sì come ruota ch'egualmente e mossa.
Dante vede, ma è visione, di cui hai le parole e non
la forma; ci è l'intelletto, non ci è più l'immaginazione, divenuta
un semplice lume, un barlume. La forma sparisce; la visione cessa quasi
tutta; sopravvive il sentimento:
... quasi tutta cessa
mia visione, ed ancor mi distilla
nel cor lo dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento nelle foglie lievi
si perdea la sentenzia di sibilla.
L'immaginazione morendo manda in questi bei versi l'ultimo
raggio. All'«alta fantasia» manca la possa; e insieme con la fantasia
muore la poesia.
Così finisce la storia dell'anima. Di forma in forma, di apparenza in
apparenza, ritrova e riconosce se stessa in Dio, pura intelligenza,
puro amore e puro atto. Ed è in questa concordia che l'anima acqueta
il suo desiderio, trova la pace. Nell'Inferno signoreggia la
materia anarchica: le sue forme ricevono d'ogni sorte differenze, spiccate,
distinte, corpulente e personali. Nel Purgatorio la materia non
è più la sostanza, ma un momento: lo spirito acquista coscienza di sua
forza, e contrastando e soffrendo conquista la sua libertà: la realtà
vi è in immaginazione, rimembranza del passato da cui si sprigiona,
aspirazione all'avvenire a cui si avvicina; onde le sue forme sono fantasmi
e rappresentazioni dell'immaginativa anzi che obbietti reali: pitture,
sogni, visioni estatiche, simboli e canti. Nel Paradiso lo spirito
già libero di grado in grado s'india; le differenze qualitative si risolvono,
e tutte le forme svaporano nella semplicità della luce, nella incolorata
melodia musicale, nel puro pensiero. Quel regno della pace che tutti
cercavano, quel regno di Dio, quel regno della filosofia, quel «di là»,
tormento e amore di tanti spiriti, è qui realizzato. Il concetto della
nuova civiltà, di cui avevi qua e là oscuri e sparsi vestigi, è qui
compreso in una immensa unità, che rinchiude nel suo seno tutto lo scibile,
tutta la coltura e tutta la storia. E chi costruisce così vasta mole,
ci mette la serietà dell'artista, del poeta del filosofo e del cristiano.
Consapevole della sua elevatezza morale e della sua potenza intellettuale,
gli stanno innanzi, acuti stimoli all'opera, la patria, la posterità,
l'adempimento di quella sacra missione che Dio affida all'ingegno, acuti
stimoli, ne' quali sono purificati altri motivi meno nobili, l'amor
della parte, la vendetta, le passioni dell'esule: ci è là dentro nella
sua sincerità tutto l'uomo, ci è quel d'Adamo e ci è quel di Dio. A
poco a poco quel mondo della fantasia diviene parte del suo essere,
il suo compagno fino agli ultimi giorni, e vi gitta, come nel libro
della memoria, l'eco de' suoi dolori, delle sue speranze e delle sue
maledizioni. Nato a immagine del mondo che gli era intorno, simbolico,
mistico e scolastico, quel mondo si trasforma e si colora e s'impolpa
della sua sostanza, e diviene il suo figlio, il suo ritratto. La sua
mente sdegna la superficie, guarda nell'intimo midollo, e la sua fantasia
ripugna all'astratto, a tutto dà forma. Onde nasce quella intuizione
chiara e profonda che è il carattere del suo genio. E non solo l'oggetto
gli si presenta con la sua forma, ma con le sue impressioni e i suoi
sentimenti. E n'esce una forma, che è insieme immagine e sentimento,
immagine calda e viva, sotto alla quale vedi il colore del sangue, il
movere della passione. E con l'immagine tutto è detto, e non vi s'indugia
e non la sviluppa, e corre lievemente di cosa in cosa, e sdegna gli
accessorii. A conseguire l'effetto spesso gli basta una sola parola
comprensiva, che ti offre un gruppo d'immagini e di sentimenti, e spesso,
mentre la parola dipinge, non fosse altro, con la sua giacitura, l'armonia
del verso ne esprime il sentimento. Tutto è succo, tutto è cose, cose
intere nella loro vivente unità, non decomposte dalla riflessione e
dall'analisi. Per dirla con Dante, il suo mondo è un volume non squadernato.
È un mondo pensoso, ritirato in sè, poco comunicativo, come fronte annuvolata
da pensiero in travaglio. In quelle profondità scavano i secoli, e vi
trovano sempre nuove ispirazioni e nuovi pensieri. Là vive involto ancora
e nodoso e pregno di misteri quel mondo, che sottoposto all'analisi,
umanizzato e realizzato, si chiama oggi letteratura moderna.
VIII - IL CANZONIERE
Dante morì nel 1321. La sua Commedia riempie
di sè tutto il secolo. I contemporanei la chiamarono «divina», quasi
la parola sacra, il libro dell'altra vita, o come diceano, il «libro
dell'anima». Un tal Trombetta, quattrocentista, la mette fra le opere
sacre e i libri dell'anima «da studiarsi in quaresima», come le Vite
de' santi Padri la Vita di san Girolamo. Il popolo cantava
i suoi versi anche in contado, e pigliava alla semplice la sua fantasia.
I dotti ammiravano la scienza sotto il velo delle favole, quantunque
alcuni austeri, come Cecco d'Ascoli, quel velo non ce l'avrebbero voluto.
E Fazio degli Uberti crede di far cosa più degna, rimovendo ogni velo
ed esponendoci arida scienza nel suo Dittamondo, «dicta mundi».
L'impressione non fu puramente letteraria. Ammiravano la forma squisita,
ma tenevano il libro più che poesia. Vedevano là entro il libro della
vita o della verità, e ben presto fu spiegato e comentato come la Bibbia
e come Aristotile, accolto con la stessa serietà con la quale era stato
concepito.
Oscurissimo in molti particolari, e per le allusioni politiche e storiche
e pel senso allegorico, il libro nel suo insieme è così chiaro e semplice,
che si abbraccia tutto di un solo sguardo. La scienza della vita o della
creazione è colta ne' suoi tratti essenziali e rappresentata con perfetta
chiarezza e coesione. L'armonia intellettuale diviene cosa viva nell'architettura,
così coerente e significativa nelle grandi linee, così accurata ne'
minini particolari. L'immaginazione anche più pigra concepisce di un
tratto inferno, purgatorio e paradiso. Il pensiero nuovo, mistico e
spiritualista, lunga elaborazione dei secoli, compariva qui perfettamente
armonizzato e pieno di vita. In questo mondo intellettuale e dommatico,
così ben rispondente alla coscienza universale, si sviluppava la storia
o il mistero dell'anima nella più grande varietà delle forme, sì che
vi si rifletteva tutta la vita morale nel suo senso più serio e più
elevato. Il sentimento della famiglia, la viva impressione della natura,
l'amor della patria, un certo senso d'ordine, di unità, di pace interiore
che fa contrasto al disordine e alla licenza di quei costumi pubblici
e privati, la virtù dell'indignazione, il disprezzo di ogni viltà e
volgarità, la virilità e la fierezza della tempra, l'aspirazione ad
un ordine di cose ideale e superiore, il vivere in ispirito e in contemplazione,
come staccato dalla terra, il sentimento della giustizia e del dovere,
la professione della verità, piaccia o non piaccia, con l'occhio volto
a' posteri, e quella fede congiunta con tanto amore, quell'accento di
convinzione, quella coscienza che ha il poeta della sua personalità,
della sua grandezza e della sua missione; tutto questo appartiene a
ciò che di più nobile ed elevato e nella natura umana. Anche quel non
so che scabro e rozzo e quasi selvaggio, ch'è nella superficie, rendeva
l'immagine di quella eroica e ancor barbara giovinezza del mondo moderno.
Ma l'impressione prodotta dalla Commedia rimaneva circoscritta
nell'Italia centrale. La scuola del nuovo stile non avea fatto ancora
sentire la sua azione nelle rimanenti parti d'Italia, dove la lingua
dominante era sempre il latino scolastico ed ecclesiastico. Malgrado
l'esempio di Dante, non era ancora stabilito che in rima si potesse
scrivere d'altro che di cose d'amore. E in questa sentenza era anche
Cino da Pistoia, solo superstite di quella scuola immortale, dalla quale
era uscita la Commedia. Compariva sulla scena la nuova generazione.
Lo studio de' classici, la scoperta di nuovi capilavori, una maggior
pulitezza nella superficie della vita, la fine delle lotte politiche
col trionfo de' guelfi, la maggior diffusione della coltura sono i tratti
caratteristici di questa nuova situazione. La superficie si fa più levigata,
il gusto più corretto, sorge la coscienza puramente letteraria, il culto
della forma per se stessa. Gli scrittori non pensarono più a render
le loro idee in quella forma più viva e rapida che si offrisse loro
innanzi; ma cercarono la bellezza e l'eleganza della forma. Dimesticatisi
con Livio, Cicerone, Virgilio parve loro barbaro il latino di Dante;
ebbero in dispregio quei trattati e quelle storie che erano state l'ammirazione
della forte generazione scomparsa, e non poterono tollerare il latino
degli scolastici e della Bibbia. Intenti più alla forma che al contenuto,
poco loro importava la materia, pur che lo stile ritraesse della classica
eleganza. Così sorsero i primi puristi e letterati in Italia, e capi
furono Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.
Nel Petrarca si manifesta energicamente questo carattere della nuova
generazione. Fece lunghi e faticosi viaggi per iscoprire le opere di
Varrone, le storie di Plinio, la seconda deca di Livio; trovò le epistole
di Cicerone e due sue orazioni. Dobbiamo a' suoi conforti e alla sua
liberalità la prima versione di Omero e di parecchi scritti di Platone.
Scopritore instancabile di codici emendava, postillava, copiava: copiò
tutto Terenzio. In questa intima familiarità co' più grandi scrittori
dell'antichità greco-latina, tutto quel tempo di poi, che fu detto «il
medio evo», gli apparve una lunga barbarie; di Dante stesso ebbe assai
poca stima; gli stranieri chiamava «barbari»; gl'italiani chiamava «latin
sangue gentile»; voleva una ristaurazione dell'antichità, e che non
fosse ancora fattibile, ne accagiona la corruttela de' costumi. Era
Petracco e si fece chiamare Petrarca; sbattezzò i suoi amici e li chiamò
Socrati e Lelii, ed essi sbattezzarono lui e lo chiamarono Cicerone.
Conchiuse la sua vita scrivendo epistole a Cicerone, a Seneca, a Quintiliano,
a Tito Livio, ad Orazio, a Virgilio, ad Omero, co' quali viveva in ispirito,
e poco innanzi di morire, scrisse una lettera alla posterità, alla quale
raccomanda la sua memoria.
Così appariva l'aurora del Rinnovamento. L'Italia volgeva le spalle
al medio evo, e dopo tante vicissitudini ritrovava se stessa e si affermava
popolo romano e latino. Questo proclamava Cola da Rienzo dall'alto del
Campidoglio. Guelfi e ghibellini divennero nomi vieti; gli scolastici
cessero il campo agli eruditi e a' letterati; la teologia fu segregata
dagli studi di coltura generale e divenne scienza de' chierici; la filosofia
conquistò il primato in tutto lo scibile; le allegorie, le visioni,
le estasi, le leggende, i miti, i misteri, separati dal tronco in cui
vivevano, divennero forme puramente letterarie e d'imitazione; tutto
quel mondo teologico, mistico nel concetto, scolastico e allegorico
nelle forme, fu tenuto barbarie da uomini che erano già in grado di
gustare Virgilio e Omero.
Questa nuova Italia, che ripiglia le sue tradizioni e si sente romana
e latina e si pone nella sua personalità di rincontro agli altri popoli,
tutti stranieri e barbari, ispira al giovine Petrarca la sua prima canzone.
Qui non ci è più il guelfo o il ghibellino, non il romano o il fiorentino:
c'è l'Italia che si sente ancora regina delle nazioni; ci è l'italiano
che parla con l'orgoglio di una razza superiore, e ricorda Mario come
se fosse vivuto l'altro ieri e quella storia fosse la sua storia; ci
è la viva impressione di quel mondo classico sul giovine poeta, che
ivi trova i suoi antenati e cerca di nuovo quell'Italia potente e gloriosa,
l'Italia di Mario. L'orgoglio nazionale e l'odio de' barbari è il motivo
della canzone, lo spirito che vi alita per entro. Vi compariscono già
tutte le qualità di un grande artista. La chiarezza e lo splendore dello
stile, la fusione delle tinte, l'arte de' chiaroscuri, la perfetta levigatezza
e armonia della dizione, la sobrietà nel ragionamento, la misura ne'
sentimenti, un dolce calore che penetra dappertutto senza turbare l'equilibrio
e la serenità e l'eleganza della forma, fanno di questa canzone uno
de' lavori più finiti dell'arte. L'Italia ha avuto il suo poeta; ora
ha il suo artista.
In questa risurrezione dell'antica Italia è naturale che la lingua latina
fosse stimata non solo lingua de' dotti, ma lingua nazionale, e che
la storia di Roma dovesse sembrare agl'italiani la loro propria storia.
Da queste opinioni uscì l'Africa, che al Petrarca dove parere
la vera Eneide, la grande epopea nazionale, rappresentata in
quella lotta ultima, nella quale Roma, vincendo Cartagine, si apriva
la via alla dominazione universale. Questo poema rispondeva così bene
alla coscienza pubblica, che Petrarca fu incoronato principe de' poeti,
ed ebbe tal grido e tali onori che nessun uomo ha avuto mai. Nuovo Virgilio,
volle emulare anche a Cicerone, accettando volentieri legazioni che
gli dessero occasione di recitare pubbliche orazioni. Scrisse egloghe,
trattati, dialoghi, epistole, sempre in latino: lavori molto apprezzati
da' contemporanei, ma tosto dimenticati, quando cresciuta la coltura
e raffinato il gusto, parve il suo latino così barbaro, come barbaro
era parso a lui il latino di Dante e de' Mussati, de' Lovati e de' Bonati
tenuti a' tempi loro quasi redivivi Orazii e Virgilii.
Ma la lingua latina potea così poco rivivere come l'Italia latina. Il
latino scolastico avea pure alcuna vita, perchè lo scrittore sforzava
la lingua e l'ammodernava e ci mettea se stesso. Ma il latino classico
non potea produrre che un puro lavoro d'imitazione. Lo scrittore pieno
di riverenza verso l'alto modello non pensa ad appropriarselo e trasformarlo,
ma ad avvicinarvisi possibilmente. Tutta la sua attività è volta alla
frase classica, che gli sta innanzi nella sua generalità, spoglia di
tutte le idee accessorie che suscitava ne' contemporanei, e dove è il
più fino e il più intimo dello stile. Perciò schiva il particolare e
il proprio, corre volentieri appresso le perifrasi e le circonlocuzioni,
e arido nelle immagini, povero di colori, scarso di movimenti interni,
e dice non quanto o come gli sgorga dal di dentro, ma ciò che può rendersi
in quella forma e secondo quel modello: difetti visibili nell'Africa.
Così si formo una coscienza puramente letteraria, lo studio della forma
in se stessa con tutti gli artifici e i lenocini della rettorica: ciò
che fu detto «eleganza», «forma scelta e nobile»; maniera di scrivere
artificiosa, che pare anche nelle sue canzoni politiche, come quella
a Cola di Rienzo, opera più di letterato che di poeta, e perciò pregiata
molto, finchè in Italia durò questa coscienza artificiale.
In verità il Petrarca era tutt'altro che romano o latino, come pur voleva
parere: potè latinizzare il suo nome, ma non la sua anima. Lo scrittore
latino è tutto al di fuori, ne' fatti e nelle cose, è tutto vita attiva
e virile, diresti non abbia il tempo di piegarsi in sè e interrogarsi.
Al Petrarca sta male l'abito di Cicerone; anche i contemporanei a sentirlo
battevano le mani e ridevano. Non sentivano l'uomo in tutto quel rimbombo
ciceroniano. L'uomo c'era, ma più simile all'anacoreta e al santo che
a Livio e a Cicerone, più inclinato alle fantasie e alle estasi che
all'azione. Natura contemplativa e solitaria, la vita esterna fu a lui
non occupazione, ma diversione; la sua vera vita fu tutta al di dentro
di sè: il solitario di Valchiusa fu il poeta di se stesso. Dante alzo
Beatrice nell'universo, del quale si fece la coscienza e la voce; egli
calò tutto l'universo in Laura, e fece di lei e di sè il suo mondo.
Qui fu la sua vita, e qui fu la sua gloria.
Pare un regresso: pure è un progresso. Questo mondo è più piccolo, è
appena un frammento della vasta sintesi dantesca, ma è un frammento
divenuto una compiuta e ricca totalità, un mondo pieno, concreto, sviluppato,
analizzato, ricerco ne' più intimi recessi. Beatrice sviluppata dal
simbolo e dalla scolastica, qui è Laura nella sua chiarezza e personalità
di donna; l'amore, scioltosi dalle universe cose entro le quali giaceva
inviluppato, qui non è concetto nè simbolo, ma sentimento; e l'amante,
che occupa sempre la scena, ti dà la storia della sua anima, instancabile
esploratore di se stesso. In questo lavoro analitico-psicologico la
realtà pare sull'orizzonte chiara e schietta, sgombra di tutte le nebbie,
tra le quali era stata ravvolta. Usciamo infine da' miti, da' simboli,
dalle astrattezze teologiche e scolastiche, e siamo in piena luce, nel
tempio dell'umana coscienza. Nessuna cosa oramai si pone di mezzo tra
l'uomo e noi. La sfinge è scoperta: l'uomo è trovato.
Gli è vero che la teoria rimane la stessa. La donna è «scala al Fattore»,
l'amore è il «principio delle universe cose». Ma tutto questo è accessorio,
è il convenuto; la sostanza del libro è la vicenda assidua de' fenomeni
più delicati del cuore umano. Cresciuto in Avignone fra le tradizioni
provenzali e le corti d'amore, quando Francesco da Barberino avea già
pubblicato i Documenti d'amore e i Reggimenti delle donne,
raccolta di tutte le leggi e costumanze galanti, egli attinge nello
stesso arsenale e spaccia la stessa rettorica, allegorie, concetti,
sottigliezze, spiritose galanterie. Soprattutto tiene molto a questo,
che tutto il mondo sappia non essere, il suo, amore sensuale, ma amicizia
spirituale, fonte di virtù. Dante chiama infamia l'accusa di avere espresso
il suo amore troppo sensualmente, e a cessare da sè l'infamia trasformò
Beatrice nella filosofia e scrisse canzoni filosofiche. Ma le continue
proteste e dichiarazioni del Petrarca non convincono nessuno; perchè
e il corpo di Laura, non come la bella faccia della sapienza, ma come
corpo, che gli scalda l'immaginazione. Laura è modesta, casta, gentile,
ornata di ogni virtù; ma sono qualità astratte, non è qui la sua poesia.
Ciò che move l'amante e ispira il poeta, è Laura da' capei biondi, dal
collo di latte, dalle guance infocate, da' sereni occhi, dal dolce viso,
la quale egli situa e atteggia in mille maniere e ne cava sempre un
nuovo ritratto, che spicca in mezzo ad un bel paesaggio, il verde del
campo, la pioggia de' fiori, l'acqua che mormora, fatta la natura eco
di Laura.
Questo sentimento delle belle forme, della bella donna e della bella
natura, puro di ogni turbamento, è la musa di Petrarca. Diresti Laura
un modello, del quale il pittore sia innamorato, non come uomo, ma come
pittore, intento meno a possederlo che a rappresentarlo. E Laura è poco
più che un modello, una bella forma serena, posta lì per essere contemplata
e dipinta, creatura pittorica, non interamente poetica: non è la tale
donna nel tale e tale stato dell'animo, ma è la Donna, non velo o simbolo
di qualcos'altro, ma la donna come bella. Non ci è ancora l'individuo:
ci è il genere. In quella quietudine dell'aspetto, in quella serenità
della forma ci è l'ideale femminile ancora divino, sopra le passioni,
fuori degli avvenimenti, non tocco da miseria terrena, che il poeta
crederebbe profanare calandolo in terra e facendolo creatura umana.
La chiama una dea, ed è una dea; non è ancor donna. Sta ancora sul piedistallo
di statua; non è scesa in mezzo agli uomini, non si è umanata. Coloro
i quali vogliono leggere nell'anima di questo essere muto e senza espansione,
e cercarvi il suo segreto, fanno il contrario di quello che volle il
poeta, cercano la donna dov'egli vedeva la dea. Certo a' nostri occhi
Laura dee parere una forma monotona, e anche talora insipida; ma chi
si mette in quei tempi mitici e allegorici, troverà in Laura la creatura
più reale che il medio evo poteva produrre.
La vita di Laura diviene umana appunto allora che è morta ed è fatta
creatura celeste. Qui l'amore non può aver niente più di sensuale: è
l'amore di una morta, viva in cielo, e può liberamente spandersi. Non
vedi più i «capei d'oro» e le «rosee dita» e il «bel piede», dal quale
l'«erbetta verde» e i «fiori di color mille» desiderano d'esser tocchi.
Pure questa Laura non dipinta e più bella, e soprattutto più viva, perchè
«meno altera», meno dea e più donna, quando apparisce all'amante, e
siede sulla sponda del suo letto, e gli asciuga gli occhi con quella
mano tanto desiata; e salendo al cielo fra gli angioli si volge indietro,
come aspetti qualcuno; e nella suprema beatitudine desidera il bel corpo
e l'amante ed entra con lui in dolci colloqui. Così il mistero di Laura
si scioglie nell'altro mondo, com'è nella Commedia: tutte le
contraddizioni finiscono. Sciolta dalle condizioni del reale, tolta
di mezzo la carne, divenuta creatura libera dell'immaginazione, Laura
par fuori con chiarezza, acquista un carattere, dove ci è la santa,
e ci è soprattutto la donna. Esseri taciturni e indefiniti, mentre vivono,
Beatrice e Laura cominciano a vivere, appunto quando muoiono.
E il mistero si scioglie anche nel Petrarca. In vita di Laura, sorge
l'opposizione tra il senso e la ragione, tra la carne e lo spirito.
Questo concetto fondamentale del medio evo, se nel Petrarca è purificato
della sua forma simbolica e scolastica, rimane pur sempre il suo «credo»
cristiano e filosofico. L'opposizione era sciolta teoricamente con l'amicizia
platonica o spirituale, legame d'anime, puro di ogni concupiscenza;
dalla quale astrazione non potea uscire che una lirica dottrinale e
sbiadita, senza sangue, dove non trovi nè l'amante, nè l'amata, nè l'amore.
Vi sono momenti nella vita del Petrarca abbastanza tranquilli e prosaici,
perchè egli si possa dare a questo spasso. Allora riproduce la scuola
de' trovatori con tutt'i suoi difetti, in una forma eletta e vezzosa,
che li pallia. E vi trovi il convenzionale, il manierato, le regole
e le sottigliezze del codice d'amore, soprattutto il concettoso, dotato
com'era di uno spirito acuto. Non coglie se stesso nel momento dell'impressione;
l'impressione è passata, e se la mette dinanzi e la spiega, come critico
o filosofo: hai un di là dell'impressione, l'impressione generalizzata
e spiegata, come è nella più parte de' suoi sonetti in vita di Laura;
antitesi, freddure, sottigliezze, ragionamenti in forma pretensiosa
e civettuola. Allora tutto è chiaro; tutto e spiegato con Platone e
col codice d'amore; hai il solito contenuto lirico allora in voga sulla
donna, sull'amore, pomposamente abbigliato. Trovi un maraviglioso artefice
di verso, un ingegno colto, ornato, acuto, elegante: non trovi ancora
il poeta e non l'artista. Ma nel momento delle impressioni, tra le sue
irrequietezze e agitazioni, circuito di fantasmi, par fuori la sua personalità:
trovi il poeta e l'artista. Quello che sente è in opposizione con quello
che crede. Crede che la carne è peccato; che il suo amore è spirituale;
che Laura gli mostra la via «che al ciel conduce»; che il corpo è un
velo dello spirito. E se in questo «credo» trovasse ogni suo appagamento,
avremmo Dante e Beatrice. Ma non vi si appaga: l'educazione classica
e l'istinto dell'artista si ribella contro queste astrazioni di uno
spiritualismo esagerato; si rivela in lui uno spirito nuovo, il senso
del reale e del concreto, così sviluppato ne' pagani. Non vi si appaga
l'artista, e non vi si appaga l'uomo; perchè si sente inquieto, non
ben sicuro di quello che crede e vuol far credere, e sente il morso
del senso e tutte le ansietà di un amore di donna. Scoppia fuori la
contraddizione, o il mistero. Il suo amore non e così possente che lo
metta in istato di ribellione verso le sue credenze, nè la sua fede
è così possente che uccida la sensualità del suo amore. Nasce un fluttuar
continuo di riflessioni contraddittorie, un sì ed un no, un voglio e
non voglio:
Io medesmo non so quel che mi voglio.
Nasce il mistero dell'amore, che ti offre le più diverse
apparenze, senza che il poeta giunga ad averne chiara coscienza:
Se amor non è, che dunque è quel che i' sento?
a s'egli è amor, per Dio che cosa e quale?
Manca al Petrarca la forza di sciogliersi da questa
contraddizione, e più vi si dimena, più vi s'impiglia. Il canzoniere
in vita di Laura è la storia delle sue contraddizioni. Ora gli pare
che contraddizione non ci sia, e unisce in pace provvisoria cielo e
terra, ragione e senso, gli occhi che mostrano la via del cielo e gli
occhi alfin dolci tremanti,
ultima speme de' cortesi amanti.
Sono i suoi momenti di sanità e di forza, di entusiasmo
più artistico che amoroso, dal quale escono le vivaci descrizioni del
bel corpo e le tre «canzoni sorelle». Ora si sente inquieto, e si lascia
ir dietro alla corrente delle impressioni e delle immagini, e vede il
meglio e al peggior s'appiglia, come conchiude nella canzone
I' vo pensando e nel pensier m'assale,
dove è rappresentata la lotta interna tra la ragione
e il senso, la ragione che parla e il senso che morde. E ci sono pure
momenti che la ragione piglia il di sopra, e si volge a Dio, e si confessa,
e fa proposito di svellere dal suo cuore il «falso dolce fuggitivo»,
che il mondo traditor può dare altrui.
Non c'è dunque nel Canzoniere una storia, un
andar graduato da un punto all'altro; ma è un vagar continuo tra le
più contrarie impressioni, secondo le occasioni e lo stato dell'animo
in questo o quel momento della vita. Non ci è storia, perchè nell'anima
non ci è una forte volontà, ne uno scopo ben chiaro; perciò è tutta
in balìa d'impressioni momentanee, tirata in opposte direzioni. Di che
nasce un difetto d'equilibrio, la discordia o la scissura interiore.
Il reale comparisce la prima volta nell'arte, condannato, maledetto,
chiamato il «falso dolce fuggitivo»: pur desiderato, di un desiderio
vago che si appaga solo in immaginazione, debolmente contraddetto e
debolmente secondato. Minore è la speranza, più vivo è il desiderio,
il quale, mancatagli la realtà, si appaga in immaginazione. Nasce una
vita di sogni, di estasi, di fantasie, di quello che l'animo desidera,
non con la speranza di conseguirlo, anzi con la coscienza di non conseguirlo
mai. Il poeta sogna, e sa che sogna, e gli piace sognare,
e più certezza averne fora il peggio.
Perchè se per averne più certezza, rompe il corso dell'immaginazione,
sopraggiunge il disinganno. Così vive in fantasia, fabbricandosi godimenti
interrotti spesso dalla riflessione con un «ahi lasso!», in un flutto
perenne d'illusioni e disillusioni. Il disaccordo interno è appunto
in questo, nella immaginazione che costruisce e nella riflessione che
distrugge: malattia dello spirito, nata appunto dall'esagerazione dello
spiritualismo. Lo spirito non è sano, perchè a forza di segregarsi dalla
natura e dal senso si trova al fine di rincontro e ribelle l'immaginazione,
e l'immaginazione non è sana, perchè ha di rincontro a sè e ribelle
la riflessione, che in un attimo le dissipa i suoi castelli incantati.
Lo spirito rimane pura riflessione o ragione astratta, e non ha forza
di sottoporsi la volontà, per il contrasto che trova nell'immaginazione.
L'immaginazione rimane pura immaginazione, e non ha forza sulla volontà,
non lavora a realizzare i suoi dolci fantasmi per il contrasto che trova
nella riflessione. Se una delle due forze potesse soggiogar l'altra,
nascerebbe l'equilibrio e la salute; ma le due forze lottano senza alcun
risultato, non si giunge mai a un virile «io voglio», ci è al di dentro
il sì e il no in eterna tenzone: perciò la vita non esce mai al di fuori
in un risultato, in un'azione, rimane pregna di pensieri e immaginazioni
tutta al di dentro:
... ... In questi pensier,
lasso, tienmi dì e notte il signor nostro, Amore.
Lo spirito consuma se stesso in un fantasticare inutile
e in una inutile riflessione. È punito là dove ha peccato. Ha voluto
assorbir tutto in sé; e ora si trova solo, e si ciba di se stesso ed
è egli medesimo il suo avoltoio. Stanco, svogliato, disgustato di una
realtà a cui si sente estraneo, il poeta, come un romito, volge le spalle
al mondo e si riduce nella solitudine di Valchiusa, e ne fa il suo eremo,
e rimane solo con se stesso a fantasticare, «solo e pensoso», incalzato
dal suo interno avoltoio:
Solo e pensoso i più deserti campi
vo misurando a passi tardi e lenti.
Da questa situazione sono uscite le due più profonde
canzoni del medio evo, l'una poco nota, l'altra assai popolare, amendue
poco studiate, l'una che incomincia:
Di pensiero in pensier, di monte in monte;
l'altra che incomincia:
Chiare, fresche e dolci acque.
Se il Petrarca avesse avuto piena e chiara coscienza
della sua malattia, di questa attività interna inutile e oziosa, una
specie di lenta consunzione dello spirito, impotente ad uscir da sè
e attingere il reale, avremmo la tragedia dell'anima, come Dante ne
concepì la commedia (una tragedia, nella quale il medio evo avrebbe
riconosciuto la sua impotenza e la sua condanna) tra' dolori della contraddizione
vedremmo il misticismo morire, spuntare l'alba della realtà, il senso
o il corpo, proscritto e dichiarato il peccato, ripigliare la parte
che gli tocca nella vita. Ma nel Petrarca la lotta è senza virilità.
Gli manca la forza che abbondò a Dante d'idealizzarsi nell'universo;
e rimanendo chiuso nella sua individualità, gli manca pure ogni forza
di resistenza: sì che la tragedia si risolve in una flebile elegia.
Il poeta si abbandona facilmente, e prorompe in lacrime e in lamenti.
Acuto più che profondo, non guarda negli abissi del suo male e si contenta
descriverne i fenomeni condensati in immagini e in sentenze rimaste
proverbiali. Tenero e impressionabile, capace più di emozioni che di
passioni, non dimora lungamente nel suo dolore, che vien presto l'alleviamento,
lo scoppio delle lagrime e de' lamenti. Artista più che poeta, e disposto
a consolarsi facilmente, quando l'immaginazione abbia virtù di offrirgli
un simulacro di quella realtà di cui sente la privazione:
in tante parti e sì bella la veggio,
che se l'error durasse, altro non chieggio.
La famiglia, la patria, la natura, l'amore sono per
il poeta, com'era Dante, cose reali, che riempiono la vita e le danno
uno scopo. Per il Petrarca sono principalmente materia di rappresentazione:
l'immagine per lui vale la cosa. Ma come ci è insieme in lui la coscienza
che è l'immagine e non la cosa, la sua soddisfazione non è intera, ci
è in fondo un sentimento della propria impotenza, ci e questo: - Non
potendo avere la realtà, mi appago del suo simulacro. - Onde nasce un
sentimento elegiaco «dolce-amaro», la malinconia, sentimento di tutte
le anime tenere, che non reggono lungamente allo strazio e non osano
guardare in viso il loro male, e si creano amabili fantasmi e dolci
illusioni. Manca al suo strazio l'elevata coscienza della sua natura
e la profondità del sentimento. Ci è anzi in lui la tendenza a dissimularselo,
cercando scampo nella benefica immaginazione. La fisonomia di questo
stato del suo spirito è scolpita nella canzone:
Chiare, fresche e dolci acque,
cielo fosco e funebre che a poco a poco si rasserena
ne' più cari diletti dell'immaginazione, insino a che da ultimo divien
luce di paradiso:
Costei per fermo nacque in paradiso.
Il poeta è così attirato in questo mondo fabbricatogli
dall'immaginazione, che quando si riscuote, domanda:
Qui come venn'io, o quando?
Il suo obblio, il suo sogno era stato così tenace,
così simile alla realtà, che gli parea essere in cielo, non là dov'era.
Questa dolce malinconia è la verità della sua ispirazione, è il suo
genio. Quando si sforza di uscirne, spunta spesso il retore: le sue
collere, le sue ammirazioni non sono senza una esagerazione e ricercatezza,
che rivelano lo sforzo. Ma quando vi s'immerge e vi si annega, la sua
forma acquista il carattere della verità congiunta con la grandezza,
è un modello di semplicità e naturalezza.
Gli è che natura, negandogli le grandi convinzioni e le grandi passioni
e lo sguardo profondo di Dante, ne aveva fatto un artista finito. L'immagine
appaga in lui non solo l'artista, ma tutto l'uomo. Senza patria, senza
famiglia, senza un centro sociale in mezzo a cui viva altro che letterario,
ritirato nella solitudine dello studio e nell'intimo commercio degli
antichi, la verità e la serietà della sua vita e tutta in queste espansioni
estetiche, come la vita del santo e nelle sue estasi e contemplazioni.
Dante è sbandito da Firenze, ma la sua anima è sempre colà. Il Petrarca
è costretto a dimostrare la sua italianità:
Non è questo 'l terren ch'io toccai pria?
A Dante non fa bisogno di rettorica. Si sente italiano
e ne ha tutte le passioni, e ne senti il fremito e il tumulto nella
sua poesia. Ciò che al contrario ti colpisce nel mondo personale e solitario
del Petrarca è la privazione della realtà, e un desiderio di essa scemo
di forza, che si appaga ne' docili sogni dell'immaginazione. Tutto converge
nell'immaginazione; tutto gli si offre come un sensibile: il pensiero
e il sentimento sono in lui contemplazione estetica, bella forma. Ciò
che l'interessa non è entusiasmo intellettuale, nè sentimento morale
o patriottico, ma la contemplazione per se stessa, in quanto è bella,
un sentimento puramente estetico. Laura piange; egli dice: - Quanto
son belle quelle lacrime! - Laura muore; egli dice:
Morte bella parrea nel suo bel viso.
Fantastica sulla sua morte. Ed ecco Laura che prega
sulla sua fossa,
asciugandosi gli occhi col bel velo.
La bellezza per Dante è apparenza simbolica, la bella
faccia della sapienza: dietro a quella ci sta la vita nella sua serietà,
vita intellettuale e morale. Qui la bellezza, emancipata dal simbolo
si pone per se stessa, sostanziale, libera, indipendente, quale si sia
il suo contenuto, sia pure indifferente, o frivolo o repugnante. Il
contenuto, già così astratto e scientifico, anzi scolastico, qui pare
per la prima volta essenzialmente come bellezza schietta, realtà artistica.
Al Petrarca non basta che l'immagine sia viva, come bastava a Dante;
vuole che sia bella. Ciò che move il suo cervello a sviluppare e formare
l'immagine, non è l'idea, come storia o filosofia o etica, ma è il piacere
estetico, che in lui s'ingenera della sua contemplazione.
Questo sentimento della bella forma è così in lui connaturato, che penetra
ne' minimi particolari dell'elocuzione, della lingua e del verso. Dante
anche nei più minuti particolari di esecuzione guarda il di dentro,
e non lo perde mai di vista, perchè è il di dentro che l'appassiona;
il Petrarca rimane volentieri al di fuori, e non resta che non l'abbia
condotto all'ultima perfezion tecnica. Nelle immagini, ne' paragoni,
nelle idee non cerca novità e originalità, anzi attinge volentieri ne'
classici e ne' trovatori, intento non a cercare o trovare, ma a dir
meglio ciò che è stato detto da altri. L'obbiettivo della sua poesia
non è la cosa, ma l'immagine, il modo di rappresentarla. E reca a tanta
finezza l'espressione che la lingua, l'elocuzione, il verso finora in
uno stato di continua e progressiva formazione, acquistano una forma
fissa e definitiva, divenuta il modello de' secoli posteriori. La lingua
poetica è anche oggi quale il Petrarca ce la lasciò, nè alcuno gli è
entrato innanzi negli artifici del verso e dell'elocuzione. Quel tipo
di una lingua illustre che Dante vagheggiava nella prosa, il Petrarca
lo ha realizzato nella poesia, dalla quale è sbandito il rozzo, il disarmonico,
il volgare, il grottesco e il gotico, elementi che pur compariscono
nella Commedia. È una forma bella non solo per rispetto all'idea,
ma per se stessa, aulica, aristocratica, elegante, melodiosa. La parola
vale non solo come segno, ma come parola. Il verso non è solo armonia,
o rispondenza con quel di dentro, ma melodia, elemento musicale in se
stesso.
Ma questa bella forma non è un puro artificio tecnico o meccanico, una
vuota sonorità, anzi vien fuori da una immaginazione appassionata e
innamorata, che ha il suo riposo, il suo ultimo fine in se stessa. È
una immaginazione chiusa in sè, non trascendente, che di rado si alza
a fantasia o a sentimento, anzi rifugge dal fantasma, e tende spesso
a produrre immagini finite, ben contornate, chiare e fisse. E se vi
si appagasse, sarebbe poesia assolutamente pagana e plastica. Ma il
grande artista ne' momenti anche più geniali della produzione sente
come un vuoto, qualche cosa che gli manchi, e non è soddisfatto, ed
è malinconico. Che gli manca?
Gli manca, com'è detto, il possesso e il godimento e la serietà e la
forza della vita reale. Come artista si sente incompiuto; come immaginazione
si sente isolato: vivere in immaginazione gli piace; pur sente che là
non è la vita, e vi trova sollievo, non appagamento. Questo sentimento
del vuoto che penetra ne' più cari diletti dell'immaginazione, e li
tronca bruscamente, questa immaginazione che, appunto perchè si sente
immaginazione e non realtà, produce le sue creature con la lacrima del
desiderio negli occhi, questo desiderio inestinguibile che pullula dal
seno stesso dell'arte e la chiarisce ombra e simulacro, e non cosa viva,
sono il fondo originale e moderno della poesia petrarchesca. L'immagine
nasce trista, perchè nasce con la coscienza di essere immagine e non
cosa, e lo strazio di questa coscienza è raddolcito, perchè, non ci
essendo la cosa, ci è l'immagine, e così bella, così attraente. Situazione
piena di misteri, di contraddizioni e di chiaroscuri, che genera quel
non so che «dolce amaro», detto malinconia, un sentirsi consumare e
struggere dolcemente:
che dolcemente mi consuma e strugge.
La malinconia è la musa cristiana, e il male di Dante
e de' più eletti spiriti di quel tempo. Ma la malinconia del Petrarca
e della nuova generazione che gli stava attorno e già di un'altra natura
e accenna a tempi nuovi.
La malinconia di Dante ha radice nello spirito stesso del medio evo,
che poneva il fine della vita in un di là della vita, nella congiunzione
dell'umano e del divino, che è la base della Divina Commedia.
Le anime del purgatorio sono malinconiche, perchè sospirano appresso
ad un bene, di cui hanno innanzi la sola immagine nelle pitture, ne'
simboli, nelle visioni estatiche. Quei godimenti dell'immaginativa aguzzano
più il desiderio. Non basta loro l'immagine: vogliono la realtà; e questo
volere, raddolcito alla presenza del simulacro, genera la loro malinconia.
Sono prive del paradiso, ma lo veggono in immaginazione, e sperano di
salirvi quando che sia: perciò sono contente nel fuoco. La condizione
delle anime purganti è molto simile a quella degli uomini nella vita
terrena: è lo stesso tarlo che li rode. La vita corporale è un velo,
un simulacro di quel di là che la fede e la scienza offriva chiarissimo
all'intelletto e all'immaginazione; perciò la vita corporale era in
se stessa il peccato o la carne, l'inferno, il vasello o la prigione,
dove l'anima vive malinconica: il giorno della morte è per l'anima il
giorno della vita e della libertà. Non che profondarsi nel reale, e
cercare di assimilarselo, l'anima tende a separarsene, e vivere in ispirito
o in immaginazione, fabbricandosi un simulacro di quel di là a cui spera
di giungere: indi la tendenza all'ascetismo, alla solitudine, all'estasi
e al misticismo. Questa era la malinconia di Caterina, quando dicea:
«Muoio e non posso morire».
La stessa tendenza e la stessa malinconia è nel Petrarca. Anch'egli
cerca fabbricarsi ombre e simulacri di Laura, anch'egli cerca l'obblio
e il riposo ne' sogni dell'immaginazione. Quando la santa e il poeta
s'incontrarono in Avignone, dovettero sentirsi sotto un aspetto parenti
di spirito. Il poeta aveva la stessa inclinazione alla solitudine, alla
contemplazione, al raccoglimento, all'estasi, alla malinconia. E se
guardiamo all'apparenza, c'era in tutti e due le stesse credenze e le
stesse aspirazioni. Quel «muoio e non posso morire» corrisponde bene
a questo grido del poeta:
aprasi la prigione ov'io son chiuso,
e che 'l cammino a tal vista mi serra.
Ma qui fiutate la rettorica, e là avete l'espressione
nuda ed energica di un sentimento che investe tutta l'anima e consuma
la santa a trentatrè anni. Questa concentrazione ed unità delle forze
intorno ad un punto solo, in che è la serietà della vita, mancò al Petrarca.
Il suo mondo è pur quello di Caterina e di Dante, mondato della sua
scorza scolastica e simbolica, ridotto in forma più chiara e artistica,
ma pur quello. Se non che questo mondo mistico non lo possiede tutto
e, sovrano e indiscusso nella mente non tira a sè tutte le forze della
vita. È in lui visibile una dispersione e distrazione di forze, come
di uomo tirato in qua e in là da contrarie correnti, che vorrebbe pigliar
la sua via e non se ne sente la forza, e vaga in balìa dei flutti scontento
e riluttante. La bella unità di Dante, che vedeva la vita nell'armonia
dell'intelletto e dell'atto mediante l'amore, è rotta. Qui ci è scompiglio
interiore ribellione, contraddizione:
e veggio il meglio ed al peggior m'appiglio.
La malinconia di Caterina è l'impazienza del morire,
di unirsi con Cristo; la malinconia di Dante è la dissonanza fra il
mondo divino e la selva oscura, la vita terrena, malinconia piena di
forza e di speranza, che si scioglie nell'azione. La malinconia del
Petrarca è la coscienza della sua interna dissonanza e della sua impotenza
a conciliarla, malinconia insanabile, perchè il male non è nell'intelletto,
è nella volontà non certo ribelle, ma debole e contraddittoria. Per
palliare la dissonanza, esce in mezzo la sofistica e la rettorica, con
le più smaglianti frasi, con le più sottili distinzioni: intervalli
di tregua, che fanno risorgere più acuta la coscienza del male. Gli
è che il medio evo è già nel suo petto in fermentazione, penetrato di
altri elementi, senza che egli abbia una distinta coscienza di questo
nuovo stato: accanto al cristiano ascetico ci è l'erudito, il letterato,
l'artista, il pagano, l'uomo di mondo con tutti gl'istinti e le tendenze
naturali, che vogliono farsi valere. Si forma in lui un essere contraddittorio,
come ne' tempi di transizione, che non è ancora l'uomo nuovo, e non
è più l'uomo antico.
La malinconia del Petrarca non è dunque più la malinconia del medio
evo, di un mondo formato e trascendente, che rende quaggiù malinconico
lo spirito per il suo legame a quel corpo, ma è la malinconia di un
mondo nuovo che, oscuro ancora alla coscienza, si sviluppa in seno al
medio evo e ci sta a disagio, e tende a sprigionarsene, e non ne ha
la forza per la resistenza che trova nell'intelletto. L'intelletto appartiene
al medio evo, alle cui dottrine ha tolta la ruvida scorza, non la sostanza.
Quel mondo nuovo, plastico, pagano, reazione della natura contro il
misticismo, è ancora così debole, così poco lineato, che l'intelletto
può condannarlo e maledirlo, o assimilarselo con una sofistica apparenza
di conciliazione, e se cacciato dalla vita reale riapparisce nell'immaginazione,
può penetrare anche colà e dirgli: - Tu non sei che un fantasma.
Se in vita di Laura questo sentimento nuovo che sorge, più vicino all'uomo
e alla natura, e dissimulato co' più ingegnosi sofismi, quasi peccato
che si cerchi di palliare, dopo la morte di Laura purificato e trasformato
si manifesta con più energia. Beatrice morta diviene per Dante la scienza,
la voce di quel mondo di là, ov'era lo scopo della vita. La storia di
Beatrice è sviluppo di idee e di dottrine nella lirica e nella Commedia.
Il suo riso è luce intellettuale, raggio dell'intelletto. La storia
di Laura è profondamente umana e reale, eco de' più delicati sentimenti,
delle più tenere emozioni, delle più vivaci impressioni che colpiscono
l'uomo in terra.
La poesia in vita di Laura è dominata dall'intelletto, da una riflessione
sofistica e rettorica, che altera la purità de' sentimenti, e sottilizza
le immagini, e raffredda le impressioni, e con vani sforzi di conciliazione
mette più in vista quel sì e quel no che battagliavano nella debole
volontà del poeta. In morte di Laura ogni battaglia cessa, e non ci
è più vestigio di sofismi e di rettorica, perchè la conciliazione cercata
finora così ingegnosamente e non conseguita e già avvenuta per la natura
delle cose. Laura morta diviene libera creatura dell'immaginazione,
non più persona autonoma e resistente, ma docile fantasma. Il poeta
ne fa la sua creatura, può darle affetti e pensieri, quali gli piaccia:
può piangerla, vederla, parLare seco, vivere seco in ispirito. La situazione
è semplice e umana. È la donna amata, sparita dalla terra, che ti apparisce
in sogno e ti asciuga gli occhi e ti prende per mano e ti parla: consolazioni
malinconiche, interrotte da una lacrima, quando ti svegli. Dante si
asciuga presto la lacrima, e si gitta fra le onde agitate dell'esistenza,
e si rifà un ideale e lo chiama Beatrice. A lui manca il tempo di piangere,
perchè tiene nel suo petto due secoli, ed ha la forza di comprenderli
e realizzarli. Il Petrarca giunge qui, che è già stanco e disgustato
dell'esistenza, vi giunge con l'anima di solitario e di romito, e non
ha altra forza che di piangere:
Ed io son un di quei che il pianger giova.
Piange la fine delle illusioni, il vacuo dell'esistenza,
il perire di tutte le cose:
Veramente siam noi polvere ed ombra.
Così, dopo vane speranze e vani timori, quest'anima
tenera e impressionabile rinunzia alla lotta, e si abbandona, e si separa
da un mondo, dove invano erasi sforzata di penetrare, e si ritira nella
solitudine della sua immaginazione con Laura, chiamando partecipi de'
suoi lamenti l'usignolo, e il vago augelletto, e la valle e il bosco
e l'aura e l'onda. La scissura interna dà luogo ad una calma elegiaca;
il cuore stanco si riconcilia con l'intelletto. Il passato, cagione
di gioie e di affanni, gli pare un sogno; la vita gli pare insipida;
vivere è un breve sonno; morire è svegliarsi tra gli spiriti eletti;
quando gli occhi si chiudono, allora si aprono nell'eterno lume; il
mondo cristiano, non contraddetto mai dal suo intelletto, ora penetra
nel suo cuore, gli appare come un mondo nuovo, che dipinge con accenti
di maraviglia:
Come va il mondo! Or mi diletta e piace
quel che più mi dispiacque; or veggio e sento
che per aver salute ebbi tormento
e breve guerra per eterna pace.
Ecco in che modo rappresenta questo nuovo stato nel
suo inno alla Vergine:
Da poi ch'i' nacqui in su la riva d'Arno,
cercando or questa, ora quell'altra parte,
non è stata mia vita altro che affanno.
Mortal bellezza, atti e parole m'hanno
tutta ingombrata l'alma.
Vergine sacra ed alma,
non tardar: ch'i' son forse all'ultim'anno.
I dì miei più correnti che saetta
fra miserie e peccati
sonsen andati; e sol Morte ne aspetta.
Quest'uomo, che gitta sul passato lo sguardo del disinganno,
che chiama la sua vita miseria e peccato, che vede gli anni fuggiti
con tanta rapidità senza alcun frutto, ben si promette di fare un altro
canzoniere alla Vergine, ma e troppo tardi. - Omai son stanco! - Grida.
E se ne' Trionfi cerca ingrandire il suo orizzonte e uscire da
sè e contemplare l'umanità, ciò che ne' suoi versi ha ancora qualche
interesse è il suo passato, che i vecchi hanno il privilegio di evocare,
rifarne qualche frammento; e soprattutto il sogno di Laura, tanto imitato
da poi.
Chi legge il Canzoniere, non può non ricevere questa impressione,
di un mondo astratto, rettorico, sofistico, quale fu foggiato da' trovatori,
dove appariscono sentimenti più umani e reali e forme più chiare e rilevate,
o se vogliamo guardare più alto, di un mondo mistico-scolastico, oltreumano,
ammesso ancora dall'intelletto, ma repulso dal cuore e condannato dall'immaginazione.
Se guardiamo alla forma, quel mondo ha perduto il suo aspetto simbolico-dottrinale,
che lo teneva al di là della vita e dell'arte, e si è umanizzato, è
divenuto immagine e sentimento; il tempio gotico si è trasformato in
un bel tempietto greco, nobilmente decorato, elegante, con luce uguale,
con perfetta simMetria, ispirato da Venere, dea della bellezza e della
grazia. Il grottesco, il gotico, gli angoli, le punte, le ombre, l'indefinito,
il dissonante, il prolisso, il superfluo, il volgare, il difforme, tutto
è cacciato via da questo tempio dell'armonia, maraviglia d'arte, che
chiude un secolo e ne annunzia un altro. L'artista gode; l'uomo è scontento.
Perchè sotto a questa bella forma così levigata e pulita vive un povero
core d'uomo, nutrito di desidèri e d'immagini, a cui lo tira la natura,
da cui lo allontana la ragione, senza la forza di uscire dalla contraddizione
e senza la ferma volontà di realizzarle. L'uomo è minore dell'artista.
L'artista non posa, che non abbia data l'ultima finitezza al suo idolo;
l'uomo non osa di guardarsi, e abbozza i moti del proprio cuore, e salta
nelle più opposte direzioni, quasi tema di fermarsi troppo, di esser
costretto a volere e a risolversi. Perciò quella bella superficie riman
fredda; non ha al di sotto profondità di esplorazione, o energia di
volontà e di convinzione. La situazione poteva esser tragica, rimane
elegiaca; poesia di un'anima debole e tenera, che si effonde malinconicamente
in dolci lamenti, assai contenta, quando possa vivere in immaginazione
e fantasticare: l'uomo svanisce nell'artista. Gli è che a quest'uomo
mancava quella fede seria e profonda nel proprio mondo, che fece di
Caterina una santa e di Dante un poeta. Quel mondo giace nel suo cervello
già decomposto e in fermentazione, mescolato con altre divinità. Ciò
che di più serio si move nel suo spirito è il sentimento dell'arte congiunto
con l'amore dell'antichità e dell'erudizione. È in abbozzo l'immagine
anticipata de' secoli seguenti, di cui fu l'idolo. L'arte si afferma
come arte e prende possesso della vita.
Così il medio evo, quando appena cominciava a svilupparsi negli altri
popoli, presso di noi per una precoce cultura si dissolveva prima che
avesse potuto esplicarsi in tutti gli aspetti dell'arte e produrre la
forma drammatica. Dante, che dovea essere il principio di tutta una
letteratura, ne fu la fine. Quel mondo così perfetto al di fuori è al
di dentro scisso e fiacco: è contemplazione d'artista, non più fede
e sentimento. Questa dissonanza tra una forma così finita e armonica
e un contenuto così debole e contraddittorio ha la sua espressione ne'
sentimenti che prevalgono a' tempi di transizione, la malinconia, la
tenerezza, la delicatezza, il molle e voluttuoso fantasticare. E l'illustre
malato, abbandonato a' flutti di questo doppio mondo, di un mondo che
se ne va e di un mondo che se ne viene, e che con tanta dolcezza e grazia
rappresenta una contraddizione a scioglier la quale gli manca la coscienza
e la forza, è Francesco Petrarca.
IX - IL DECAMERONE
Se ora apri il Decamerone, letta appena la prima
novella, gli è come un cascar dalle nuvole e un domandarti col Petrarca:
«Qui come venn'io o quando?». Non è una evoluzione, ma è una catastrofe,
o una rivoluzione, che da un dì all'altro ti presenta il mondo mutato.
Qui trovi il medio evo non solo negato, ma canzonato.
Ser Ciapperello è un Tartufo anticipato di parecchi secoli, con questa
differenza, che il Molière te ne fa venire disgusto e ribrezzo, con
l'intenzione di concitare gli uditori contro la sua ipocrisia, dove
il Boccaccio ci si spassa con l'intenzione meno d'irritarti contro l'ipocrita
che di farti ridere a spese del suo buon confessore e de' creduli frati
e della credula plebe. Perciò l'arma del Molière è l'ironia sarcastica;
l'arma del Boccaccio è l'allegra caricatura. Per giungere a queste forme
e a queste intenzioni bisogna andare fino al Voltaire. Giovanni Boccaccio
sotto un certo aspetto fu il Voltaire del secolo decimoquarto.
Molti se la pigliano col Boccaccio e dicono ch'egli guastò e corruppe
lo spirito italiano. Egli medesimo in vecchiezza fu preso dal rimorso
e finì chierico, condannando il suo libro. Ma quel libro non era possibile,
se nello spirito italiano non fosse già entrato il guasto, se «guasto»
s'ha a dire. Ove le cose, di cui ride il Boccaccio, fossero state venerabili,
poniamo pure ch'egli avesse potuto riderne, i contemporanei ne avrebbero
sentita indignazione. Ma fu il contrario. Il libro parve rispondere
a qualche cosa che volea da lungo tempo uscir fuori dalle anime, parve
dire a voce alta ciò che tutti dicevano nel loro segreto, e fu applauditissimo,
con tanto successo che il buon Passavanti se ne spaventò e vi oppose
come antidoto lo Specchio di penitenza. Il Boccaccio fu dunque
la voce letteraria di un mondo, quale era già confusamente avvertito
nella coscienza. C'era un segreto: egli lo indovinò, e tutti batterono
le mani. Questo fatto, in luogo d'essere maledetto, merita di essere
studiato.
Il carattere del medio evo è la trascendenza, un dì là oltreumano ed
oltrenaturale, fuori della natura e dell'uomo, il genere e la specie
fuori dell'individuo, la materia e la forma fuori della loro unità,
l'intelletto fuori dell'anima, la perfezione e la virtù fuori della
vita, la legge fuori della coscienza, lo spirito fuori del corpo, e
lo scopo della vita fuori del mondo. La base di questa teologia filosofica
è l'esistenza degli universali. Il mondo fu popolato di esseri o intelligenze,
sulla cui natura molto si disputò: sono esse idee divine? Sono generi
e specie reali? Sono specie intelligibili? Questo edificio gemeva già
sotto i colpi dei nominalisti, cioè di quelli che negavano l'esistenza
de' generi e delle specie, e li chiamavano puri nomi, e dicevano esistere
solo il singolo, l'individuo. Sulla loro bandiera era scritto un motto
divenuto così popolare: «Non bisogna moltiplicare enti senza necessità».
L'ascetismo era il frutto naturale di un mondo teocratico spinto all'esagerazione.
La vita quaggiù perdeva la sua serietà e il suo valore. L'uomo dimorava
con lo spirito nell'altra vita. E la cima della perfezione fu posta
nell'estasi, nella preghiera e nella contemplazione.
Così nacque la letteratura teocratica, così nacquero le leggende, i
misteri, le visioni, le allegorie: così nacque la Commedia, il
poema dell'altra vita. Il pensiero non aveva intimità, non calava nell'uomo
e nella natura, ma se ne teneva fuori, tutto intorno alla natura e alle
qualità degli enti, che erano le stesse forze umane e naturali sciolte
dall'individuo ed esistenti per sè stesse. Le astrazioni dello spirito
divennero esseri viventi. E perchè le astrazioni, frutto dell'intelletto
inesauribile nelle sue distinzioni e suddistinzioni, sono infinite,
questi esseri moltiplicarono nell'acuto intelletto degli scolastici.
Come il mondo scolastico fu popolato di esseri astratti, così il mondo
poetico fu popolato di esseri allegorici, l'uomo, l'anima, la donna,
l'amore, le virtù, i vizi. Non erano persone, come le pagane divinità:
erano semplici personificazioni.
Il sentimento, come frutto di inclinazioni umane e naturali, era peccato.
Le passioni erano scomunicate. La poesia era madre di menzogne. Il teatro
cibo del diavolo. La novella e il romanzo generi di letteratura profani.
Tutto questo si chiamava il senso, e il luogo comune di questo mondo
ascetico era la lotta del senso con la ragione, da fra Guittone a Francesco
Petrarca. Il sentimento, reietto come senso e costretto ad esser ragione,
strappato dal cuore umano, divenne anch'esso un universale, un fatto
esteriore, ora simbolico, ora scolastico, o, come si diceva, «platonico».
Il padre de' sentimenti, l'amore, divenne un fatto filosofico, forza
unitiva, unità dell'intelletto e dell'atto. Così nacque la lirica platonica,
dal Guinicelli al Petrarca. Il senso e l'immaginazione si ribellavano
contro questo platonismo. Ed è in questa ribellione, ancorachè poco
scrutata e poco accentuata, che è la grandezza della lirica petrarchesca.
Rappresentare i moti del cuore e della immaginazione nella loro naturalezza
e intimità era vietato. E colui che più gustò di questo frutto proibito,
fu il Petrarca.
L'immaginazione era un istrumento dell'intelletto, destinata a creare
forme e simboli di concetti astratti. Lo sa il povero Dante. Nessuno
ebbe mai l'immaginazione così torturata. E nacquero forme simboliche
e intellettuali, nella cui generalità scomparve l'individuo con la sua
personalità. Erano forme tipiche, generi e specie, anzichè l'individuo.
La regina delle forme, la donna, non potè sottrarsi a questa invasione
degli universali, e rimase un ideale più divino che umano, bella faccia,
ma faccia della sapienza, più amata che amante, e amata meno come donna
che come scala alle cose celesti. Così nacquero Beatrice e Laura.
Certo, a nessuno è lecito parlare con poca riverenza di questo mondo
dell'autorità che segna un momento interessantissimo nella storia dello
spirito umano, e che ha pure il suo fondamento nella vita. L'illuminismo
o il misticismo, la visione estatica, è un portato naturale dello spirito
nella sua alienazione dal corpo, ciò che dicevasi a «vivere in astrazione»:
momento di concitazione e di entusiasmo, che l'uomo pare più che uomo
e sembra in lui parli un dio o un demonio. Perciò quell'entusiasmo fu
detto «furore divino» o «estro», qualità de' profeti e de' poeti, che
sono tutt'uno per Dante. Questa elevazione dell'anima in se stessa,
e al di sopra de' limiti ordinari della vita reale, è il lato eroico
dell'umanità, il privilegio della giovinezza, la condizione di tutte
le società primitive, quando, cessati i bisogni materiali, vi si sveglia
lo spirito. Tutto ciò che ci fa disprezzare la vita e le ricchezze e
i piaceri, è degno di stima.
Ma è uno stato di tensione e di disquilibrio che non può aver durata.
L'arte, la coltura, la conoscenza e l'esperienza della vita lo modificano
e lo trasformano.
L'arte, impossessandosi di questo mondo, lo umanizza, lo accosta all'uomo
e alla natura, lo mescola di altri elementi, vi fa penetrare le passioni
e i furori del senso. Non ci hai ancora equilibrio; non ci hai qualche
cosa che sia la vita nella sua intimità, insieme paradiso e inferno;
ma già di rincontro al paradiso hai l'inferno, di rincontro a Beatrice
hai Francesca da Rimini, e di rincontro a Dante, simbolo dell'umanità,
hai Dante Alighieri, l'individuo in tutta la sua personalità. Nel Canzoniere
quel mondo si spoglia pure le sue forme natie, teologiche, scolastiche,
allegoriche, e prende aspetto più umano e naturale.
E se fosse durato ancora un pezzo nella coscienza, non è dubbio che
l'arte vi si sarebbe compiutamente sviluppata, e come la visione e la
leggenda divenne la Commedia, come Selvaggia divenne Beatrice,
e Beatrice Laura, dal seno de' misteri sarebbe uscito il dramma, e molti
generi di letteratura ancora iniziali e abbozzati già nella Commedia
sarebbero venuti a maturità, come l'inno e la satira. Ma già quel mondo
nel Canzoniere non ha più il calore dell'entusiasmo e della fede,
e in quelle forme così eleganti lascia una parte della sua sostanza.
Il sentimento religioso, morale, politico vive fiaccamente nella coscienza
del poeta; e il posto rimasto vuoto è occupato dall'arte.
Questo infiacchirsi della coscienza, questo culto della bella forma
fra tanta invasione di antichità greco-romana sono i due fatti caratteristici
della nuova generazione, che succede all'età virile e credente e appassionata
di Dante. Quegli uomini non si appassionano più per le dottrine, e non
cercano il vero sotto i «versi strani»; la «bella veste» li appaga.
I loro studi non hanno più a guida l'investigazione della verità, ma
l'erudizione: c'è il sapere per il sapere, come l'arte per l'arte. I
Fiori, I Giardini, I Conviti, I Tesori,
dove la sapienza sacra e profana era usata a scopo morale, danno luogo
a raccolte semplicemente storiche ed erudite. Ci sono ancora gli scolastici,
che chiamano il Petrarca un insipiente, ma le loro querele si sperdono
nel plauso universale, che pone il Petrarca accanto a Virgilio. E codesto
Virgilio non è più il mago, precursore del cristianesimo, e neppure
il savio «che tutto seppe», ma è il dolce ed elegante poeta. Dante s'incorona
da sè in paradiso poeta, profeta e apostolo: i contemporanei incoronano
nel Petrarca l'autore dell'Africa, della nuova Eneide.
La coltura e l'arte sono i nuovi idoli dello spirito italiano.
Ma la coltura e l'arte non è il naturale fiorire di un mondo interiore,
anzi è accompagnata con l'infiacchirsi della coscienza, e si pone già
per se stessa, come un fatto estrinseco che abbia il suo valore in sè
e sia a un tempo mezzo e scopo. È una coltura e un'arte «formale», non
riscaldata abbastanza dal contenuto. Ci è lì dentro lo stesso mondo
di Dante, ma c'è come ragione in lotta col sentimento e con l'immaginazione;
lotta fiacca e inconcludente: scemato è il vigore della fede e della
volontà.
Gli è che quel mondo mistico, fuori della natura e dell'uomo, appunto
per la sua esagerazione, non poteva avere alcun riscontro con la realtà.
Ebbe la sua età dell'oro, evocata da Dante con tanta malinconia; ma
a lungo andare dovea rimanere pura teoria, ammessa per tradizione e
per abitudine e contraddetta nella vita pratica. Più alto era il modello,
più visibile era la contraddizione e più scandalosa. Nel secolo di Dante
e di Caterina grandi sono i lamenti e le invettive per la corruttela
de' costumi, specialmente ne' papi e ne' chierici, che con l'esempio
contraddicevano alle loro dottrine. Queste invettive divennero il luogo
comune della letteratura, e ne odi l'eco un po' rettorica ne' versi
eleganti del Petrarca contro l'avara Babilonia. Ma lo spettacolo, divenuto
abituale e generale, non moveva più indignazione; e mentre Caterina
ammoniva e il Petrarca satireggiava, il mondo continuava sua via. Allato
al misticismo vedevi il cinismo. Dirimpetto a Caterina vedevi Giovanna
di Napoli.
La corruttela de' costumi non era negazione ardita delle dottrine cristiane,
anzi tutti si tenevano buoni cristiani, ed erano zelantissimi contro
gli eretici, e molti facevano all'ultimo penitenza. Ma era qualche cosa
di peggio: era indifferenza, un oscurarsi del senso morale. Quel mondo
viveva ancora nell'intelletto, non creduto e non combattuto, ozioso,
senza alcuna efficacia su' sentimenti e sulle azioni.
In questa condizione degli spiriti, la coltura dovea avere un effetto
deleterio. La parte leggendaria, fantastica, miracolosa di quel mondo
dovea parere a quegl'ingegni così svegliati cosa così poco seria, come
le prediche de' frati contraddette dalla vita. Sparisce quel candore
infantile di fede anche nelle cose più assurde, che tanto ci alletta
negli scrittori antecedenti. Le classi colte cominciano a separarsi
dalla plebe e a prendersi spasso della sua credulità. Esser credente
era prima un titolo di gloria de' più forti ingegni. Essere incredulo
diviene ora indizio di animo colto.
D'altra parte la maggiore coltura, generando un più vivo sentimento
della natura e dell'uomo, dovea affrettare la rovina di un mondo così
astratto e così estrinseco alla vita. Il reale disconosciuto dovea prender
la sua rivincita; la natura troppo compressa dovea reagire a sua volta.
Così di rincontro a quello spiritualismo esagerato sorgeva una reazione
inevitabile, il naturalismo e il realismo nella vita pratica.
Indi è che la coltura, in luogo di calare in quel mondo e modificarlo
e trasformarlo e riabilitarlo nella coscienza, come fu più tardi in
Germania, si collocò addirittura fuori di esso, e lasciata la coscienza
vuota, impiegò la sua attività ne' piaceri dell'erudizione e dell'arte.
Così quel mondo si trovò fuori della coscienza, senza lotta intellettuale,
anzi rimanendo ozioso padrone dell'intelletto. Ci erano anche allora
i liberi pensatori, soprattutto ne' conventi, ma erano sforzi isolati,
scuciti. Una lotta più seria era stata iniziata da' ghibellini; ma la
rotta di Benevento e il trionfo durevole de' guelfi avea posto fine
alla discussione e all'esame. Gli uomini amavano meglio scoprire e postillare
manoscritti, e nelle cose di fede lasciar dire il papa, e vivere a modo
loro.
Questo fu il naturale effetto della vittoria guelfa. Finirono le lotte
e le discussioni; successe l'indifferenza religiosa e politica, fra
tanto fiorire di coltura, di erudizione, di arte, di commerci e d'industrie.
Ci erano tutti i segni di un grande progresso: una più esatta conoscenza
dell'antichità, un gusto più fine e un sentimento artistico più sviluppato,
una disposizione meno alla fede che alla critica e all'investigazione,
minor violenza di passioni, maggiore eleganza di forme: l'idolo di questa
società dovea essere il Petrarca, nel quale riconosceva e incoronava
se stessa. Ma sotto a quel progresso v'era il germe di una incurabile
decadenza, l'infiacchimento della coscienza.
Il Canzoniere, posto tra quei due mondi, senza esser nè l'uno,
nè l'altro, così elegante al di fuori, così fiacco e discorde al di
dentro, è l'ultima voce letteraria, rettorica ed elegiaca, di un mondo
che si oscurava nella coscienza. I contemporanei applaudivano alla bella
forma, e non cercavano e non si appassionavano pel contenuto, come avveniva
con la Commedia.
Quel mondo, divenuto letterario e artistico, anche un po' rettorico
e convenzionale, non rispondeva più alle condizioni reali della vita
italiana. Quel misticismo, quell'estasi dello spirito, che si rivela
un'ultima volta con tanta malinconia e tenerezza nel Petrarca, era in
aperta rottura con le tendenze e le abitudini di una società colta,
erudita, artistica, dedita a' godimenti e alle cure materiali, ancora
nell'intelletto cristiana, non scettica e non materialista ma nella
vita già indifferente e incuriosa degli alti problemi dell'umanità.
Il linguaggio era lo stesso, ma dietro alla parola non ci era più la
cosa. Questo era il segreto di tutti, quel qualche cosa non avvertito
e non definito, ma che pur si manifestava con tanta chiarezza nella
vita pratica. E colui che dovea svelare il segreto e dargli una voce
letteraria, non usciva già dalle scuole: usciva dal seno stesso di una
società che dovea così bene rappresentare.
Tutti i grandi scrittori erano usciti dall'università di Bologna, Guinicelli,
Cino, Cavalcanti, Dante, Petrarca.
Giovanni Boccaccio, nato il 1313, nove anni dopo il Petrarca e otto
prima della morte di Dante, «non pienamente avendo imparato grammatica»,
come scrive Filippo Villani, «volendo e costringendolo il padre per
cagione di guadagno, fu costretto ad attendere all'abbaco, e per la
medesima cagione a peregrinare». Il padre era un mercante fiorentino,
e alla mercatura indirizzò il figlio. Quando i giovani appena cominciavano
i loro studi nella università, il nostro Giovanni faceva, come si direbbe
oggi, il commesso viaggiatore in servigio del padre, e il suo libro
era la pratica e la conoscenza del mondo. Girando di città in città,
si mostrava più dedito alle piacevoli letture e a' passatempi che all'esercizio
della mercatura, e più uomo di spirito e d'immaginazione che uomo d'affari.
Era chiamato «il poeta». Venuto in Napoli a ventitrè anni, menava vita
signorile, bazzicava in corte, usava co' gentiluomini, spendeva largamente,
amoreggiava, scribacchiava, leggicchiava. Dicesi che alla vista della
tomba di Virgilio rimase pensoso e sentì la sua vocazione poetica. Fatto
è che il buon padre, visto che non se ne potea cavare un mercante, pensò
farne un giureconsulto, e lo mise a studiare i canoni, con gran rincrescimento
del giovane, che chiama sciupato il tempo messo a fare il mercante e
ad imparare i canoni. Finalmente, libero di sè, si gittò agli studi
letterari, e come portava il tempo, si die' al latino e al greco, e
si empì il capo di mitologia e di storia greca e romana. Ei menava la
vita, mezzo tra gli studi e i piaceri, spesso viaggiando, non più a
mercatare, ma a cercar manoscritti. Narrasi che al 7 aprile del 1341
siAsi nella chiesa di San Lorenzo invaghito di Maria, figlia naturale
di re Roberto: certo, nella corte spensierata e licenziosa della regina
Giovanna non potè prender lezione di buon costume, nè di amori platonici.
E volse lo studio e l'ingegno a rallegrare col suo spirito la corte
e la sua non ingrata Maria, che con nome poetico chiamò Fiammetta.
Il Petrarca non era ancora comparso sull'orizzonte: tutto era pieno
di Dante, e tra' suoi più appassionati era il nostro poeta. Frutto della
sua ammirazione fu la Vita di Dante, uno de' suoi lavori giovanili.
Ma egli poteva ammirarlo, non comprenderlo, perchè lo spirito di Dante
non era in lui. Formatosi fuori della scuola, alieno da ogni seria coltura
scolastica e ascetica, profano anzichè mistico ne' sentimenti e nella
vita, si foggiò un Dante a sua immagine. Chi vuol conoscere le opinioni
e i sentimenti del nostro giovane, legga quel libro e vi troverà già
la stoffa, da cui uscì il Decamerone. Nessuna originalità e profondità
di pensiero, nessuna sottigliezza di argomentazione; tutto vi è dimostrato,
anche le più comuni verità, ma il fondamento della dimostrazione non
è nell'intelletto, è nella memoria; non hai innanzi un pensatore, nè
un disputatore, ma un erudito. Vuol mostrare l'ingratitudine di Firenze
verso Dante, ed ecco uscir fuori Solone, «il cui petto uno umano tempio
di divina sapienza fu reputato», e la Siria, la Macedonia, la greca
e la romana repubblica, e Atene, e Argo, e Smirne, e Pilos, e Chios,
e Colofon, e Mantova, e Sulmona, e Venosa, e Aquino. «Tu sola, » conchiude
il poeta «quasi i Cammilli, i Publicoli, i Torquati, Fabrizi, Catoni,
Fabi, Scipioni ... in te fossero, ... avendoti lasciato il tuo antico
cittadino Claudiano cader dalle mani, non hai avuto del presente poeta
cura, ma l'hai da te scacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto,
del tuo soprannome». Volendo parlar di Dante, comincia ab ovo,
dalla prima fondazione di Firenze. Spesso lascia lì Dante ed esce in
lunghe digressioni, tra le quali è notabile quella sulla natura della
poesia. Secondo lui, il linguaggio poetico fu trovato per porgere «sacrate
lusinghe» alla divinità, con parole lontane «da ogni altro plebeo e
pubblico stile di parlare» e «sotto legge di certi numeri composte,
per li quali alcuna dolcezza si sentisse e cacciassesi il rincrescimento
e la noia». I poeti imitarono «dello Spirito santo le vestigie», perchè
come nella divina Scrittura, «la quale teologia appelliamo, quando
con figura di alcuna storia, quando col senso di alcuna visione», si
mostra l'«alto mistero della Incarnazione del Verbo divino, la vita
di quello, le cose occorse nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa
... così i poeti, ... quando con finzioni di vari iddii, quando con
trasmutazioni di uomini in varie forme, quando con leggiadre persuasioni
ne dimostrano le cagioni delle cose e gli effetti delle virtù e de'
vizi». Poi spiega ciò che lo Spirito santo volle mostrare nel rogo di
Mosè, nella visione di Nabuccodonosor, nelle lamentazioni di Geremia;
e ciò che i poeti vollero mostrare in Saturno, Giove, Giunone, Nettuno
e Plutone e nelle trasformazioni di Ercole in dio e di Licaone in lupo,
e nella bellezza degli Elisi e nell'oscurità di Dite. E ribattendo quelli
che chiamano i poeti antichi «uomini insensati», inventori di favole
«a niuna verità convenienti», conclude che «la teologia e la poesia
quasi una cosa si posson dire», anzi che la «teologia niun'altra cosa
è che una poesia d'Iddio» e «poetica finzione». L'erudito poeta non
si arresta qui, e ci regala la favola di Dafne, amata da Febo e in lauro
convertita, per darci spiegazione perchè i poeti avevano la corona d'alloro.
Di quello che fu il mondo interiore di Dante, qui non è alcun vestigio;
invece il mondo esterno vi è sviluppato fino all'aneddoto, fino al pettegolezzo.
Ci si vede uno spirito curioso e profano che cerca il maraviglioso e
lo straordinario negli accidenti umani, disposto a spiegarli con la
superficialità di un erudito e di un uomo di mondo, o «del secolo»,
come si diceva allora. Spende le ultime pagine ad almanaccare sopra
un sogno attribuito alla madre di Dante e vi fa pompa di tutta la sua
erudizione. Sotto il suo sguardo profano Beatrice perde tutta la sua
idealità, e l'amore di Dante, scacciato dalle sue regioni ascetiche
e platoniche e scolastiche, acquista una tinta romanzesca. Il nostro
Giovanni non si fa capace come Dante a nove anni abbia potuto amare
Beatrice. Il caso gli pare strano, e ne cerca diverse spiegazioni. Forse
fu «conformità di complessioni o di costumi»; forse anche «influenza
da cielo». Ma queste spiegazioni non lo appagano, e si ferma in quest'altra,
che cava dall'esperienza. Dante, secondo lui, vide Beatrice in una festa
il primo di maggio, quando la «dolcezza del cielo riveste dei suoi ornamenti
la terra, e tutta per la varietà de' fiori mescolati tra le verdi fronde
la fa ridente, e per esperienza veggiamo nelle feste, per la dolcezza
de' suoni, per la generale allegrezza, per la delicatezza de' cibi e
de' vini, gli animi eziandio degli uomini maturi non che de' giovanetti
ampliarsi e divenire atti a poter leggermente esser presi da qualunque
cosa che piace».
Dante dunque amò fanciullo per la stessa ragione che può amare un uomo
maturo; i cibi e i vini delicati e l'allegrezza generale, ecco ciò che
dispose il suo animo all'amore. Beatrice era per Dante «angeletta bella
e nova», senza contorni e senza determinazioni scesa di cielo a mostrare
le bellezze e le virtù che le piovono dalle stelle. Tutto questo non
entra al Boccaccio, il quale vuol pure spiegarsi come la potè parere
un'angioletta, e si foggia nella profana immaginazione una bella immagine
di fanciulla, e la descrive così:
«Assai leggiadretta secondo la sua fanciullezza, e
ne' suoi atti gentilesca e piacevole molto, con costumi e con parole
assai più gravi e modeste che 'l suo picciolo tempo non richiedeva;
ed oltre a questo, aveva le fattezze del volto dilicate molto e ottimamente
disposte, e piene, oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che
quasi un'angioletta era reputata da molti.»
Ecco un'angioletta di carne; eccoci dalle mistiche
altezze di Dante caduti in piena fisiologia e notomia. Dante amò, perchè
tra vivande e sollazzi l'animo è disposto ad amare; e Beatrice parea
quasi un'angioletta, perchè era fatta così e così. Beatrice muore a
ventiquattro anni. Il nostro biografo non se ne maraviglia, perchè «un
poco di soperchio di freddo o di caldo che noi abbiamo, ... ci conduce»
alla morte. I parenti e gli amici per consolare Dante gli diedero moglie:
«Oh menti cieche, oh tenebrosi intelletti!», esclama il nostro scapolo
e nemico dell'amore regolato. «Qual medico» egli aggiunge
«s'ingegnerà di cacciare l'acuta febbre col fuoco,
o 'l freddo delle midolla delle ossa col ghiaccio o colla neve? Certo
niun altro se non colui, il quale con nuova moglie crederà le amorose
tribolazioni mitigare».
E qui da uomo esperto della materia parla della natura
e de' fenomeni dell'amore e dell'indole delle donne, e delle noie e
degli affanni de' mariti, e compiange il povero Dante. Dipinge con tocchi
sicuri, e in certi punti è eloquente, perchè qui è in casa sua. Udite
questo periodo: «Possiamo pensare quanti dolori nascondono le camere,
li quali da fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacia trapassa le
mura, sono riputati diletti». Ma Dante, secondo ch'egli narra, dimenticò
presto moglie e Beatrice, e si die' all'amore delle donne: ciò che l'indusse
al gran viaggio nell'altro mondo, ove se ne fece così aspramente rimproverare
da Beatrice. Il quale amore non pare poi un così gran peccato al nostro
scapolo: «Chi sarà tra' mortali giusto giudice a condannarlo? Non io».
Ed ecco venire innanzi l'erudito, e citare parecchi casi di uomini illustri
vinti dalle donne, Giove, Ercole, Paride, Adamo, Davide, Salomone, Erode.
Ti par di assistere a una parodia. Eppure niente è più serio. Il giovane
è pieno di ammirazione verso Dante che chiama un «iddio fra gli uomini»,
e crede con questa Vita riparare alla ingratitudine di Firenze
e alzargli un monumento.
La Vita di Dante è una rivelazione. Qui dentro si manifesta l'autore
in tutta la sua ingenuità e spontaneità: vi trovi il nuovo uomo che
si andava formando in Italia. Mette in un fascio mondo sacro e profano,
Bibbia e mitologia, teologia e poesia: la teologia è una «poesia di
Dio», una «finzione poetica». Questa strana mescolanza era già comune
al secolo; Dante stesso ne dava esempio. Ma dove Dante tirava il mondo
antico nel circolo del suo universo e lo battezzava, lo spiritualizzava,
il Boccaccio sbattezza tutto l'universo e lo materializza. In teoria
ammette la religione, e parla con riverenza della teologia, che ci fa
conoscere «la divina essenza e le altre separate intelligenze». Ma in
pratica questo mondo dello spirito rimane perfettamente estraneo alla
sua intelligenza e al suo cuore. Misticismo, platonicismo, scolasticismo,
tutto il mondo dantesco, non ha alcun senso per lui. Non solo questo
mondo gli rimane estraneo come coltura, ma ancora più come sentimento.
E gli manca non solo il sentimento religioso, ma fino quella certa elevatezza
morale che talora ne fa le veci. Spento è in lui il cristiano, e anche
il cittadino. Non gli è mai venuto in mente che servire la patria e
dare a lei l'ingegno e le sostanze e la vita è un dovere così stretto,
come è il provvedere al proprio sostentamento. Dietro al cittadino comincia
a comparire il buon borghese, che ama la sua patria, ma a patto non
gli dia molto fastidio, e lo lasci attendere alla sua industria, e non
lo tiri per forza di casa o di bottega. De' guelfi e ghibellini è perduta
la memoria, tanto che il Boccaccio crede doverne spiegare il significato.
E non si persuade come Dante siesi potuto mescolare nelle pubbliche
faccende, e ne reca la cagione alla sua vanità, ed ha quasi l'aria di
dirgli: - Ben ti sta. - Non voglio dire con questo che il Boccaccio
fosse uomo dispregiatore della religione o della virtù o della patria.
Sciolto era di costumi, pure tutti i doveri comuni della vita li adempiva
con la stessa puntualità e diligenza degli altri, e molte legazioni
gli furono commesse da' suoi concittadini. Ma l'età eroica era passata;
la nuova generazione non comprendeva più le lotte e le passioni de'
padri; il carattere era caduto in quella mezzanità che non è ancora
volgarità, e non è più grandezza; della religione, della libertà, dell'uomo
antico c'erano ancora le forme, ma lo spirito era ito. Di vita pubblica
qualche apparenza era ancora in Toscana, sede della coltura; nelle altre
parti era vita di corte. L'erudizione, l'arte, gli affari, i piaceri
costituivano il fondo di questa nuova società borghese e mezzana, della
quale ritratto era il Boccaccio, gioviale, cortigiano, erudito, artista.
Se la malinconia dell'estatico Petrarca ti presentava un simulacro dell'uomo
antico, la spensierata giovialità del Boccaccio è l'ingresso nel mondo,
a voce alta e beffarda, della materia o della carne, la maledetta, il
peccato; è il primo riso di una società più colta e più intelligente,
disposta a burlarsi dell'antica; è la natura e l'uomo, che, pure ammettendo
l'esistenza di separate intelligenze, non ne tien conto, e fa di sè
il suo mezzo e il suo scopo.
Questo tempo fu detto di transizione. Vivevano insieme nel seno degli
uomini due mondi, il passato nelle sue forme se non nel suo spirito,
ed un mondo nuovo che si affermava come reazione a quello, fondato sulla
realtà presa in se stessa e vuota di elementi ideali. Erano in presenza
il misticismo, con le sue forme ricordevoli del mondo soprannaturale,
e il puro naturalismo. Ma il misticismo, indebolito già nella coscienza,
era divenuto abituale e tradizionale, applaudito nel Petrarca non come
il mondo sacro, ma come un mondo artistico e letterario. Il naturalismo
al contrario sorgeva allora in piena concordia con la vita pratica e
co' sentimenti, con tutti gli allettamenti della novità. Questo mutamento
nello spirito dovea capovolgere la base della letteratura. Il romanzo
e la novella, rimasti generi di scrivere volgari e scomunicati, presero
il sopravvento. Al mondo lirico, con le sue estasi, le sue visioni e
le sue leggende, il suo entusiasmo, succede il mondo epico o narrativo,
con le sue avventure, le sue feste, le sue descrizioni, i suoi piaceri
e le sue malizie. La vita contemplativa si fa attiva; l'altro mondo
sparisce dalla letteratura; l'uomo non vive più in ispirito fuori del
mondo, ma vi si tuffa e sente la vita e gode la vita. Il celeste e il
divino sono proscritti dalla coscienza, vi entra l'umano e il naturale.
La base della vita non è più quello che dee essere, ma quello che è:
Dante chiude un mondo; il Boccaccio ne apre un altro.
Mettiamo ora il piè in questo mondo del Boccaccio. Che vi troviamo?
Opere latine di gran mole: una specie di dizionario storico, ove hai
tutte le antiche forme mitologiche usate da' poeti, e con le loro spiegazioni
allegoriche, e i fatti degli uomini illustri e delle celebri donne,
libri tradotti in francese, in tedesco, in inglese, in ispagnuolo, in
italiano, di cui si fecero moltissime edizioni, accolti con infinito
favore da' contemporanei, come una nuova rivelazione dell'antichità.
Prima ci erano le enciclopedie e i «fiori» e i «giardini», ove si raccoglieva
ciò che gli antichi pensarono in filosofia, in etica, in rettorica;
il Boccaccio raccoglie quello che gli antichi immaginarono, quello che
operarono. Al mondo del puro pensiero succede il mondo dell'immaginazione
e dell'azione. Vediamolo ora all'opera. Quest'uomo, che ha pieno il
capo di tanta erudizione greca e latina, che ammira Dante perchè ha
saputo molto bene imitare Virgilio, Ovidio, Stazio e Lucano, e a cui
di fiorentino è rimasto l'amore del bello idioma e il sentimento dell'arte,
è insieme il trovatore e il giullare della corte, rallegrata dalle sue
facezie e dai suoi racconti, è l'erede della gaia scienza, sa a menadito
romanzi francesi, italiani e provenzali, e scrive per sollazzarsi e
per sollazzare. Ci erano in lui parecchi uomini non ben fusi, l'erudito,
l'artista, il trovatore, il letterato e l'uomo di mondo.
Ecco uscirgli dall'immaginazione il Filocolo. Il titolo è greco,
come più tardi è il Filostrato e come sarà il Decamerone.
La materia è tratta da un romanzo spagnuolo, ed è gli amori di Florio
e Biancofiore. Ma si tratta della Spagna pagana, al tempo di Roma pagana,
quando già vi penetrava il cristianesimo. La materia è tale, che il
giovane autore vi può sviluppare tutte le sue tendenze. Ai giovani innamorati
e alle amorose donzelle consacra i «nuovi versi, i quali - egli dice
loro - non vi porgeranno i crudeli incendimenti dell'antica Troia, nè
le sanguinose battaglie di Farsaglia, ma udirete i pietosi avvenimenti
dell'innamorato Florio e della sua Biancofiore, i quali vi fiano graziosi
molto». Probabilmente i giovani vaghi e le donne innamorate avrebbero
desiderato una storia di amore più breve e meno dotta. Ma come resistere
alla tentazione? Il giovane ci ficca dentro tutta la mitologia, e ad
ogni menoma occasione esce fuori con la storia greca e romana. Giulia,
uccisole il marito, nell'ultima disperazione, parlando all'uccisore,
cita Ecuba e Cornelia. Nè la mitologia ci sta a pigione, come semplice
colorito, ma è la vera macchina del racconto, come in Omero e Virgilio.
E se Giove, Pluto, Venere, Pallade e Cupido fossero personaggi vivi,
avremmo un grottesco non dispiacevole; ma sono personificazioni ampollose
e rettoriche, formate dalla memoria, non dall'immaginazione. Ancora,
visto che teologia e poesia sono una stessa cosa, la teologia è paganizzata,
e Dio diviene Giove, e Lucifero diviene Pluto; sì che pagani e cristiani,
inimicandosi a morte, usano le stesse forme e adorano gli stessi iddii.
Macchinismo vuoto che s'intramette dappertutto, e guasta il linguaggio
naturale del sentimento, introducendo ne' fatti e nelle passioni un'espressione
artificiale e metaforica. Volendo dire giovani innamorati si dice: «i
quali avete la vela della barca della vaga mente dirizzato a' venti
che muovono dalle dorate penne ventilanti del giovane figliuolo di Citerea».
L'avvicinarsi della sera è espresso così: «I disiosi cavalli del sole
caldi per lo diurno affanno si bagnavano nelle marine acque d'occidente».
Altrove è detto: «L'Aurora aveva rimossi i notturni fuochi, e Febo avea
già rasciutte le brinose erbe». Nasce uno stile pomposo e freddo, che
invano l'autore cerca incalorire con le figure rettoriche, in cui è
maestro. Spesseggiano le interrogazioni, le esclamazioni, le personificazioni,
le apostrofi; il sentimento si sviluppa dalle cose e si pone per se
stesso in una forma ampollosa e pretensiosa. Il prode Lelio è ucciso
sul campo di battaglia, e il poeta vi recita su questa magnifica tirata
rettorica:
«Oh misera Fortuna, quanto sono i tuoi movimenti vani
e fallaci nelle mondane cose! Ove sono i molti tesori che tu con ampia
mano gli avevi dati? Ove i molti amici? Ove la gran famiglia? Tu gli
hai con subito giramento tolte tutte queste cose, e il suo corpo senza
sepoltura morto giace negli strani campi. Almeno gli avessi tu concedute
le romane lacrime, e le tremanti dita del vecchio padre gli avessero
chiusi i morienti occhi, e l'ultimo onore della sepoltura gli avesse
potuto fare!»
Giulia sviene: «gli spiriti ... vagabondi pare che
vadano per lo vicino aere»; e il poeta fa una lunga apostrofe a Lelio,
che al suo pericol correndo lei semiviva abbandona, e dice di Amore:
«Deh! Quanto Amore si portò villanamente tra voi, avendovi
tenuti insieme con la sua virtù tanto tempo caramente congiunti; e ora,
nell'ultimo partimento, non consentì che voi vi avessi insieme baciati
o almeno salutati.»
I personaggi fanno spesso lunghe orazioni con tutti
gli artifici della rettorica, com'è la parlata di Pluto a' ministri
infernali, imitata dal Tasso. Spesso la sensualità si scopre tra le
lacrime. Giulia si straccia i capelli e si squarcia le vesti; il giovane
deplora quello «sconcio tirare» che traeva «i biondi capelli» «dell'usato
modo e ordine», e aggiunge: «I vestimenti squarciati mostravano le colorite
membra, che in prima soleano nascondere». Non mancano qua e colà tratti
affettuosi, e anche modi e forme di dire semplici ed efficaci; ma rimane
il più spesso fuori dell'uomo e della natura, inviluppato in perifrasi,
circonlocuzioni, aggettivi, orazioni, descrizioni e citazioni: ci si
sente una viva tendenza al reale guastata dalla rettorica e dall'erudizione.
Accampandosi nel mondo antico, e portandovi pretensioni erudite e rettoriche,
la letteratura, se da una parte si emancipava da quel mondo teologico-scolastico
che sorgeva come barriera tra l'arte e la natura, s'intoppava dall'altra
in una nuova barriera, un mondo mitologico-rettorico.
Il successo del Filocolo alzò l'animo del giovane a più alto
volo. Pensò qualche cosa come l'Eneide, e scrisse la Teseide.
Ma niente era più alieno dalla sua natura che il genere eroico, niente
più lontano dal secolo che il suono della tromba. Qui hai assedii, battaglie,
congiure di dei e di uomini, pompose descrizioni, artificiosi discorsi,
tutto lo scheletro e l'apparenza di un poema eroico; ma nel suo spirito
borghese non entra alcun sentimento di vera grandezza, e Teseo e Arcita
e Palemone e Ippolito ed Emilia non hanno di epico che il manto. Il
suo spirito è disposto a veder le cose nella loro minutezza, ma più
scende ne' particolari, più l'oggetto gli si sminuzza e scioglie, sì
che ne perde il sentimento e l'armonia. Le armi, i modi del combattere,
i sacrifizii, le feste, tutta l'esteriorità è rappresentata con la diligenza
e la dottrina di un erudito; ma dov'è l'uomo? E dov'è la natura? De'
suoi personaggi carichi di emblemi e di medaglie antiche si è perduta
la memoria. Ecco un campo di battaglia. Egli vede con molta chiarezza
i fenomeni che ti presenta, ma è la chiarezza di un naturalista, scompagnata
da ogni movimento d'immaginazione; ci è l'immagine, manca il fantasma,
que' sottintesi e que' chiaroscuri, che ti danno il sentimento e la
musica delle cose:
Dopo il crudele e dispietato assalto
orribile per suoni e per fedite,
li fatto prima sopra il rosso smalto,
si dileguaron le polveri trite;
non tutte, ma tal parte, che da alto
ed ancora da basso eran sentite
parimente e vedute di costoro
le opere e 'l marziale aspro lavoro.
È un'ottava prosaica, dove un fenomeno comunissimo
è sminuzzato con la precisione e distinzione di un anatomico, non di
un poeta. Il Tasso tutto condensa in un verso solo, che ti presenta
in unica immagine il campo di battaglia:
la polve ingombra ciò ch'al sangue avanza.
La stessa prosaica maniera trovi nell'ottava seguente:
Il sangue quivi de' corpi versato,
e de' cavalli ancor similemente,
aveva tutto quel campo innaffiato,
onde attutata s'era veramente
e la polvere e 'l fumo: imbragacciato
di sangue era ciascun destrier corrente,
o qualunque uomo vi fosse caduto,
benchè a caval poi fosse rivenuto.
Qui il sangue è talmente analizzato negli oggetti e
congiunto con particolari così vuoti e insignificanti, che se ne perde
l'impressione. Alla grande maniera, sobria, rapida, densa, di Dante,
del Petrarca, succede il prolisso, il diluito e il volgare. Chi ricorda
descrizioni simili nell'Ariosto e nel Tasso, vi troverà le stesse cose,
ma vive e mobili, piene di sentimento e di significato. Nel canto duodecimo
descrive la bellezza di Emilia da' capelli fino alle anche, anzi fino
a' piedi, e non si contenta di passare a rassegna tutte le parti del
corpo, chè di ciascuna fa minuta descrizione, e non solo nel quale,
ma nel quanto, sì che pare un geometra misuratore. Delle ciglia dice:
... più che altra cosa
nerissime e sottil, nelle qua' lata
bianchezza si vedea lor dividendo,
nè il debito passavan se' estendendo..
Ecco un'ottava similmente prosaica su' capelli:
Dico che li suoi crini parean d'oro,
non per treccia ristretti, ma soluti
e pettinati sì che infra loro
non n'era un torto, e cadean sostenuti
sopra li candidi omeri, nè fòro
prima nè poi sì be' giammai veduti:
nè altro sopra quelli ella portava
ch'una corona che assai si stimava.
Ottave e versi soffrono malattia di languore: così
procede il suono fiacco e sordo.
La Teseide è indirizzata a Fiammetta, e copertamente e
sotto nomi greci espone una vera storia d'amore. Ma la gravità del soggetto,
e le intenzioni letterarie soperchiarono l'autore e lo tirarono in un
mondo epico, pel quale non era nato. Meglio riuscì nel Filostrato,
dove lo scheletro greco e troiano esattamente riprodotto nella sua superficie
è penetrato di una vita tutta moderna. L'allusione non è in questo o
quel fatto, come nella Teseide, ma è nello spirito stesso del
racconto. I languori di Troilo, gli artifici di Pandaro, che è il mezzano,
le resistenze sempre più deboli di Griseida, le gradazioni voluttuose
di un amore fortunato, le arti e le lusinghe di Diomede presso Griseida,
la sua vittoria e le disperazioni di Troilo, questo non è epico e non
è cavalleresco, se non solo ne' nomi de' personaggi: è una pagina tolta
alla storia secreta della corte napoletana, è il ritratto della vita
borghese, collocata di mezzo fra la rozza ingenuità popolana e l'ideale
vita feudale o cavalleresca. Qui per la prima volta l'amore, squarciato
il velo platonico, si manifesta nella sua realtà ed autonomia, separato
da' suoi antichi compagni, l'onore e il sentimento religioso; e non
è già amore popolano, ma borghese, cioè a dire raffinato, pieno di tenerezze
e di languori, educato dalla coltura e dall'arte. Mancati tutti gli
alti sentimenti della vita pubblica e religiosa, non rimane altra poesia
che della vita privata. La quale è vil prosa, quando il fine del vivere
non è che il guadagno, ed è nobilitata dall'amore. Vivere tra' godimenti
di amore, con l'animo lontano da ogni cupidigia di onori e di ricchezze,
questo è l'ideale della vita privata, nella quale la parte seria e prosaica
è rappresentata dal mercante. È un ideale che il Boccaccio trova nella
sua propria vita, quando volse le spalle alla mercatura e si diè a'
piacevoli studi e all'amore. Descritti in morbidissime ottave i voluttuosi
ardori di Troilo e Griseida, il poeta, calda ancora l'immaginazione,
così prorompe:
Deh! Pensin qui gli dolorosi avari,
che biasiman chi è innamorato,
e chi, come fan essi, a far denari
in alcun modo non si è tutto dato,
e guardin se, tenendoli ben cari
tanto piacer fu mai a lor prestato,
quanto ne presta amore in un sol punto
a cui egli è con ventura congiunto.
Ei diranno di sì, ma mentiranno;
e questo amor «dolorosa pazzia»
con risa e con ischerni chiameranno;
senza veder che sola un'ora fia
quella che sè e' danari perderanno,
senza aver gioia saputo che sia
nella lor vita: Iddio gli faccia tristi,
ed agli amanti doni i loro acquisti.
Ottave sconnesse e saltellanti, assai inferiori alle
bellissime che precedono; il poeta sa meglio descrivere che ragionare:
pure ci senti per entro un po' di calore, e la conclusione è felicissima:
è un moto subito e vivace di immaginazione, come di rado gl'incontra.
Sotto aspetto epico questo racconto è una vera novella con tutte le
situazioni divenute il luogo comune delle storie d'amore, i primi ardenti
desiri, l'intramessa di un amico pietoso e le ritrosie della donna,
le raffinate voluttà del godimento, la separazione degli amanti, le
promesse e i giuramenti e gli svenimenti della donna, la sua fragilità
e i lamenti e i furori del tradito amante. Sotto vernice antica spunta
il mondo interiore del Boccaccio, una mollezza sensuale dell'immaginazione
congiunta con una disposizione al comico e al satirico. L'infedeltà
di Griseida lo fa uscire in questo ritratto della donna:
Giovine donna è mobile, e vogliosa
è negli amanti molti, e sua bellezza
estima più ch'allo specchio, e pomposa
ha vanagloria di sua giovinezza;
la qual quanto piacevole e vezzosa
è più, cotanto più seco l'apprezza:
virtù non sente, nè conoscimento,
volubil sempre come foglia al vento.
A Beatrice e Laura succede Griseida; all'amore platonico
l'amore sensuale; al volo dell'anima verso la sua patria, il cielo,
succede il tripudio del corpo. La reazione è compiuta. A Dante succede
il Boccaccio.
La contraddizione prende quasi aria di parodia inconscia nell'Amorosa
visione. La Commedia è imitata nel suo disegno e nel suo
meccanismo. Anche il Boccaccio ha la sua visione. Anch'egli incontra
la bella donna, che dee guidarlo all'altura, che è «principio e cagion
di tutta gioia», via a salute e pace. Ma dove nella Commedia
si va di carne a spirito, sino al sommo Bene, in cui l'umano è compiutamente
divinizzato o spiritualizzato, dove nella Commedia il sommo Bene
è scienza e contemplazione: qui il fine della vita è l'umano e la scienza
è il principio, e l'ultimo termine è l'amore, e la fine del sogno è
in questi versi:
Tutto stordito mi riscossi allora,
e strinsi a me le braccia, e mi credea
infra esse madonna averci ancora.
Il paradiso del Boccaccio è un tempio dell'umanità,
un nobile castello, che ricorda il Limbo dantesco, ricco di sale splendide
e storiate, come sono le pareti del purgatorio. Ed è tutta la storia
umana, che ti viene innanzi in quelle pitture. Dante invoca le muse,
l'alto ingegno; il Boccaccio invoca Venere:
O somma e graziosa intelligenza
che movi il terzo cielo, o santa dea,
metti nel petto mio la tua potenza.
Una scala assai stretta mena al castello, e sulla piccola
porta è questa scritta:
... ... questa piccola porta mena a via di vita,
posta che paia nel salir molesta:
riposo eterno dà cotal salita.
Dunque salite su senza esser lenti:
l'animo vinca la carne impigrita.
Eccoci nella prima sala. E vi son pinte le sette scienze,
e via via schiere di filosofi e poi di poeti, a quel modo che fa Dante
nel limbo. Tutto il canto quinto è consacrato a Virgilio e a Dante,
del quale dice:
Costui è Dante Alighieri fiorentino,
il qual con eccellente stil vi scrisse
il sommo ben, le pene e la gran morte:
gloria fu delle muse mentre visse,
ne qui rifiutan d'esser sue consorte.
Dalla sala delle Muse si passa nella sala della Gloria.
E ti sfilano innanzi moltitudine di uomini venuti in fama, quasi un
quadro della storia del mondo. Da Saturno e Giove scendi all'età de'
giganti e degli eroi; poi giungi agli uomini e alle donne illustri di
Grecia e di Roma, in ultimo viene la cavalleria ne' suoi due circoli
di Arturo e Carlomagno, sino all'ultimo cavaliere, Federico secondo,
e l'occhio si stende a Carlo di Puglia, Corradino, Ruggieri di Loria
e Manfredi. Il poeta dà libero corso alla sua vasta erudizione, intento
più a raccogliere esempli che a lumeggiarli: sicchè nessuno de' suoi
personaggi è giunto a noi così vivo, come è l'Omero e l'Aristotile del
limbo dantesco, o l'Omero del Petrarca.
Siamo infine nella sala di Amore e Venere. E come innanzi la storia,
qui vien fuori la mitologia, e senti le prodezze amorose di Giove, Marte,
Bacco e Pluto ed Ercole. Poi vengono gli amori di Giasone, Teseo, Orfeo,
Achille, Paride, Enea, Lancillotto.
Scienza, gloria, amore, ecco la vita quando non vi s'intrometta la Fortuna
e colpisca Cesare o Pompeo nel sommo della felicità. Percorsi i circoli
della vita, comincia il tripudio, o la beatitudine; e non sono già le
danze delle luci sante nel trionfo di Cristo o degli angeli, ma le voluttuose
danze di un paradiso maomettano, o le danze delle ninfe napolitane a
Baia. Il poeta s'innamora, e mentre in sogno si tuffa negli amorosi
diletti e tiene fra le braccia la donna, si sveglia, e la sua guida
gli dice:
Ciò che porse
il tuo dormire alla tua fantasia
tutto averai.
E mentre la visione si dilegua, ella lo raccomanda
al «sir di tutta pace», all'Amore.
Con le stesse forme e con lo stesso disegno di Dante il Boccaccio riesce
a un concetto della vita affatto opposto, alla glorificazione della
carne, nella quale è il riposo e la pace. La «Divina Commedia»
qui è cavata fuori del soprannaturale, in cui Dante aveva inviluppata
l'umanità e se stesso e il suo tempo, ed è umanizzata, trasformata in
un real castello, sede della coltura e dell'amore. Se non che il Boccaccio
non vide che quelle forme contemplative e allegoriche, naturale involucro
di un mondo mistico e soprannaturale, mal si attagliavano a quella vita
tutta attiva e terrena, ed erano disformi al suo genio, superficiale
ed esterno, privo di ogni profondità ed idealità: perciò riesce monotono,
prolisso e volgare. Oggi, a tanta distanza, c'è difficile a concepire
come non abbia trovato subito il suo genere, che è la rappresentazione
della vita nel suo immediato, sciolta da ogni involucro non solo teologico
e scolastico, ma anche mitologico e cavalleresco. Ma lento è il processo
dell'umanità anche nell'individuo, che passa per molte prove e tentennamenti
prima di trovare se stesso. Il Boccaccio, amico delle muse, stima co'
suoi contemporanei che «le cose volgari non possono fare un uomo letterato»
e che si richiedono «più alti studi». E gli alti studi sono il latino
e il greco, la conoscenza dell'antichità. Il suo maggior titolo di gloria
era l'ampia erudizione, che lo rendeva superiore a Dante ed anche al
suo «Silvano», il Petrarca. Trova innanzi a sè forme consacrate e ammirate,
le forme epiche di Virgilio e Stazio, le forme liriche di Dante e di
Silvano, e in quelle forme vuol realizzare un mondo prosaico che gli
si moveva dentro. Nei suoi primi lavori salta fuori tutto il suo mondo
greco-romano, mitologico e storico, con grande ammirazione de' contemporanei.
Gli amori di Troilo e Griseida, d'Arcita e Palemone passarono le Alpi
e fecondarono l'immaginazione di Chaucer; i quadri storici e mitologici
della sua Visione ispirarono molti Saggi e molti Tempi
dell'umanità. Chi legge i Reali di Francia e tante scarne traduzioni
di romanzi francesi allora in voga, può concepire che gran miracolo
dovè parere la Teseide, il Filostrato e il Filocolo.
Anche nelle sue Rime si vede l'uomo nuovo alle prese con forme
vecchie. Vi trovi il solito repertorio, l'innamoramento, i sospiri,
i desiri, i pentimenti, il volgersi a Dio e alla Madonna, ma la bella
unità lirica del mondo di Dante e del Petrarca è rotta, ed ogni idealità
è scomparsa. Dietro alle stesse forme è un diverso contenuto che mal
vi si adagia. La donna in nome è ancora un'angioletta, ma che angiolo!
Ella sta non raccolta e modesta nella sua ingenuità infantile, come
Bice; o nella sua casta dignità, come Laura; ma
all'ombra di mille arbori fronzuti,
in abito leggiadro e gentilesco
tende lacci
con gli occhi vaghi e col cianciar donnesco.
Hai la donna vezzosa e civettuola della vita comune,
ed un amante distratto, che ora esala sospiri profani in forme platoniche
e tradizionali, ora pianta lì la sua angioletta, e si sfoga contro i
suoi avversari, e ragiona della morte e della fortuna, o inveisce contro
le donne:
Elle donne non son, ma doglia altrui,
senza pietà, senza fè, senz'amore,
liete del mal di chi più lor credette.
Perchè meglio si comprenda questa disarmonia tra forme
convenzionali e un contenuto nuovo, guardiamo questo sonetto:
Sulla poppa sedea d'una barchetta,
che 'l mar segando presta era tirata,
la donna mia con altre accompagnata,
cantando or una, or altra canzonetta.
Or questo lito ed or quell'isoletta,
ed ora questa ed or quella brigata
di donne visitando, era mirata
qual discesa dal ciel nuova angioletta.
Io che seguendo lei vedeva farsi
da tutte parti incontro a rimirarla
gente, vedea come miracol novo:
ogni spirito mio in me destarsi
sentiva, e con Amor di commendarla
vago non vedea mai il ben ch'io provo.
Il sonetto comincia bene, in forma disinvolta e fresca,
ancorachè per la parte tecnica un po' trascurata. In quelle giovanette,
che cantano a mare e vanno a visitare le amiche e sono ammirate dalla
gente, vedi una scena tutta napolitana, e ti corre innanzi Baia, sede
di secrete delizie che destano le furie gelose del poeta. Ma questa
bella scena alla fine si guasta, col solito «spirito» e col solito «Amore
vago di commendare», e riesce in una freddura. Chi vuol vedere un sonetto
affatto moderno, dove l'autore si è sciolto da ogni involucro artificiale,
e ti coglie in atto la vita di Baia con le sue soavità e le sue licenze,
senta questo:
Intorno ad una fonte, in un pratello
di verdi erbette pieno e di bei fiori,
sedeano tre angiolette, i loro amori
forse narrando; ed a ciascuna il bello
viso adombrava un verde ramoscello
che i capei d'or cingea, al qual di fuori
e dentro insieme due vaghi colori
avvolgeva un soave venticello.
E dopo alquanto l'una alle due disse
com'io udii: - Deh! Se per avventura
di ciascuna l'amante or qui venisse,
fuggiremo noi quinci per paura? -
- A cui le due risposer: - Chi fuggisse,
poco savia saria con tal ventura. -
Qui senti il Boccaccio in quella sua mescolanza di
sensuale e malizioso. Gli scherzi del venticello sono abbozzati con
l'anima di un satiro che divora con gli occhi la preda, e la chiusa
cinica così inaspettata ti toglie a ogni idealità e ti gitta nel comico.
Qui il Boccaccio trova se stesso. Fu chiamato «Giovanni della tranquillità»
per quella sua spensierata giovialità, che lo tenea lontano da ogni
esagerazione delle passioni, e tiravalo nel godimento e nel gusto della
vita reale. E quantunque si doglia dell'epiteto come d'una ingiuria
e lo rifiuti sdegnosamente, pure è là il suo genio e la sua gloria,
e non dove sfoggia in forme rettoriche sentimento ed erudizione. Fu
chiamato anche «uomo di vetro», per una cotal sua mobilità d'impressioni
e di risoluzioni, di cui sono esempio le Rime, dove invano cerchi
l'unità organica del Canzoniere, e un disegno qualunque, avvolto
il poeta dalle onde delle impressioni e della vita reale e de' suoi
studi e reminiscenze classiche. Pure tra molte volgarità trovi un elevato
sentimento dell'arte, o, come egli dice, «l'amor delle muse, che lo
trae d'inferno», come chiama la terra deserta dalle muse. «Vidi», egli
canta,
... una ninfa uscire
d 'un lieto bosco, e verso me venire
co' crin ristretti da verde corona.
A me venuta disse: - Io son colei,
che fo di chi mi segue il nome eterno,
e qui venuta sono ad amar presta;
lieva su, vieni. - Ed io già di costei
acceso, mi levai; ond'io d'inferno
uscendo, entrai nell'amorosa festa.
Da questo elevato sentimento dell'arte è uscito il
sonetto sopra Dante, scritto con una gravità e vigore di stile così
insueto, che farebbe quasi dubitare sia cosa sua:
Dante Alighieri son, Minerva oscura
d'intelligenza e d'arte, nel cui ingegno
l'eleganza materna aggiunse al segno,
che si tien gran miracol di natura.
L'alta mia fantasia pronta e sicura
passò il tartareo e poi il celeste regno,
e il nobil mio volume feci degno
di temporale e spirital lettura.
Fiorenza gloriosa ebbi per madre,
anzi matrigna a me pietoso figlio,
colpa di lingue scellerate e ladre.
Ravenna fummi albergo del mio esiglio;
ed ella ha il corpo, e l'alma il sommo Padre,
presso cui invidia non vince consiglio.
La stessa disparità tra le forme e il contenuto troviamo
nella Fiammetta e nel Corbaccio o Laberinto d'amore.
Sono due generi nuovi e pel contenuto affatto moderni. La Fiammetta
e un romanzo intimo e psicologico, dove una giovane amata e abbandonata
narra ella medesima la sua storia, rivelando con la più fina analisi
le sue impressioni. Il Corbaccio è la satira del sesso femminile
fatta dal vendicativo scrittore, canzonato da una donna. La scelta di
questi argomenti è felicissima. L'autore volge le spalle al medio evo
e inizia la letteratura moderna. Di un mondo mistico-teologico-scolastico
non è più alcun vestigio. Oramai tocchiamo terra: siamo in cospetto
dell'uomo e della natura. Abbiamo una pagina di storia intima dell'anima
umana, colta in una forma seria e diretta nella Fiammetta, in
una forma negativa e satirica nel Corbaccio. La letteratura non
è più trascendente, ma immanente, cioè a dire vede l'uomo e la natura
in se stessa, e non in forme estrinseche e separate, mitologiche e allegoriche.
Ma il Boccaccio non sa trovare le forme convenienti a questo contenuto.
Per rappresentarlo nella sua verità non aveva che a mettersi in immediata
comunione con quello ed esprimere le sue impressioni così naturali e
fresche come gli venivano. Ma s'accosta a questo mondo con l'animo preoccupato
dall'erudizione, dalla storia, dalla mitologia e dalla rettorica, e
lo vede, lo dipinge a traverso di queste forme. L'impressione giungendo
nel suo spirito vi è immediatamente falsificata, nè si riconosce più
dietro a quel denso involucro, che se non è teologico-scolastico, è
pur qualche cosa di più strano, è mitologico-rettorico. Nasce una nuova
trascendenza, la cui radice non è nel naturale sviluppo del pensiero
religioso e filosofico, come l'antica, ma nell'avviamento classico preso
dalla coltura. Fiammetta abbandonata da Panfilo, prima di fare
i suoi lamenti, vuol vedere come in Virgilio si lamenta Didone abbandonata,
pensando che a lei non è lecito di lamentarsi in altra guisa. E se vuol
consolarsi, cercando compagni al suo dolore, ti fa un trattato di storia
antica, narrando tutti i casi infelici di amore degli antichi iddii
ed eroi. E se sogna, cerca in Ovidio la spiegazione de' sogni. Vuol
dire che sente vergogna di palesare i suoi godimenti amorosi? E ti definisce
la vergogna e ragiona lungamente de' suoi effetti sulle donne. Vuol
esprimere gioia, speranza, timore, dolore, ira, gelosia? E analizza
ciascuno di questi sentimenti, facendo tesoro di tutti i luoghi topici
registrati da Aristotile. Bisogna vedere con che diligenza il Sansovino
nota tutti i luoghi etici e patetici, e le imitazioni e le erudizioni
della Fiammetta, a guida de' maestri e degli scolari. Dante,
Minerva oscura, potè spesso tra le nebbie delle sue allegorie attingere
il mondo reale, perchè era artista, e se è scolastico, non è mai rettorico:
il Boccaccio non può distrigarsi da quel mondo artificiale e coglier
la natura, perchè gli manca ogni serietà di vita interiore nel pensiero
e nel sentimento, e vi supplisce con le esagerazioni e le amplificazioni.
Che dirò delle sue descrizioni così minute, come le sue analisi, e tutte
di seconda mano, non ispirate dall'impressione immediata della natura?
Veggasi il suo inverno e la primavera e l'autunno, e tutte le sue descrizioni
della bellezza virile e femminile, fatte con la squadra e col compasso.
Così gli è venuto scritto un romanzo prolisso, noioso, in guisa che,
a sentir quegli eterni lamenti della Fiammetta che aspetta Panfilo,
siamo tentati di dire: - Panfilo, torna presto! Che non la sentiamo
più. -
Più conforme al suo genio è il Corbaccio, satira delle donne.
Ma come il burlato è lui, le risa sono a sue spese, specialmente quando
si lamenta che una donna abbia potuto farla a lui, che pure è un letterato.
Vi mostra egli così poco spirito come nella lettera a Nicolò Acciaioli,
che il Petrarca grecizzando chiamava Simonide, dove leva le alte strida
perchè, invitato alla corte di Napoli, gli sia toccata quella cameraccia
e quel lettaccio, ed esce in vitupèri, in minacce, in pettegolezzi,
resi ancora più ridicoli da quella forma ciceroniana. Come qui minaccia
e vitupera e inveisce alla latina, così nel Corbaccio satireggia
con la storia, co' luoghi comuni degli antichi poeti, narrando fatti
o allegorie e ammassando noiosi ragionamenti. L'ordito è semplicissimo.
Il Boccaccio, beffato da una donna, si vuole uccidere, ma il timore
dell'inferno ne lo tiene, e pensa più saviamente a vivere e a vendicarsi,
non col ferro, ma, come i letterati fanno, con «concordare di rime»
o «distender di prose». Fra questi pensieri si addormenta e si trova
in sogno nel «laberinto d'amore», o valle incantata, una specie di selva
dantesca, dove gli appare un'ombra, ed è il marito della donna, che
nel purgatorio espia la troppa pazienza avuta con lei. Costui gli espone
tutte le cattive qualità delle donne, a cominciare dalla sua. E quando
si è bene sfogato, lo conduce sopra di un monte altissimo, onde vede
il laberinto metter capo nell'inferno. Questa vista guarisce il Boccaccio
del mal concetto amore. Come si vede, la satira non è rappresentazione
artistica, ma esposizione, in forma di un trattato di morale, de' vizi
femminili. Nondimeno trovi qua e là di bei motti, e novellette graziose
e descrizioni vivaci dei costumi delle donne, con l'uso felicissimo
del dialetto fiorentino, com'è la donna in chiesa, che «incomincia una
dolente filza di paternostri, dall'una mano nell'altra e dall'altra
nell'una trasmutandogli senza mai dirne niuno», o la donna che con le
sue gelosie non dà tregua al marito, e «di ciarlare mai non resta, mai
non molla, mai non fina: dàlle, dàlle, dàlle, dalla mattina infino alla
sera, e la notte ancora non sa restare». Nelle sue gelose querele si
rivela il vero genio del Boccaccio, una forza comica accompagnata con
rara felicità di espressione, attinta in un dialetto così vivace e già
maturo, pieno di scorciatoie, di frizzi, di motti, di grazie. Citiamo
alcuni brani:
«Credi tu ch'i' sia abbagliata, e ch'i' non sappia
a cui tu vai dietro? A cui tu vogli bene? E con cui tutto il dì favelli?
Misera me, che è cotanto tempo ch'io ci venni, e pur una volta ancora
non mi dicesti - Amor mio, ben sia venuta. - Ma alla croce di Dio, io
farò di quelle a te che tu fai a me. Or son io così sparuta? Non son
io così bella, come la cotale? Ma sai che ti dico? Chi due bocche bacia,
l'una convien che gli puta. Fàtti costà, se Iddio m'aiuti, tu non mi
toccherai: va' dietro a quelle di cui tu se' degno, chè certo tu non
eri degno d'aver me, e fai bene ritratto di quello che tu sei, ma a
fare a far sia.
Questa è lingua già degna di Plauto, e il Corbaccio
è sparso di cotali scene, degne di colui che aveva già scritto il Decamerone.
Fra' tanti peccati che il marito tradito e l'amante burlato attribuiscono
alla donna c'è pur questo, che «le sue orazioni e i suoi paternostri
sono i romanzi franceschi», e «tutta si stritola quando legge Lancillotto
o Tristano nelle camere segretamente». E anche «legge la canzone
dello indovinello, e quella di Florio e di Biancefiore, e simili altre
cose assai». Sono preziose rivelazioni sulla letteratura profana e proibita,
allora in voga. Ma se peccato c'è, il maggior peccatore era il Boccaccio
per l'appunto, che per piacere alle donne scrivea romanzi. Pure è lecito
credere ch'elle leggevano con più gusto la nuda storia francesca di
Florio e Biancefiore, che l'imitazione letteraria fatta dal Boccaccio,
detta Filocolo, dove Biancefiore (Blanchefleur) è chiamata all'italiana
«Biancofiore». Alle donne caleva poco di mitologia e storia antica,
e se tanta erudizione e artificio rettorico potea parere cosa mirabile
al suo maestro di greco, Pilato, e a' latinisti e grecisti che erano
allora i letterati, le donne, che cercavano ne' libri il piacer loro,
facevano de' suoi scritti poca stima, e, «ciò che peggio era, per lui,
Aristotile, Tullio, Virgilio e Tito Livio e molti altri illustri uomini
creduti suoi amici e domestici, come fango scalpitavano e schernivano».
In verità, le donne col loro senso naturale erano migliori giudici in
letteratura che Leonzio Pilato e tutti i dotti.
Continua
>>>>>
|