Scienza della legislazione:
E Filangieri con entusiasmo meridionale così conchiude
il libro secondo della sua Scienza della legislazione:
«Il filosofo dee essere l'apostolo della verità e non
l'inventore de' sistemi. Il dire che «tutto si è detto» è il linguaggio
di coloro che non sanno cosa alcuna produrre, o che non hanno il coraggio
di farlo. Finchè i mali che opprimono l'umanità non saranno guariti;
finchè gli errori e i pregiudizi che li perpetuano troveranno de' partigiani;
finchè la verità conosciuta da pochi uomini privilegiati sarà nascosta
alla maggior parte del genere umano; finchè apparirà lontana da' troni;
il dovere del filosofo è di predicarla, di sostenerla, di promuoverla,
d'illustrarla. Se i lumi ch'egli sparge non sono utili pel suo secolo
e per la sua patria, lo saranno sicuramente per un altro paese. Cittadino
di tutti i luoghi, contemporaneo di tutte le età, l'universo è la sua
patria, la terra è la sua scuola, i suoi contemporanei e i suoi posteri
sono i suoi discepoli.»
La filosofia è già oltrepassata. Non la si dimostra
più, è un antecedente generalmente ammesso. Lo scopo non è fare una
filosofia, inventare un sistema. Lo scopo è un apostolato, propagare
e illustrare la filosofia, cioè la verità conosciuta da pochi uomini
privilegiati. È la verità annunziata con tuono di oracolo, col calore
della fede, come facevano gli apostoli. È una nuova religione. Ritorna
Dio tra gli uomini. Si rifà la coscienza. Rinasce l'uomo interiore.
E rinasce la letteratura. La nuova scienza già non è più scienza: è
letteratura.
XX - LA NUOVA LETTERATURA
L' uomo che rappresenta lo stato di transizione tra
la vecchia e la nuova letteratura è Metastasio. L'antica letteratura,
non essendo oramai più che forma cantabile e musicabile, ha come ultima
espressione il dramma in musica, dove non è più fine, ma mezzo: è melodia,
e serve alla musica. Ma non vi si rassegna, e vuol conservare la sua
importanza, rimanere letteratura. Quest'ultima forma della vecchia letteratura
è Metastasio.
La sua vita si stende dal 1698 al 1782. Vincenzo Gravina che l'educò,
a quel modo che richiamava lo studio delle leggi alle fonti romane illustrandole,
e tentando una prima filosofia del dritto, voleva ritirare l'arte alla
greca semplicità, purgandola della corruzione seicentistica, e scrisse
tragedie a modo di Sofocle, e tentò una teoria dell'arte che chiamò
Ragion poetica. Il buon uomo vedea il male, ma non le sue cause
e non i suoi rimedi. La semplicità è la forma della vera grandezza,
di una grandezza inconscia e divenuta natura. Niente era più contrario
al secolo, manierato e pretensioso al di fuori, vacuo al di dentro.
Per combattere il manierismo, Gravina soppresse il colorito e vi supplì
con la copia delle sentenze morali e filosofiche. L'intenzione era buona;
parea volesse dire: - Cose e non parole -. Nè altra è la tendenza della
sua Ragion poetica, dove il vero è rappresentato come sostanza
dell'arte, e il vero ignudo, non «condito in molli versi». Così, volendo
esser semplice, riuscì arido. La teoria non era nuova, anzi era la vecchia
teoria di Dante ringiovanita dal Tasso; ma parve nuova in un tempo che
lo sforzo dell'ingegno era tutto intorno alla frase. Metastasio fu educato
secondo queste idee. Il severo pedagogo gli proibì la lettura del Tasso
e de' poeti posteriori, lo ammaestrò di buon'ora nel greco e nel latino,
e lo volse allo studio delle leggi, vagheggiando se stesso redivivo
in un Metastasio giureconsulto e letterato. Ma il giovine era poeta
nato. E morto il Gravina, si gettò avidamente sul frutto proibito, e
la Gerusalemme Liberata, l'Aminta, il Pastorfido,
soprattutto l'Adone, furono il suo cibo. Quella prima educazione
classica non gli fu inutile, perchè lo avvezzò alla naturalezza e alla
semplicità, e lo nutrì di buoni esempi e di solida dottrina. Ma, lasciato
a sè medesimo, si sviluppò in lui, come in tutti quelli che hanno ingegno,
il senso della vita contemporanea. Il maestro volea farne un tragico
a uso greco, o piuttosto a uso suo. Ma la tragedia non era la sua vocazione,
e l'autore del Giustino preferì Ovidio a Sofocle, e, come era moda,
fece la sua comparsa trionfale in Arcadia con sonetti, canzonette, idilli,
i cui eroi d'obbligo erano Cloe, Nice, Fille, Tirsi, Irene e Titiro.
Il Sogno della gloria è l'ultimo lavoro a uso Gravina, ammassato
di sentenze che sono luoghi comuni, e pieno di reminiscenze classiche
e dantesche. Il Ritorno della primavera, scritto l'anno appresso,
1719, ti mostra già i vestigi dell'Aminta e dell'Adone,
facilmente impressi in quell'anima ricca di armonie e d'immagini. L'ideale
del tempo era l'idillio, il riposo e l'innocenza della vita campestre,
in antitesi alla vita sociale, così come l'avevano sviluppato il Tasso,
il Guarini e il Marino. L'idillio era un certo equilibrio interiore,
uno stato di pace e di soddisfazione a cui il dolore serviva come di
salsa. L'Arcadia, volendo riformare il gusto, avea tolto all'idillio
quella tensione intellettuale che si chiamava il «seicentismo», sì che
la forma era rimasta una pura effusione musicale dell'anima beatamente
oziosa, cullata da molli cadenze tra l'elegiaco e il voluttuoso: ciò
che dicevasi «melodia». La musica penetrava già in questa forma così
apparecchiata a riceverla, e la canzone diveniva la canzonetta la cantata
e l'arietta, e il dramma pastorale diveniva il dramma in musica. Le
canzonette del Rolli erano in molta voga, ma già si disputava quale
ne facesse di migliori, o il Metastasio o il Rolli. Sciupata l'eredità
del Gravina, il nostro Metastasio, visto che l'Arcadia non gli dava
pane, ricordò i consigli del maestro, e andò a Napoli col proposito
di far l'avvocato. Ma Napoli era già il paese della musica e del canto.
E le sue arringhe furono cantate ed epitalami. In occasione di nozze
prima si scrivevano sonetti e canzoni: allora erano in voga epitalami,
cantate e feste teatrali. Il Metastasio fu poeta di nozze, e restano
di lui tre epitalami, storie mitologiche e idilliche, dove è visibile
l'imitazione del Tasso e del Marino. Canta le nozze di Antonio Pignatelli
e Anna de' Sangro, evocando gli amori di Venere e Marte, a' quali intreccia
gli amori degli sposi, e naturalmente Anna è Venere, e Antonio è Marte.
Vi trovi il monte dell'Amore, che ricorda il giardino di Armida, e tutto
il vecchio repertorio mitologico, immagini e concetti. Ecco come descrive
Anna:
Se in giro in liete danze il passo mena,
se tace o ride, o se favella o canta,
porta in ogni suo moto Amore accolto,
Pallade in seno e Citerea nel volto.
Vicino al lato suo siedono al paro
con la dolce consorte il genitore,
coppia gentil d'illustre sangue e chiaro,
vivi esempli di senno e di valore:
alme che prima in ciel si vagheggiaro,
e poi quaggiù le ricongiunse Amore:
e dier tal frutto, che non vede il sole
più nobil pianta e più leggiadra prole.
Sono ottave mediocrissime e poco limate, ma dove già
trovi facilità di verso e di rima e molta chiarezza. Un'ottava, dove
descrive Anna che canta, rivela nell'evidenza e nel brio del colorito
una certa genialità:
La voce pria nel molle petto accolta,
con maestra ragion spigne o sospende;
ora in rapide fughe e in groppi avvolta,
velocissimamente in alto ascende;
ora in placido corso e più disciolta,
soavissimamente in giù discende;
i momenti misura, annoda e parte,
e talor sembra fallo, ed è tutt'arte.
Qui lascia le solite generalità, entra nel vivo de'
particolari, e vi mostra la forza di chi sa già tutto dire e nel modo
più felice. Gli epitalami non sono in fondo che idilli, col solito macchinismo,
Amore, Venere, Marte, Diana, Minerva, Vulcano. Nè altro sono le prime
sue azioni teatrali, rappresentate in Napoli, come la Galatea,
l'Endimione, gli Orti Esperidi, l'Angelica. Diamo
un'occhiata all'Angelica. Di rincontro a' protagonisti, Angelica e Orlando,
stanno Licori e Tirsi. C'è il solito antagonismo tra la città e la campagna,
la scaltrezza di Angelica e l'ingenuità di Licori: onde nasce un intrighetto
che riesce nel più schietto comico. Le furie di Orlando non possono
turbare la pace idillica diffusa su tutto il quadro, e lo stesso Orlando
finisce idillicamente:
Torna, torna ad amarmi e ti perdono.
Aurette leggiere
che intorno volate,
tacete, fermate,
chè torna il mio ben.
Angelica lascia per sempre quegli ameni soggiorni con
quest'arietta:
Io dico all'antro - Addio! -
ma quello al pianto mio
sento che, mormorando:
- Addio! - risponde.
Sospiro, e i miei sospiri
ne' replicati giri
Zeffiro rende a me
da quelle fronde.
La canzonetta di Licori, penetrata di una malinconia
dolce e molle, è già canto e musica, una pura esalazione melodica, una
espressione sentimentale rigirata in se stessa, come un ritornello:
Ombre amene,
amiche piante,
il mio bene,
il caro amante
chi mi dice ove ne andò?
Zeffiretto lusinghiero
a lui vola messaggiero.
di' che torni e che mi renda
quella pace che non ho.
Concetti e immagini oramai comunissime, senza più alcun
valore letterario, e rimaste interessanti solo come combinazioni melodiche.
L'effetto non è nelle idee, ma in quel canto di due amanti a una certa
lontananza e nascosti tra le fronde; perchè, mentre Licori cerca Tirsi,
Tirsi cerca Licori con la stessa melodia:
La mia bella
pastorella,
chi mi dice ove ne andò?
È notabile che in questa cheta atmosfera idillica penetra
una cert'aria di buffo, un certo movimento vivace e allegro, come è
la dichiarazione amorosa di Licori a Orlando, ascoltatore non visto
Tirsi.
La Bulgarelli, celebre cantante, che negli Orti Esperidi rappresentava
la parte di Venere, prese interesse al giovane autore, e lo addestrò
in tutt'i misteri del teatro. Il maestro Porpora gl'insegnò la musica.
Questa fu la seconda educazione di Metastasio, corrispondente alla sua
vocazione. Roma ne avea fatto un arcade. Napoli ne fece un poeta. La
Didone abbandonata, scritta sotto l'ispirazione e la guida della
Bulgarelli, fissò l'opinione, e Metastasio prese posto d'un tratto accanto
ad Apostolo Zeno, che tenea il primato, poeta cesareo alla corte di
Vienna. Più tardi, a proposta dello stesso Zeno, occupò egli quell'ufficio,
e menò a Vienna vita pacifica e agiata, universalmente stimato, e tenuto
senza contrasto principe della poesia melodrammatica. La sua vita fu
un idillio, e se questo è felicità, visse felicissimo sino alla tarda
età di ottantaquattro anni. Vivo ancora, fu divinizzato. Lo chiamarono
il «divino Metastasio».
Se guardiamo al meccanismo, il suo dramma è congegnato a quel modo che
avea già mostrato Apostolo Zeno. Ma il meccanismo non è che la semplice
ossatura. Metastasio spirò in quello scheletro le grazie e le veneri
di una vita lieta e armoniosa. E fu il poeta del melodramma, di cui
lo Zeno era stato l'architetto.
La sua idea fissa fu di costruire il melodramma come una tragedia, tale
cioè che anche senz'accompagnamento musicale avesse il suo effetto.
E la sua ambizione fu di lasciare le basse regioni dell'idillio e del
buffo, e tentare i più alti e nobili argomenti del «genere tragico»,
come se la nobiltà fosse nell'argomento. Questo si vede già nella Didone
e nel Catone in Utica. Più tardi volle gareggiare co' grandi
poeti francesi, e il Cinna di Corneille ebbe il suo riscontro
nella Clemenza di Tito, e l'Atalia di Racine nel Gioas.
Su questa via porse il fianco alla critica, e sorsero dispute se e fino
a qual punto i suoi drammi fossero tragedie. Ed ecco in mezzo l'inevitabile
Aristotele e le famose quistioni delle unità drammatiche. Metastasio
si mescolò nella contesa, e nell'Estratto dell'«Arte poetica» di
Aristotile addusse indirettamente argomenti in suo favore. La critica
era ancora così impastoiata nell'esterno meccanismo, che molti seriamente
domandarono come potesse esser tragedia un dramma, che aveva soli tre
atti. A Metastasio pareva quasi una degradazione scendere dall'alto
seggio di poeta tragico, ed essere rilegato fra' melodrammatici. Pregiudizio
instillatogli dal Gravina, che non vedea di là dalla tragedia classica.
La Merope del Maffei, che allora levava molto rumore, l'offuscava,
e nol lasciava dormire la gloria di Corneille e di Racine. Ranieri de'
Calsabigi, celebre per la polemica ch'ebbe poi con Alfieri intorno al
Filippo, sosteneva che quei drammi fossero proprie e vere tragedie.
E nella medaglia, che dopo la sua morte i Martinez fecero incidere in
suo onore, si leggeva questo motto: «Sophocli Italo». Ma il pubblico,
che lo idolatrava, si ostinò a chiamare le sue opere teatrali non tragedie,
e neppur melodrammi, ma drammi, come quelli che avevano un valore in
sè, anche fuori della musica. E il pubblico avea ragione. Sono una poesia
già penetrata e trasformata dalla musica, ma che si fa ancora valere
come poesia. Stato di transizione, che dà una fisonomia al nostro «Sofocle».
Più tardi, quei drammi, come letteratura paiono troppo musicali, e ne
nasce la reazione di Alfieri; come musica paiono troppo letterari, e
ne nasce la reazione del melodramma in due atti. Si potrebbe conchiudere
che perciò appunto quei drammi sono cosa imperfetta, troppo musicali
come poesia, e troppo poetici come musica: perciò abbandonati dalla
musica, e offuscati dalla nuova letteratura. Il che avviene facilmente
a chi sta tra due e non ha chiara coscienza di quello che vuol fare.
Pure è certo che quei drammi ebbero al lor tempo un successo maraviglioso,
e che anche oggi, in una società così profondamente mutata, producono
il loro effetto. È noto l'entusiasmo di Rousseau e l'ammirazione di
Voltaire per questo poeta. In Italia i critici, dopo un breve armeggiare,
gli s'inchinarono, tratti dall'onda popolare. Certi luoghi, che fanno
sorridere il critico, movono oggi ancora il popolo, gli tirano applausi.
Nessun poeta è stato così popolare, come il Metastasio, nessuno è penetrato
così intimamente nello spirito delle moltitudini. Ci è dunque ne' suoi
drammi un valore assoluto, superiore alle occasioni, resistente alla
stessa critica dissolvente del secolo decimonono.
Gli è che quella sua oscura coscienza, quel distacco tra quello che
vuol fare e quello che fa, quella poesia che non è ancora musica e non
è più poesia, è non capriccio, pregiudizio o pedanteria individuale,
ma la forma stessa del suo genio e del suo tempo. Perciò non è costruzione
artificiosa, come la tragedia del Gravina o il poema del Trissino, ma
è composizione piena di vita, che nella sua spontaneità produce risultati
superiori alle intenzioni del compositore. Ciò ch'egli vi mette con
intenzione e con coscienza, non è il pregio, ma il difetto del lavoro.
E intorno a questo difetto arzigogolavano lui e i critici.
Se vogliamo gustarlo, facciamo come il popolo. Non domandiamo cosa ha
voluto fare, ma cosa ha fatto, e abbandoniamoci alla schiettezza delle
nostre impressioni. Anche il critico, se vuol ben giudicare, dee abbandonarsi
alla sua spontaneità, come l'artista.
Prendiamo il primo suo dramma, la Didone. Volea fare una tragedia.
Studiò l'argomento in Virgilio, e più in Ovidio. Ma andate a fare una
tragedia con quell'uomo e con quella società. Non capiva che a quella
società e a lui stesso mancava la stoffa da cui può uscire una tragedia.
Fare una tragedia con la Bulgarelli consigliera, con maestro Porpora
direttore, con quel Sarro compositore, e col pubblico dell'Angelica
e degli Orti Esperidi, e in presenza della sua anima elegiaca,
idillica, melodica, impressionabile e superficiale, come il suo pubblico!
Ne uscì non una tragedia, che sarebbe stata una pedanteria nata morta,
ma un capolavoro, tutto caldo della vita che era in lui e intorno a
lui, e che anche oggi si legge con avidità da un capo all'altro. La
Didone virgiliana è sfumata. Le reminiscenze classiche sono soverchiate
da impressioni fresche e contemporanee. Sotto nome di «Didone» qui vedi
l'Armida del Tasso, messa in musica. La donna olimpica o paradisiaca
cede il posto alla donna terrena, come l'ha abbozzata il Tasso in questa
tra le sue creature la più popolare, dalla quale scappan fuori i più
vari e concitati moti della passione femminile, le sue smanie e le sue
furie. Ma è un'Armida col comento della Bulgarelli, alla cui ispirazione
appartengono i movimenti comici penetrati in questa natura appassionata,
com'è nella scena della gelosia, applauditissima alla rappresentazione.
Una Didone così fatta non ha niente di classico, qui non ci è Virgilio,
e non Sofocle: tutto è vivo, tutto è contemporaneo. La passione non
ha semplicità e non ha misura, e nella sua violenza rompe ogni freno,
perde ogni decoro. Se in Didone fosse eminente il patriottismo, il pudore,
la dignità di regina, l'amore de' suoi, la pietà verso gl'iddii, se
in lei fosse più accentuata l'eroina, il contrasto sarebbe drammatico,
altamente tragico. Ma l'eroina c'è a parole, e la donna è tutto: la
passione, unica dominatrice, diviene come una pazzia del cuore, cinica
e sfrontata sino al grottesco, e scende dritta la scala della vita sino
alle più basse regioni della commedia. Al buon Pindemonte danno fastidio
alcuni tratti comici, e non vede che sotto forme tragiche la situazione
è sostanzialmente comica sicchè, se in ultimo Enea si potesse rappattumare
con l'amata, sarebbe il dramma, con lievi mutazioni, una vera commedia.
E non già una commedia costruita artificialmente, ma colta dal vero,
perchè è la donna come poteva essere concepita in quel tempo, ispirata
dalla Bulgarelli e da quel pubblico nell'anima conforme del poeta, e
contro le sue intenzioni, e senza sua coscienza.
A Metastasio, che voleva fare una tragedia, dire che aveva partorito
una commedia in forma tragica, sarebbe stato come dire una bestemmia.
Il comico è in quei sì e no della passione, in quei movimenti subitanei,
irrefrenabili, che scoppiano improvvisi e contro l'aspettazione, nell'irragionevole,
spinto sino all'assurdo, negl'intrighi e nelle scaltrezze, di bassa
lega, più da donnetta che da regina, e tutto così a proposito, così
naturale, con tanta vivacità, che il pubblico ride e applaude, come
volesse dire: - È vero. - Fu per il poeta un trionfo. Alcuni motti rimasero
proverbiali, come:
Temerario! Ch'ei venga!
Quando allora allora avea detto:
mai più non mi vedrà quell'alma rea.
O come:
Passato è il tempo, Enea,
che Dido a te pensò.
La sua sortita contro Arbace, quasi nello stesso punto
che gli aveva promessa la sua mano, quel cacciar via da sè Osmida e
Selene nella cecità del suo furore, le sue credulità, le sue dissimulazioni,
le sue astuzie, tutto ciò è tanto più comico, quanto è meno intenzionale,
contemperato co' moti più variati di un'anima impressionabile e subitanea:
sdegni che son tenerezze, e minacce che sono carezze. C'è della Lisetta
e della Colombina sotto quel regio manto. E tutto il quadro è conforme.
Iarba con le sue vanterie e le sue pose rasenta il bravo della commedia
popolare; Selene, ch'è l'«Anna, soror mea», rappresenta la parte
della «patita», con molta insipidezza; e il pio Enea nella sua parte
di amoroso attinge il più alto comico, massime quando Didone lo costringe
a tenerle la candela. Il nodo stesso dell'azione ha l'aria di un intrigo
di bassa commedia, co' suoi equivoci e i suoi incontri fortuiti.
La Didone fece il giro de' teatri italiani. E dappertutto piacque.
Metastasio indovinava il suo pubblico, e trovava se stesso. Quel suo
dramma, a superficie tragica, a fondo comico, coglieva la vita italiana
nel più intimo, quel suo contrasto tra il grandioso del di fuori e la
vacuità del di dentro. Il tragico non era elevazione dell'anima, ma
una semplice fonte del maraviglioso, così piacevole alla plebe, come
incendii, duelli, suicidii. Il comico riconduceva quelle magnifiche
apparenze di una vita fantastica nella prosaica e volgare realtà, piccoli
intrighi, amori pettegoli, stizze, braverie. Concordare elementi così
disparati, fondere insieme fantastico e reale, tragico e comico, sembra
poco meno che impossibile: pure qui è fatto con una facilità piena di
brio e senz'alcuna coscienza, com'è la vita nella sua spontaneità. L'illusione
è perfetta. Una vita così fatta pare un'assurdità: pure è là, fresca,
giovane, vivace, armonica, e t'investe e ti trascina. Il povero Metastasio,
inconscio del grande miracolo, si difendeva con Aristotile e con Orazio;
alle vecchie critiche si aggiunsero le nuove. Oggi la ragione e l'estetica
condannano quella vita, come convenzionale e incoerente. Ma essa è là,
nella sua giovanezza immortale, e le basta rispondere: - Io vivo. -
E, se l'estetica non l'intende, tanto peggio per l'estetica.
Metastasio aveva tutte le qualità per produrre quella vita. Brav'uomo,
buon cristiano, nel suo mondo interiore ci erano tutte le virtù, ma
in quel modo tradizionale e abituale ch'era possibile allora, senza
fede, senza energia, senza elevatezza d'animo, perciò senza musica e
senza poesia. Così erano Vico e Muratori, bonissima gente, ma senza
quella fiamma interiore, dove si scalda il genio del filosofo e del
poeta. Erano personaggi idillici, veneranda immagine di una società
tranquilla e prosaica. Vico agitava i più grandi problemi sociali con
la calma di un erudito. E si comprende come la poesia si cercasse in
quel tempo fuori della società, nell'età dell'oro e nella vita pastorale.
Ma nessuno può fuggire alla vita che lo circonda. Patria, religione,
onore, amore, libertà operavano in quella vita posticcia, come in quella
pacifica società, con perfetto riposo ed equilibrio dell'anima. Metastasio,
che cercava la tragedia con la testa, era per il carattere un arcade,
tutto Nice e Tirsi, tutto sospiri e tenerezze. Da questa natura idillica
poteva uscire l'elegia, non la tragedia. Aveva, come il Tasso, grande
sensibilità, molta facilità di lacrime, ma superficiale sensibilità,
che poteva increspare, non turbare il suo mondo sereno. Non si può dir
che la sua sensibilità fosse malinconia, la quale richiede una certa
durata e consistenza: era emozione nata da subitanei moti interni, e
che passava con quella stessa facilità che veniva. Questo difetto di
analisi e di profondità nel sentimento manteneva al suo mondo il carattere
idillico, non lo trasformava, ma lo accentuava e lo coloriva nel suo
movimento; perchè l'idillio senza elegia è insipido. Una immaginazione
non penetrata dalla serietà di un mondo interiore, appena ventilata
dal sentimento, scorre leggiera su questo mondo idillico, e vi annoda
e snoda una folla di accidenti, che gli danno varietà e vivacità. Sembrano
sogni che svaniscono appena formati, ma con tale chiarezza plastica
ne' sentimenti e nelle immagini, che vi prendi la più viva partecipazione.
Il poeta vi s'intenerisce, vi si trastulla, vi si dimentica:
Sogni e favole io fingo; e pure in carte
mentre favole e sogni orno e disegno,
in lor, folle ch'io son, prendo tal parte,
che del mal che inventai piango e mi sdegno.
Di sogni e favole ce n'era tutto un arsenale nelle
nostre infinite commedie e novelle, dove attingevano anche i forestieri,
e dove attinge Metastasio. Ciò a cui mira è sorprendere, fare un colpo
di scena, guidato dalla sua grand'esperienza del teatro e del pubblico.
Ingegno svegliato e rapido, non perde mai di vista lo scopo, non s'indugia
per via, divora lo spazio, sopprime, aggruppa, combina, producendo effetti
subitanei e perciò irresistibili. Combinazioni drammatiche, che appunto
perchè mirano a uno scopo meramente teatrale, mancano di serietà interiore,
e spesso hanno aria d'intrighi comici, con que' viluppi, con quegli
equivoci, con quei parallelismi. Nè solo il comico è nella logica stessa
di quelle combinazioni, ma nella natura de' fatti, che spesso sono episodi
della vita comune nella sua forma più pettegola e civettuola. Così un
eroico puramente idillico andava a finire ne' bassi fondi della commedia.
Cesare sonava il violino e faceva all'amore. Tale era Metastasio, e
tale era il suo tempo, idillico, elegiaco e comico, vita volgare in
abito eroico, vellicata dalle emozioni dell'elegia e idealizzata nell'idillio.
Si può ora comprendere il meccanismo del dramma metastasiano. Sta in
cima l'eroe o l'eroina, Zenobia o Issipile, Temistocle o Tito. L'eroe
ha tutte le perfezioni che la poesia ha collocate nell'età dell'oro,
e sveglia l'eroismo intorno a sè, rende eroici anche i personaggi secondari.
Più l'età è prosaica, più esagerato è l'eroismo, abbandonato a una immaginazione
libera, che ingrandisce le proporzioni a arbitrio, con non altro scopo
che di eccitare la maraviglia. Il maraviglioso è in questo, che l'eroe
è un'antitesi accentuata e romorosa alla vita comune, offrendo in olocausto
alla virtù tutt'i sentimenti umani, come Abramo pronto a uccidere il
figlio. Così Enea abbandona Didone per seguire la gloria, Temistocle
e Regolo vanno incontro a morte per amor della patria, Catone si uccide
per la libertà, Megacle offre la vita per l'amico, e Argene per l'amato.
Questa forza di soffocare i sentimenti umani e naturali, che regolano
la vita comune, era detta «generosità» o «magnanimità», «forza» o «grandezza
di animo», com'è il perdono delle offese, il sacrificio dell'amore,
o della vita. Situazione tragica se mai ce ne fu, anzi il fondamento
della tragedia. Ma qui rimane per lo più elegiaca, feconda di emozioni
superficiali, momentanee e variate, che in ultimo sgombrano a un tratto
e lasciano il cielo sereno. La generosità degli uni provoca la generosità
degli altri, l'eroismo opera come corrente elettrica, guadagna tutt'i
personaggi, e tutto si accomoda come nel migliore de' mondi, tutti eroi
e tutti contenti. Di questa superficialità che resta ne' confini dell'idillio
e dell'elegia, e di rado si alza alla commozione tragica, la ragione
è questa, che la virtù vi è rappresentata non come il sentimento di
un dovere preciso e obbligatorio per tutti, corrispondente alla vita
pratica, ma come un fatto maraviglioso, che per la sua straordinarietà
tolga il pubblico alla contemplazione della vita comune. Perciò è una
virtù da teatro, un eroismo da scena. Più le combinazioni sono straordinarie,
più le proporzioni sono ingrandite, e più cresce l'effetto. I personaggi
posano, si mettono in vista, sentenziano, si atteggiano, come volessero
dire: - Attenti! Ora viene il miracolo. - Temistocle dice:
... ... Sentimi, o Serse;
Lisimaco, m'ascolta; udite, o voi,
popoli spettatori,
di Temistocle i sensi; e ognun ne sia
testimonio e custode.
In questo meccanismo trovi sempre la collisione, il
contrasto tra l'eroismo e la natura. L'eroismo ha la sua sublimità nello
splendore delle sentenze. La natura ha il suo patetico nelle tenere
effusioni dei sentimenti. Ne nasce un urto vivace di sentimenti e di
sentenze, con alterna vittoria e con crescente sospensione, come nel
soliloquio di Tito; insino a che natura ed eroismo fanno la loro riconciliazione
in un modo così inaspettato e straordinario, com'è tutto l'intrigo.
Tito fa condurre Sesto all'arena, deliberato già di perdonargli: non
basta la virtù, vuole lo spettacolo e la sorpresa. Questa, che a noi
pare una moralità da scena, era a quel tempo una moralità convenuta,
ammessa in teoria, ammirata, applaudita, a quel modo che le romane battevano
le mani ai gladiatori che morivano per i loro begli occhi. Si direbbe
che Tito facesse il possibile per meritarsi gli applausi del pubblico.
Appunto perchè questo eroismo non aveva una vera serietà di motivi interni
e non veniva dalla coscienza, quel mondo atteggiato all'eroica aveva
del comico, ed era possibile che vi penetrasse senza stonatura la società
contemporanea nelle sue parti anche buffe e volgari. Prendiamo l'Adriano.
Vincitore de' Parti, proclamato imperatore, Adriano si trova in una
delle situazioni più strazianti, promesso sposo di Sabina, amante di
Emirena figlia del suo nemico, e rivale di Farnaspe, l'amato di Emirena.
Situazione molto avviluppata, e che diviene intricatissima per opera
di un quarto personaggio, Aquilio, confidente di Adriano, amante secreto
di Sabina, e che perciò fomenta la passione del suo padrone. Emirena
per salvare il padre offre la mano ad Adriano. La generosità di Emirena
eccita la generosità di Sabina, che scioglie Adriano dalla data fede.
La generosità di Sabina eccita la generosità di Adriano, che libera
il padre di Emirena, rende costei al suo amato, e sposa Sabina. E tutti
felici, e il coro intuona le lodi di Adriano. Ma guardiamo in fondo
a questi personaggi eroici. Adriano è una buona natura d'uomo, tutt'altro
che eroica, voltato in qua e in là dalle impressioni, mobile, superficiale,
credulo, in somma un buon uomo che rasenta l'imbecille. Non è lui che
opera: egli è il paziente, anzi che l'agente del melodramma, e come
colui che dà ragione a chi ultimo parla, dà sempre ragione all'ultima
impressione. Si trova eroe per occasione, un eroe così equivoco, che
impedisce ad Emirena di baciargli la mano, tremando di una nuova impressione.
Maggiori pretensioni all'eroismo ha Osroa, il re de' Parti, reminiscenza
di Iarba. Un patriota, che appicca l'incendio alla reggia, che uccide
un creduto Adriano, che è condannato a morte, che supplica la figlia
di ucciderlo, sarebbe un carattere interessantissimo, se nel pubblico
e nel poeta ci fosse il senso del patriottismo. Ma Osroa ha più dell'avventuriere
che dell'eroe, e di un avventuriere sciocco e avventato, che non sa
proporzionare i mezzi allo scopo, e nelle situazioni più appassionate
della vita discute, sentenzia. A Emirena, la sua figlia, che ricusa
di ucciderlo, risponde:
Non è ver che sia la morte
il peggior di tutt'i mali:
è il sollievo de' mortali
che son stanchi di soffrir.
È una caricatura di Iago, un basso e sciocco intrigante
da commedia. Sabina, Emirena, Farnaspe sono nature superficialissime,
incalzate dagli avvenimenti, senza intima energia negli affetti, e tratte
ad atti generosi per impeti subitanei. Se dunque ci approfondiamo in
questo mondo eroico, vediamo con quanta facilità si sdrucciola nel comico
e come, sotto un contrasto apparente, in verità questa vita eroica è
in se stessa di quella mezzanità, che può accogliere nel suo seno il
volgare e il buffo della società contemporanea. Di tal natura è la scena
in cui Emirena finge di non riconoscere il suo innamorato, che rimane
lì stupido e col naso allungato; o l'altra in cui Aquilio insegna ad
Emirena l'arte della cortigiana, ed Emirena, botta e risposta, gli fa
il ritratto del cortigiano; o quando Adriano si fa menare pel naso da
Osroa, o l'arrivo improvviso di Sabina da Roma, e l'imbarazzo di Adriano,
o quando Adriano giura di non vedere più Emirena, e gli si annunzia:
- Vieni Emirena. - Tutto questo, che in fondo è comico, non è sviluppato
comicamente, nè c'è l'intenzione comica; perciò non c'è stonatura: è
la società contemporanea nel suo spirito, nella sua volgarità e mezzanità,
vestita di apparenze eroiche. Se Metastasio avesse il senso dell'eroico,
e lo rappresentasse seriamente e profondamente, la mescolanza sarebbe
insopportabile, anzi mescolanza non ci sarebbe; ma concepisce l'eroico
come era concepito e sentito in quella volgarità contemporanea. Il poeta
è in perfetta buona fede; non sente ciò che di basso e di triviale è
sotto quell'apparato eroico, uno di spirito e di carattere col suo pubblico.
Ben ne ha una coscienza confusa, e non è proprio contento, e tenta talora
alcun che di più elevato, come nel Regolo e nel Gioas,
senza riuscirvi: si scopre l'antico Adamo. E fu ventura, perchè così
non ci die' costruzioni artificiose e imitazioni aliene dalla sua natura,
ma riuscì artista originale e geniale, l'artista indimenticabile di
quella società.
Questa vita così assurda nella sua profondità ha tutta l'illusione del
vero nella sua superficie. Approfondire i sentimenti, sviluppare i caratteri,
graduare le situazioni sarebbe una falsificazione. La superficialità
è la sua condizione di esistenza. È una vita, di cui vedi le punte e
ignori tutto il processo di formazione, una specie di vita a vapore,
che nella rapida corsa divora spazi infiniti e non ti mostra che i punti
di arrivo. Sbucciano sentimenti e situazioni così di un tratto, e spesso
ti trovi di un balzo da un estremo all'altro. Sei in un continuo flutto
d'impressioni variatissime, di poca durata e consistenza, libate appena,
con sentimenti vivacissimi, penetranti gli uni negli altri, come onde
tempestose. Scusano questa superficialità con la musica, quasi che la
musica potesse o compiere, o sviluppare, o approfondire i sentimenti;
ma la musica metastasiana non era se non il prolungamento e l'eco del
sentimento, il semplice trillo della poesia, il suo accompagnamento,
perchè quella poesia è già in sè musica e canto. Una vita così superficiale
non può essere che esteriore. È vita per lo più descritta, come già
si vede nel Guarini e nel Marino. I personaggi nella maggior violenza
de' loro sentimenti si descrivono, si analizzano, com'è proprio di una
società adulta, in cui la riflessione e la critica ti segue nel momento
stesso dell'azione. Ti trovi nel più acuto della concitazione; e quando
alla fine ti aspetti quasi un delirio, ti sopraggiunge un'analisi, una
sentenza, un paragone, una descrizione psicologica. Licida snuda il
brando; vuole uccidere il suo offensore; poi lo volge in sè, e si arresta,
e fa la sua analisi:
Rabbia, vendetta,
tenerezza, amicizia,
pentimento, pietà, vergogna, amore
mi trafiggono a gara. Ah chi mai vide
anima lacerata
da tanti affetti e sì contrari. Io stesso
non so come si possa
minacciando tremare, arder gelando,
piangere in mezzo all'ire,
bramar la morte e non saper morire.
Il drammatico va a riuscire in un sonetto petrarchesco.
Aristea così si descrive a Megacle:
Caro, son tua così,
che per virtù d'amor
i moti del tuo cor
risento anch'io.
Mi dolgo al tuo dolor,
gioisco al tuo gioir,
ed ogni tuo desir
diventa il mio.
E Megacle, seguendo l'amico Licida nella sua sventura,
esce in questo bel paragone:
Come dell'oro il fuoco
scopre le masse impure,
scoprono le sventure
de' falsi amici il cor.
Questi riposi musicali sono come l'arpa di David, che
calmava le furie di Saul: rinfrescano l'anima e la tengono in equilibrio
fra passioni così concitate. E sono sopportabili, appunto perchè mescolati
co' moti più vivaci, con la più impetuosa spontaneità del sentimento,
offrendoti lo spettacolo della vita nelle sue più varie apparenze. Argene
che sfida la morte per salvare l'amato, e si sente alzare su di sè,
come invasata da un iddio, è sublime:
Fiamma ignota nell'alma mi scende;
sento il nume; m'inspira, mi accende,
di me stessa mi rende maggior.
Ferri, bende, bipenni, ritorte,
pallid 'ombre, compagne di morte,
già vi guardo, ma senza terror.
Commovente è la gioia quasi delirante di Aristea nel
rivedere l'amato. Di un elegiaco ineffabile è il cànto di Timante, quando
la madre gli presenta il suo bambino:
Misero pargoletto,
il tuo destin non sai.
Ah! Non gli dite mai
qual era il genitor.
Come in un punto, o Dio,
tutto cambiò d'aspetto!
Voi foste il mio diletto,
voi siete il mio terror.
Alcuni motti tenerissimi sono rimasti proverbiali,
come:
Ne' giorni tuoi felici ricordati di me.
Questa vita nei suoi moti alterni di spontaneità e
di riflessione così equilibrata, essendo superficiale ed esteriore,
ha per suo carattere la chiarezza, è visibile e plastica. Le gradazioni
più fine, i concetti più difficili sono resi con una estrema precisione
di contorni, e perciò non hanno riverbero: appagano e saziano lo sguardo,
lo tengono sulla superficie, non lo gittano nel profondo. Questa chiarezza
metastasiana, tanto vantata e così popolare perchè il popolo è tutto
superficie, è la forma nell'ultimo stadio della sua vita, quando a forza
di precisione diviene massiccia e densa come il marmo. La vecchia letteratura
vi raggiunge l'ultima perfezione; l'espressione perde ogni trasparenza,
e non è che se stessa e sola, e vi si appaga, come un infinito. Stato
di petrificazione, che oggi dicesi «letteratura popolare», come se la
letteratura debba scendere al popolo, e non il popolo debba salire a
lei. Metastasio vi spiega un talento miracoloso. Quella vecchia forma
prima di morire manda gli ultimi splendori. La chiarezza non è in lui
superficie morta, ma è la vita nella sua superficie, paga e contenta
della sua esteriorità, con una facilità e una rapidità, con un giuoco
pieno di grazia e di brio. Il periodo perde i suoi giri, la parola perde
le sue sinuosità, liscia, scorrevole, misurata come una danza, accentuata
come un canto, melodiosa come una musica. Le impressioni che te ne vengono,
sono vivaci, ma labili, e ti lasciano contento, ma vuoto, come dopo
una festa brillante che ti ha divertito, e a cui non pensi più.
Il mondo metastasiano può parere assurdo innanzi alla filosofia, come
innanzi alla filosofia pareva assurda la società ch'esso rappresentava.
Come arte, niente è più vero per coerenza, per armonia, per interna
vivacità. È il ritratto più finito di una società vicina a sciogliersi,
le cui istituzioni erano ancora eroiche e feudali, materia vuota dello
spirito che un tempo l'animò, e che sotto quelle apparenze eroiche era
assonnata, spensierata, infemminita, idillica, elegiaca e plebea. Guardatela.
Essa è tutta profumata, incipriata, col suo codino, col suo spadino,
cascante, vezzosa, sensitiva come una donna, tutta «idolo mio», «mio
bene», e «vita mia». La poesia di Metastasio l'accompagna con la sua
declamazione, con la sua cantilena; la parola non ha più niente a dirle;
essa è il luogo comune, che acquista valore trasformata in trillo, con
le sue fughe e le sue volate, co' suoi bassi e i suoi acuti; non è più
un'idea, è un suono raddolcito dagli accenti, dondolato dalle rime,
attenuato in quei versetti, ridotto un sospiro. Una poesia che cerca
i suoi mezzi fuori di sè, che cerca i motivi e i suoi pensieri nella
musica, abdica già, pronunzia la sua morte. Ben presto Metastasio sembra
troppo poeta al maestro di musica, nè il pubblico sa più che farsi della
parola, e non domanda cosa dice, ma come suona. La parola, dopo di avere
tanto abusato di sè, non val più nulla, e la stessa parola metastasiana,
così leggiera, così rapida, non può essere sopportata. La parola è la
nota, e i nuovi poeti si chiamano Pergolese, Cimarosa, Paisiello. Così
terminava il periodo musicale della vecchia letteratura, iniziato nel
Tasso, sviluppato nel Guarini e nel Marino, giunto alla sua crisi in
Pietro Metastasio. Oramai si viene a questo, che prima si fa la musica,
e poi Giuseppe secondo dice al suo nuovo poeta cesareo, all'abate Casti:
- Ora fatemi le parole. -
In seno a questa società in dissoluzione si formava
laboriosamente la nuova società. E che ce ne fosse la forza, si vedeva
da questo: che non teneva più gran conto della forma letteraria, stata
suo idolo, e che cercava nuove impressioni nel canto e nella musica.
Il letterato, che aveva rappresentata una parte così importante, cade
in discredito. I nuovi astri sono Farinello e Caffarello, Piccinni,
Leo, Iommelli. La musica ha un'azione benefica sulla forma letteraria,
costringendola ad abbreviare i suoi periodi, a sopprimere il suo cerimoniale
e la sua solennità, i suoi aggettivi, i suoi ripieni, le sue perifrasi,
i suoi sinonimi, i suoi parallelismi, le sue trasposizioni, tutte le
sue dotte inutilità, e a prendere un'aria più spedita e andante. Gli
orecchi, avvezzi alla rapidità musicale non possono più sopportare i
periodi accademici e le tirate rettoriche. E se Metastasio è chiamato
«divino», è per la musicalità della sua poesia, per la chiarezza, il
brio e la rapidità dell'espressione. Il pubblico abbandonando la letteratura,
la letteratura è costretta a seguire il pubblico. E il pubblico non
è più l'accademia, ancorchè di accademie fosse ancora grande il numero,
prima l'Arcadia. E non è più la corte, ancorchè i principi avessero
ancora intorno istrioni e giullari sotto nome di «poeti». La coltura
si è distesa, i godimenti dello spirito sono più variati: i periodi
e le frasi non bastano più. Compariscono sulla scena filosofi e filantropi,
giureconsulti, avvocati e scienziati, musici e cantanti. La parola acquista
valore nell'ugola e nella nota, ed è più interessante nelle pagine di
Beccaria, o di Galiani, che ne' libri letterari. Oramai non si dice
più «letterato», si dice «bell'ingegno» o «bello spirito». Il «letterato»
diviene sinonimo di parolaio, e la parola come parola è merce scadente.
La parola non può ricuperare la sua importanza, se non rifacendosi il
sangue, ricostituendo in sè l'idea, la serietà di un contenuto. E questo
volea dire il motto che era già in tutte le labbra: «Cose e non parole».
Già nella critica vedi i segni di questa grande rigenerazione. Rimasta
fino allora nel vuoto meccanismo e tra regole convenzionali, la critica
si mette in istato di ribellione, spezza audacemente i suoi idoli. Mentre
ferveva la lotta giurisdizionale tra papa e principi, e i filosofi combattevano
il passato nelle sue idee e nelle sue istituzioni, essa apre il fuoco
contro la vecchia letteratura, battezzandola senz'altro «pedanteria».
L'obbiettivo de' filosofi e de' critici era comune. Combattevano entrambi
la forma vacua, gli uni nelle istituzioni, gli altri nell'espressione
letteraria, ancorchè senza intesa.
E come i filosofi, così i critici erano avvalorati e riscaldati nella
loro lotta dagli esempi francesi e inglesi. Il Baretti veniva da Londra
tutto Shakespeare; l'Algarotti, il Bettinelli, il Cesarotti, il Beccaria,
il Verri erano in comunione intima con Voltaire e con gli enciclopedisti.
Locke, Condillac, Dumarsais avevano allargate le idee, e introdotto
il gusto delle grammatiche ragionate e delle rettoriche filosofiche.
Si vede la loro influenza nella Filosofia delle lingue del Cesarotti
e nello Stile del Beccaria. Cosa dovea parere il Crescimbeni,
o il Mazzuchelli, o il Quadrio, cosa lo stesso Tiraboschi, il Muratori
della nostra letteratura, dirimpetto a questi uomini, che pretendevano
ridurre a scienza ciò che fino allora era sembrato non altro che uso
e regola? E non si contentarono i critici de' trattati e de' ragionamenti,
ma vollero accostarsi un po' più al pubblico, usando forme spigliate
e correnti, che preludevano ai nostri giornali. Tali erano le Lettere
virgiliane del Bettinelli, la Difesa del Gozzi, la Frusta
letteraria, il Caffè, l'Osservatore. Così la nuova
critica dava a un tempo l'esempio di una nuova letteratura, gittando
in circolazione molte idee nuove in una forma rapida, nutrita, spiritosa,
vicina alla conversazione, in una forma che prendea dalla logica il
suo organismo e dal popolo il suo tuono. Certo questi critici non si
accordavano fra loro, anzi si combattevano, come facevano anche i filosofi;
ma erano tutti animati dalla stessa tendenza, uno era lo spirito. E
lo spirito era l'emancipazione dalle regole o dall'autorità, la reazione
contro il grammaticale, il rettorico, l'arcadico e l'accademico, e,
come in tutte le altre cose, così anche qui non ammettere altro giudice
che la logica e la natura. Secondo il solito la critica passò il segno,
e nella sua foga contro le superstizioni letterarie toccò anche il sacro
Dante: onde venne la bella Difesa che ne scrisse Gaspare Gozzi.
Ma la critica veniva dalla testa, e non aveva radice nell'educazione
letteraria ch'era stata anzi tutto l'opposto. Il che spiega come i critici,
giudici ingegnosi de' vivi e de' morti, volendo essere scrittori, facevano
mala prova, dando un po' di ragione a' retori e a' grammatici, i quali,
chiamati da loro «pedanti», chiamavano loro «barbari». Posti tra il
vecchio, che censuravano, ed un nuovo modo di scrivere, chiaro nella
loro testa, ma affatto personale, estraneo allo spirito nazionale, e
non preparato, anzi contraddetto nella loro istruzione, si gittarono
alla maniera francese, sconvolsero frasi, costrutti, vocaboli, e, come
fu detto poi, «imbarbarirono la lingua». Gaspare Gozzi tenne una via
mezzana, e facendo buona accoglienza in gran parte alle nuove idee,
non accettò sotto nome di libertà la licenza, e si studiò di tenersi
in bilico tra quella pedanteria e quella barbarie, usando un modo di
scrivere corretto, puro, classico, e insieme disinvolto. Ma il buon
Gozzi, misurato, elegante, savio, rimase solo, come avviene a' troppo
savi nel fervore della lotta, quando la via di mezzo non è ancora possibile,
standosi di fronte avversari appassionati, confidenti nella loro forza
e disposti a nessuna concessione. Stavano nell'un campo i puristi, che
non potendo invocare l'uso toscano, intorbidato anch'esso dall'imitazione
straniera, invocavano la Crusca e i classici, e, come non era potuta
più tollerare la prolissità vacua del Cinquecento, rimettevano in moda
il Trecento, quale esempio di scrivere semplice, conciso e succoso;
onde venne quel motto felice: «Il Trecento diceva, il Cinquecento chiacchierava».
Costoro erano, il maggior numero, cruscanti, arcadi, accademici, puri
letterati, tutti brava gente, che avevano in sospetto ogni novità, e
non volevano essere turbati nelle loro abitudini. Nell'altro campo erano
i filosofi, che non riconoscevano autorità di sorta e tanto meno quella
della Crusca; che invocavano la loro ragione, e vagheggiavano una nuova
Italia così in letteratura, come nelle istituzioni e in tutti gli ordini
sociali. I critici rappresentavano la parte della filosofia nelle lettere,
senza occuparsi di politica; anzi spesso la loro insolenza letteraria
era mantello alla loro servilità politica, come fu del gesuita Bettinelli
e del Cesarotti. In prima fila tra' contendenti erano l'abate Cesari
e l'abate Cesarotti. Il Cesari nella sua superstizione verso i classici
cancellò in sè ogni vestigio dell'uomo moderno. Il Cesarotti, di molto
più spirito e coltura, nella sua irreligione verso gli antichi andò
così oltre, che volle fare il pedagogo a Omero e Demostene, e andò in
cerca di una nuova mitologia nelle selve calidonie. Quando comparve
l'Ossian, girò la testa a tutti: tanto eran sazii di classicismo.
Il bardo scozzese fu per qualche tempo in moda, e Omero stesso si vide
minacciato nel suo trono. Si sentiva che il vecchio contenuto se ne
andava insieme con la vecchia società, e in quel vuoto ogni novità era
la benvenuta. Quei versi armoniosi e liquidi in tanto cozzo di spade
scintillanti tra le nebbie fecero dimenticare i Frugoni, gli Algarotti
e i Bettinelli. Cominciava una reazione contro l'idillio, espressione
di una società sonnolenta e annoiata in grembo a Galatea e a Clori,
e piacevano quei figli della spada, quelle nebbie e quelle selve, e
quei signori de' brandi, e quelle vergini della neve. Gli arcadi si
scandalizzavano; ma il pubblico applaudiva. Per vincere Cesarotti non
bastava gridargli la croce: bisognava fare e piacere al pubblico. Ora
l'attività intellettuale era tutta dal canto de' novatori: chi aveva
un po' d'ingegno, «si gittava al moderno», come si diceva, nelle dottrine
e nel modo di scrivere, e si acquistava nome di «bello spirito», dispregiando
i classici, come di «spirito forte», dispregiando le credenze. La vecchia
letteratura, come la vecchia credenza, era detta pregiudizio, e combattere
il pregiudizio era la divisa del secolo illuminato, del secolo della
filosofia e della coltura. Chi ricorda l'entusiasmo letterario del Rinascimento,
può avere un giusto concetto di questo entusiasmo filosofico del secolo
decimottavo. I fenomeni erano i medesimi. Allora si chiamava «barbarie»
il medio evo; ora si chiama «barbarie» medio evo e Rinascimento. Lo
stesso impeto negativo e polemico è ne' due movimenti, foriero di guerre
e di rivoluzioni. E ci erano le stesse idee, maturate e sviluppate oltralpe,
strozzate presso di noi e rivenuteci dal di fuori. Anzi il movimento
non è che un solo, prolungatosi per due secoli con diverse vicissitudini
nelle varie nazioni, procedente sempre attraverso alle più sanguinose
resistenze, e ora accentrato e condensato sotto nome di «filosofia»,
fatto della letteratura suo istrumento. Questo volea dire il motto:
«Cose e non parole». Volea dire che la letteratura, stata trastullo
d'immaginazione, senza alcuna serietà di contenuto, e divenuta perfino
un semplice giuoco di frasi, dovea acquistare un contenuto, essere l'espressione
diretta e naturale del pensiero e del sentimento, della mente e del
cuore: onde nacque più tardi il barbaro vocabolo «cormentalismo». Messa
la sostanza nel contenuto, quell'ideale della forma perfetta, gloria
del Rinascimento, e rimasto visibile nelle stesse opere della decadenza,
come nel Pastor fido, nell'Adone, nel dramma di Metastasio,
cesse il posto alla forma naturale, non convenzionale, non manifatturata,
non tradizionale, non classica, ma nata col pensiero e sua espressione
immediata. Perciò il Cesarotti, rispondendo al libro del conte Napione
Sull'uso e su' pregi della lingua italiana, sostenea nel suo
Saggio sulla filosofia delle lingue che la lingua non è un fatto
arbitrario, e regolato unicamente dall'uso e dall'autorità, ma che ha
in sè la sua ragion d'essere; che la sua ragion d'essere è nel pensiero,
e quella parola è migliore che meglio renda il pensiero, ancorchè non
sia toscana e non classica, e sia del dialetto, o addirittura forestiera
con inflessione italiana. Cosa era quel Saggio? Era l'emancipazione
della lingua dall'autorità e dall'uso in nome della filosofia e della
ragione, come si volea in tutte le istituzioni sociali; era la ragione,
il senso logico, che penetrava nella grammatica e nel vocabolario; era
lo spirito moderno, che violava quelle forme consacrate e fossili, logore
per lungo uso, e dava loro un'aria cosmopolitica, l'aria filosofica,
a scapito del colore locale e nazionale. Aggiungendo l'esempio al precetto,
il Cesarotti pigliò tutte le parole che gli venivano innanzi, senza
domandar loro onde venivano, e, come era uomo d'ingegno, e avea mente
chiara e spirito vivace, formò di tutti gli elementi stranieri e indigeni
della conversazione italiana una lingua animata, armonica, vicina al
linguaggio parlato, intelligibile dall'un capo all'altro d'Italia. Gli
scrittori, intenti più alle cose che alle parole, e stufi di quella
forma in gran parte latina che si chiamava «letteraria», screditata
per la sua vacuità e insipidezza, si attennero senza più all'italiano
corrente e locale, così com'era, mescolato di dialetto e avvivato da
vocaboli e frasi e costruzioni francesi: lingua corrispondente allo
stato della coltura. Così si scriveva nelle parti settentrionali e meridionali
d'Italia, a Venezia, a Padova, a Milano, a Torino, a Napoli: così scrivevano
Baretti, Beccaria, Verri, Gioia, Galiani, Galanti, Filangieri, Delfico,
Mario Pagano. Resistenza ci era, massime a Firenze, patria della Crusca,
e a Roma, patria dell'Arcadia: schiamazzi di letterati e di accademici
abbandonati dal pubblico. Lo stesso era per lo stile. Si cercavano le
qualità opposte a quelle che costituivano la forma letteraria. Si voleva
rapidità, naturalezza e brio. Tutto ciò che era finimento, ornamento,
riempitura, eleganza, fu tagliato via come un ingombro. Non si mirò
più ad una perfezione ideale della forma, ma all'effetto, a produrre
impressioni sul lettore, tenendo deste e in moto le sue facoltà intellettive.
I secreti dello stile furono chiesti alla psicologia, a uno studio de'
sentimenti e delle impressioni, base del Trattato dello stile
del Beccaria. Al vuoto meccanismo, dottamente artificioso, solletico
dell'orecchio, detto «stile classico», e ridotto oramai un frasario
pesante e noioso, succedeva un modo di scrivere alla buona e al naturale,
vispo, rotto, ineguale, pieno di movimenti, imitazione del linguaggio
parlato. Tipo dell'uno era il trattato; tipo dell'altro era la gazzetta.
Il principio da cui derivava quella rivoluzione letteraria, era l'imitazione
della natura, o, come si direbbe, il realismo nella sua verità e nella
sua semplicità, reazione alla declamazione e alla rettorica, a quella
maniera convenzionale, che si decorava col nome d'«ideale» o di «forma
perfetta». La vecchia letteratura era assalita non solo nella sua lingua
e nel suo stile, ma ancora nel suo contenuto. L'eroico, l'idillico,
l'elegiaco, che ancora animava quelle liriche, quelle prediche, quelle
orazioni, quelle tragedie, non attecchiva più, se n'era sazii sino al
disgusto. L'eroico era esagerazione; l'idillio era noia; l'elegia era
insipidezza; pastori e pastorelle, eroi romani e greci, erano giudicati
un mondo convenzionale, già consumato come letteratura, buono al più
a esser messo in musica, come facea Metastasio. Si volea rinnovare l'aria,
rinfrescare le impressioni, si cercava un nuovo contenuto, un'altra
società, un altro uomo, altri costumi. Vennero in moda i turchi, i cinesi,
i persiani. Si divoravano le Lettere persiane di Montesquieu.
L'Ossian era preferito all'Iliade. Comparve l'uomo naturale,
l'uomo selvaggio, l'uomo di Hobbes e di Grozio, l'uomo che fa da sè,
Robinson Crusoè. Il cavaliere errante divenne il borghese avventuriere,
tipo Gil Blas. E ci fu anche la donna errante, la filosofessa, la «lionne»
di oggi, che stimava pregiudizio ogni costume e decoro femminile. Ci
fu l'uomo collocato in società, in lotta con essa in nome delle leggi
naturali, e spesso sua vittima, come donne maritate o monacate a forza
o sedotte, figli naturali calpestati da' legittimi, poveri oppressi
dai ricchi, scienza soverchiata da ciarlatani, le Clarisse, le Pamele,
gli Emilii, i Chatterton. Questo nuovo contenuto, conforme al pensiero
filosofico che allora investiva la vecchia società in tutte le sue direzioni,
veniva fuori in romanzi, novelle, lettere, tragedie, commedie, una specie
di repertorio francese, che faceva il giro d'Italia. Il concetto fondamentale
era la legge di natura in contrasto con la legge scritta, la proclamazione
sotto tutte le forme de' dritti dell'uomo dirimpetto la società che
li violava. I capiscuola erano Rousseau, Voltaire, Diderot. Seguiva
la turba. Tra questi Mercier ebbe molto séguito in Italia, e vi furono
rappresentati i suoi drammi: il Disertore, l'Amor Familiare,
il Jevenal, l'Indigente. Nel Disertore hai un giovine
virtuoso e amabile, che per soccorrere il padre e per amore lascia il
suo reggimento, ed è dannato a morte: è il grido della natura contro
la legge scritta. Nell'Amor familiare è descritta con vivi colori l'oppressione
degli eretici ne' paesi cattolici. Jeneval è il contrario della
Clarissa: è un don Giovanni femmina, una Rosalia, che seduce
il giovine e inesperto Jeneval fino al delitto. Nell'Indigente
è vivo il contrasto tra il ricco ozioso, libidinoso, corteggiato e potente,
che fa mercato di tutto, anche del matrimonio; e il povero operoso e
virtuoso, disprezzato e oppresso. A contenuto nuovo nomi nuovi. Commedia
e tragedia parve l'uomo mutilato e ingrandito, veduto da un punto solo
ed oltre il naturale. La critica da' bassi fondi della lingua e dello
stile si alzava al concetto dell'arte, alla sua materia e alla sua forma,
al suo scopo e a' suoi mezzi. Iniziatore di quest'alta critica, che
fu detta «estetica», era Diderot. Da lui usciva l'affermazione dell'ideale
nella piena realtà della natura, che è il concetto fondamentale della
filosofia dell'arte. L'ideale scendeva dal suo piedistallo olimpico,
e non era più un di là, si mescolava tra gli uomini, partecipava alle
grandezze e alle miserie della vita; non era un iddio sotto nome di
uomo, era l'uomo; non era tragedia e non commedia, era il dramma. La
poesia era storia, come la storia era poesia. L'ideale era la stessa
realtà, non mutilata, non ingrandita, non trasformata, non scelta; ma
piena, concreta, naturale, in tutte le sue varietà, la realtà vivente.
La tragedia ammetteva il riso, e la commedia ammetteva la lacrima; s'inventò
la «commedia lacrimosa», e la «tragedia borghese». Il nuovo ideale non
era l'idillio o l'eroe de' tempi feudali: era il semplice borghese in
lotta con la vita e con la società, e che sente della lotta tutt'i dolori
e le passioni. Come il bambino entra nel mondo tra le lacrime, così
l'ideale uscendo dalla sua astrazione serena entrava nella vita lacrimoso,
era patetico e sentimentale. Le Notti di Young ispiravano ad
Alessandro Verri le Notti romane. Rousseau col suo sentimentalismo
rettorico faceva una impressione così profonda, come col suo naturalismo
filosofico. Questi concetti e questi lavori, frutto di una lunga elaborazione
presso i francesi, giungevano a noi tutt'in una volta, come una inondazione,
destando l'entusiasmo degli uni, le collere degli altri. Le quistioni
di lingua e di stile si elevavano, divenivano quistioni intorno allo
stesso contenuto dell'arte: in breve tempo la critica meccanica diveniva
psicologica, e la critica psicologica si alzava all'estetica. La vecchia
letteratura, combattuta ne' suoi mezzi tecnici, era ancora contraddetta
nella sua sostanza, nel suo contenuto. Ritrarre dal vero era la demolizione
dell'eroico, com'era concepito e praticato fra noi: cosa divenivano
gli eroi di Metastasio? Il patetico e il sentimentale era la condanna
di quegl'ideali oziosi, sereni, noiosi, che costituivano l'idillio:
cosa diveniva l'Arcadia? Il teatro, si diceva, non è un passatempo,
è una scuola di nobili sentimenti e di forti passioni: cosa divenivano
le commedie a soggetto? Tutto era riforma. L'abate Genovesi, Verri,
Galiani davano addosso al vecchio sistema economico; la vecchia legislazione
era combattuta da Beccaria; tutti gli ordini sociali erano in quistione;
Filangieri, andando alla base, proponeva la riforma dell'istruzione
e dell'educazione nazionale; principi e ministri, sospinti dalla opinione,
iniziavano riforme in tutt'i rami dell'azienda pubblica. La vecchia
letteratura non poteva durare così: ci voleva anche per lei la riforma.
Già non produceva più, non destava più l'attenzione: tutto era canto
e musica, tutto era filosofia. Si concepisce in questo stato degli spiriti
il maraviglioso successo de' romanzi e delle commedie dell'abate Chiari,
che per sostentare la vita adulava il pubblico e gli offriva quell'imbandigione
che più desiderava. Sarebbe interessante un'analisi delle infinite opere,
già tutte dimenticate, del Chiari, perchè mostrerebbe qual era il genio
del tempo. Donne erranti, filosofesse, gigantesse, figli naturali, ratti
di monache, scontri notturni, finestre scalate, avvenimenti mostruosi,
caratteri impossibili, un eroico patetico e un patetico sdolcinato,
una filosofia messa in rettorica, un impasto di vecchio e di nuovo,
di ciò che il nuovo avea di più stravagante, e di ciò che il vecchio
avea di più volgare: questo era il cibo imbandito dal Chiari. Il Martelli
aveva inventato il verso alla francese, come prima si era inventato
il verso alla latina. Parve cosa stupenda al Chiari, e ne fece molto
uso, e fino la Genesi voltò in versi martelliani. Questo impiastricciatore
del Chiari è l'immagine di un tempo, che la vecchia letteratura se ne
andava, e la nuova fermentava appena in quella prima confusione delle
menti; sicchè egli ha tutt'i difetti del vecchio e tutte le stranezze
del nuovo. Ben presto si trovò fra' piedi Carlo Goldoni, costretto dalle
stesse necessità della vita a servire e compiacere al pubblico. Per
qualche tempo si accapigliarono i partigiani del Chiari e del Goldoni.
E tra' due contendenti sorse un terzo, che die' addosso all'uno e all'altro:
dico Carlo Gozzi, fratello di Gaspare. Uscì a Parigi la Tartana degl'influssi,
caricatura di due comici:
Il primo si chiamava «Originale»,
ed il secondo «Saccheggio» s'appella...
I partigiani ogni giorno crescevano,
chi vuole Originale e chi Saccheggio;
tutto il paese a romore mettevano...
Il parlar mozzo e lo stare intra due
niente vale per trarsi di tedio:...
dir bisognava: - Saccheggio è migliore, -
ovvero: - Originale è più dottore. -
Gozzi avea maggior coltura del Chiari e del Goldoni,
era d'ingegno svegliatissimo, avea fatto buoni studi, come il fratello,
apparteneva all'accademia de' Granelleschi, che si proponeva di ristaurare
la buona lingua, della quale quei due si mostravano ignorantissimi.
Tutto quel mondo nuovo letterario, predicato con tanta iattanza e venuto
fuori con tanta stravaganza, non gli parea una riforma, gli parea una
corruzione, e non solo letteraria, ma religiosa, politica e civile:
Usciti son certi autorevol dotti,
con un tremuoto di nuova scienza,
che han tutti gli scrittori mal condotti.
Tratto il lor, di saper non ci è semenza,
dicono che gli autor morti fur cotti,
e condannano i vivi all'astinenza...
Leggonsi certe nuove «Marianne»,
certi «baron», certe «marchese» impresse,
certe fraschette buse come canne,
e le battezzan poi «filosofesse»,
che il mal costume introducono a spanne:
credo il dimonio al torchio le mettesse.
Chi dice: - Egli è un comporre alla francese. -
Certo è peggior del mal di quel paese.
La sua Marfisa è una caricatura de' nuovi romanzi,
alla maniera del Chiari. Carlo magno e i paladini diventano oziosi e
vagabondi; Bradamante una spigolistra casalinga; Marfisa, l'eroina,
guasta da' libri nuovi, vaporosa, sentimentale, isterica, bizzarra,
e finisce tisica e pinzochera. La mira era alle donne del Chiari e de'
romanzi in voga. Gli parea che quel predicar continuo «dritti naturali»,
«leggi naturali», «religione naturale», «uguaglianza», «fratellanza»,
dovesse render gli uomini cattivi sudditi, ammaestrandoli di troppe
cose, e avvezzandoli a guardare con invidia al di sopra della loro condizione.
Questo pericolo era più grave, quando massime tali fossero predicate
in teatro, che non era una scola, ma un passatempo; e invocava contro
i predicatori di così nuova morale la severità dei governi. Il povero
Chiari non ci capiva nulla. Goldoni, che era un puro artista, come il
Metastasio, buon uomo e pacifico, e che di tutto quel movimento del
secolo non vedeva che la parte letteraria, dovea trasecolare a sentirsi
dipingere poco meno che un ribelle, un nemico della società. Vi si mescolarono
gl'interessi delle compagnie comiche, che si disputavano furiosamente
gli scarsi guadagni. Gozzi difendeva la compagnia Sacchi, tornata di
Vienna, e trovato il suo posto preso dalle compagnie Chiari e Goldoni.
Il Sacchi era l'ultimo di quei valenti improvvisatori comici, che giravano
l'Europa e mantenevano la riputazione della commedia italiana a Vienna,
a Parigi, a Londra. Musici, cantanti e improvvisatori erano la merce
italiana che ancora avea corso di là dalle Alpi. La commedia a soggetto,
alzatasi sulle rovine delle commedie letterarie, accademiche e noiose,
era padrona del campo a Roma, a Napoli, a Bologna, a Milano, a Venezia.
Era della vecchia letteratura il solo genere vivo ancora, considerato
gloria speciale d'Italia, e solo che ricordasse ancora in Europa l'arte
italiana. Gli attori venuti in qualche fama andavano a Parigi, dov'erano
meglio retribuiti. Ma, come a Parigi Molière fondava la commedia francese,
combattendo le commedie a soggetto italiane; così a Venezia Goldoni,
vagheggiando a sua volta una riforma della commedia, l'avea forte con
le maschere e con le commedie a soggetto. Questo pareva al Gozzi quasi
un delitto di lesa-nazione, un attentato ad una gloria italiana. La
contesa oggi sembra ridicola, e pare che potevano vivere in buon'amicizia
l'uno e l'altro genere. Ma ci era la passione, e ci era l'interesse,
e i sangui si scaldarono, e molte furono le dispute, insino a che Goldoni,
cedendo il campo, andò a Parigi. La sua fama s'ingrandì, e impose silenzio
al Baretti e rispetto al Gozzi, soprattutto quando Voltaire lo ebbe
messo accanto a Molière. Da tutto quell'arruffio non uscì alcun progresso
notabile di critica, essendo i Ragionamenti del Gozzi pieni più
di bile che di giudizio, e vuote e confuse generalità, come di uomo
che non conosca con precisione il valore de' vocaboli e delle quistioni.
Ma ne uscirono i primi tentativi della nuova letteratura, le commedie
del Goldoni e le fiabe del Gozzi, la commedia borghese e la commedia
popolana.
Carlo Goldoni era, come Metastasio, artista nato. Di tutti e due se
ne volea fare degli avvocati. Anzi Goldoni fece l'avvocato con qualche
successo. Ma alla prima occasione correva appresso agli attori, insino
a che il natural genio vinse. Tentò parecchi generi, prima di trovare
se stesso. Zeno e Metastasio erano le due celebrità del tempo; il dramma
in musica era alla moda. Scrisse l'Amalasunta, il Gustavo,
l'Oronte, più tardi il Festino e qualche altro melodramma
buffo; scrisse anche tragedie, la Rosmonda, la Griselda,
l'Enrico, e tragicommedie, come il Rinaldo. Poeta stipendiato
di compagnie comiche, costretto in ciascuna stagione teatrale di dare
parecchie opere nuove, e in una stagione ne die' sedici, saccheggiò,
raffazzonò, tolse di qua e di là ne' repertori italiani e francesi,
e anche ne' romanzi. Non ci era ancora il poeta, ci era il mestierante;
ci era Chiari, non ci era ancora Goldoni. Trattava ogni maniera di argomento
secondo il gusto pubblico, commedie sentimentali, commedie romanzesche,
come la Pamela, Zelinda e Lindoro, la Peruviana,
la Bella selvaggia, la Bella georgiana, la Dalmatina,
la Scozzese, l'Incognita, l'Ircana, raffazzonamenti
la più parte e imitazioni francesi. Scrisse anche commedie a soggetto,
come il Figlio di Arlecchino perduto e ritrovato, le Trentadue
disgrazie di Arlecchino. Si rivelò a se stesso e al pubblico nella
Vedova scaltra. Cominciarono le critiche, e cominciò lui ad avere
una coscienza d'artista. La vecchia letteratura ondeggiava tra il seicentismo
e l'arcadico, il gonfio e il volgare. Goldoni nelle sue Memorie
dice:
«I miei compatriotti erano accostumati da lungo tempo
alle farse triviali e agli spettacoli giganteschi. La mia versificazione
non è mai stata di stil sublime; ma ecco appunto quel che bisognava
per ridurre a poco a poco nella ragione un pubblico accostumato alle
iperboli, alle antitesi, ed al ridicolo del gigantesco e romanzesco.»
Per sua ventura gli capitò una buona compagnia.
«- Ora, - diceva io a me medesimo - ora sto bene, e
posso lasciare il campo libero alla mia fantasia. Ho lavorato quanto
basta sopra vecchi soggetti. Avendo presentemente attori che promettono
molto, convien creare, conviene inventare. Ecco forse il momento di
tentare quella riforma, che ho in vista da così lungo tempo. Convien
trattare soggetti di carattere: essi sono la sorgente della buona commedia;
ed è appunto con questi che il gran Molière diede principio alla sua
carriera, e pervenne a quel grado di perfezione, che gli antichi ci
avevano soltanto indicato, e che i moderni non hanno ancor potuto eguagliare.
-»
Goldoni conosceva pochissimo Plauto e Terenzio; faceva
di cappello a Orazio e Aristotile; rispettava per tradizione le regole;
ma dice: «Non ho mai sacrificata una commedia che poteva esser buona
ad un pregiudizio che la poteva render cattiva». Ciò che chiama «pregiudizio»
è l'unità di luogo. La sua scarsa coltura classica avea questo di buono:
che tenea il suo spirito sgombro da ogni elemento che non fosse moderno
e contemporaneo. Ciò ch'egli vagheggia non è la commedia dotta, regolata,
letteraria, alla latina o alla toscana, di cui ultimo esempio dava il
Fagiuoli; ma la buona commedia, com'egli la concepiva: «La commedia
essendo stata la mia tendenza, la buona commedia dee esser la mia meta.»
E il suo concetto della buona commedia è questo: «Tutta l'applicazione
che ho messa nella costruzione delle mie commedie, è stata quella di
non guastar la natura». Carattere idillico, superiore a' pettegolezzi
e alle invidiuzze provinciali del letterato italiano, pigliandosi la
buona e la cattiva fortuna con eguaglianza d'animo, quest'uomo che visse
i suoi bravi ottantasei anni e morì a Parigi pochi anni dopo il Metastasio,
morto a Vienna, dice di sè:
«Il morale da me è analogo al fisico; non temo nè il
freddo nè il caldo e non mi lascio infiammar dalla collera, nè ubbriacar
dalla gioia.»
Con questo temperamento più di spettatore che di attore,
mentre gli altri operavano, Goldoni osservava e li coglieva sul fatto.
La natura bene osservata gli pareva più ricca che tutte le combinazioni
della fantasia. L'arte per lui era natura, era ritrarre dal vero. E
riuscì il Galileo della nuova letteratura. Il suo telescopio fu l'intuizione
netta e pronta del reale, guidata dal buon senso. Come Galileo proscrisse
dalla scienza le forze occulte, l'ipotetico, il congetturale, il soprannaturale,
così egli volea proscrivere dall'arte il fantastico, il gigantesco,
il declamatorio e il rettorico. Ciò che Molière avea fatto in Francia,
lui voleva tentare in Italia, la terra classica dell'accademia e della
rettorica. La riforma era più importante che non apparisse; perchè,
riguardando specialmente la commedia, avea a base un principio universale
dell'arte, cioè il naturale nell'arte, in opposizione alla maniera e
al convenzionale. Goldoni avea da natura tutte le qualità che si richiedevano
al difficile assunto: finezza di osservazione e spirito inventivo, misura
e giustezza nella concezione, calore e brio nella esecuzione. La Mandragola,
capitatagli ch'era giovanissimo, gli avea fatta molta impressione. Il
Misantropo, l'Avaro, il Tartufo, le Preziose,
e simili commedie di Molière compirono la sua educazione. Il fondamento
della commedia italiana era l'intreccio; la buona commedia, come la
concepiva lui, dovea avere a fondamento il carattere. - Voi avete la
commedia d'intreccio; io voglio darvi la commedia di carattere - diceva
Goldoni. E commedia di carattere era tirare l'effetto non dalla moltiplicità
di avvenimenti straordinari, ma dallo svolgimento di un carattere nelle
situazioni anche più ordinarie della vita. Era tutt'un altro sistema,
e non solo nella commedia, ma nello scopo e ne' mezzi dell'arte. Il
protagonista nel primo sistema è il caso o l'accidente, le cui bizzarre
combinazioni generano il maraviglioso. Gli uomini ci stanno come figure
o comparse, appena schizzati, avvolti nel turbine degli avvenimenti.
La vita è nella superficie: l'interno è occulto. In questa superficialità
ottusa si era consunta la vecchia letteratura, ed, esaurite tutte le
forme del maraviglioso, non bastava più a conseguire l'effetto con mezzi
propri, senza il sussidio del canto, della musica, del ballo, della
mimica, della declamazione. La parola non era più il principale: era
l'accessorio, il semplice tema, l'occasione. Anche la commedia si credea
inetta a conseguire il suo effetto senza il sussidio delle maschere,
senza quell'improvviso de' lazzi degli Arlecchini, de' Truffaldini,
de' Brighella e de' Pantaloni. Ora l'idea fissa di Goldoni era che la
commedia potea per sè sola interessare il pubblico, e che non le era
necessario a ciò lo spettacoloso, il gigantesco, il maraviglioso in
maschera e senza maschera. La sua riforma era in fondo la restaurazione
della parola, la restituzione della letteratura nel suo posto e nella
sua importanza, la nuova letteratura. E vide chiaramente che a ristaurare
la parola bisognava non lavorare intorno alla parola, ma intorno al
suo contenuto, rifare il mondo organico o interiore dell'espressione.
Questo vide nella commedia, e mirò a instaurarvi non gli elementi formali
e meccanici, ma l'interno organismo, sopra questo concetto, che la vita
non è il gioco del caso o di un potere occulto, ma è quale ce la facciamo
noi, l'opera della nostra mente e della nostra volontà. Concetto del
Machiavelli, dal quale usciva la Mandragola. Perciò il protagonista
è l'uomo, con le sue virtù e le sue debolezze, che crea o regola gli
avvenimenti, o cede in balìa di quelli. Manca a Goldoni non la chiarezza,
ma l'audacia della riforma, obbligato spesso a concessioni e a mezzi
termini per contentare il pubblico, la compagnia e gli avversari. E,
come era il suo carattere, vinse talora più con la pazienza o la destrezza,
che con la risoluta tenacità de' propositi. Di queste concessioni trovi
i vestigi nelle sue migliori commedie, dove non rifiuta certi mezzi
volgari e grossolani di ottenere gli applausi della platea. E mi spiego
come insino all'ultimo continuò nel romanzesco, nel sentimentale e nell'arlecchinesco:
le necessità del mestiere contrastavano alle aspirazioni dell'artista.
D'altra parte, intento all'interno organismo della commedia, neglesse
troppo l'espressione, e per volerla naturale la fece volgare, sì che
le sue concezioni si staccano vigorose da una forma più simile a pietra
grezza che a marmo. Ciò che in lui rimane è quel mondo interno della
commedia, tolto dal vero e perfettamente sviluppato nelle situazioni
e nel dialogo. Il centro del suo mondo comico è il carattere. E questo
non è concepito da lui come un aggregato di qualità astratte, ma è còlto
nella pienezza della vita reale, con tutti gli accessorii. Base è la
società veneziana nella sua mezzanità, più vicina al popolo che alle
classi elevate: ciò che dà più presa al comico per quei moti improvvisi,
ineducati, indisciplinati, che son propri della classe popolana, alla
quale si accostava molto la borghesia veneta, non giunta ancora a quel
raffinamento e delicatezza di forme, che sono come l'aria della civiltà.
I caratteri, come il maldicente, il bugiardo, l'avaro, l'adulatore,
il cavalier servente, inviluppati in quest'atmosfera, escono fuori vivi,
coloriti, originali, nuovi, vi contraggono la forma della loro esistenza.
Ci è nel loro impasto del grossolano e dell'improvviso; anzi qui è la
fonte del comico. Cadendo in nature di uomini non disciplinate dall'educazione,
paion fuori in modo subitaneo, e senza freno o ritegno o riguardo, in
tutta la loro forza primigenia, e producono con quella loro improvvisa
grossolanità la più schietta allegria, tipo il Burbero benefico.
Non essendo concezioni subbiettive e astratte, ma studiate dal vero
e colte nel movimento della vita, il comico non si sviluppa per via
di motti, riflessioni e descrizioni (ciò che dicesi propriamente «spirito»,
e appartiene a una società più colta e raffinata) ma erompe nella brusca
vivacità delle situazioni e dei contrasti. Il Goldoni è felicissimo
a trovare situazioni tali che il carattere vi possa sviluppare tutte
le sue forze. La situazione è per lo più unica, semplice, naturalissima,
sobriamente variata, messa in rilievo da qualche contrasto, di rado
complicata o inviluppata, graduata con un crescendo di movimenti drammatici,
e ti porta rapidamente alla fine tra la più viva allegria. Indi viene
la superiorità del suo dialogo, che è azione parlata, di rado interrotta
o raffreddata per soverchio uso di riflessioni e di sentenze. La situazione
non è mai perduta di vista, non digressioni, non deviazioni, rari intermezzi
o episodi; nessuna parte troppo accarezzata o rilevata; onde è che l'interesse
è nell'insieme, e di rado se ne stacca un personaggio, una scena, un
motto. Tutto è collegato saldamente con tutto: la situazione è il carattere
stesso in posizione, nelle sue determinazioni; l'azione è la stessa
situazione nel suo sviluppo; il dialogo è la stessa azione ne' suoi
movimenti. Questo mondo poetico ha il difetto delle sue qualità: nella
sua grossolanità è superficiale, e nella sua naturalezza è volgare.
In quel suo correre diritto e rapido il poeta non medita, non si raccoglie,
non approfondisce; sta tutto al di fuori, gioioso e spensierato, indifferente
al suo contenuto, e intento a caricarlo quasi per suo passatempo, e
con l'aria più ingenua, senza ombra di malizia e di mordacità: onde
la forma del suo comico è caricatura allegra e smaliziata, che di rado
giunge all'ironia. Nel suo studio del naturale e del vero trascura troppo
il rilievo, e, se ha il brio del linguaggio parlato, ne ha pure la negligenza;
per fuggire la rettorica, casca nel volgare. Gli manca quella divina
malinconia, che è l'idealità del poeta comico e lo tiene al di sopra
del suo mondo, come fosse la sua creatura che accarezza con lo sguardo
e non la lascia che non le abbia data l'ultima finitezza. Attribuiscono
il difetto alla sua ignoranza della lingua ed alla soverchia fretta;
il che, se vale a scusare le sue scorrezioni, non è bastante a spiegare
il crudo e lo sciacquo del suo colorito.
La nuova letteratura fa la sua prima apparizione nella commedia del
Goldoni, annunziandosi come una ristaurazione del vero e del naturale
nell'arte. Se la vecchia letteratura cercava ottenere i suoi effetti,
scostandosi possibilmente dal reale, e correndo appresso allo straordinario
o al maraviglioso nel contenuto e nella forma, la nuova cerca nel reale
la sua base, e studia dal vero la natura e l'uomo. La maniera, il convenzionale,
il rettorico, l'accademico, l'arcadico, il meccanismo mitologico, il
meccanismo classico, l'imitazione, la reminiscenza, la citazione, tutto
ciò che costituiva la forma letteraria, è sbandito da questo mondo poetico,
il cui centro è l'uomo, studiato come un fenomeno psicologico, ridotto
alle sue proporzioni naturali, e calato in tutte le particolarità della
vita reale. Vero è che la realtà è appena lambita, e le sue profondità
rimangono occulte. Ma la via era quella, e in capo alla via trovi Goldoni.
A Carlo Gozzi parea che quel vero e quel naturale fosse la tomba della
poesia; e quando il successo del Goldoni gl'impose rispetto, parlando
pure con riguardo dell'avversario, non potè risolversi ad accettare
per buona la sua riforma. Il romanzesco, il gigantesco, l'arlecchinesco,
o, in altri termini, il mirabile e il fantastico, gli parevano elementi
essenziali della poesia; quel ritrarre dal reale gli pareva una volgarità.
D'altra parte non vedea senza rincrescimento assalita da ogni parte
la commedia a soggetto, che gli sembrava una gloria italiana. Dicevano
che l'era oramai un vecchio repertorio, che l'era ridotta a mero meccanismo,
che l'era una scuola d'immoralità, di scurrilità, roba da trivio, «goffe
buffonate, fracidumi indecenti in un secolo illuminato». C'era esagerazione
nelle accuse, ma un fondamento di verità c'era. La commedia improvvisa,
dell'arte o a soggetto, era isterilita, come tutt'i generi della vecchia
letteratura, e tutti quei lazzi che tanto divertivano erano con poca
varietà un vecchiume trasmesso da una generazione all'altra: si viveva
sul passato, i nuovi attori riproducevano gli antichi; la parte improvvisata
era così poco nuova e improvvisa, come la parte scritta. Piaceva più
che la commedia letteraria, perchè ci era sempre maggior comunione col
pubblico; ma oramai quel Dottor bolognese e Truffaldino stancavano,
come un professore che ripeta ogni anno lo stesso corso. I letterati
e i fautori delle commedie regolate ne pigliavano argomento per dichiarar
guerra alle maschere e volevano proscrivere addirittura quel genere
di commedia, «indecente in un secolo illuminato». Gozzi che l'avea contro
quei lumi, e vedea di mal occhio tutte quelle novità che ci venivano
d'oltralpe, se ne fece paladino, e scese in campo co' ragionamenti e
coll'esempio, scrivendo sotto nome di «fiabe» commedie con le maschere,
e perciò con una parte improvvisata, le quali ebbero successo grandissimo,
e oggi sono quasi dimenticate. Gozzi parea a quel tempo un retrivo,
e Goldoni era il riformatore; pure avrei desiderato a Goldoni un po'
di quella fibra rivoluzionaria ch'era in quel retrivo: chè così sarebbe
proceduto più ardito e conseguente nella sua riforma. Il «taciturno
solitario» Gozzi, come lo chiamavano, era uomo d'ingegno; e perciò penetrato
della vita contemporanea, e trasformato senza saperlo da quelle stesse
idee nuove, che gli movevano la bile. Volendo ristaurare il vecchio,
si chiarì novatore e riformatore, e correndo dietro alla commedia a
soggetto, s'incontrò nella commedia popolana, e ne fissò la base. Grande
confusione era nella sua testa, come si vede da' suoi ragionamenti;
indi la sua debolezza. Goldoni sa quello che vuole, ha la chiarezza
dello scopo e dei mezzi, e va diritto e sicuro: perciò la sua influenza
rimase grandissima. Ma Gozzi non ha chiaro lo scopo, e vuole una cosa
e fa un'altra, e procede a balzi, tirato da varie correnti. Vuole favorire
le maschere; vuole parodiare gli avversari; vuole rifare Pulci e Ariosto,
ristaurando il fantastico; vuole toscaneggiare, e vuole insieme essere
popolare e corrente; vuol ricostruire il vecchio e comparir nuovo. Fini
transitorii, i quali poterono interessare i contemporanei, dargli vinta
la causa nella polemica e nel teatro, e che oggi sono la parte morta
del suo lavoro. Queste intenzioni penetrano in tutta la composizione,
come elementi perturbatori, e rimasti inconciliati. Ciò che resta di
lui è il concetto della commedia popolana, in opposizione alla commedia
borghese. Le maschere, cioè certi caratteri o caricature tipiche del
popolo, come Tartaglia, Pantalone, Truffaldino, Brighella, Smeraldina,
rimangono nella sua composizione come elementi di obbligo e convenzionali,
accessorii spesso grotteschi e insipidi per rispetto al contenuto, innestati
e soprapposti. Il contenuto è il mondo poetico com'è concepito dal popolo,
avido del maraviglioso e del misterioso, impressionabile, facile al
riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale, nelle sue forme,
miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immaginazione tanto
più vivo, quanto meno l'intelletto è sviluppato, è la base naturale
della poesia popolana sotto le sue diverse forme, conti, novelle, romanzi,
storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n'era impadronita;
ma per demolirlo, per gittarvi entro il sorriso incredulo della colta
borghesia. Rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la
fiaba o la fola, cercare ivi il sangue giovine e nuovo della commedia
a soggetto, questo osò Gozzi in presenza di una borghesia scettica e
nel secolo de' lumi, nel secolo degli «spiriti forti» e de' «belli spiriti».
E riuscì a interessarvi il pubblico, perchè quel mondo ha un valore
assoluto, e risponde a certe corde che, maneggiate da abile mano d'artista,
suonano sempre nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del fanciullo
e del popolo. E poichè il pubblico s'interessava ancora alla commedia
del Goldoni, se ne doveva conchiudere, se le conclusioni ragionevoli
fossero possibili in mezzo alla disputa, che tutti e due i generi erano
conformi al vero, l'uno rappresentando la società borghese nella sua
mezza coltura, e l'altro il popolo nelle sue credulità e ne' suoi stupori.
E tutti e due erano una riforma della commedia ne' due suoi aspetti,
la commedia dotta e la commedia improvvisa: era l'apparizione della
nuova letteratura. Ma questo che fece Gozzi non era precisamente quello
che credeva di fare. Ci si messe per picca e per occasione, disprezzava
il pubblico che l'applaudiva, non prendeva sul serio la sua opera, e
perchè Goldoni imitava dal vero, s'innamorò lui del romanzesco e del
fantastico. Ora l'arte non è un capriccio individuale, e perchè Shakespeare
ti piace, non ne viene che tu possa rifare Shakespeare, quando anche
avessi forza da ciò. L'arte, come religione e filosofia, come istituzioni
politiche ed amministrative, è un fatto sociale, un risultato della
coltura e della vita nazionale. Gozzi volea rifare un mondo dell'immaginazione,
quando egli medesimo segnava la dissoluzione di quel mondo nella Marfisa,
quando la parte colta e intelligente della nazione era mossa da impulsi
affatto contrari, e quando il popolo, ebete nella sua miseria, stava
come una massa inerte, e non dava segno di vita letteraria. Se Gozzi
fosse sceso in mezzo al popolo, e vi avesse attinte le sue ispirazioni,
potea forse fare opera viva. Ma Gozzi era aristocratico, odiava tutte
quelle novità, che sentivano troppo di democrazia, e viveva co' suoi
Granelleschi in un ambiente puramente letterario. Rimase perciò un letterato,
non divenne un poeta. Oltre a ciò, un fatto letterario in quel tempo
non potea sorgere di mezzo al popolo, divenuto acqua stagnante; un movimento
c'era, e veniva dalla borghesia, e con quelle tendenze si sviluppava
la vita nazionale in tutt'i suoi indirizzi. Creare un mondo d'immaginazione,
quando la guerra era appunto contro l'immaginazione in nome della scienza
e della filosofia, era un andare a ritroso. Gozzi nacque troppo presto.
Venne il tempo che la borghesia, spaventata da quelle esagerazioni che
stomacavano Gozzi, si riafferrò a quel mondo soprannaturale, come a
tavola di salute. Quello era il tempo di Gozzi; e Gozzi ci fu, e si
chiamò Manzoni. Al suo tempo Gozzi fu un elemento contraddittorio e
perciò inconcludente; e la sua idea, altamente estetica in astratto,
riuscì un fatto letterario e artificiale. Volea ristorare l'antico,
odiava le novità, e senza saperlo le portava nel suo seno: ond'è che
tratta quel suo mondo dell'immaginazione a quello stesso modo che il
forense Goldoni rappresenta la sua società borghese. Gli manca il chiaroscuro,
gli manca l'impressione e il sentimento del soprannaturale, anzi il
suo studio è di rappresentarlo con tutte le apparenze della naturalezza,
come fosse un fatto vulgare e ordinario, a quel modo che andava predicando
Goldoni. Perciò il suo stile non ha rilievo, il suo colorito non ha
trasparenza, le sue tinte non sono fuse, e volendo esser naturale spesso
ti casca nell'insipido e nel volgare. La naturalezza di questo mondo
è nella ingenuità delle sue impressioni, curiosità, maraviglia, sospensione,
terrore, collera, pianti, riso, com'è ne' racconti delle società primitive.
Questa ingenuità è perduta, la naturalezza di Gozzi è negligenza e volgarità.
Quelle apparizioni non hanno per lui serietà, sono giochi e passatempi;
perciò scherzi abborracciati, e senza alcun valore proprio, che, aiutati
dalla mimica, da' lazzi, dallo scenario, potevano produrre effetto nella
rappresentazione, e alla lettura piacciono, senza che ti lascino nell'animo
alcun vestigio. Il Baretti predicava in lui un nuovo Shakespeare, e
quando gli fallì alla prova, se la prese con lui furiosamente, come
l'avesse tradito, e dovea prendersela con sè medesimo, che andava sognando
un Shakespeare nel secolo decimottavo. Che avvenne? La commedia popolana
ritornò nel suo pantano, con le sue maschere, le sue indecenze e le
sue volgarità, e di Gozzi rimase una bella idea, presto dimenticata.
La società prendeva altra via, e seguiva Goldoni.
Il movimento a Venezia rimase puramente letterario.
C'era un centro toscaneggiante nell'accademia de' Granelleschi, divenuta
presto ridicola, della quale erano anima i fratelli Gozzi; e c'era dall'altra
parte Goldoni con intenzioni più alte, che attingevano l'organismo dell'arte.
Il solo Carlo Gozzi presentì il significato politico del movimento,
e sonò la campana a stormo; ma nessuno rispose, perchè il nemico non
si trovò. Goldoni anche a Parigi non ci capiva nulla in quel vertiginoso
rimescolio d'idee, e Rousseau non era per lui che un fenomeno curioso,
un magnifico carattere da commedia, qualche cosa come il «burbero benefico».
Questa sua concentrazione in un punto solo e la sua perfetta innocenza
in tutto l'altro fu la sua forza e la sua debolezza. La sua idea fissa,
ch'era rappresentare dal vivo e dal vero e non guastar la natura, era
il principio rinnovatore della letteratura, negazione dell'Arcadia,
ricostituzione del contenuto e della forma, incarnato in alcune commedie
di esecuzione più o meno perfetta, ma tutte indimenticabili per la chiarezza
e la verità della concezione, delle situazioni e de' caratteri: qui
fu la sua forza. E la sua debolezza fu il carattere meramente letterario
della sua riforma, che lo tiene nella superficie e gli fa produrre un
mondo locale e particolare, a cui la sua indifferenza religiosa, filosofica,
politica, morale, sociale, la sua poca coltura, la scarsezza de' suoi
motivi interni toglie rilievo e vigore, toglie quella idealità, che
viene da un significato generale e permanente. Cosa manca a Goldoni?
Non lo spirito, non la forza comica, non l'abilità tecnica: era nato
artista. Mancò a lui quello che a Metastasio: gli mancò un mondo interiore
della coscienza, operoso, espansivo, appassionato, animato dalla fede
e dal sentimento. Mancò a lui quello che mancava da più secoli a tutti
gl'italiani, e che rendeva insanabile la loro decadenza: la sincerità
e la forza delle convinzioni. Ciò che attestava una possibile rigenerazione,
era la riapparizione di quel mondo interiore negli spiriti più eletti,
che rimetteva in moto il cervello, e svegliava il sentimento. Il maggiore
impulso veniva dal di fuori. Ma l'entusiasmo pubblico mostrava che ci
era la materia atta a riceverlo, e che l'Italia dopo lungo riposo si
rimetteva in via. Nel mezzodì l'attività speculativa da Telesio a Coco
non mancò mai, e vi si era formata una scuola liberale, che avea per
materia la quistione giurisdizionale, e si andava allargando a tutte
le utili riforme nell'assetto dello Stato: quando le nuove idee vi si
affacciarono, trovarono gli spiriti educati e pronti a riceverle, e
se ne fecero interpreti eloquenti ed efficaci Filangieri, Pagano e Galiani.
Vi si andava così elaborando un nuovo contenuto in una forma piena di
spirito e di movimento, spesso ingegnosa e appassionata, filosofia volgarizzata,
col linguaggio vivo e spiritoso della gazzetta. Farse, tragedie, commedie,
orazioni, dissertazioni, prediche, trattati, sonetti, tutt'i generi
della vecchia letteratura continuavano la loro vita solita e meccanica,
senza alcun segno di movimento nel loro interno organismo, imitazioni,
raffazzonamenti, contraffazioni, un mondo di convenzione accolto con
applausi di convenzione. Già Salvator Rosa aveva a suon di tromba mosso
guerra alla declamazione e alla rettorica, senz'accorgersi che faceva
della rettorica anche lui. Un po' di rettorica c'era pure in alcuno
di quegli scrittori, massime in Filangieri, ma vivificata dalla novità
e importanza delle cose, e da quello spirito moderno e contemporaneo
che desta sempre la più viva partecipazione. Il sentimento puramente
letterario, errante in quelle provincie tra il voluttuoso, l'ingegnoso
e il sentimentale, ciò che vi rendea così popolari il Tasso e il Marino,
stagnato il movimento letterario, s'era trasformato nel sentimento musicale,
e vi educava Metastasio, e vi apparecchiava quella scuola immortale
di maestri di musica, che furono i veri padri di un'arte serbata a così
grandi destini. La musica sorgeva animata da quegli stessi impulsi che
non trovavano più soddisfazione nella imputridita forma letteraria,
sorgeva tutta melodia, piena di voluttà, di spirito e di sentimento.
Mentre l'attività speculativa e il sentimento musicale si andava sviluppando
nel mezzogiorno d'Italia, e Goldoni tentava a Venezia la sua riforma
della commedia, Milano diveniva il centro intellettuale e politico della
vita nuova, principali motori Pietro Verri e Cesare Beccaria. A Venezia
c'era l'accademia de' Granelleschi, a Milano c'era l'accademia de' Trasformati.
Lì si concepiva la riforma, come una restaurazione degli studi classici,
e si combatteva il Goldoni, ch'era il vero riformatore. Qui dominava
sotto tutti gli aspetti lo spirito nuovo, l'Enciclopedia vi era
penetrata con tutto il corteggio degli scrittori francesi, vi si elaboravano
non frasi, ma idee, e per maggior libertà si usava non di rado il dialetto
e non la lingua. Ci erano i due Verri, il Beccaria, il Baretti, il Balestrieri,
il Passeroni; ci era il fiore dell'intelligenza milanese. Si chiamavano
i Trasformati, e si può dire che filosofia, legislazione, economia,
politica, morale, tutto lo scibile era già trasformato nelle loro menti,
con più o meno di chiarezza e di coscienza. La letteratura non potea
sfuggire a questa trasformazione, e alla solennità classica succedeva
una forma svelta e naturale, e ne' più briosa e sentimentale alla francese.
Si rideva a spese di Alessandro Bandiera, che voleva insegnar lingua
e stile al padre Segneri, da lui tenuto non abbastanza boccaccevole,
e di padre Branda, che levava a cielo l'idioma toscano e scriveva vitupèri
del dialetto. Il Passeroni metteva in canzone quella vecchia società
nella Vita di Cicerone e nelle Favole esopiane, e alla
vuota turgidezza del Frugoni, ai lambicchi dell'Algarotti, a' lezii
del Bettinelli, che erano i tre poeti alla moda, opponeva quel suo scrivere
andante, alla buona, tutto buon senso e naturalezza. Bravissimo uomo,
senza fiele, senza iniziativa, rideva saporitamente della società, in
mezzo alla quale viveva povero e contento. Metastasio, Goldoni e Passeroni
erano della stessa pasta, idillici e puri letterati. Sono i tre poeti
della transizione. Vedi in loro già i segni di una nuova letteratura,
una forma popolare, disinvolta, rapida, liquida, chiara, disposta più
alla negligenza che all'artificio. Ma è sempre un giuoco di forma, alla
quale manca altezza e serietà di motivi; ci è il letterato, manca l'uomo.
Senti in questi riformatori il vecchio uomo italiano, di cui era espressione
letteraria l'arcade e l'accademico. Combattevano l'Arcadia, ed erano
più o meno arcadi.
In questi tempi di nuove idee e di vecchi uomini nacque Giuseppe Parini,
il 22 maggio del 1729. Venuto dal contado in Milano, cominciò i soliti
studi classici sotto i barnabiti, e il padre Branda fu suo maestro di
rettorica. Il babbo volle farne un prete per nobilitare il casato; ma
sul più bello fu costretto per le strettezze domestiche a troncare i
suoi studi e a ingegnarsi per trarre innanzi la vita. Fece il copista
e il pedagogo, e ne' dispregi e nella miseria si temprò il suo carattere.
Come Metastasio e come tutt'i poeti di quel tempo cominciò arcade, e
le sue prime rime le leggi in una raccolta di poesie a cura di quegli
accademici. Rivelò la sua personalità, combattendo il padre Bandiera
e il padre Branda, di cui era stato un cattivo scolare. Pare che nella
scuola facesse poco profitto, impaziente soprattutto di quei giuochi
di memoria, che erano allora la sostanza degli studi. Padrone di sè,
ne' ritagli di tempo obbliava la sua miseria, conversando con Virgilio,
Orazio, Dante, Ariosto e Berni. E che cosa dovea parergli il padre Branda
col suo toscano, o il padre Bandiera co' suoi periodi? Ma, se aveva
a dispetto quella pedanteria, non gli rincresceva meno quel francesizzare
de' più, divenuto moda nelle alte e basse classi. Usando per il suo
mestiere in case signorili, potè studiare dappresso questa strana mescolanza
di vecchio e di nuovo, che costituiva allora la società italiana. Già
questo pigliar subito posizione, questo soprastare alla lotta e schivarne
tutte le esagerazioni mostra una spiccata personalità. Hai innanzi un
carattere.
Parini era uomo più di meditazione che di azione. Non aveva il gusto
de' piaceri, aveva pochi bisogni, e nessuna cupidigia di onori e di
ricchezze. La società non avea presa su di lui: rimase indipendente
e solitario, inaccessibile alle tentazioni e a' compromessi, e, come
Dante, fece parte da sè. Quel mondo nuovo, che fermentava negli spiriti,
fondato sulla natura e sulla ragione, e in opposizione al fattizio e
al convenzionale del secolo, giuntogli attraverso Plutarco e Dante più
che per influssi francesi, rimase in lui inalterato, puro di quelle
macchie e ombre che vi sovrappongono le vanità e le passioni e gl'interessi
mondani, perciò puro di esagerazioni e ostentazioni. Era in lui una
interna misura, quell'equilibrio delle facoltà, che è la sanità dell'anima,
quella compiuta possessione di se stesso, che è l'ideale del savio,
quella mente rettrice, che sta sopra alle passioni e alle immaginazioni,
e le tiene nel giusto limite. La sua forza è più morale che intellettuale;
perchè la sua intelligenza si alza poco più su del luogo comune, ed
è notabile più per giustezza e misura che per novità e profondità di
concetti. Lo alza su' contemporanei la sincerità e vivacità del suo
senso morale, che gli dà un carattere quasi religioso, ed è la sua fede
e la sua ispirazione. Rinasce in lui quella concordia dell'intendere
e dell'atto mediante l'amore, che Dante chiamava sapienza: rinasce l'uomo.
E l'uomo educa l'artista. Perchè Parini concepisce l'arte allo stesso
modo. Non è il puro letterato, chiuso nella forma, indifferente al contenuto;
anzi la sostanza dell'arte è il contenuto, e l'artista è per lui l'uomo
nella sua integrità, che esprime tutto se stesso, il patriota, il credente,
il filosofo, l'amante, l'amico. La poesia ripiglia il suo antico significato,
ed è voce del mondo interiore, chè non è poesia dove non è coscienza,
la fede in un mondo religioso, politico, morale, sociale. Perciò base
del poeta è l'uomo.
La poesia riacquista la serietà di un contenuto vivente nella coscienza.
E la forma si rimpolpa, si realizza, diviene essa medesima l'idea, armonia
tra l'idea e l'espressione.
La base del contenuto è morale e politica, è la libertà, l'uguaglianza,
la patria, la dignità, cioè la corrispondenza tra il pensiero e l'azione.
È il vecchio programma di Machiavelli, divenuto europeo e tornato in
Italia. La base della forma è la verità dell'espressione, la sua comunione
diretta col contenuto, risecata ogni mediazione. È la forma di Dante
e di Machiavelli riverginata con esso il contenuto.Il contenuto è lirico
e satirico. È l'uomo nuovo in vecchia società.
L'uomo nuovo non è un concetto o un tipo d'immaginazione; ha tutte le
condizioni della realtà, è esso medesimo il poeta. Protagonista di questo
mondo lirico è Giuseppe Parini, che canta se stesso, esprime le sue
impressioni, si effonde, così com'è, nella ingenuità della sua natura.
Spariscono i temi astratti e fattizi di religione, di amore, di moralità.
Tutto è contemporaneo e vivo e concreto, prodotto in mezzo al movimento
de' fatti e delle impressioni. Il poeta, ritirato nella pace della natura
e nella calma della mente, sta al di sopra del suo mondo, e sente le
sue agitazioni, i suoi piaceri e le sue punture, ma non sì che giungano
a turbare l'eguaglianza e la serenità del suo animo. Ci è in questo
uomo nuovo una vena d'idillio e di filosofia, come di uomo solitario,
più spettatore che attore, avvezzo a vivere tranquillo con sè, a conservare
l'occhio puro e spassionato nel giudizio delle cose. Ci è nel poeta
un po' del pedagogo, ammaestrando, librando con giusta misura i fatti
umani. Ma il pedagogo è trasfigurato nel poeta, e vi perde ogni lato
pedantesco e pretensioso. Il suo amore per la vita campestre non è misantropia,
anzi è accompagnato con la più tenera sollecitudine per l'umanità. La
sua rigidità pel decoro e l'onestà femminile è raddolcita da un vivo
sentimento della bellezza. La sua dignità è scevra di orgoglio, la sua
severità è amabile, la sua virtù è pudica, piena di grazia e di modestia.
Ne' suoi concetti e ne' suoi sentimenti ci è sempre il limite, un'armonica
temperanza, dov'è la sua perfezione intellettuale e morale di uomo e
di poeta. Quando leggi la Vita rustica, la Salubrità dell'aria,
il Pericolo, la Musa, la Caduta e la sua Nice
e la sua Silvia, provi una soddisfazione più che estetica, senti
in te appagate tutte le tue facoltà.
La vecchia società è colta non nelle sue generalità rettoriche, come
nel Rosa, nel Menzini e in altri satirici, ma nella forma sostanziale
della sua vecchiezza, che è la pompa delle forme nella insipidezza del
contenuto. Quelle forme così magnifiche, alle quali si dà una importanza
così capitale, sono un'ironia, messe allato al contenuto. La Batracomiomachia
è l'ironia dell'lliade, la Moscheide è l'ironia dell'Orlando:
sono forme epiche applicate a un mondo plebeo. L'ironia è la forma delle
vecchie società, non ancora conscie della loro dissoluzione. È il vecchio
che vuol farla da giovine, con tanta più ostentazione nelle apparenze
quanto più meschina è la sostanza. Questo è il concetto fondamentale
del Giorno, fondato su di un'ironia che è nelle cose stesse,
perciò profonda e trista. Parini non vi aggiunge di suo che il rilievo,
una solennità di esposizione che fa più vivo il contrasto. E perchè
sente in quelle mentite forme negato se stesso, la sua semplicità, la
sua serietà, il suo senso morale, non ha forza di riderne e non gli
esce dalla penna uno scherzo o un capriccio. Ride di mala grazia, e
sotto ci senti il disgusto e il disprezzo. L'Italia avea riso abbastanza,
e rideva ancora ne' versi di Passeroni e di Goldoni. Qui il riso è alla
superficie, sotto alla quale giace repressa e contenuta l'indignazione
dell'uomo offeso. La sua interna misura e pacatezza, la sua mente rettrice
gli dà la forza della repressione, sì che il sentimento di rado erompe
sulla superficie, e l'ironia di rado piglia la forma del sarcasmo. L'ironia
de' nostri padri del Risorgimento era allegra e scettica, come nel Boccaccio
e nell'Ariosto, perchè era rivendicazione intellettuale dirimpetto alle
assurdità teologiche e feudali, rivendicazione accompagnata con la dissoluzione
morale: era l'ironia della scienza a spese dell'ignoranza, e l'ignoranza
fa ridere. Ma qui l'ironia è il risveglio della coscienza dirimpetto
a una società destituita di ogni vita interiore; lì era l'ironia del
buon senso, qui è l'ironia del senso morale. Senti che rinasce l'uomo,
e con esso la vita interiore.
La parola di quella vecchia società era a sua immagine, cascante, leziosa,
vuota sonorità, travolta e seppellita sotto la musica. Qui risuscita
la parola. E vien fuori faticosa, martellata, ardua, pregna di sensi
e di sottintesi. La parola scopre l'ironia, perchè è in antitesi con
quella società molle ed evirata che il poeta finge di celebrare.
Togliete ora l'ironia, fate salire sulla superficie in modo scoperto
e provocante l'ira, il disgusto, il disprezzo, tutti quei sentimenti
che Parini con tanto sforzo dissimula sotto il suo riso, e avete Vittorio
Alfieri. È l'uomo nuovo che si pone in atto di sfida in mezzo a' contemporanei,
statua gigantesca e solitaria col dito minaccioso.
Alfieri si rivelò tardi a se stesso, e per proprio impulso, e in opposizione
alla società. Fino a ventisei anni avea menata la vita solita di un
signorotto italiano, tra dissipazioni, viaggi, amori, cavalli, che non
gli empivano però la vita. De' primi studi non gli era rimasto che l'odio
allo studio. Ricco, nobile, non ambiva nè onori, nè ricchezze, nè uffici:
viveva senz'altro scopo che di vivere. Vita vuota de' ricchi signori,
che se ne contentano, e a cui guardano con invidia i men favoriti dalla
fortuna. Ma non se ne contentava Alfieri, e spesso era tristo, e fra
tanto inutile affaccendarsi sentiva la noia. Era malattia italiana,
propria di tutt'i popoli in decadenza, l'ozio interno, la vacuità di
ogni mondo interiore. Alfieri aveva il sentimento di quel vuoto, e quella
sua vita puramente esteriore era per lui noia mal dissimulata sotto
il mondano rumore. Coloro che questa vita esteriore debbono conquistarsela
col sudore della fronte possono nel loro travaglio trovare un certo
lenitivo di quella noia. Ma natura e fortuna aveano data ad Alfieri
tutta fatta quella vita; i suoi padri aveano lavorato per lui. Nato
non a lavorare, ma a godere, le sue forze interne poderosissime, soprattutto
quella tenace energia di carattere, atta a vincere ogni resistenza,
rimanevano inoperose, perchè tutto piegava innanzi a lui, tutto gli
era facile. Corse parecchie volte tutta Europa; e non vi trovò altro
piacere che il correre, simulacro dell'interna irrequietezza non soddisfatta.
Questo è ciò che dicesi «dissipazione», una vita senza scopo e a caso,
dove fra tanto moto rimangono immobili le due forze proprie dell'uomo,
il pensiero e l'affetto. Se Alfieri fosse stato un cavallo, quel suo
correre l'avrebbe contentato, come contenta moltissimi, che pur si chiamano
uomini. Ma si sentiva uomo, e stava tristo e annoiato, e non sapeva
perchè. Il perchè era questo, che, nato gagliardissimo di pensiero e
di affetto, non aveva trovato ancora un centro, intorno a cui raccogliere
ed esercitare quelle sue facoltà. Una passione si piglia facilmente
in quell'ozio, e Alfieri ebbe i suoi amori e i suoi disinganni, e gli
parve allora di vivere. Ne' momenti più feroci della noia si gittò a'
libri. Di latino non intendeva più nulla, e pochissimo d'italiano; parlava
francese da dieci anni. Leggendo per passatempo, tutto natura e niente
educazione, lo stile classico lo annoiava; Racine lo faceva dormire,
e gittò per la finestra un Galateo del Casa, intoppato in quel
primo «conciossiachè». Si die' a' romanzi come i giovanetti alle Mille
e una notte. Tutto il suo piacere era di seguire il racconto e vederne
la fine, e gli dispiacque l'Ariosto per le sue interruzioni, e lesse
Metastasio saltando le ariette, e non potè leggere l'Henriade
e l'Emilio per quel rettoricume, che gli toglieva la vista del
racconto. Aspettando i cavalli in Savona, gli capitò un Plutarco. Qui
sentì qualche cosa di più che il racconto, gli battè il cuore, quelle
immagini colossali non lo sbigottivano, anzi suscitarono la sua emulazione:
- Non potrei essere anch'io come loro? - E il potere c'era, perchè le
sue forze non erano da meno. Una notte, assistendo l'amata nella sua
infermità, sceneggiò una tragedia, la quale rappresentata poi a Torino
ebbe grandi applausi. - Perchè non potrei io essere scrittore tragico?
- Venutogli questo pensiero, ci si fermò. Secondo le opinioni di quel
tempo, l'Italia era innanzi a tutte le nazioni in ogni genere di scrivere;
ma le mancava la tragedia. Quest'era l'idea fissa di Gravina, e l'ambizione
di Metastasio; a questo lavorarono il Trissino, il Tasso, il Maffei.
Ma la tragedia non c'era ancora, per sentenza di tutti. E dare all'Italia
la tragedia gli pareva il più alto scopo a cui un italiano potesse tendere.
Da' suoi viaggi avea portata ingrandita l'immagine dell'Italia, non
trovato nulla comparabile a Roma, a Firenze, a Venezia, a Genova. Aggiungi
la maestà dell'antica Roma, le memorie di una grandezza non superata
mai. E quantunque l'Italia a quei dì fosse tanto degenere, avea fermissima
fede in una Italia futura, che vagheggiava nel pensiero simile all'antica.
Di questa nuova Italia fondamento era il rifarvi la pianta «uomo», e
gli parea che la tragedia, rappresentazione dell'eroico, fosse acconcia
a ritrarvi questo nuovo uomo, che gli ferveva nella mente, ed era lui
stesso. Questi concetti erano del secolo, penetrati qua e là nelle menti,
e da lui bevuti insieme con gli altri. Ma divennero in lui passione,
scopo unico e ultimo della vita, e vi pose tutte le sue forze. Volle
essere redentore d'Italia, il grande precursore di una nuova era, e,
non potendo con l'opera, co' versi. Così trovò alla vita un degno scopo,
che gli prometteva gloria, lo ingrandiva nella stima degli uomini e
di se stesso. Lo scopo era difficilissimo, perchè tutto gli mancava
ad ottenerlo. E la difficoltà gli fu sprone, e glielo rese più caro.
Vi spiegò quella sua energia indomabile, esercitata fino allora ne'
cavalli e ne' viaggi. Per «disfrancesizzarsi» e «intoscanirsi» visse
il più in Toscana, ristudiò il latino, si pose in capo i trecentisti,
contento di «spensare per pensare», fece suoi compagni indivisibili
Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso. Copiò, postillò, tradusse, «s'inabissò
nel vortice grammaticale», e, non guasto dalla scuola, e tutto lui,
si fece uno stile suo. Scrisse come viaggiava, correndo e in linea retta:
stava al principio e l'animo era già alla fine, divorando tutto lo spazio
di mezzo. La parola gli sembra non via, ma impedimento alla corsa, e
sopprime, scorcia, traspone, abbrevia; una parola di più gli è una scottatura.
Fugge le frasi, le circonlocuzioni, le descrizioni, gli ornamenti, i
trilli e le cantilene: fa antitesi a Metastasio. Tratta la parola come
non fosse suono, e si diletta di lacerare i ben costrutti orecchi italiani,
e a quelli che strillano dà la baia:
Mi trovan duro?
Anch'io lo so:
pensar li fo.
Taccia ho d'oscuro?
Mi schiarirà poi libertà.
All'Italia del Frugoni e del Metastasio dice ironicamente:
Io canterò d'amor soavemente:
molle udirete il flauticello mio
l'aure agitare armoniosamente
per lusingare il vostro eterno oblio.
Ciò che parevano i suoi versi e ciò che ne pare a lui,
si vede da questo epigramma contro i pedanti:
Vi paion strani?
«Saran toscani.»
Son duri duri,
disaccentati...
«Non son cantati.»
Stentati, oscuri,
irti, intralciati.. .
«Saran pensati.»
Pure Alfieri, discepolo di sè, non era ben sicuro del
fatto suo, e consultò Cesarotti, Parini, tutti quelli che andavano per
la maggiore. Voleva un modello di verso tragico, e un barlume ne vedeva
nell'Ossian. Ma voleva l'impossibile, e in ultimo prese il miglior
partito, fece da sè. «Osa, contendi», gli diceva in un bel sonetto Parini.
E lui a sudare intorno a' suoi versi, tormentandoli in mille guise;
ma
«Gira, volta, ei son francesi»
Gira, volta, ei son versi di Alfieri, energicamente
individuali, «carme più aguzzo assai, che tondo». Questo ei chiamava
«stile tragico». La forma letteraria era vuota e sonora cantilena. Lui,
vi oppone questo stile, «pensato e non cantato», energico sino alla
durezza e pieno di senso. E non gli venne già da un preconcetto filosofico
intorno all'arte, gli venne dalla sua natura: perciò in quelle sue asprezze
è vivo e originale.
I critici biasimavano lo stile e lodavano tutto il resto, quasi lo stile
fosse un fenomeno arbitrario e isolato. Non vedevano l'intima connessione
che è tra quello stile e tutto il congegno della composizione. Perchè
Alfieri, come sopprime periodi, ornamenti e frasi, con lo stesso impeto
sopprime confidenti, personaggi, episodi. Nasce una forma nervosa, tesa,
spesso convulsa, che risponde al suo modo di concepire e di sentire:
perciò non pedantesca, anzi viva, interessante, sincera e calda espressione
dell'anima. Se vogliamo conoscere il segreto di questa forma, vediamo
non com'è fatta, ma come è nata.
Alfieri cercò la tragedia non nel mondo vivo, ma nelle tragedie apparse.
Trovò definizioni e regole, e le accettò per buone senza esame. Questo
fu non il suo problema, ma il dato o l'antecedente. Poste quelle definizioni
e quelle regole, il suo problema fu di recare a perfezione la tragedia.
Conosceva poco la tragedia greca; avea letto Seneca; gli erano familiari
le tragedie italiane e francesi. Ma di queste appunto facea poca stima,
come prolisse e rettoriche, e confidava di far meglio. Posto che la
tragedia sia rappresentazione dell'eroico, la concepì come un conflitto
di forze individuali, dove l'eroe soggiace alla forza maggiore. In Metastasio
la forza maggiore è essa eroica, essa clemente e benefattrice: il mondo
prodotto dalla sua immaginazione musicale è un riso, un canto, un inno,
il mondo della misura e dell'armonia glorificato e divinizzato. Qui
la forza maggiore è la tirannide, o l'oppressione, e la sua vittima
è l'eroismo o la libertà; è il mondo della violenza e della barbarie
condannato e marchiato a fuoco. Metastasio compiva un ciclo, Alfieri
ne cominciava un altro. I contemporanei disputavano sullo stile dell'uno
e dell'altro, e volevano somiglianza di stile in tanta opposizione di
concetto.
Ponendo la tragedia come conflitto di forze individuali, Alfieri rimaneva
nel quadro delle tragedie francesi. Il secolo decimosettimo e decimottavo,
come reazione al soprannaturale, cercavano di spiegare la storia con
mezzi umani e naturali, e rappresentavano come azione de' caratteri
e delle passioni individuali quello che gli antichi chiamavano il «destino»,
e Dante con tutto il mondo cristiano chiamava «ordine provvidenziale».
Un concetto scientifico della storia era nato in Italia, dove il destino
e l'«ordine provvidenziale» si era trasformato nella «natura delle cose»
di Machiavelli, nello «spirito» di Bruno, nella «ragione» di Campanella,
nel «fato» di Vico. Ma il concetto era rimasto nelle alte sfere dell'intelligenza,
e appena avvertito, e fuori dell'arte. Shakespeare con la profonda genialità
del suo spirito avea colto queste forze collettive e superiori che sono
il fato della storia. Ma lo spirito di Alfieri era superficiale, più
operativo che meditativo, più inteso alla rapidità e al calore del racconto,
che a scrutarne le profondità. Rimase dunque ne' cancelli del secolo
decimottavo. La tragedia fu per lui lotta d'individui, e il fato storico
fu la forza maggiore o la tirannide, e la chiave della storia fu il
tiranno. Più tardi, ispirato dalla Bibbia, gli lampeggiò innanzi il
Saul e intravvide un ordine di cose superiore. Ma il suo Dio inesorabile
ci sta per figura rettorica ed esiste più nell'opinione e nelle parole
degli attori, che nel nesso degli avvenimenti, tutti spiegati naturalmente.
E come un tiranno ci ha da essere, Dio è il tiranno, e tutto l'interesse
è per Saul, i cui moti sono inconsci, e determinati più dalla malizia
di Abner, che da malizia sua propria. Il suo Saul è la Bibbia
al rovescio, la riabilitazione di Saul, e i sacerdoti tinti di colore
oscuro.
Or questo concetto era la negazione dell'Arcadia, anzi la sua aperta
ed esagerata contraddizione. Al mondo di Tasso, di Guarini, di Marino,
di Metastasio succedeva la tragedia, non accademica e letteraria, com'erano
le tragedie francesi e italiane, ma politica e sociale, fondata su di
una idea maneggiata allora in tutti gli aspetti dagli scrittori; ed
era questa, che la società apparteneva al più forte, e che giustizia,
virtù, verità, libertà giacevano sotto l'oppressione di un doppio potere
assoluto e irresponsabile, la tirannide regia e la tirannide papale,
il trono e l'altare. Più tardi Alfieri vi aggiunse la tirannide popolare.
Or questa era tragedia viva, la tragedia del secolo sotto nomi antichi,
la lotta di un pensiero adulto e civile contro un assetto sociale ancor
barbaro, fondato sulla forza. Ma è tragedia di puro pensiero, rimasta
in regioni meramente speculative, non divenuta storia. Anzi la società
tra quelle agitazioni speculative era ancora idillica e rettorica, confidente
in un progresso pacifico, concordi principi e popoli. A quello stato
sociale corrispondea la tragedia filosofica e accademica, com'era quella
di Voltaire. Alfieri vi aggiunse di suo se stesso. La tragedia è lo
sfogo lirico de' suoi furori, de' suoi odii, della tempesta che gli
ruggìa dentro. In mezzo alla società imparruccata e incipriata, che
gioiosamente declamava tirannide e libertà, egli prende sul serio la
vita e non si rassegna a vivere senza scopo, prende sul serio la morale,
e vi conforma rigidamente i suoi atti, prende sul serio la tirannide,
e freme e si dibatte sotto alle sue strette, imprecando e minacciando,
prende sul serio l'arte e vagheggia la perfezione. Le sue idee sono
i suoi sentimenti; i suoi princìpi sono le sue azioni. L'uomo nuovo
che sente in sè ha la coscienza orgogliosa della sua solitaria grandezza,
e della solitudine si fa piedistallo, e vi si drizza sopra col petto
e colla fronte come statua ideale del futuro italiano, come di «liber
uomo esempio».
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