti ne'
sudditi. Quanto alle classi colte, ritirate da gran tempo nella vita
privata, negli ozi letterari e ne' piaceri della città e della villa,
niente parve loro mutato in Italia, perchè niente era mutato nella lor
vita. Contenti anche i letterati, a' quali non mancava il pane delle
corti e l'ozio delle accademie. Questa Italia spagnuola-papale aveva
anche un aspetto più decente. A forza di gridare che il male era nella
licenza de' costumi, massime fra gli ecclesiastici, il Concilio di Trento
si diede a curare il male riformando i costumi e la disciplina. «Si
non caste, tamen caute.» Al cinismo successe l'ipocrisia. Il vizio
si nascose; si tolse lo scandalo. E non fu più tollerata tutta quella
letteratura oscena e satirica; Niccolò Franco, l'allievo e poi il rivale
di Pietro Aretino, predicatosi da sè «flagello del flagello de' principi»,
finì impiccato per un suo epigramma latino. Il riso del Boccaccio morì
sulle labbra di Pietro Aretino. La censura preventiva, stabilita già
dal Concilio lateranense, fu applicata con severità; fu costituita la
Congregazione dell'Indice. Sorsero nuovi ordini religiosi per la riforma
de' costumi e l'educazione della gioventù, i teatini, i somaschi, i
barnabiti, i padri dell'oratorio, i gesuiti. Si composero poesie sacre,
che si cantavano nelle chiese e nelle processioni. San Filippo Neri
introdusse gli «oratorii», drammi e commedie sacre. L'istruzione cadde
in mano a' preti e a' frati. Spirava un odore di santità!
Questa fu la riforma fatta dal Concilio di Trento, e che il Sarpi chiama
«difformazione». Il tema prediletto de' poeti italiani e de' protestanti
erano gli scandali della corte romana. Roma, la «meretrice» di Dante,
la «Babilonia» del Petrarca, era stata assalita da' protestanti nel
suo lato più debole, e più efficace sulle grossolane moltitudini, nella
sua scostumatezza. Il Concilio spezzò quest'arma antica di guerra in
mano agli avversari, riformando la disciplina e dando in questo ragione
al vecchio Savonarola. Rimosso lo scandalo, il Concilio credea di aver
tolta alla Riforma protestante la sua ragion di essere, e stimò possibile
una conciliazione. Ma la licenza de' costumi era il pretesto, e non
la cagion vera e intima della Riforma germanica e della incredulità
italiana, che era l'intelletto già adulto e libero, che non voleva riconoscere
autorità di sorta e reclamava la libertà di esame. Ora il Concilio non
dava a questo alcuna soddisfazione, come sarebbe stato un accostare
la gerarchia a forme democratiche e lasciare alcuna larghezza di opinione
in certe quistioni; anzi fece proprio l'opposto, rafforzò l'autorità
papale a spese de' vescovi, atteggiando la gerarchia a monarchia assoluta,
e definì tutte le quistioni di domma e di fede, negando la competenza
della ragione e della coscienza individuale. Così la scissione divenne
definitiva, e l'Europa cristiana fu divisa in due campi: dall'un lato
la Riforma, dall'altro il romanismo e il papismo. La Riforma avea per
bandiera la libertà di coscienza e la competenza della ragione nell'interpretazione
della Bibbia e nelle quistioni teologiche; il romanismo avea per contrario
a fondamento l'autorità infallibile della Chiesa, anzi del papa, e l'ubbidienza
passiva, il «credo quia absurdum». Questa lotta tra la fede e
la scienza, l'autorità e la libertà, è antica, coeva alle origini stesse
della religione, ma si manifestava in quistioni parziali intorno a questo
o a quel dogma, e solo allora se ne acquistò coscienza, e la differenza
fu elevata a principio. In questa coscienza più chiara sta l'importanza
della Riforma e del Concilio di Trento. Innanzi di questo tempo, ci
era in Italia una specie di ecletismo, per il quale filosofia e teologia
andavano insieme, senza troppo saper come, a quel modo che classicismo
e cristianesimo, e le idee più ardite si facevano largo, quando erano
accompagnate con la clausola: «salva la fede». Era una specie di compromesso
tacito, per il quale il mondo, bene o male, andava innanzi, senza troppi
urti. Ora non sono più possibili gli equivoci, le cautele e ipocrisie
oratorie: le due parti sanno quello che vogliono, e stanno a fronte
nemiche. La Chiesa, anzi il papa si proclama solo e infallibile interprete
della verità, e dichiara eretica non questa o quella proposizione solamente,
ma la libertà e la ragione, il dritto di esame e di discussione. Da
questa lotta esce il concetto moderno della libertà. Presso gli antichi
«libertà» era partecipazione de' cittadini al governo, nel qual senso
è intesa anche dal Machiavelli. Presso i moderni accanto a questa libertà
politica è la libertà intellettuale, o, come fu detto, la «libertà di
coscienza», cioè a dire la libertà di pensare, di scrivere, di parlare,
di riunirsi, di discutere, di avere una opinione e divulgarla e insegnarla:
libertà sostanziale dell'individuo, dritto naturale dell'uomo, e indipendente
dallo Stato e dalla Chiesa. Di qui viene questa conseguenza, che interpretare
e bandire la verità è dritto naturale dell'uomo, e non privilegio di
prete: sicchè proprio della Riforma fu il secolarizzare la religione.
Il concetto opposto fondato sull'onnipotenza della Chiesa o dello Stato
è il dritto divino, la teocrazia, il cesarismo, assorbimento dell'individuo
nell'essere collettivo, come si chiami, o Chiesa, o Stato, o papa, o
imperatore.
Il Concilio di Trento portava conseguenze non solo religiose, ma politiche.
Da esso usciva la consacrazione della monarchia assoluta sulle rovine
de' privilegi feudali e delle franchigie comunali. Papa e re si diedero
la mano. Il re prestava al papa il braccio secolare, e il papa lo consacrava,
lo legittimava, gli dava i suoi inquisitori e i suoi confessori. La
monarchia fu ordinata a modo della gerarchia ecclesiastica, e fondata
sullo stesso principio dell'autorità e della ubbidienza passiva. Trono
e altare furono del pari inviolabili, e indiscutibili. E fu atto di
ribellione pensare liberamente di papa o di re, anzi venne su il motto:
«De Deo parum, de rege nihil». Così la religione divenne un istrumento
politico, il dispotismo religioso divenne il sussidio naturale del dispotismo
politico.
Ma l'autorità e la fede sono di quelle cose che non si possono imporre.
E in Italia era così difficile restaurare la fede, come la moralità.
Ciò che si potè conseguire fu l'ipocrisia, cioè a dire l'osservanza
delle forme in disaccordo con la coscienza. Divenne regola di saviezza
la dissimulazione e la falsità nel linguaggio, ne' costumi, nella vita
pubblica e privata: immoralità profonda, che toglieva ogni autorità
alla coscienza, ed ogni dignità alla vita. Le classi colte incredule
e scettiche si rassegnarono a questa vita in maschera con la stessa
facilità che si acconciarono alla servitù e al dominio straniero. Quanto
alle plebi, vegetavano, e fu cura e interesse de' superiori lasciarle
in quella beata stupidità.
Non mancarono resistenze individuali. Molti uomini pii, e anche ecclesiastici,
amarono meglio ardere su' roghi o esulare che mentire alla coscienza.
Intere famiglie abbandonarono l'Italia, e portarono altrove le loro
industrie. Uomini egregi di virtù e di scienza onorarono il paese natio
scrivendo, predicando nella Svizzera, nell'Inghilterra, in Germania.
Operosissimo fra tutti il Socino, da Siena, da cui presero nome i sociniani.
Il suo merito è di avere avuto della Riforma una coscienza assai più
chiara, che non Lutero e non Calvino, facendo fede quanto l'intelletto
italiano era innanzi in queste speculazioni. Perchè il Socino, uscendo
dalle quistioni parziali intorno a questo o a quel pronunziato teologico,
sulle quali battagliavano Lutero, Melantone e Calvino, proclama la ragione
sola competente, negando ogni elemento soprannaturale, e fa centro dell'universo
l'uomo nel suo libero arbitrio, negando l'onniscienza divina e la predestinazione.
Ci si vede subito l'italiano, il concittadino di Machiavelli.
A questi esempi e a questi martìri l'Italia rimaneva indifferente. Quistioni
che insanguinavano mezza Europa, non la toccavano. Ed erano quistioni,
dalle quali sciolte nell'uno o nell'altro modo, dipendeva l'avvenire
della civiltà e la sorte delle nazioni. Rimase romana tutta la gente
latina, Spagna, Francia, Italia. Ma in Francia e nella Spagna non fu,
se non dopo accanite persecuzioni, che resero indimenticabile il Tribunale
della inquisizione e la giornata di san Bartolomeo. In quelle lotte
lo spirito nazionale si ritemprò, e si svegliarono gl'intelletti; e
il sentimento religioso esaltato dagl'interessi politici e dal fanatismo
delle plebi fu fattore di civiltà, accentrò le forze intorno alla monarchia
assoluta, costituì fortemente l'unità nazionale e impresse alla vita
intellettuale un moto più celere. La Spagna di Carlo quinto e di Filippo
secondo ebbe il suo Cervantes, il suo Lopez e il suo Calderon, e la
Francia ebbe il suo secolo d'oro, co' suoi poeti, filosofi e oratori,
ebbe Cartesio, Malebranche e Pascal, ebbe Bossuet e Fènelon, Corneille,
Racine, e Molière Le due nazioni uscirono dalla lotta potenti, prospere,
e saldamente unificate.
In Italia non ci fu lotta, perchè non ci fu coscienza, voglio dire convinzioni
e passioni religiose, morali e politiche. Le altre nazioni entravano
pure allora in via; essa giungeva al termine del suo cammino, stanca
e scettica. Rimase papale con una coltura tutta pagana ed antipapale.
Il suo romanismo non fu effetto di rinnovamento religioso negli spiriti,
come tentò di fare frate Savonarola, fu inerzia e passività; mancava
la forza e di combatterlo e di accettarlo Piacque quella maggiore castigatezza
e correzione nelle forme, stucchi della licenza, nè dispiaceva quel
nuovo splendore del papato, e non avendo patria, si fabbricavano volentieri
una patria universale o cattolica, col suo centro a Roma. Venne in voga
predicare contro gli eretici, e celebrare le vittorie cattoliche sopra
i turchi, come quella di Lepanto, e più tardi quella di Vienna. Papa
e Spagna imperavano, nessuno riluttante. Ma se Filippo secondo o Luigi
decimoquarto potevano dire: - Lo Stato son io -; Spagna e papa non potevano
dire: - L'Italia siamo noi. - Mancavano loro que' gagliardi consensi
che vengono dal di dentro e formano il vincolo nazionale. Lo spirito
italiano ubbidiva inerte e non scontento, ma rimaneva al di fuori, non
s'immedesimava in loro. Le idee vecchie non erano credute più con sincerità,
e mancavano idee nuove, che formassero la coscienza e rinvigorissero
la tempra: indi quel consenso superficiale ed esteriore, quello stato
di acquiescenza passiva e di sonnolenza morale. L'intelletto in quella
sua virilità non apparteneva a loro, era contro di loro. E se vogliamo
trovare i vestigi di una nuova Italia, che si vada lentamente elaborando,
dobbiamo cercarli nell'opposizione fatta a Spagna e papa. La storia
di questa opposizione è la storia della vita nuova.
Il primo fenomeno di questa sonnolenza italiana fu il meccanismo, una
stagnazione nelle idee, uno studio di fissare e immobilizzare le forme.
Si arrestò ogni movimento filosofico e speculativo. Il Concilio di Trento
avea poste le colonne d'Ercole, avea pensato esso per tutti. La scienza
fu presa in sospetto. Permesso appena il platonizzare. I grandi problemi
della destinazione umana, etici, politici, metafisici, furono messi
da parte, ed al pensiero non rimase altro campo che lo studio della
natura ne' limiti della Bibbia. Crebbe invece lo studio delle forme.
Fu allora che si formò l'Accademia della Crusca, e fu il Concilio di
Trento della nostra lingua. Anch'essa scomunicò scrittori e pose dommi.
E ne venne un arruffio concepibile solo in quell'ozio delle menti.
La nostra lingua avea già una forma stabile e sicura in tutta Italia.
Il toscano era «il fiore della lingua italiana», così dice Speron Speroni.
Ci era dunque una lingua italiana, vale a dire un fondo comune di vocaboli
con una comune forma grammaticale, atteggiato variamente e colorito
secondo le varie parti d'Italia. Allora, come ora, si sentiva nello
scrittore l'italiano e anche il toscano, il lombardo, o il veneziano,
o il napolitano. Questa varietà di atteggiamento e di colorito, questo
elemento locale era la parte viva della lingua, che lo scrittore attingeva
dall'ambiente in cui era. Se Firenze fosse stata un centro effettivo
d'Italia, come Parigi, la lingua fiorentina sarebbe rimasta lingua viva
di tutti gli scrittori italiani, che ivi avrebbero avuto la loro naturale
attrazione. Ma Firenze era allora per gli italiani un museo, da studiarsi
nei suoi monumenti, voglio dire ne' suoi scrittori. L'Accademia della
Crusca considero la lingua come il latino, vale a dire come una lingua
compiuta e chiusa in sè, di modo che non rimanesse a fare altro, se
non l'inventario. Chiamò puri tutt'i vocaboli contenuti nel suo dizionario
e usati da questo o da quello scrittore, e scomunicò tutti gli altri.
Fece una scelta degli scrittori, e di sua autorità creò gli eletti ed
i reprobi. Così la lingua, segregata dall'uso vivente, divenne un cadavere,
notomizzato, studiato, riprodotto artificialmente, e gl'italiani si
avvezzarono a imparare e scrivere la loro lingua, come si fa il latino
o il greco. Il Petrarca e il Boccaccio diventarono modelli così inviolabili
come la Bibbia, e il «non si può» venne in moda anche per le parole,
tanto che mancò pazienza fino al gesuita Bartoli. A mostrare in qual
modo studiassero i nostri letterati, cito ad esempio un uomo coltissimo
e d'ingegno non ordinario, Speron Speroni:
«Io veramente fin da' primi anni, desiderando oltramodo
di parlare e di scrivere volgarmente i concetti del mio intelletto,
e questo non tanto per dovere essere inteso, il che è cosa degna da
ogni volgare, quanto a fine che il nome mio con qualche laude tra' famosi
si numerasse, ogni altra cura posposta, alla lezion del Petrarca e delle
Cento novelle con sommo studio mi rivolgei: nella qual lezione
con poco frutto non pochi mesi per me medesimo esercitatomi, ultimamente
da Dio ispirato ricorsi al nostro messer Trifon Gabriele; dal quale
benignamente aiutato, vidi e intesi perfettamente quei due autori, li
quali, non sapendo che notar mi dovessi, avea trascorso più volte.»
Questo è un solo periodo! E che affanno! E domando
se vi par lingua viva. Ecco ora in iscena Trifone, uno de' grammatici
e critici più riputati e chiamato il Socrate di quella età:
«Questo nostro buon padre primieramente mi fece noti
i vocaboli, poi mi die' regole da conoscere le declinazioni e coniugazioni
de' nomi e verbi toscani, finalmente gli articoli, i pronomi, i participi,
gli adverbi e le altre parti dell'orazione distintamente mi dichiarò:
tanto che accolte in uno le cose imparate, io ne composi una mia grammatica,
con la quale, scrivendo, io mi reggeva... Poichè a me parve d'esser
fatto un solenne gramatico, ... io mi diedi al far versi: allora pieno
tutto di numeri, di sentenzie e di parole petrarchesche o boccacciane,
per certi anni fei cose a' miei amici meravigliose; poscia parendomi
che la mia vena si cominciasse a seccare (perciocchè alcune volte mi
mancava i vocaboli, e non avendo che dire in diversi sonetti, uno istesso
concetto m'era venuto ritratto), a quello ricorsi che fa il mondo oggidì,
e con grandissima diligenzia feci un rimario o vocabolario volgare,
nel quale per alfabeto ogni parola, che già usarono questi due, distintamente
riposi: oltre di ciò in un altro libro i modi loro del descriver le
cose, giorno, notte, ira, pace, odio, amore, paura, speranza, bellezza
siffattamente raccolsi, che nè parole, nè concetto usciva di me, che
le novelle e i sonetti loro non ne fossero esempio... Era d'opinione
che la nostra arte oratoria e poetica altro non fosse che imitar loro
ambidue, prosa e versi a lor modo scrivendo.»
Adunque la lingua, la «testura delle parole», i loro
«numeri» e la loro «concinnità», frasi del tempo, si studiavano nel
Boccaccio e nel Petrarca, e se ne cavarono grammatiche, dizionari e
repertorii di frasi e di concetti. Così insegnava Trifone Gabriele,
detto Socrate, e così praticava Speron Speroni, riuscito con questa
scuola a scrivere in quel gergo artificiale e convenzionale, che si
e visto. Così la lingua, fatta classica e pura, rimase immobile e cristallizzata,
come lingua morta, e il suo studio divenne difficilissimo. Si voleva
non solo che la parola fosse pura, ma che fosse numerosa ed elegante.
Si formo una scienza de' numeri non pure in verso, ma in prosa. Il periodo
divenne un artificio complicatissimo. Eccone un saggio nello Speroni:
«... come la composizione della prosa è ordinanza delle
voci delle parole, così i numeri sono ordini delle sillabe loro; con
li quali dilettando le orecchie, la buona arte oratoria comincia, continua
e finisce l'orazione; perciocchè ogni clausola, come ha principio, così
ha mezzo e fine: nel principio si va movendo, e ascende; nel mezzo quasi
stanca della fatica stando in pie si posa alquanto; poi discende e vola
al fine per acquetarsi... La prosa alcuna volta ben compone le parole
non belle, e altra volta le belle malamente va componendo; e può occorrere
che, siccome nella musica bene e spesso le buone voci discordano, e
le non buone o per usanza o per arte sono tra loro concordi; così i
pari, i simili e i contrari, cose tutte per lor natura ben risonanti,
qualche volta con voce aspra e difforme, qualche volta scioccamente
e a bocca aperta, va esplicando la orazione. Finalmente molte fiate
intravviene che la prosa perfettamente composta, quasi fiume del proprio
corso appagandosi, non si cura non che di giungere al fine, ma di posarsi
per lo cammino, e va sempre, e se 'l fiato non le mancasse, continuamente
tutta sua vita camminerebbe: però a' numeri ricorriamo, li quali, attraversando
la strada piacevolmente con lusinghe e con vezzi, a rinfrescarsi e albergare
con loro la invitino, e non volendo la cortesia, vogliono usare le forze
e per ben suo, mal suo grado, con violenzia l'arrestino.»
Con questi criteri non è maraviglia che a lungo andare
si sia giunto a tale, che un predicatore componeva i suoi periodi a
suon di musica. E si comprende anche che lo Speroni fabbricasse a questo
modo i suoi periodi, e quanta ammirazione dovessero destare i periodi
con tanto artificio congegnati del Bembo, del Casa o del Castiglione.
La parola ebbe una sua personalità, fu isolata dalla cosa; e ci furono
parole pure e impure, belle e brutte, aspre e dolci, nobili e plebee.
Nella scelta delle parole stava il segreto della eleganza. Si cercava
non la parola propria, ma la parola ornata, o la perifrasi; la ripetizione
era peccato mortale, e se la cosa era la stessa, dovea cercarsi una
diversa parola, tacere i nomi propri e «ogni cosa delle altrui voci
adornare», come lo Speroni nota del Petrarca, il quale chiamò «la testa
'oro fino' e 'tetto d'oro'; gli occhi 'soli', 'stelle', 'zaffiri', 'nido'
e 'albergo d'amore'; le guance or 'neve e rose', or 'latte e foco';
'rubini' i labbri; 'perle' i denti; la gola e il petto ora 'avorio',
ora 'alabastro'». Una lingua viva è sempre propria, perchè la parola
ti esce insieme con la cosa; una lingua morta è necessariamente impropria,
perchè la trovi ne' dizionari e negli scrittori bella e fatta, mutilata
di tutti quegli accessorii che il popolo vi aggiungeva, e che determinavano
il suo significato e il suo colore. Così la nostra lingua, giunta a
un alto grado di perfezione, che pure allora nella Eneide del
Caro e nel Tacito del Davanzati mostrava la sua potenza, si arresto
nel suo sviluppo, a quel modo che la vita italiana, e disputavano come
si avesse a chiamare, o «toscana» o «fiorentina» o «italiana,» quando
era già bella e imbalsamata, ben rinchiusa e coperchiata nel dizionario
della Crusca.
Il medesimo era della grammatica. Si cercò il criterio non nella natura
e nel significato delle cose, e non nella logica necessità, ma nell'uso
variabilissimo degli scrittori. Indi regole arbitrarie e più arbitrarie
eccezioni, e quella folla di significati attribuiti a una sola parola,
e tante inutilità decorate col nome di «ripieno», e sottigliezze infinite
su di una lettera o una sillaba. Onde nacque una ortografia in molte
parti campata in aria e tentennante, una sintassi complicata e incerta,
un guazzabuglio di particelle, pronomi, generi, casi, alterazioni e
costruzioni, una grammatica che anche oggi è una delle meno precise
e semplici. Avemmo una lingua senza proprietà e una grammatica senza
precisione; perchè lingua e grammatica furono considerate non in rispetto
alle cose, ma per se stesse, come forme vacue e arbitrarie.
L'attenzione era tutta al di fuori, sulla superficie. La letteratura
fu un artificio tecnico, un meccanismo. E si cercò il suo fondamento
non nelle ragioni intrinseche di ciascuna forma messa in relazione con
le cose, ma nell'esempio degli scrittori. Come del periodo, così immaginarono
uno schema artificiale e immobile di composizione, la cui base fu posta
in una certa concordanza del tutto e delle parti, come in un orologio,
e questo chiamavano scrivere classico. Smarrito il sentimento dell'arte
e della poesia, non rimase che un concetto prosaico di perfezione meccanica,
la regolarità e la correzione. Davano una importanza straordinaria alla
lingua, alla grammatica, all'elocuzione, al periodo, alla composizione:
e qui erano le colonne di Ercole, qui finiva la critica. Gli scrittori
giudicati secondo questi criteri erano più o meno lodati secondo che
più o meno si avvicinavano al modello. Si vantavano le commedie e le
tragedie di quel tempo per la loro conformità alle regole. E come un
effetto bisognava ottenere sugli spettatori, e quella regolarità ammiratissima
era pur la più noiosa cosa di questo mondo, cercavano l'effetto ne'
mezzi più grossolani e caricati, a cui sogliono ricorrere gli uomini
mediocri. Le commedie erano buffonerie, le tragedie erano orrori, e
tra le più insopportabili era appunto la Canace dello Speroni.
Una sola cosa mancava all'Italia, il genere eroico, e lo Speroni è tutto
sconsolato di non trovarne l'esempio nel Petrarca: «Quasi nuovo alchimista,
lungamente mi faticai per trovare l'eroico, il qual nome niuna guisa
di rima dal Petrarca tessuta non è degna di appropriarsi.» Il Trissino
era mal riuscito. L'Orlando furioso era fuori regola, e gli si
perdonava, perchè era «romanzo» e non poema. Il problema era di «trovare
l'eroico», come diceva lo Speroni. Ciascun vede quanto Pietro Aretino
entrasse innanzi per ingegno critico a tutti costoro.
Conforme a quei criteri era la pratica. Comenti al Boccaccio e al Petrarca
infiniti. Molte traduzioni di classici, tra le quali il Livio
del Nardi, la Rettorica e l'Eneide del Caro, le Metamorfosi
dell'Anguillara, il Tacito del Davanzati. Grammatiche e rettoriche
tutte ad uno stampo dal Bembo al Buommattei, detto «messer Ripieno»,
anzi sino al Corticelli. Imitazioni, anzi contraffazioni classiche in
uno stile artificiato, che tirava a sè anche i più robusti ingegni,
anche il Guicciardini. E le accademie che moltiplicavano sotto i nomi
più strani, dove, finiti i baccanali, regnavano vuote cicalate e dispute
grammaticali. Come contrapposto, non mancavano gli eccentrici, che cercavano
fama per via opposta, come il Lando, che chiamava «imbecille» il Boccaccio
e «animalaccio» Aristotile, e solleticava l'attenzione pubblica co'
suoi Paradossi.
Nella prima metà del secolo la libertà, anzi la licenza dello scrivere
gittava in mezzo a quell'aspetto uniforme e pedantesco della letteratura
la vivezza, la grazia, la mordacità, la lubricità, la personalità dello
scrittore. Dirimpetto al classico ci era l'avventuriere.
Ultimo di questi avventurieri fu Benvenuto Cellini, morto nel 1570,
Natura ricchissima, geniale e incolta, compendia in sè l'italiano di
quel tempo, non modificato dalla coltura. Ci è in lui del Michelangiolo
e dell'Aretino insieme fusi, o piuttosto egli è l'elemento greggio,
primitivo, popolano, da cui usciva ugualmente l'Aretino e Michelangiolo.
Artista geniale e coscienzioso, l'arte è il suo dio, la sua moralità,
la sua legge, il suo dritto. L'artista, secondo lui, è superiore alla
legge, e «gli uomini, come Benvenuto, unici nella loro professione,
non hanno ad essere obbligati alle leggi». Cerca la sua ventura di corte
in corte, armato di spada e di schioppetto, e si fa ragione con le sue
armi e con la lingua non meno mortale, che «fora e taglia». Se incontra
il suo nemico, gli tira una stoccata, e se lo ammazza, suo danno; perchè
«li colpi non si dànno a patti». Se lo mettono prigione, gli pare uno
scandalo e gli fanno uno «scellerato torto». È divoto, come una pinzochera,
e superstizioso come un brigante. Crede a' miracoli, a' diavoli, agl'incantesimi,
e, quando ne ha bisogno, si ricorda di Dio e de' santi, e canta salmi
e orazioni, e va in pellegrinaggio. Non ha ombra di senso morale, non
discernimento del bene e del male, e spesso si vanta di delitti che
non ha commessi. Bugiardo, millantatore, audace, sfacciato, pettegolo,
dissoluto, soverchiatore, e sotto aria d'indipendenza, servitore di
chi lo paga. È contentissimo di sè e non si tiene al di sotto di nessuno,
salvo il «divinissimo» Michelangiolo. Potentissimo di forza e di vita
interiore, questo cavaliere errante dettò egli medesimo la sua vita,
e si ritrasse con tutte queste belle qualità, sicurissimo di alzare
a sè un monumento di gloria. Queste qualità vengon fuori con la spontaneità
della natura ed il brio della forza in uno stile evidente e deciso,
come il suo cesello.
Nella seconda metà del secolo questa vita ricca e licenziosa è compressa,
e la personalità scompare sotto il compasso dell'accademia e del Concilio
di Trento. Rimangono stizze, passioncelle, denuncie, calunnie, furori
grammaticali, la parte più grossolana e pedantesca di quella vita. In
quel tempo l'Inghilterra avea il suo Shakespeare; Rabelais e Montaigne,
pieni di reminiscenze italiane, preludevano al gran secolo; Cervantes
scrivea il suo Don Chisciotte, e Camoens le sue Lusiadi.
E i nostri critici scrivevano gli Avvertimenti grammaticali e
i Dialoghi sull'Amore platonico, Sulla Rettorica, Sulla Storia,
sulla Vita attiva e contemplativa, e cercavano e non trovavano
il genere eroico.
Tra queste preoccupazioni e miserie venne in luce la Gerusalemme
Liberata. L'Italia avea il suo poema eroico, non so che «simile»
all'Iliade e all'Eneide, e i critici dovevano essere soddisfatti.
Il giovane Pellegrini annunziò la buona novella a suon di tromba, con
l'entusiasmo dell'età.
La Gerusalemme intoppava in un mondo non più poetico, ma critico.
Il sentimento dell'arte era esausto, l'ispirazione e la spontaneità
nel comporre e nel giudicare era guasta da ragionamenti fondati sopra
concetti critici, generalmente ammessi e tenuti come vangelo. L'Ariosto
si pose a scrivere come gli era dettato dentro, e non guardava altro.
Il suo argomento divenne innanzi al suo genio un vero mondo, con la
sua propria maniera di essere e con le sue regole. Il Tasso, come Dante,
era già critico prima di esser poeta, aveva già innanzi a sè tutta una
scuola poetica. Ciò che sta avanti a lui non è il suo argomento, ma
certi fini, certe preoccupazioni certi modelli, e Orazio e Aristotile,
e Omero e Virgilio. A diciotto anni è già una maraviglia di dotto, e
conosce Platone e Aristotile e sviluppa a maraviglia tesi di filosofia,
di rettorica e di etica. Scrive il Rinaldo, e, come aveva imparato
il «simplex et unum», studia all'unità dell'azione e alla semplicità
della composizione, e ne chiede scusa al pubblico. Ma il pubblico, avvezzo
alle larghe e magnifiche proporzioni dell'Orlando e dell'Amadigi,
trova il pasto un po' magro e ne torce la bocca. Lasciò allora da parte
il poema cavalleresco, o, come dicevano, il romanzo, e pensò di dare
all'Italia quel poema eroico, che tutti cercavano. Esitò sulla scelta
dell'argomento, avea pronti quattro o cinque temi, e rimise l'elezione,
dicesi, al duca Alfonso, suo mecenate. In somma cominciò la Gerusalemme.
Volle fare un poema «regolare», come dicevano, secondo le regole. L'argomento
rispondeva a' tempi pel suo carattere religioso e cosmopolitico, e vi
poteva senza sforzo introdurre un eroe estense, e, come l'Ariosto, far
la sua corte al duca. Si die' una cura infinita delle proporzioni e
delle distanze, per conservare l'unità e la semplicità della composizione.
Guardò al verisimile, per dare al suo mondo un aspetto di naturale e
di credibile. Introdusse un'azione seria, intorno a cui tutto convergesse,
e fece del pio Goffredo un protagonista effettivo, un vero capo e re
a uso moderno. Soppresse i cavalieri erranti, e cavò l'intreccio non
dallo spirito di avventura, ma dall'azione celeste e infernale, come
in Omero. Umanizzò il soprannaturale, rendendolo spiegabile e quasi
allegorico, e come una semplice esteriorità degl'istinti e delle passioni.
Nobilitò i caratteri, sopprimendo il volgare, il grottesco e il comico,
e sonò la tromba dal primo all'ultimo verso. Tolse molta parte al caso
e alla forza brutale, e molta ne die' all'ingegno, alla forza morale,
alle scienze, come ne' suoi duelli e battaglie. Mirò a dare al suo racconto
un'apparenza di storia e di realtà. Si consigliava spesso con i critici,
e dava loro a leggere il poema canto per canto, e mutava e correggeva,
docilissimo. Tra questi critici consultati era Speron Speroni.
Il Tasso voleva fare un poema seriamente eroico, animato da spirito
religioso, possibilmente storico e prossimo al vero o verisimile, di
un maraviglioso naturalmente spiegabile, e di un congegno così coerente
e semplice, che fosse vicino ad una logica perfezione. Questo era il
suo ideale classico, che cercò di realizzare, e che spiegò ne' suoi
scritti sul poema eroico e sulla poesia, ne' quali mostrò che ne sapeva
più de' suoi avversari.
Il poema fu accolto con quello spirito che fu composto. Letto prima
a bocconi; quando uscì tutto intero, scorretto e senza saputa dell'autore,
si destò un vespaio. I critici lo combatterono con le sue armi. - Se
volevate fare un poema religioso, - diceva l'Antoniano - dovevate darci
un poema che potesse andar nelle mani anche delle monache. - Gli uomini
pii, che allora davano il tuono, mostravano scandalo di quegli amori
rappresentati con tanta voluttà, malgrado che il povero Tasso ne chiedesse
perdono alla Musa «coronata di stelle fra' beati cori». E per farli
tacere, costruì un'allegoria postuma e particolareggiata, che fosse
di passaporto a quei diletti profani. Come arte, il poema fu esaminato
nella composizione, nella elocuzione, nella lingua e fino nella grammatica:
che era la materia critica di quel tempo. Trovavano la composizione
difettosa, soprattutto per l'episodio di Olindo e Sofronia, lasciati
lì e dimenticati nel rimanente dell'azione. Parea loro che la vera e
seria azione comprendesse pochi canti, e il resto fosse un tessuto di
episodi e avventure legate non necessariamente con quella. L'elocuzione
giudicavano artificiata e pretensiosa, la lingua impura e impropria,
e non abbastanza osservata la grammatica. Facevano continui confronti
con l'Eneide e con l'Iliade, e disputavano sottilmente
e futilmente sul genere eroico e sulle sue regole. Sorsero confronti
stranissimi tra l'Orlando e la Gerusalemme, e chi facea
primo l'Ariosto e chi il Tasso. La contesa occupò per qualche tempo
l'oziosa Italia, e oscurò ancora più il senso poetico, e non fe' dare
un passo alla critica. Si rimase come in un pantano. Fra tanti opuscoli
merita attenzione quello di un giovane, chiamato a grandi destini, Galileo
Galilei, che ne scrisse con un gran buon senso, con molto gusto e con
un retto sentimento dell'arte.
L'Accademia della Crusca ebbe molta parte in questa contesa. E si comprende.
Mancava alla lingua del Tasso il sapore toscano, quel non so che schietto
e natio, con una vivezza e una grazia che è un amore. Ma il Salviati
rese pedantesca l'accusa, facendo il pedagogo e notando i punti e le
virgole. L'esagerazione dell'accusa suscitò l'entusiasmo della difesa,
e il libro fu più noto e desiderato. Oggi, in tanto silenzio e indifferenza
pubblica, un autore si terrebbe fortunato di svegliare tanta attenzione.
Ma il Tasso ne venne malato del dispiacere, e, quasi fossero assalti
personali, trattò i suoi critici come nemici. In verità, il principal
suo nemico era lui stesso. Si difendeva, ma con cattiva coscienza, perchè,
professando i medesimi princìpi critici, sentiva in fondo di aver torto.
E venne nell'infelice idea di rifare il suo poema, e dare soddisfazione
alla critica. Così uscì la Gerusalemme Conquistata. Purgò la
lingua, ubbidì alla grammatica. Le «armi» cessarono di essere «pietose»
e non divennero «pie»; il «capitano» divenne il «cavalier sovrano»;
il «gran sepolcro» sparve del tutto, e il sublime «io ti perdón» fu
trasformato nel prosaico «perdón io». Le correzioni sono quasi tutte
infelici, di seconda mano, fatte a freddo. Non ci è più il poeta, ci
è il grammatico e il linguista, co' suoi terribili critici dirimpetto.
Corresse anche l'elocuzione, rifiutò i lenocini, cercò una forma più
grave e solenne, che ti riesce fredda e insipida. Peggior guasto nella
composizione. Soppresse Olindo e Sofronia, e vi sostituì una fastidiosa
rassegna militare. Cacciò via Rinaldo, come reminiscenza cavalleresca,
e vi ficcò un Riccardo, nome storico delle crociate, divenuto un Achille,
a cui die' un Patroclo in Ruperto. Trasformò Argante in un Ettore, figliuolo
del re, di Aladino divenuto Ducalto. Fe' di Solimano un Mezenzio, e
lo regalò di un figliuolo per imitare in sulla fine la leggenda virgiliana.
Troncò le storie finali di Armida e di Erminia mutata in Nicea. Anticipò
la venuta degli egizi, e moltiplicò le azioni militari, per occupare
il posto lasciato vuoto dagli episodi abbreviati o soppressi. E gli
parve così di aver rafforzata l'unità e la semplicità dell'azione, resa
più coerente e logica la composizione, e dato al poema un colorito più
storico e reale. Ma non parve al pubblico, che non potè risolversi a
dimenticare Armida, Rinaldo, Erminia, Sofronia, le sue più care creazioni
e più popolari. E dimenticò piuttosto la Gerusalemme conquistata,
che oggi nessuno più legge.
La poetica del Tasso è nelle sue basi essenziali conforme a quella di
Dante. Lo scopo della poesia è per lui il «vero condito in molli versi»,
come era per Dante il «vero sotto favoloso e ornato parlare ascoso».
Il concetto religioso è anche il medesimo, la lotta della passione con
la ragione. Passione e ragione sono in Dante inferno e paradiso, e nel
Tasso Dio e Lucifero, e i loro istrumenti in terra Armida e la celeste
guida di Ubaldo e Carlo. L'intreccio è tutto fondato su questo antagonismo,
divenuto il luogo comune de' poeti italiani. L'Armida del Tasso è l'Angelica
del Boiardo e dell'Ariosto, salvo che il Boiardo affoga il concetto
nella immensità della sua tela, e l'Ariosto se ne ride saporitamente,
dove il Tasso ne fa il centro del suo racconto. Questo, che i critici
chiamavano un «episodio», era il concetto sostanziale del poema. Omero
canta l'ira di Achille, cioè canta non la ragione, ma la passione, nella
quale si manifesta la vita energicamente. Le sue divinità sono esseri
appassionati, Giove stesso non è la ragione, ma la necessità delle cose,
il fato. Virgilio s'accosta al concetto cristiano, togliendo il pio
Enea agli abbracciamenti di Didone. Pure, poeticamente ciò che desta
il maggiore interesse non è il pio Enea, ma l'abbandonata Didone. Nella
leggenda cristiana il paradiso perduto e il peccato di Adamo sono argomenti
epici, ne' quali erompe la vita nella violenza de' suoi istinti e delle
sue forze. Nella passione e morte di Cristo l'interesse poetico giunge
al suo più alto effetto tragico, perchè è il martirio della verità.
In Dante questo concetto preso nella sua logica perfezione produce l'astrazione
del paradiso e l'intrusione dell'allegoria; come nel Tasso produce l'astrazione
del Goffredo. Si confondeva il vero poetico, che è nella rappresentazione
della vita, col vero teologico o filosofico, che è un'astrazione mentale
o intellettuale della vita. L'Ariosto se la cava benissimo, perchè canta
la follia di Orlando, e quando viene la volta della ragione, volge il
fatto a una soluzione comica e piccante, mandando Astolfo a pescarla
nel regno della Luna. Il Tasso vuol restaurare il concetto nella sua
serietà, e mirando a quella perfezione mentale, gli esce l'infelice
costruzione del Goffredo e la fredda allegoria della «donna celeste».
Non è meno errato il suo concetto della vita epica. Ciò che lo preoccupa
è la verità storica, il verisimile o il nesso logico, e una certa dignità
uguale e sostenuta. E non vede che questo è l'esterno tessuto della
vita, o il meccanismo, il semplice materiale con appena la sua ossatura
e il suo ordine logico. Il suo occhio critico non va al di là, e quando
il poeta morì e sopravvisse il critico, esagerando questi concetti astratti
e superficiali, guastò miserabilmente il suo lavoro, e ci die' nella
Gerusalemme conquistata di quella ricca vita il solo scheletro,
il quale, perchè meglio congegnato e meccanizzato, gli parve cosa più
perfetta.
Ma il Tasso, come Dante, era poeta, ed aveva una vera ispirazione. E
la spontaneità del poeta supplì in gran parte agli artifici del critico.
Torquato Tasso, educato in Napoli da' gesuiti, vivuto nella sua prima
gioventù a Roma, dove spiravano già le aure del Concilio di Trento,
era un sincero credente, ed era insieme fantastico, cavalleresco, sentimentale,
penetrato ed imbevuto di tutti gli elementi della coltura italiana.
Pugnavano in lui due uomini: il pagano e il cattolico, l'Ariosto e il
Concilio di Trento. Mortagli la madre che era ancor giovinetto, lontano
il padre, insidiato da' parenti, confiscati i beni, tra' più acuti bisogni
della vita, non dimentica mai di essere un gentiluomo. Serve in corte
e si sente libero; vive tra' vizi e le bassezze, e rimane onesto; domanda
pietà con la testa alta e con aria d'uomo superiore e in nome de' princìpi
più elevati della dignità umana.
Ha una certa somiglianza col Petrarca. Tutti e due furono i poeti della
transizione, gl'illustri malati, che sentivano nel loro petto lo strazio
di due mondi, che non poterono conciliare. La musa della transizione
è la malinconia. Ma la malinconia del Petrarca era superficiale: rimaneva
nella immaginazione, non penetrò nella vita. Era una malinconia non
priva di dolcezza, che si effondeva e si calmava negli studi, e lo tenne
contemplativo e tranquillo fino alla più tarda età. La malinconia del
Tasso è più profonda, lo strazio non è solo nella sua immaginazione,
ma nel suo cuore, e penetra in tutta la vita. Sensitivo, impressionabile,
tenero, lacrimoso. Prende sul serio tutte le sue idee, religiose, filosofiche,
morali, poetiche, e vi conforma il suo essere. Entusiasta sino all'allucinazione,
perde la misura del reale e spazia nel mondo della sua intelligenza,
dove lo tiene alto sull'umanità l'elevatezza e l'onestà dell'animo.
Gli manca quel fiuto degli uomini e quel senso pratico della vita, che
abbonda a' mediocri. La sua immaginazione è in continuo travaglio, e
gli corona e trasforma la vita non solo come poeta, ma come uomo. Immaginatevelo
nell'Italia del Cinquecento e in una di quelle corti, e presentirete
la tragedia. All'abbandono, alla confidenza, all'espansione della prima
giovinezza succede tutto il corteggio del disinganno, la diffidenza,
il concentramento, la malinconia, l'umor nero e l'allucinazione: stato
fluttuante tra la sanità e la pazzia, e che potè far credere, non che
ad altri, ma a lui stesso di non avere intero il senno. In luogo di
medici e di medicine gli era bisogno un ritiro tranquillo, co' suoi
libri, e vicina una madre, o una sorella, o amici resi intelligenti
dall'affetto. Invece ebbe il carcere e la sterile compassione degli
uomini, lui supplicante invano a tutt'i principi d'Italia. Libero, trovò
una sorella ed un amico, che se valsero a raddolcire, non poterono sanare
un'immaginazione da tanto tempo disordinata. E quando ebbe un primo
riso della fortuna, il giorno della sua incoronazione fu il giorno della
sua morte.
Guardate in viso il Petrarca e il Tasso. Tutti e due hanno la faccia
assorta e distratta, gli occhi gittati nello spazio e senza sguardo,
perchè mirano al di dentro. Ma il Petrarca ha la faccia idillica e riposata
di uomo che ha già pensato ed è soddisfatto del suo pensiero; il Tasso
ha la faccia elegiaca e torbida di uomo che cerca e non trova. E nell'uno
e nell'altro non vedi i lineamenti accentuati ed energici della faccia
dantesca.
Manca al Tasso, come al Petrarca, la forza con la sua calma olimpica
e con la sua risoluta volontà. È un carattere lirico, non è un carattere
eroico. E come il Petrarca, è natura subbiettiva, che crea di se stesso
il suo universo.
Se fosse nato nel medio evo, sarebbe stato un santo. Nato fra quello
scetticismo ipocrita e quella coltura contraddittoria, vive tra scrupoli
e dubbi, e non sa diffinire egli medesimo se gli è un eretico o un cattolico,
più crudele inquisitore di sè che il tribunale dell'Inquisizione. Cominciò
molto vicino all'Ariosto col suo Rinaldo. E gli parve che non
se ne fosse discostato abbastanza con la sua Gerusalemme Liberata.
Scrupoli critici e religiosi lo condussero alla Gerusalemme conquistata,
ch'egli chiamava la «vera Gerusalemme», la «Gerusalemme
celeste». E non parsogli ancora abbastanza, scrisse le Sette giornate
della creazione.
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