>
Edizioni Arcipelago - Email:
Materiali per Operatori del Benessere Immateriale
STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
di Francesco De Sanctis
Parti: 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11 - 12 - 13 - 14 - 15

Fiammetta tenta un genere lirico-tragico. Tentativi infelici di uomo che non trova ancora la sua via. L'indefinito è negato a lui, che descrive la natura con tanta minutezza di analisi. Il sospiro è negato a lui, che numera ad uno ad uno i fenomeni del sentimento. L'eroico e il tragico non può allignare in un'anima idillica e sensuale. E quando vi si prova, riesce falso e rettorico. Perciò non gli riesce ancora di produrre un mondo, cioè una totalità organica, armonica e concorde. Nel suo mondo epico-tragico-cavalleresco penetra uno spirito eterogeneo e dissolvente, che rende impossibile ogni formazione artistica, il naturalismo pagano: spirito invitto, perchè è il solo che vive al di dentro di lui, il solo che si possa dire il suo mondo interiore. E quando gli riesce di coglierlo nella sua semplicità e verità, come gli si move al di dentro, allora trova se stesso e diviene artista. Questo mondo, gittato come frammento discorde e caotico ne' suoi romanzi epici e tragici, par fuori in tutta la sua purezza nel Ninfale fiesolano e nel Ninfale d'Ameto.

Quelli che chiamarono «tranquillo» il nostro Giovanni espressero un concetto più profondo che non pensavano. La tranquillità è appunto il carattere del nuovo contenuto che egli cercava sotto forme pagane. La letteratura del medio evo è tutt'altro che tranquilla; anzi il suo genio è l'inquietudine, un cercare continuo, il di là senza speranza di attingerlo. Il suo uomo è sospeso da terra, con gli occhi in alto, accesi di desiderio. L'uomo del Boccaccio è, al contrario, assiso, in ozio idillico, con gli occhi volti alla madre terra, alla quale domanda e dalla quale ottiene l'appagamento. Ma al Boccaccio non piace esser chiamato «tranquillo», inconsapevole che la sua forza è lì dov'è la sua natura. E si prova nel genere eroico e cavalleresco, e nelle confessioni della Fiammetta tenta un genere lirico-tragico. Tentativi infelici di uomo che non trova ancora la sua via. L'indefinito è negato a lui, che descrive la natura con tanta minutezza di analisi. Il sospiro è negato a lui, che numera ad uno ad uno i fenomeni del sentimento. L'eroico e il tragico non può allignare in un'anima idillica e sensuale. E quando vi si prova, riesce falso e rettorico. Perciò non gli riesce ancora di produrre un mondo, cioè una totalità organica, armonica e concorde. Nel suo mondo epico-tragico-cavalleresco penetra uno spirito eterogeneo e dissolvente, che rende impossibile ogni formazione artistica, il naturalismo pagano: spirito invitto, perchè è il solo che vive al di dentro di lui, il solo che si possa dire il suo mondo interiore. E quando gli riesce di coglierlo nella sua semplicità e verità, come gli si move al di dentro, allora trova se stesso e diviene artista. Questo mondo, gittato come frammento discorde e caotico ne' suoi romanzi epici e tragici, par fuori in tutta la sua purezza nel Ninfale fiesolano e nel Ninfale d'Ameto.
Qui l'autore, volgendo le spalle alla cavalleria e a' tempi eroici, rifà con l'immaginazione i tempi idillici delle antiche favole e dell'età dell'oro, quando le deità scendevano amicamente nella terra popolata di ninfe, di pastori, di fauni e di satiri. La mitologia non è qui elemento errante fuori di posto in mondo non suo, è lei tutto il mondo.
Questo mondo mitologico primitivo è un inno alla natura. Nel Ninfale fiesolano la ninfa sacra a Diana, vinta dalla natura, manca al suo voto ed è trasmutata in fonte. L'anima del racconto è il dolce peccato, nel quale cadono Africo e Mensola non per corruzione o depravazione di cuore, ma per l'irresistibile forza della natura nella piena semplicità ed innocenza della vita; sì che, saputo il fatto, ne viene compassione alla stessa Diana. Indi a poco sopraggiunge Atalante, e con la guida del figlio della colpa, nato da Mensola, distrugge gli asili sacri a Diana, e marita le ninfe per forza, ed edifica Fiesole, ed introduce la civiltà e la coltura. Così il mondo mitologico perisce con le sue selvatiche istituzioni, e comincia il viver civile conforme alle leggi della natura e dell'amore.
Il racconto è diviso in sette parti o canti ed è in ottava rima. L'autore, non costretto a gonfiare le gote nè a raffinare i sentimenti, si fa cullare dolcemente dalla sua immaginazione in questo mondo idillico, e descrive paesaggi e scene di famiglia e costumi pastorali con una facilità che spesso è negligenza, non è mai affettazione o esagerazione. La tromba è mutata nella zampogna, suono più umile, ma uguale e armonioso: l'ottava procede piana e naturale, talora troppo rimessa; e non mancano di bei versi imitativi. Africo e Mensola debbono dividersi, chè l'ora è tarda; e il poeta dice:

Partir non si sanno,
ma or si partono, or tornano, or vanno.

Altrove dice:

sempre mirandosi avanti ed intorno,
se Mensola vedea, poneva mente.

Frequente è in lui l'uso dello sdrucciolo in mezzo al verso, e quell'entrare de' versi l'uno nell'altro, che slega e intoppa le sue ottave eroiche, ma dà a queste ottave idilliche un aspetto di naturalezza e di grazia. Il suo periodo poetico, saltellante e imbrogliato nella Teseide, qui è corrente e spedito, assai prossimo al linguaggio naturale e familiare:

Ella lo vide prima che lui lei,
perchè' a fuggir del campo ella prendea:
Africo la sentì gridare - Omei! -
e poi guardando fuggir la vedea:
e infra se disse: - Per certo costei
è Mensola -, e poi dietro le correa;
e sì la prega e per nome la chiama,
dicendo: - Aspetta quel che tanto t'ama. -

Africo dorme; e il padre dice alla moglie, Alimena:

O cara sposa,
nostro figliuol mi pare addormentato,
e molto ad agio in sul letto si posa,
sì che a destarlo mi parria peccato,
e forse gli saria cosa gravosa
se io l'avessi del sonno svegliato.
 - E tu di' vero, - diceva Alimena -
lascial posare e non gli dar più pena. -

Manca il rilievo: per soverchia naturalezza si casca nel triviale e nel volgare. Più tardi verrà il grande artista, che calerà in questo mondo della natura e dell'amore appena sbozzato e pur ora uscito alla luce, e gli darà l'ultima e perfetta forma.
Simile di disegno, ma in più larghe proporzioni, è il Ninfale d'Ameto. È il trionfo della natura e dell'amore sulla barbarie de' tempi primitivi. E il barbaro qui non è la ninfa, sacrata a Diana, che per violenza di natura rompe il voto, ma è il pastore, abitatore della foresta co' fauni e le driadi, che scendendo al piano lascia l'alpina ferita e prende abito civile. Il luogo della scena comincia in Fiesole, negli antichissimi tempi detta Corito, quando vi abitavano le ninfe e non era venuto ancora Atalante a cacciarle via e introdurvi costumi umani. Così l'Ameto si collega col Ninfale fiesolano. Il pastore Ameto erra e caccia su pel monte e per la selva, quando un dì affaticato giunge co' suoi cani al piano, presso il Mugnone; e riposando e trastullandosi co' cani, gli giunge all'orecchio un dolce canto, e guidato dalla melodia scopre più giovanette intorno alla bellissima Lia. Sono ninfe, non sacrate a Diana, ma a Venere. Lia racconta nella sua canzone la storia di Narciso, «bellissimo e crudo cacciatore», che, rifiutando il caro amore delle donne e innamorato della sua immagine, fu convertito in fiore. Ameto parte pensoso, recando seco l'immagine di Lia. Venuta la primavera, torna al piano, e cerca e chiama Lia, descrivendo la sua bellezza e offrendole doni:

Tu se' lucente e chiara più che il vetro
ed assai dolce più ch'uva matura;
nel cuor ti sento, ov'io sempre t'impetro
E siccome la palma in ver l'altura
si stende, così tu, viepiù vezzosa
che 'l giovanetto agnel ne la pastura;
e sei più cara assai e grazïosa
che le fredde acque a' corpi faticati,
o che le fiamme a' freddi, e ch'altra cosa.
E i tuoi capei più volte ho simigliati
di Cerere a le paglie secche e bionde,
dintorno crespi al tuo capo legati...
Vieni, ch'io serbo a te giocondo dono,
che io ho còlti fiori in abbondanza
agli occhi bei, d'odor soave e buono.
E siccome suol esser mia usanza,
le ciriege ti serbo, e già per poco
non si riscaldan per la tua distanza.
Con queste, bianche e rosse come fuoco
ti serbo gelse, mandorle e susine,
fravole e bozzacchioni in questo loco.
Belle peruzze e fichi senza fine,
e di tortole ho presa una nidiata,
le più belle del mondo, e piccoline...

Si avvicinano i giorni sacri a Venere, e nel suo tempio traggono pastori e fauni e satiri e ninfe, e Ameto trova la sua Lia fra bellissime ninfe, delle quali contempla le bellezze parte a parte, fatto giudice esperto e amoroso. E tutti fan cerchio a un pastore che canta le lodi di Venere e di Amore. Sopravvengono altre ninfe, le quali «non umane pensava, ma dèe», e contempla rapito celesti bellezze, e di pastore si sente divenuto amante, dicendo: «Io, usato di seguire bestie, amore poco avanti da me non saputo seguendo, non so come mi convertirò in amante seguendo donne». Le belle ninfe gli siedono intorno, ed egli scioglie un inno a Giove e canta la sua conversione. Questi sono gli antecedenti del romanzo, sparsi di vaghissime descrizioni di bellezze femminili in quella forma minuta e stancante che è il vezzo dell'autore. Lia propone che ciascuna ninfa canti la sua storia e canti la deità reverita da lei, acciocchè «oziose, come le misere fanno, non passino il chiaro giorno». Sedute in cerchio e posto in mezzo Ameto, come loro presidente o antistite, cominciano i loro racconti. Sono sette ninfe: Mopsa, Emilia, Adiona, Acrimonia, Agapes, Fiammetta e Lia, ciascuna consacrata a una divinità, Pallade, Diana, Pomena, Bellona, Venere, delle quali si cantano le lodi. Ne' racconti delle ninfe vedi la vittoria dell'amore e della natura sulla ferina salvatichezza degli uomini, e all'ozio bestiale tener dietro le arti di Pallade, di Diana, di Astrea, di Pomena e di Bellona, la cultura e l'umanità. Ti vedi innanzi svilupparsi tutto il mondo della cultura, e cominciare da Atene ed in ultimo posare in Etruria, dove l'autore con giusto orgoglio pone il principio della nuova cultura. Da ultimo apparisce una luce una e trina, entro la quale guardando Ameto, Mopsa gli occhi asciugandoli, da quelli levò l'oscura caligine, sì che nella luce triforme ravvisa la celeste e santa Venere, madre di amore puro e intellettuale. Tuffato nella fonte da Lia, gittati i panni selvaggi e lavato di ogni lordura, si sente «di bruto fatto uomo», e «vede chi sieno le ninfe, le quali più all'occhio che all'intelletto erano piaciute, e ora all'intelletto piacciono più che all'occhio; discerne quali sieno i templi, quali le dee di cui cantano e chenti sieno i loro amori, e non poco in sè si vergogna de' concupiscevoli pensieri avuti». Le ninfe, le quali non sono altro che le scienze e le arti della vita civile, tornano alla celeste patria, e Ameto canta la sua redenzione dallo stato selvaggio.
Questo disegno evidentemente è uscito da una testa giovanile, ancora sotto l'azione di tutti i diversi elementi di quella cultura. Palpabili sono le reminiscenze della Divina Commedia. Lia e Fiammetta ricordano Matilde e Beatrice. Il concetto nella sua sostanza è dantesco: è l'emancipazione dell'uomo, il quale, percorse le vie del senso e dell'amore sensuale, è dalla scienza innalzato all'amore di Dio. Anche la forma allegorica è dantesca, non essendo quelle apparizioni che simboli di concetti e figure di quelle separate intelligenze che presiedono alle stelle e regolano i moti dell'animo. Tutto questo si trova inviluppato in un mondo mitologico, che è la sua negazione, animato da un naturalismo spinto sino alla licenza: Apuleio e Longo contendono con Dante nel cervello dello scrittore. Il romanzo, che nell'intenzione dovrebbe essere spirituale, è nel fatto soverchiato da un vivo sentimento della bella natura e de' piaceri amorosi. Si vede il giovane, che sta con Dante in astratto, ma ha pieno il capo di mitologia, di romanzi greci e franceschi, di avventure licenziose, e fa di tutto una mescolanza. Se qualche cosa in questa noiosa lettura ti alletta, è dove lo scrittore si abbandona alla sua natura, com'è la comica descrizione che Acrimonia fa del suo vecchio marito, nel quale intravvedi già il povero dottore a cui Paganino rubò la moglie, e com'è qua e là qualche pittura e sentimento idillico. Pure, in un mondo così dissonante e scordato si sviluppa chiaramente un entusiasmo giovanile per la coltura e l'umanità. Ci si sente il secolo, che scuote da sè la rozza barbarie, e s'incammina fidente verso un mondo più colto e polito. Ameto si spoglia il ruvido abito del medio evo, e guidato dalle muse prende aspetto gentile e umano. Le ombre del misticismo si diradano nel tempio di Venere. Dante canta la redenzione dell'anima nell'altro mondo. Il Boccaccio canta la fine della barbarie e il regno della coltura. È lo spirito nuovo, da cui più tardi uscirà Lorenzo de' Medici e Poliziano.
Gittando ora un solo sguardo su questi lavori, si possono raccogliere con chiarezza i caratteri della nuova cultura. Le teorie in astratto rimangono le stesse, e il Boccaccio pensa come Dante. Ma nel fatto lo spirito abbandona il cielo e si raccoglie in terra: perde la sua idealità e la sua inquietudine, e diviene tranquillo, calato tutto e soddisfatto nella materia della sua contemplazione. A un mondo lirico di aspirazioni indefinite, espresso nella visione e nell'estasi, succede un mondo epico, che ha ne' fatti umani e naturali il suo principio e il suo termine. Il poeta in luogo d'idealizzare realizza, cioè a dire fugge le forme sintetiche e comprensive che gittano lo spirito in un di là da esse, e cerca una forma nella quale l'immaginazione si trovi tutta e si riposi. Non ci è più il «forse» e il «parere», non una forma appena abbozzata, quasi velo di qualcos'altro, ma una forma terminata e chiusa in sè e corpulenta, nella quale l'oggetto è minutamente analizzato nelle singole parti: alla terzina succede l'analitica ottava. Rimangono ancora le terzine, e le visioni e le allegorie, i sonetti e le canzoni, ma come forme prettamente convenzionali e d'imitazione, sciolte dallo spirito che le ha generate: il passato per lungo tempo si continua come morta forma in un mondo mutato. Succedono forme giovani e nuove, più conformi a un contenuto epico. Sul mondo inquieto delle allegorie e delle visioni si alza il sereno e tranquillo mondo pagano, con le sue deità umanizzate, con la sua natura animata, col suo vivo sentimento della bellezza, con la sua disinteressata contemplazione artistica. Queste tendenze non trovano soddisfazione in un contenuto eroico e cavalleresco, perchè la serietà di una vita eroica e cavalleresca è ita via insieme col medio evo, e non è più nella coscienza, e non può essere altro che imitazione letteraria e artificio rettorico. Più conveniente a quelle forme è la vita idillica, ne' cui tranquilli ozi, nella cui semplicità e chiarezza l'anima, agitata dalle lotte politiche e turbata dalle ombre di un mondo trascendente, si raccoglie come in un porto e si riposa. L'idillio è la prima forma nella quale si manifesta questa nuova generazione, fiacca e stanca, pur colta ed erudita, che chiama barbara la generazione passata, e celebra i nuovi tempi della coltura e dell'umanità, invocando Venere e Amore.
Specchio di questa società nelle sue fluttuazioni, nelle sue imitazioni, nelle sue tendenze, è il Boccaccio. I suoi tentennamenti e le sue dissonanze provengono dalla coesistenza nel suo spirito d'elementi vecchi e nuovi, vivi e morti, mescolati. Un doppio involucro, mistico e mitologico, circonda come una nebbia questo mondo della natura.
Fra questi tentennamenti si andò formando il Decamerone. Il Boccaccio lascia qui cavalleria, mitologia, allegoria, e tutto il suo mondo classico, tutte le sue reminiscenze dantesche, e si chiude nella sua società, e ci vive e ci gode, perchè ivi trova se stesso, perchè vive anche lui di quella vita comune. Par così facile attingere la società in questa forma diretta e immediata: pur si vede quanto laboriosa gestazione è necessaria, perchè esca alla luce il mondo del tuo spirito.
Quel mondo esisteva prima del Decamerone. In Italia abbondavano romanzi e novelle e «canzoni latine», canti licenziosi. Le donne, come abbiam visto, leggevano secretamente tra loro questi libri profani, e i novellatori intrattenevano le liete brigate con racconti piacevoli e licenziosi. Il fondo comune de' romanzi erano le avventure de' cavalieri della Tavola rotonda e di Carlomagno Nell'Amorosa visione il Boccaccio cita un gran numero di questi eroi ed eroine, Artù, Lancillotto, Galeotto, Isotta la bionda, Chedino, Palamides, Lionello, Tristano, Orlando, Uliviero, Rinaldo, Guttifré, Roberto Guiscardo, Federico Barbarossa, Federico secondo. Egli medesimo scrisse romanzi per far piacere alle donne, e rifatto il romanzo di Florio e Biancofiore, cercò un teatro più conforme a' suoi studi classici ne' tempi eroici e primitivi delle greche tradizioni. Pure, le novelle doveano riuscire più popolari e più gradite, perchè più conformi a' tempi e a' costumi. E se ne raffazzonavano o inventavano di ogni sorta, serie e comiche, morali e oscene, variate e abbellite da' novellatori secondo i gusti dell'uditorio. La novella era dunque un genere vivente di letteratura, lasciato in balia dell'immaginazione, e come materia profana e frivola, trascurata dagli uomini colti. Rivale della novella era la leggenda co' suoi miracoli e le sue visioni. Gli uomini colti si tenevano alto in una regione loro propria, e lasciavano a' frati i Fioretti di san Francesco e la Vita del beato Colombino, e a' buontemponi la semplicità di Calandrino e le avventure galanti di Alatiel.
In questo mondo profano e frivolo entrò il Boccaccio, con non altro fine che di scrivere cose piacevoli e far cosa grata alla donna che gliene avea data commissione. E raccolse tutta quella materia informe e rozza, trattata da illetterati, e ne fece il mondo armonico dell'arte.
Dotte ricerche sonosi fatte sulle fonti dalle quali il Boccaccio ha attinte le sue novelle. E molti credono si tolga qualche cosa alla sua gloria, quando sia dimostrato che la più parte de' suoi racconti non sono sua invenzione, quasi che il merito dell'artista fosse nell'inventare, e non piuttosto nel formare la materia. Fatto è che la materia, così nella Commedia e nel Canzoniere come nel Decamerone, non uscì dal cervello di un uomo, anzi fu il prodotto di una elaborazione collettiva, passata per diverse forme, insino a che il genio non l'ebbe fissata e fatta eterna.
Ci erano in tutti i popoli latini novelle sotto diversi nomi, ma non c'era la novella, e tanto meno il novelliere, in cui i singoli racconti fossero composti ad unità e divenissero un mondo organico. Questo organismo vi spirò dentro il Boccaccio, e di racconti diversi di tempi, di costumi e di tendenze fece il mondo vivente del suo tempo, la società contemporanea, della quale egli aveva tutte le tendenze nel bene e nel male.
Non è il Boccaccio uno spirito superiore che vede la società da un punto elevato e ne scopre le buone e cattive parti con perfetta e severa coscienza. È un artista che si sente uno con la società in mezzo a cui vive, e la dipinge con quella mezza coscienza che hanno gli uomini fluttuanti fra le mobili impressioni della vita, senza darsi la cura di raccogliersi e analizzarle. Qualità che lo distingue sostanzialmente da Dante e dal Petrarca, spiriti raccolti ed estatici. Il Boccaccio è tutto nel mondo di fuori tra' diletti e gli ozi e le vicissitudini della vita, e vi è occupato e soddisfatto, e non gli avviene mai di piegarsi in sè, di chinare il capo pensoso. Le rughe del pensiero non hanno mai traversata quella fronte, e nessun'ombra è calata sulla sua coscienza. Non a caso fu detto «Giovanni della tranquillità». Sparisce con lui dalla nostra letteratura l'intimità, il raccoglimento, l'estasi, la inquieta profondità del pensiero, quel vivere dello spirito in sè, nutrito di fantasmi e di misteri. La vita sale sulle superficie e vi si liscia e vi si abbellisce. Il mondo dello spirito se ne va: viene il mondo della natura.
Questo mondo superficiale, appunto perchè vuoto di forze interne e spirituali, non ha serietà di mezzi e di scopo. Ciò che lo move non è Dio, nè la scienza, non l'amore unitivo dell'intelletto e dell'atto, la grande base del medio evo; ma è l'istinto o l'inclinazione naturale: vera e violenta reazione contro il misticismo. Ti vedi innanzi una lieta brigata, che cerca dimenticare i mali e le noie della vita, passando le calde ore della giornata in piacevoli racconti. Era il tempo della peste, e gli uomini con la morte innanzi si sentivano sciolti da ogni freno e si abbandonavano al carnevale della loro immaginazione. Di questo carnevale il Boccaccio aveva l'immagine nella corte ove avea passati i suoi più bei giorni, attingendo le sue ispirazioni in quel letame, sul quale le Muse e le Grazie sparsero tanti fiori. Un congegno simile trovi già nell'Ameto, un decamerone pastorale: se non che ivi i racconti sono allegorici e preordinati ad un fine astratto: non c'è lo spirito della Divina Commedia, ma ce n'è l'ossatura. Qui al contrario i racconti non hanno altro fine che di far passare il tempo piacevolmente, e sono veri mezzani di piacere e d'amore, il vero Principe Galeotto, titolo italiano del novelliere, velato pudicamente da un titolo greco. I personaggi evocati nell'immaginazione da diversi popoli e tempi appartengono allo stesso mondo, vuoto al di dentro, corpulento al di fuori. Personaggi, attori, spettatori e scrittore sono un mondo solo, il cui carattere è la vita tutta al di fuori, in una tranquilla spensieratezza.
Questo mondo è il teatro de' fatti umani abbandonati al libero arbitrio e guidati ne' loro effetti dal caso. Dio o la provvidenza ci sta di nome, quasi per un tacito accordo, nelle parole di gente caduta nella più profonda indifferenza religiosa, politica e morale. E non c'è neppure quella intima forza delle cose, che crea la logica degli avvenimenti e la necessità del loro cammino; anzi l'attrattivo del racconto è proprio nell'opposto, mostrando le azioni umane per il capriccio del caso riuscire a un fine affatto contrario a quello che ragionevolmente si potea presupporre. Nasce una nuova specie di maraviglioso, generato non dall'intrusione nella vita di forze oltrenaturali sotto forma di visioni o miracoli, ma da uno straordinario concorso di accidenti non possibili ad essere preveduti e regolati. L'ultima impressione è che signore del mondo è il caso. Ed è appunto nel vario giuoco delle inclinazioni e delle passioni degli uomini sottoposte a' mutabili accidenti della vita che è qui il deus ex machina, il dio di questo mondo.
E poichè la macchina è il maraviglioso, l'imprevisto, il fortuito, lo straordinario, l'interesse del racconto non è nella moralità degli atti, ma nella loro straordinarietà di cause e di effetti. Non già che il Boccaccio sconosca il mondo morale e religioso, ed alteri le nozioni comuni intorno al bene od al male, ma non è questo di che si preoccupa e che lo appassiona. Poco a lui rileva che il fatto sia virtuoso o vizioso: ciò che importa è che possa stuzzicare la curiosità con la straordinarietà degli accidenti e dei caratteri. La virtù, posta qui a fare effetto sull'immaginazione, manca di semplicità e di misura, e diviene anch'essa un istrumento del maraviglioso, condotta ad una esagerazione, che scopre nell'autore il vuoto della coscienza ed il difetto di senso morale. Esempio notabile è la Griselda, il personaggio più virtuoso di quel mondo. La quale per mostrarsi buona moglie soffoca tutti i sentimenti della natura e la sua personalità e il suo libero arbitrio. L'autore, volendo foggiare una virtù straordinaria, che colpisca di ammirazione gli uditori, cade in quel misticismo contro di cui si ribella e che mette in gioco, collocando l'ideale della virtù femminile nell'abdicazione della personalità, a quel modo che secondo l'ideale teologico la carne è assorbita dallo spirito e lo spirito è assorbito da Dio. Si rinnova il sacrificio di Abramo, e il Dio che mette la natura a così crudel prova è qui il marito. Similmente la virtù in Tito e Gisippo è collocata così fuori del corso naturale delle cose, che non ti alletta come un esempio, ma ti stupisce come un miracolo. Ma virtù eccezionali e spettacolose sono rare apparizioni, e ciò che spesso ti occorre è la virtù tradizionale di tempi cavallereschi e feudali, una certa generosità e gentilezza di re, di principi, di marchesi, reminiscenze di storie cavalleresche ed eroiche in tempi borghesi. La qual virtù è in questo, che il principe usa la sua potenza a protezione de' minori, e soprattutto degli uomini valenti d'ingegno e di studi e poco favoriti dalla fortuna, come furono Primasso e Bergamino, verso i quali si mostrarono magnifici l'abate di Cligny e Can Grande della Scala. Così è molto commendato il primo Carlo d'Angiò, il quale, potendo rapire e sforzare due bellissime fanciulle, figliuole di un ghibellino, amò meglio dotarle magnificamente e maritarle. La virtù in questi potenti signori è di non fare malvagio uso della loro forza, anzi di mostrarsi liberali e cortesi. Già cominciava in quel mondo a parer fuori una classe di letterati, che viveva alle spese di questa virtù, celebrando con giusto cambio una magnificenza, della quale assaporavano gli avanzi. L'anima altera di Dante mal vi si piegava, nè gli fu ultima cagione d'amarezza quel mendicare la vita a frusto a frusto e scendere e salire per le altrui scale. Ma i tempi non erano più all'eroica, e il Petrarca si lasciava dotare e mantenere da' suoi mecenati, e il Boccaccio vivea de' rilievi della corte di Napoli, comicamente imbestiato, quando il mantenimento non era dicevole a un par suo, disposto da' buoni o da' cattivi cibi al panegirico o alla satira. Tale è il tipo di ciò che in questo mondo boccaccevole è chiamato la virtù, una liberalità e gentilezza d'animo, che dalle castella penetra nelle città e fino ne' boschi, asilo de' masnadieri, della quale sono esempio Natan, e il Saladino, e Alfonso, e Ghino di Tacco, e il negromante di Ansaldo. Questo, se non è propriamente senso morale, è pur senso di gentilezza, che raddolcisce i costumi e spoglia la virtù del suo carattere teologico e mistico, posto nell'astinenza e nella sofferenza, le dà aspetto piacevole, più conforme ad una società colta e allegra. Vero è che siccome il caso, regolatore di questo mondo, ne fa di ogni maniera, talora l'allegria che vi domina è funestata da tristi accidenti, che turbano il bel sereno. Ma è una nuvola improvvisa, la quale presto si scioglie e rende più cara la vista del sole, o come dice la Fiammetta, è una «fiera materia, data a temperare alquanto la letizia». Volendo guardare più profondamente in questo fenomeno, osserviamo che la gioia ha poche corde, e sarebbe cosa monotona, noiosa, e perciò poco gioiosa, come avviene spesso ne' poemi idillici, se il dolore non vi si gittasse entro con le sue corde più varie e più ricche d'armonia, traendosi appresso un corteggio di vivaci passioni, l'amore, la gelosia, l'odio, lo sdegno, l'indignazione. Il dolore ci sta qui non per sè, ma come istrumento della gioia, stuzzicando l'anima, tenendola in sospensione e in agitazione, insino a che per benignità della fortuna o del caso comparisce d'improvviso il sereno. E quando pure il fatto sorta trista fine, com'è in tutt'i racconti della giornata quarta, l'emozione è superficiale ed esterna, esaltata e raddolcita in descrizioni, discorsi e riflessioni, e non condotta mai sino allo strazio, com'è nel fiero dolore di Dante. Sono fugaci apparizioni tragiche in questo mondo della natura e dell'amore, provocate appunto dalla collisione della natura e dell'amore non con un principio elevato di moralità, ma con la virtù cavalleresca, «il punto d'onore». Di che bellissimo esempio, oltre il Gerbino, è il Tancredi, che testimone della sua onta uccide l'amante della figliuola, e mandale il cuore in una coppa d'oro: la quale, messa sopra esso acqua avvelenata, quella si bee e così muore. Il motivo della tragedia è il punto d'onore, perchè ciò che move Tancredi è l'onta ricevuta, non solo per l'amore della figliuola, ma ancora più per l'amore collocato in uomo di umile nazione. Ma la figliuola dimostra vittoriosamente al padre la legittimità del suo amore e della sua scelta, invocando le leggi della natura e il concetto della vera nobiltà, posta non nel sangue, ma nella virtù; e l'ultima impressione è la condanna del padre indarno pentito e piangente sul morto corpo della figliuola, il quale apparisce non come giusto vendicatore del suo onore offeso, ma come ribelle verso la natura e l'amore. L'effetto estetico è la compassione verso il padre e la figliuola, l'una di alto animo, l'altro umano e di benigno ingegno, vittime tutti e due non per difetto proprio, ma per le condizioni del mondo in mezzo a cui vivono. La conclusione ultima è la rivendicazione delle leggi della natura e dell'amore verso gli ostacoli in cui s'intoppano. Sicchè la tragedia è qui il suggello e la riprova del mondo boccaccevole, e il dolore fugace che vi fa la sua comparsa, presentato nella sua forma più mite e tenera, vicina alla compassione, è come il condimento della gioia, a lungo andare insipida, quando sia abbandonata a se stessa.
La base della tragedia è mutata. Non è più il terrore che invade gli spettatori incontro a un fato incomprensibile che si manifesta nella catastrofe, come ne' greci, e neppure l'espiazione per le leggi di una giustizia superiore, come nell'inferno dantesco; ma è il mondo abbandonato alle sue forze naturali e cieche, nel cui conflitto rimane l'amore come una specie di diritto superiore, incontro a cui tutti hanno torto. La natura, che nel mondo dantesco è il peccato, qui è la legge, ed ha contro di sè non un mondo religioso e morale, di cui non è vestigio, ancorchè ammesso in astratto e in parola, ma la società come si trova ordinata in quel complesso di leggi, di consuetudini che si chiamano l'«onore». Il conflitto è tutto però al di fuori nell'ordine de' fatti prodotti dal diverso urto di queste forze e terminati dalla benignità o malvagità del caso o della fortuna; e non sale a vera opposizione interna che sviluppi le passioni e i caratteri. Il poeta non è un ribelle alle leggi sociali e tantomeno un riformatore; prende il mondo com'è, e se le sue simpatie sono per le vittime dell'amore, non biasima per ciò coloro che dall'onore sono mossi ad atti crudeli, anch'essi degni di stima, vittime anch'essi. Così esalta Gerbino, che volle romper la fede data dal re, suo zio, anzi che mancare alle leggi dell'amore ed esser tenuto vile; ma non biasima il re che lo fece uccidere, «volendo anzi senza nipote rimanere, ch'essere tenuto re senza fede». Ne nasce in mezzo all'agitazione de' fatti esteriori una calma interna, una specie di equilibrio, dove l'emozione non penetra se non quanto è necessario a ravvivare e variare l'esistenza. Perciò in questo mondo borghese e indifferente e naturale la tragedia rimane esteriore e superficiale, naufragata qui come un frammento galleggiante nella vastità delle onde. Il movimento non ha radice nella coscienza, nelle forti convinzioni e passioni stimolate dal contrasto, ma si scioglie in un giuoco di immaginazione, in una contemplazione artistica de' vari casi della vita, che sorprendano e attirino la tua attenzione. Per dirla con un solo vocabolo comprensivo, virtù e vizi qui non hanno altro significato che di «avventure», ovvero casi straordinari tirati in iscena dal capriccio del caso. Gli uditori non vi prendono altro interesse che di trovarvi materia a passare il tempo con piacere; e del loro piacere è mezzana la stessa virtù e lo stesso dolore.
Un mondo, il cui dio è il caso e il cui principio direttivo è la natura, non è solo spensierato e allegro, ma è anche comico. Già quel non prendere in nessuna serietà gli avvenimenti e farne un giuoco di pura immaginazione, quell'intreccio capriccioso de' casi, quell'equilibrio interno che si mantiene sereno tra le più crudeli vicissitudini, sono il terreno naturale su cui germina il comico. Un'allegrezza vuota d'intenzione e di significato è cosa insipida, è appunto quel riso che abbonda nella bocca degli stolti. Perchè il riso abbia malizia o intelligenza, dee avere una intenzione e un significato, dee esser comico. E il comico dà a questo mondo la sua fisonomia e la sua serietà.
Questa società è essa medesima una materia comica, perchè niente è più comico che una società spensierata e sensuale, da cui escono i tipi di don Giovanni e di Sancio Panza. Ma è una società che rappresentava a quel tempo quanto di più intelligente e colto era nel mondo, e ne aveva coscienza. Una società siffatta aveva il privilegio di esser presa sul serio da tutto il mondo e di poter ridere essa di tutto il mondo. In effetti due cose serie sono in queste novelle, l'apoteosi dell'ingegno e della dottrina che si fa riconoscere e rispettare da' più potenti signori, e una certa alterezza borghese che prende il suo posto nel mondo e si proclama nobile al pari de' baroni e de' conti. Questi sono i caratteri di quella classe a cui apparteneva il Boccaccio, istruita, intelligente, che teneva sè civile e tutto l'altro barbarie. E il comico qui nasce appunto da questo: è la caricatura che l'uomo intelligente fa delle cose e degli uomini posti in uno strato inferiore della vita intellettuale. La società colta aveva innanzi a sè i frati ed i preti, o come dice il Boccaccio, le cose cattoliche, orazioni, confessioni prediche, digiuni, mortificazioni della carne, visioni e miracoli; e dietro stava la plebe con la sua sciocchezza e la sua credulità. Sopra questi due ordini di cose e di persone il Boccaccio fa sonare la sferza.
Materia del comico è dunque l'efficacia delle orazioni, come il «paternostro» di san Giuliano, il modo di servire Dio nel deserto, la vita pratica de' frati, de' preti e delle monache in contraddizione con le loro prediche, l'arte della santificazione insegnata a fra Puccio, i miracoli e le apparizioni de' santi, come l'apparizione dell'angelo Gabriello, e la semplicità della plebe, trastullo dei furbi. Visibile soprattutto è la reazione della carne contro gli eccessivi rigori di un clero che proscriveva il teatro e la lettura de' romanzi, e predicava i digiuni e i cilizi come la via al paradiso. È una reazione che si annunzia naturalmente con la licenza e il cinismo. La carne scomunicata si vendica, e chiama «meccanici» i suoi maldicenti, cioè gente che giudica grossamente secondo l'opinione volgare. Così il mondo dello spirito in quelle sue forme eccessive è divenuto per questa gente il mondo volgare. È immaginabile con che voluttà la carne dopo la lunga compressione si sfoghi, con che delizia ti ponga innanzi ad uno ad uno i suoi godimenti, scegliendo i modi e le frasi più scomunicate, e talora volgendo a senso osceno frasi e immagini sacre. È il mondo profano in aperta ribellione, che ha rotto il freno e fa la caricatura al padrone, cadutogli di sella. Su questo fondo comico s'intreccia una grande varietà di accidenti, di cui sono gli eroi i due protagonisti immortali di tutte le commedie, chi burla e chi si fa burlare, i furbi e i gonzi, e di questi i più martoriati e i più innocenti, i mariti. E fra tanti accidenti si sviluppa una grande ricchezza di caratteri comici, de' quali alcuni sono rimasti veri tipi, come il cattivello di Calandrino e lo scolare vendicativo che sa dove il diavolo tien la coda. I caratteri seri sono piuttosto singolarità che tipi, individui perduti nella minutezza ed eccezionalità della loro natura, come Griselda, Tito, il conte di Anguersa, madama Beritola, Ginevra e la Salvestra e l'Isabetta e la figlia di Tancredi. Ma i caratteri comici sono la parte viva e intima e sentita di questo mondo, e riflettono in sè fisonomie universali che incontrate nell'uso comune della vita, come compar Pietro e maestro Simone e fra Puccio e il frate montone e il giudice squasimodeo e monna Belcolore e Tofano e Gianni Lotteringhi, e tutte le varietà, perchè «infinita è la turba degli stolti». Così questo mondo spensierato e gioviale si disegna, prende contorni, acquista una fisonomia, diviene la «commedia umana».
Ecco, a così breve distanza, la commedia e l'anticommedia, la «Divina Commedia» e la sua parodia, la «commedia umana»! E sullo stesso suolo e nello stesso tempo Passavanti, Cavalca, Caterina da Siena, voci dell'altro mondo, soverchiate dall'alto e profano riso di Giovanni Boccaccio. La gaia scienza esce dal suo sepolcro col suo riso incontaminato; i trovatori e i novellatori, spenti da' ferri sacerdotali, tornano a vita e ripigliano le danze e le gioiose canzoni nella guelfa Firenze; la novella e il romanzo, proscritti, proscrivono alla lor volta e rimangono padroni assoluti della letteratura. Certo, questo mutamento non viene improvviso, come appare un moto di terra: lo spirito laicale è visibile in tutta la letteratura e si continua con tradizione non interrotta, come s'è visto, insino a che nella Divina Commedia prende arditamente il suo posto e si proclama anch'esso sacro e di diritto divino, e Dante, laico, assume tono di sacerdote e di apostolo. Ma Dante il fa con tanta industria che tutto l'edificio stia in piedi e la base rimanga salda. La sua «commedia» è una riforma; la «commedia» del Boccaccio è una rivoluzione, dove tutto l'edificio crolla e sulle sue rovine escono le fondamenta di un altro.
La Divina Commedia uscì dal numero de' libri viventi, e fu interpretata come un libro classico, poco letta, poco capita, pochissimo gustata, ammirata sempre. Fu divina, ma non fu più viva. E trasse seco nella tomba tutti quei generi di letteratura, i cui germi appaiono così vivaci e vigorosi ne' suoi schizzi immortali, la tragedia, il dramma, l'inno, la laude, la leggenda, il mistero. Insieme perirono il sentimento della famiglia e della natura e della patria, la fede in un mondo superiore, il raccoglimento e l'estasi e l'intimità, le caste gioie dell'amicizia e dell'amore, l'ideale e la serietà della vita. In questo immenso mondo, crollato prima di venire a maturità e produrre tutti i suoi frutti, ciò che rimase fecondo fu Malebolge, il regno della malizia, la sede della umana commedia. Quel Malebolge, che Dante gitta nel loto, e dove il riso è soverchiato dal disgusto e dalla indignazione, eccolo qui che mena sulla terra la sua ridda infernale, abbigliato dalle Grazie, e si proclama esso il vero paradiso, come capì don Felice e non capì il povero frate Puccio. In effetti qui il mondo è preso a rovescio. «Commedia» per Dante è la beatitudine celeste. «Commedia» pel Boccaccio è la beatitudine terrena, la quale tra gli altri piaceri dà anche questo, di passare la malinconia spassandosi alle spalle del cielo. La carne si trastulla, e chi ne fa le spese è lo spirito.
Se la reazione contro uno spiritualismo esagerato e lontanissimo dalla vita pratica fosse venuta da lotte vivaci nelle alte regioni dello spirito, il movimento sarebbe stato più lento o più contrastato, come negli altri popoli, ma insieme più fecondo. Il contrasto avrebbe fortificata la fede negli uni e le convinzioni negli altri, e generata una letteratura piena di vigore e di sostanza, alla quale non sarebbe mancata nè la passione di Lutero, nè l'eloquenza di Bossuet, nè il dubbio di Pascal, nè le forme letterarie possibili solo dove la vita interiore è forte e sana. Così il movimento sarebbe stato insieme negativo e positivo, il distruggere sarebbe stato insieme l'edificare. Ma le audacie del pensiero punite inesorabilmente, troncata col sangue l'opposizione ghibellina, rimaso il papato arbitro e vicino e sospettoso e vigile, quel mondo religioso così corrotto ne' costumi, come assoluto nelle dottrine e grottesco nelle forme, al contatto con una coltura così rapida e con lo spirito fatto adulto e maturo dallo studio degli antichi scrittori, non potè esser preso sul serio dalla gente colta, che pure è quella che ha in mano l'indirizzo della vita nazionale. Nacque a questo modo la scissura tra la gente colta e tutto il rimanente della società, che pure era la gran maggioranza, rimasa passiva e inerte in mano al prete di Varlungo, a donno Gianni, a frate Rinaldo e a frate Cipolla. Sicchè per la gente istruita quel mondo divenne il mondo del volgo, o de' meccanici, e saperne ridere era segno di coltura: ne ridevano anche i chierici che volevano esser tenuti uomini colti. Così coesistevano l'una accanto all'altra due società distinte, senza troppo molestarsi. La libertà del pensiero era negata; vietato mettere in dubbio la dottrina astratta; ma quanto alla pratica, era un altro affare, si viveva e si lasciava vivere, trastullandosi tutti e sollazzandosi nel nome di Dio e di Maria. Gli stessi predicatori ne davano esempio, cercando di divertire il pubblico con motti e ciance ed iscede; cosa che al buon Dante muoveva lo stomaco, e che faceva ridere il Boccaccio, scrivendo nella conclusione del suo Novelliere: «se le prediche de' frati per rimorder delle lor colpe gli uomini il più oggi piene di motti e di ciance e di scede si veggono, estimai che quegli medesimi non stesser male nelle mie novelle, scritte per cacciar la malinconia delle femmine.»
L'indignazione di Dante era caduta: sopravvenne il riso, come di cose oramai comuni. Non si move la bile se non in quelli che credono e veggono profanata la loro credenza ne' fatti: è la bile de' santi e di tutti gli uomini di coscienza. Ma quella colta società, vuota di senso religioso e morale, non era disposta a guastarsi la bile per i difetti degli uomini. Le «sfacciate donne fiorentine» qui allettano e lasciviano e fanno «quadri viventi», come si dice e si fa oggidì. Il traffico delle cose sacre, occasione allo scisma della credente Germania, e che Dante nella nobile ira sua chiama «adulterio», qui è materia di amabili frizzi, senza fiele e senza malizia. La confessione suggerisce l'idea di equivoci molto ridicoli, ne' quali sono i laici e le laiche, che la fanno a' preti, uomini «tondi» e «grossi», come si mostra nel confessore di ser Ciappelletto, e nel frate Bestia, carattere comico de' meglio disegnati. Il foggiar miracoli, come quel di Masetto l'ortolan Alberto o di frate Cipolla, il fabbricar santi e renderli miracolosi, come è di ser Ciappelletto, è rappresentato con l'allegria comica di gente colta e incredula. Profanazioni simili fanno ridere, perchè le cose profanate non ispirano più riverenza.
Questa società tal quale, sorpresa calda calda nell'atto della vita, è trasportata nel Decamerone: quadro immenso della vita in tutte le sue varietà di caratteri e di accidenti i più atti a destare la maraviglia, sul quale spicca Malebolge tirato dall'inferno e messo sul proscenio, il mondo sensuale e licenzioso della furberia e della ignoranza, entro cui si move senza mescolarvisi un mondo colto e civile, il mondo della cortesia, riflesso di tempi cavallereschi, vestito un po' alla borghese, spiritoso, elegante, ingegnoso, gentile, di cui il più bel tipo è Federigo degli Alberighi. Gli abitanti naturali di questo mondo sono preti e frati e contadini e artigiani e umili borghesi e mercatanti, con un corteggio femminile corrispondente, e le alte risa plebee di questo perpetuo carnevale coprono le donne e i cavalieri, le armi e gli amori, le cortesie e le imprese di quel mondo dello spirito, della coltura, dell'ingegno e della eleganza, allegro anch'esso, ma di un'allegrezza costumata e misurata, magnifico negli atti, avvenente nelle forme, e nel parlare e ne' modi decoroso. Questi due mondi, le cui varietà si perdono nello sfondo del quadro, vivono insieme, producendo un'impressione unica e armonica di un mondo spensierato e superficiale, tutto al di fuori nel godimento della vita, menato in qua e in là da' capricci della fortuna.
Questo doppio mondo così armonizzato nelle sue varietà riceve la sua intonazione dall'autore e dalla lieta brigata che lo introduce in iscena. L'autore e i suoi novellatori appartengono alla classe colta e intelligente. Essi invocano spesso Dio, parlano della Chiesa con rispetto, osservano tutte le forme religiose, fanno vacanza il venerdì, perchè in quel giorno il nostro Signore per la «nostra vita morì», cantano canzoni platoniche e allegoriche, e menano vita allegra, ma costumata e quale a gentili persone si richiede. Lo spirito, l'eleganza, la coltura, le muse rendono questa società amabile, come oggi si riscontra ne' circoli più eleganti. Specchio suo è quel mondo della cortesia, reminiscenza feudale abbellita dalla coltura e dallo spirito, alla cui immagine si dipinge la colta e ricca borghesia. E come quel mondo feudale avea i suoi buffoni e giullari, questa società ha anch'essa chi la rallegri. E i suoi buffoni e giullari sono quell'infinito mondo che le si schiera innanzi preti, frati, contadini, artigiani, di cui prende spasso, traendo piacere così dai babbei come dai furbi. In questo comico non ci è punto una intenzione seria e alta, come correggere i pregiudizi, assalire le istituzioni, combattere l'ignoranza, moralizzare, riformare: nel che sta la superiorità del comico di Rabelais e di Montaigne, che è la reazione del buon senso contro un mondo artificiale e convenzionale. Lì il riso è serio, perchè lascia qualche cosa nella coscienza; qui il riso è per il riso, per passare malinconia, per cacciare la noia. Quel mondo plebeo è guardato come fa un pittore il modello, senz'altra intenzione che di pigliarne i contorni e i lineamenti e mettere in vista ciò che può meglio trastullare la nobile brigata. Nell'immenso naufragio sopravviveva la coscienza letteraria e il sentimento artistico fortificato dallo spirito e dalla coltura; ed è da quella coscienza che sono usciti questi capolavori, modelli idealizzati a uso e piacere di una società intelligente e sensuale dal geniale artista, idolo delle giovani donne a cui sono intitolati.
L'ideale comico rimasto come il suggello dell'immortalità su questi modelli è nella rappresentazione diretta di questa società così com'è, nella sua ignoranza e nella sua malizia messa al cospetto di una società intelligente, che sta lì a bella posta per applaudire e batter le mani. Il motivo comico non esce dal mondo morale, ma dal mondo intellettuale. Sono uomini colti che ridono alle spalle degli uomini incolti, che sono i più. Perciò il carattere dominante che rallegra la scena è una certa semplicità di spirito di nature inculte, messa in risalto quando si trova a contatto con la furberia: ciò che costituisce il fondo del carattere sciocco. Con la sciocchezza è congiunta spesso la credulità, la vanità, la millanteria, la volgarità de' desidèri. La furberia dà il rilievo a questo carattere, sì che lo metta in vista nel suo aspetto ridicolo. Ma la furberia è anch'essa comica, non certo allo sciocco, ma agl'intelligenti uditori che la comprendono. Così i due attori concorrono ciascuno per la parte sua a produrre il riso. Qui è il fondamento della commedia boccaccevole. Si vede la coltura in quel suo primo fiorire mostrar coscienza di sè, volgendo in gioco l'ignoranza e la malizia delle classi inferiori. Il comico ha più sapore quando i beffati sono quelli che ordinariamente beffano, quando cioè i furbi, che burlano i semplici, sono alla lor volta burlati dagl'intelligenti, com'è il confessore burlato dalla sua penitente.
Il comico talora vien fuori per un improvviso motto o facezia, che illumina tutta una situazione e provoca il riso di un tratto e irresistibilmente: ciò che oggi si direbbe un «tratto di spirito». Sono brevi novelle, il cui sapore, come nel sonetto, è tutto nella chiusa. Di questo genere è la novella del giudeo, che guardando a Roma la corruzione cristiana, si converte al cristianesimo. La chiusa sopraggiunge così improvvisa e così disforme alle premesse, che l'effetto è grande. E ce n'è parecchie altre di questo stampo, e non molto felici, perchè l'autore lavora sopra un motto già trovato e noto. Tali sono le novelle della marchesana di Monferrato, di Guglielmo Borsiere e di maestro Alberto. Questi fuochi incrociati di motti e di frizzi, che brillano con tanto splendore ne' circoli eleganti e bastano ad acquistarti riputazione di uomo di spirito, sono la parte più appariscente, ma più elementare dello spirito. La fucina dove si fabbricavano motti, facezie, proverbi, epigrammi, frizzi, era la scuola de' trovatori e della «gaia scienza». Moltissimi di questi motti si erano già accasati nel dialetto fiorentino, e con molti altri usciti dall'immaginazione di un popolo così svegliato e arguto. Il Decamerone ne è seminato. Ma questi motti, appunto perchè entrati già nel corpo della lingua, non sono altro che parole e frasi, un dizionario morto, e raccoglierli e infilarli, come fa il Burchiello, non è da uomo di spirito. Sono i colori del comico, non sono il comico esso medesimo. Sono il patrimonio già acquistato dello spirito nazionale, e perciò mancanti di quella freschezza e di quell'imprevisto che è la qualità essenziale dello spirito; nè possono conseguire un effetto estetico se non associandosi a qualche cosa di nuovo e d'inaspettato, trovato allora allora che ti vengono sotto la penna. Ciò fa che il Burchiello è insipido, e il Boccaccio è spiritoso; perchè per il Boccaccio i motti e i frizzi non sono scopo a sè stessi, ma un semplice mezzo di stile, il colorito.
Lo spirito nel suo senso elevato è nel comico quello che il sentimento è nel serio, una facoltà artistica. E come il sentimento, così lo spirito è un grande condensatore, dando una velocità di percezione che ti faccia cogliere di un tratto sotto contrarie apparenze il simile o il dissimile. Dove la sagacia giunge per via di riflessione, lo spirito giunge di un salto e intuitivamente. I figli di Ugolino nell'esaltazione del sentimento dicono: «Tu ne vestisti queste misere carni e tu le spoglia». Qui il sentimento opera nel serio quello che nel comico lo spirito; congiunge improvvisamente e in una sola frase idee e immagini diverse. Ma per giungere a questa produzione geniale è necessario che lo spirito sia anch'esso un sentimento, il sentimento del ridicolo, cioè a dire che stando in mezzo al suo mondo ne provi tutte le emozioni, e ci viva entro e ci si spassi, pigliandovi lo stesso interesse che altri piglia nelle cose più serie della vita. Pure l'emozione dee esser quella di uno spettatore intelligente, anzi che di un attore mescolato in mezzo a' fatti, sì che tu guardi quella calma e prontezza e presenza di animo, che ti tenga superiore allo spettacolo: ond'è che il vero uomo di spirito fa ridere e non ride, lui. È questa calma superiore che rende lo spirito padrone del suo mondo e glielo fa foggiare a sua guisa, annodando le fila, sviluppando i caratteri, disegnando le figure, distribuendo i colori.
Lo spirito del Boccaccio è meno nell'intelletto che nell'immaginazione, meno nel cercar rapporti lontani che nel produrre forme comiche. Lo studio che i suoi antecessori pongono a spiritualizzare, lui lo pone a incorporare. E cerca l'effetto non in questo o quel tratto, ma nell'insieme, nella massa degli accessorii tutti stretti come una falange. Gli antecessori fanno schizzi: egli fa descrizioni. Quelli cercano l'impressione più che l'oggetto: egli si chiude e si trincera nell'oggetto e lo percorre e rivolta tutto. Perciò spesso hai più il corpo e meno l'impressione; più sensazione che sentimento; più immaginazione che fantasia; più sensualità che voluttà. Mancano i profumi a' suoi fiori, mancano i raggi alla sua luce. È una luce opaca, per troppa densità e ripetizione di se stessa. Questa maniera nelle cose serie è insopportabile, come nel Filocolo e nell'Ameto, con quelle interminabili descrizioni e orazioni, dove ti senti come arenato e che non vai innanzi, E ti offende anche talora nel Decamerone, quando per esempio si fa parlare Tito o la figliuola di Tancredi con tutte le regole della rettorica e della logica. Ma nel comico questa maniera è una delle sue forme più naturali, e la prima a comparire nell'arte dopo quella esplosione rudimentale di motti e di proverbi. Perchè il comico è il regno del finito e del senso, e le prime sue impressioni sono singolarizzate nelle minute pieghe degli oggetti; dove nel serio le prime impressioni ti danno allegorie e personificazioni, forme generalizzate nell'intelletto. Questa prima forma del comico è la caricatura.
La quale è la rappresentazione diretta dell'oggetto, fatta in modo che sia messo in vista il suo lato difettoso e ridicolo. Certo, basterebbe metterti sott'occhio il difetto e lasciarti indovinare tutto il resto. Un solo tratto di spirito illumina tutto il corpo e te lo presenta all'immaginazione. Ma il Boccaccio non se ne contenta, e come fa il pittore, ti disegna tutto il corpo, scegliendo e distribuendo in modo gli accessorii e i colori, che ne venga maggior luce sul lato difettoso. Di che nasce che il ridicolo non rimane isolato su quel punto, ma si spande su tutta l'immagine, di cui ciascuna parte concorre all'effetto, apparecchiando, graduando e producendo una specie di «crescendo» nella scala del comico. Il riso, perchè vi sei ben preparato e disposto, di rado ti viene improvviso e irresistibile, come in quei brevi tratti che ti presentano rapporti inaspettati, anzi spesso più che riso è una gioia uguale che ti tiene in uno stato di pacata soddisfazione. Non ridi, ma hai la faccia spianata e contenta, e ti si vede il riso sotto le guance, non tale però che debba per forza scattar fuori in quella forma contratta e convulsa. Il quale effetto nasce da questo, che l'autore non ti presenta una serie di rapporti usciti dall'intelletto, ma una serie di forme uscite dall'immaginazione. E sono forme piene, carnose, togate, minutamente disegnate. L'autore, come obbliato in questo mondo dell'immaginazione, ha aria di non aggiungervi niente del suo, egli che ne è il mago. E tu ci stai dentro come incantato. L'autore non si distrae mai, non mette il capo fuori per fare una smorfia che provochi il riso, non tratta il suo argomento come cosa frivola, e piglia e lascia e torna. Quella è la sua idea fissa, e lo incalza e lo tiene e tiraselo appresso, e non gli dà fiato, se non sia uscita tutta fuori. E tu non ti distrai, ti senti come dondolato deliziosamente nella tua contemplazione, nè il riso, che talora ti coglie, t'interrompe, chè subito ti ci rituffi entro, e corri e corri, e il corso è finito, e tu corri ancora dolcemente naufragato. Ma non è il mondo orientale, dove l'immaginazione, quasi fatta ebbra dall'oppio, salta fremente dalle braccia dell'amore pe' vasti campi dell'infinito e ti fa provare quel sentimento che dicesi voluttà, e che è l'infinito nel senso, quel vago e indefinito e musicale che tra gli abbracciamenti ti rivela Dio. Questo è un mondo prettamente sensuale, chiuso e appagato in forme precise e rotonde, da cui niente è che ti stacchi e ti rapisca in alte regioni. Appunto perchè questi fiori non mandano profumi e queste luci non gittano raggi, tu hai sensazioni e non sentimenti, immaginazione e non fantasia, sensualità e non voluttà. Il rêve scompare. L'estasi non tiene più assorti i tuoi sguardi. Hai trovato già il tuo paradiso in quella realtà piena e attraente. Diresti che la carne in questo suo primo riapparire nel mondo ti si sveli nel suo tripudio tutta nuda, ed empia di lusinghe e di vezzi il tuo paradiso. Perciò la forma di questo paradiso è cinica, anche più dove un senso ironico di modestia è una civetteria che riaccende il senso.
Poichè la forma di questo mondo è la caricatura, uscita da una immaginazione abbondante, minuta disegnatrice, hai innanzi non punte e rialzi, ma l'oggetto intero nelle sue più fine gradazioni. Breve ne' preliminari e nella dipintura astratta di personaggi, l'autore alza subito il sipario, e ti trovi in piena azione che si movono e parlano. E già fin da' primi lineamenti ti balza innanzi il motivo comico, che ti si sviluppa a poco a poco per via di gradazioni, l'una entrata nelle altre con effetto crescente. Il Boccaccio vi spiega quella qualità che i francesi, mirando alla forza nel suo calore e nella sua facilità, chiamano «verve», e noi chiamiamo «brio», mirando alla forza nella sua allegra genialità. Di che maraviglioso esempio è la novella di Alibech, e l'altra di ser Ciappelletto. A render più piccante la caricatura serve l'ironia, che qui è forma non sostanziale, ma accessoria. Ed è un'apparente bonomia, un'aria d'ingenuità, con la quale il narratore fa il pudico e lo scrupoloso, e non vuol dire e pur dice, e non vuol credere e pur crede, e si fa la croce con un sogghigno. Questa ironia è come una specie di sale comico, che rende più saporito il riso a spese del «paternostro» di san Giuliano e de' miracoli di ser Ciappelletto.
Essendo base di questo mondo la descrizione, cioè l'oggetto non ne' suoi raggi e ne' suoi profumi, cioè a dire nelle sue impressioni, ma nel suo corpo singolarizzato ed individuato, ha bisogno di forme piene e ricche, e così nascono le due forme della nuova letteratura, l'ottava rima nella poesia e il periodo nella prosa.
Abbiamo già vista la nona rima svilupparsi con magnificenza orientale nel poema l'Intelligenzia. L'ottava rima non è inventata dal Boccaccio, come non è sua invenzione il periodo. Ma è lui che le dà un corpo e l'intonazione. Prima di lui l'ottava rima è un accozzamento slegato e fortuito, dove diversi oggetti sono ficcati insieme a caso, che potrebbero assai bene star da sè. Stanno lì dentro oggetti nudi, non ci e un solo oggetto sviluppato e addobbato. L'ottava rima è un meccanismo, non è ancora un organismo. Il Boccaccio ha fatto dell'ottava una totalità organica, ed è l'oggetto che si sviluppa a poco a poco nelle sue gradazioni. Ben trovi ne' suoi poemi ottave felici; ma in generale elle sono impigliate, mal costruite, e in sul più bello ti cascano. Nel genere eroico ti riesce sforzato e teso; nel genere idillico ti riesce volgare e abbandonato. Gli è che l'ottava, nell'ampiezza e magnificenza delle sue costruzioni, è la maggiore idealità della forma poetica e richiede un'attività geniale che manca al Boccaccio, errante in un mondo artificiale e convenzionale. Il difetto è tutto al di dentro, nell'anima; ciò che freddamente è concepito, nasce debole e mal congegnato, e non ci vale artificio.
Qui al contrario l'autore è a casa sua: pinge un mondo, in cui vive, a cui partecipa con la più grande simpatia, e tutto in esso, gitta via ogni involucro artificiale. Ci è in lui qualche cosa più che il letterato, ci è l'uomo che vi guazza entro e vi si dimena e vi si strofina e vi lascivia. E n'esce una forma, che è quel mondo esso medesimo, di cui sente gli stimoli nella carne e nell'immaginazione. Così è venuta fuori quella forma di prosa, che si chiama il «periodo boccaccevole».
A quel tempo il grande movimento letterario che aveva il suo centro a Firenze si era di poco allargato fuori di Toscana. La restaurazione dell'antichità che presentava all'immaginazione nuovi orizzonti, il mondo greco che allora spuntava appena, involto in quel vago chiaroscuro che accresce le illusioni, tirava a sè l'attenzione La lingua di Dante non era ancora lingua italiana: la chiamavano «idioma fiorentino». La lingua era sempre il latino, nè era mutata l'opinione che di sole cose frivole e amorose si potesse scrivere in «latino volgare», come si chiamavano i dialetti. Il Boccaccio dice di sè che scrive in «idioma fiorentino», e quelli che usavano il volgare dice che scrivevano in «latino volgare». Il tipo di perfezione era sempre il latino, e l'ideale vagheggiato dalla classe erudita era un volgare nobile o illustre, secondo quel modello configurato, un volgare alzato a quella stessa perfezione di forma. Questo tentò Dante nel Convito, con piena fede che il volgare fosse acconcio ad esprimere le più gravi speculazioni della scienza non altrimenti che il latino, e quello scolastico latino volgare o «volgare latino», nudo e tutto ossa e nervi, parve per la prima volta magnificamente addobbato nelle larghe pieghe della toga romana. Ma la pece scolastica s'era appiccata anche a Dante, e quella barbarie delle scuole sta così in quelle ampie forme a disagio, come un contadino vestito a festa in abito cittadinesco. Non ci è fusione, ci è punte e contrasti.
Il Boccaccio non era uscito dalle scuole, e quando più tardi studiò filosofia e un po' anche teologia, il suo spirito era già formato nell'esperienza della vita comune, nell'uso del suo volgare e nello studio de' classici. Come il Petrarca, ha in abbominio gli scolastici, ne' quali vede proprio il contrario di quella elegante coltura greca e romana, vede la barbarie e la rozzezza. Regnano nel suo spirito, divinità, Virgilio e Ovidio e Livio e Cicerone, e non ci è Bibbia che tenga, e non ci è san Tommaso. Quando vuol dipingere alcun lato serio, morale o scientifico, del suo mondo, la sua imitazione è un artificio esterno e meccanico, perchè ha più immaginazione che sentimento e più intelletto che ragione. La sua forma è decorosa, nobile, spesso disimpacciata, ma troppo uguale e placida, e talora ti fa sonnecchiare. Il periodo è un rumor d'onde uniforme, mosse faticosamente da mare stanco e sonnolento. Manca l'ispirazione, supplisce la rettorica e la logica. Il che avviene, perchè il Boccaccio separato dalle immagini e gittato nel vago del sentimento o nell'astratto del discorso, perde il piede e va giù. Tratta le idee come fossero corpi, e analizza e minuteggia che è uno sfinimento. Le idee sono luoghi comuni annacquati in un viavai di piccoli e oziosi accessorii, distinzioni, riserve, condizioni, «se», «ma», «avvegnachè» e «conciossiacosachè». Uno studio soverchio di esattezza, una notomia minuta di ogni pensieruzzo mette più in vista la volgarità e insipidezza dell'idea. La forma si stacca visibilmente dalla cosa, e appare un meccanismo ingegnoso, lavorato accuratamente e sempre quello. Cosa c'è sotto? Il luogo comune. Questo fu chiamato più tardi forma letteraria. E non c'è cosa più contraria alla scienza, che è parola e non frase, e mal si riconosce nelle circonlocuzioni, nelle perifrasi e ne' pleonasmi. In questo artificio ci è un progresso: ci è quell'arte de' nessi e delle gradazioni, che mancava alla prosa, e rivela uno spirito adulto, educato dai classici. Ma ci è il difetto opposto, un volere di ogni idea fare una catena cominciata e terminata in sè, ciò che è un pantano, e non acqua corrente. Il Boccaccio odia gli scolastici; ma il suo periodo non è che sillogismo mascherato, una frase generica, come «umana cosa è aver compassione degli affiitti», che per molti andirivieni riesce in qualche volgare moralità. Il formulario è divenuto un meccanismo ben congegnato; ma il fondo è lo stesso. Vedi lo scolastico vestito a nuovo e più alla moda. Se l'ampio giro del periodo boccaccevole è una catena artificiale dove la scienza perde la sua semplicità ed elasticità e la sua libertà di movimento, non è meno assurdo nell'espressione del sentimento, la forza più libera e indisciplinabile dello spirito, che spezza tutti i legami della logica e sbalza fuori con rapidità. I bruschi e tragici movimenti dell'animo qui sono come cristallizzati tra congiunzioni, parentesi e ragionamenti. Manca ogni subbiettività: ti è difficile guardare al di dentro nella coscienza; i casi sono straordinari, i fatti interessanti, le situazioni drammatiche, e non ti viene la lacrima, e non ti senti commosso, perchè l'anima non si manifesta che in frasi comuni e rigirate. Veggasi la novella di madama Beritola, e l'altra del conte d'Anguersa, ove tra' più pietosi accidenti e mutazioni della fortuna non si muta la forma, sempre attillata e guantata. Pure, qua e là si sente una certa non dirò commozione, ma emozione di una immaginazione calda, e n'escono movimenti sentimentali, come nelle ultime parole della figliuola di Tancredi e in alcuni tratti della Griselda.
Questa forma di periodo, che si affà così poco alla scienza e al sentimento, dove appare un mero meccanismo foggiato alla latina, acquista senso e moto, quando il teatro della vita è nell'immaginazione, cioè a dire quando l'autore si trova nel vivo dell'azione, non con idee e sentimenti, ma con oggetti innanzi ben determinati. Tale è la descrizione della peste, o del combattimento di Gerbino. Perchè il fatto non è come l'idea, uno e semplice, ma come il corpo, è un multiplo, un insieme di circostanze e di accessorii. Questo insieme è il periodo, il quale nella sua evoluzione è ciò che in pittura si chiama «un quadro». Aggruppare le circostanze, subordinarle, coordinarle intorno ad un centro, ombreggiare, lumeggiare, è arte somma nel Boccaccio. La descrizione, quando sta per sè, in astratto e separata dall'azione, non riscalda abbastanza l'immaginazione e riesce fronzuta, com'è spesso nelle introduzioni. Ma quando ci è qualche cosa che si move e cammina, e rassomiglia ad un'azione, l'immaginazione si mette in moto anche lei, e assiste pacata allo spettacolo, disegnando e facendo quadri in quelle larghe forme che si chiamano periodi. Questa maniera di narrare a quadri non è certo l'andamento naturale dell'azione, che perde l'impeto e l'attrito, arrestata ne' suoi movimenti più rapidi dall'occhio tranquillo di una immaginazione disegnatrice. E perciò non è maniera conveniente alla storia, e non è prosa, ma è arte in forma prosaica, e narrazione poetica. Que' quadri e periodi ti danno non pur l'ordine e il legame e il significato de' fatti, ma le movenze, le attitudini, le gradazioni: onde nasce quell'effetto d'insieme che dicesi «fisonomia» o «espressione».
Ma dove il periodo boccaccevole diviene una creazione sui generis, un organismo vivente, è nel lato comico e sensuale del suo mondo. E non è già che vi adoperi maggiore artificio o finezza; ma è che qui ci è la musa, vale a dire tutto un mondo interiore, la malizia, la sensualità, la mordacità, un vero sentimento comico e sensuale. Ed è questa sentimentalità, la sola che la natura abbia concessa al Boccaccio, che penetra in quei flessuosi giri della forma e ne fa le sue corde. Il suo periodo è una linea curva che serpeggia e guizza ne' più libidinosi avvolgimenti, con rientrature e spezzamenti e spostamenti e riempiture, e sono vezzi e grazie, o civetterie di stile, che ti pongono innanzi non pur lo spettacolo nella sua chiarezza prosaica, ma il suo motivo sentimentale e musicale. Quelle onde sonore, quelle pieghe ampie della forma latina, piena di gravità e di decoro, dove si sente la maestà e la pompa della vita pubblica, trasportata dal foro nelle pareti di una vita privata oziosa e sensuale, diventano i lubrici volteggiamenti del piacere stuzzicato dalla malizia. In bocca a Tito, a Gisippo senti la rettorica imitazione di un mondo fuori della coscienza: l'aria è pur quella, ma cantata da un borghese che non ne ha il sentimento e sbaglia spesso il motivo. Qui al contrario, in questo mondo erotico e malizioso, hai la stess'aria, penetrata da un altro motivo che la soggioga e se l'assimila; e quelle forme magniloquenti che arrotondivano la bocca degli oratori, arrotondiscono il vizio e gli danno gli ultimi finimenti e allettamenti. I latini nell'espressione del comico gittavano via le armi pesanti e vestivano alla leggiera: il Boccaccio concepisce come Plauto, e scrive come Cicerone. Pure il suo concepire è così vivo e vero, che Cicerone si trasforma nella sua immaginazione in una sirena vezzosa che tutta in sè si spezza e si dimena. Ma spesso, tutto dentro nel soggetto, gitta via i viluppi e i contorcimenti, e salta fuori snello, rapido, diritto, incisivo. Maestro di scorciatoie e di volteggiamenti, la sua immaginazione covata da un sentimento vero spazia come padrona tra forme antiche e moderne, e le fonde e ne fa il suo mondo, e vi lascia sopra il suo stampo. Sarebbe insopportabile questo mondo e profondamente disgustoso, se l'arte non vi avesse profuse tutte le sue veneri, inviluppando la sua nudità in quelle ampie forme latine, come in un velo agitato da venti lascivi. L'arte è la sola serietà del Boccaccio, sola che lo renda meditativo fra le orgie dell'immaginazione e gli corrughi la fronte nella più sfrenata licenza, come avveniva a Dante e al Petrarca nelle loro più alte e pure ispirazioni. Di che è uscito uno stile dove si trovano fusi i vari uomini che vivevano in lui, il letterato, l'erudito, l'artista, il cortigiano, l'uomo di studio e di mondo, uno stile così personale, così intimo alla sua natura e al suo secolo, che l'imitazione non è possibile, e rimane monumento solitario e colossale fra tante contraffazioni.
Che cosa manca a questo mondo?
Mondo della natura e del senso, gli manca quel sentimento della natura e quel profumo voluttuoso che gli darà il Poliziano.
Mondo della commedia, gli manca quell'alto sentimento comico nelle sue forme umoristiche e capricciose che gli darà l'Ariosto.
E che cosa è questo mondo?
È il mondo cinico e malizioso della carne, rimasto nelle basse sfere della sensualità e della caricatura spesso buffonesca, inviluppato leggiadramente nelle grazie e ne' vezzi di una forma piena di civetteria, un mondo plebeo che fa le fiche allo spirito, grossolano ne' sentimenti, raggentilito e imbellettato dall'immaginazione, entro del quale si move elegantemente il mondo borghese dello spirito e della coltura con reminiscenze cavalleresche.
È la nuova «Commedia», non la «divina», ma la «terrestre Commedia». Dante si avvolge nel suo lucco e sparisce dalla vista. Il medio evo con le sue visioni, le sue leggende, i suoi misteri, i suoi terrori e le sue ombre e le sue estasi, è cacciato dal tempio dell'arte. E vi entra rumorosamente il Boccaccio e si tira appresso per lungo tempo tutta l'Italia.

X - L'ULTIMO TRECENTISTA

L' ultima voce di questo secolo è Franco Sacchetti, l'uomo «discolo e grosso». Di mezzana coltura, d'ingegno poco al di là del comune, ma di un raro buon senso, di poca iniziativa e originalità, ma di molta se.nplicità e naturalezza, era nella sua mediocrità la vera eco del tempo. Gli facea cerchio la turba de' rimatori, ripetizione stanca del passato, il lucchese Guinigi e Matteo da San Miniato, e Antonio da Ferrara, e Filippo Albizi, e Giovanni d'Amerigo, e Francesco degli Organi, e Benuccio da Orvieto, e Antonio da Faenza, e Astorre pur da Faenza, e Antonio Cocco, e Angelo da San Geminiano, e Andrea Malavolti, e Antonio Piovano, e Giovanni da Prato, e Francesco Peruzzi, e Alberto degli Albizi, e Benzo de' Benedetti, che lo chiama «eroe gentile», e parecchi altri. E il nostro eroe gentile riceveva e mandava sonetti, cambiando lodi con lodi. Ultime voci de' trovatori italiani. Luoghi comuni e forma barbara annunziano un mondo tradizionale ed esaurito. Ci trovi anche sentimenti morali e religiosi, ma insipidi e freddi come un'avemaria ripetuta meccanicamente tutt'i giorni. Per questo lato il Sacchetti continua il passato, fa perchè gli altri fanno, pensa così, perchè gli altri così pensano, piglia il mondo come lo trova, senza darsi la pena di esaminarlo. Questa è la sua parte morta. Ma ci è una parte viva, quella a cui partecipa, e che suona nel suo spirito, quella in cui apparisce la sua personalità. Ed è appunto quel mondo di cui il Boccaccio è così vivace espressione.
Franco è il «vero uomo della tranquillità». Il Boccaccio sdegnava l'epiteto, e talora voleva sonare la tromba e rappresentare azioni e passioni eroiche. Franco non ha pretensioni, e si mostra com'è, ed è contento di esser così. È uomo stampato all'antica, in tempi corrotti, buon cristiano e insieme nemico degl'ipocriti e mal disposto verso i preti e i frati, diritto ed intero nella vita, alieno dalle fazioni, benevolo a tutti, talora mordace, ma senza fiele, modesto estimatore di sè e lontanissimo di mettersi allato a' grandi poeti di quel tempo, che erano, secondo lui e i contemporanei, Zanobi da Strada, il Petrarca e il Boccaccio. Quali erano i desidèri del nostro brav'uomo? Menare una vita tranquilla e riposata; ed era il più contento uomo del mondo, quando in villa o in città potea darsi buon tempo fra le allegre brigate, motteggiando, novellando, sonetteggiando. Ci è in lui dell'idillico e del comico. Ama la villa, perchè in città

mal vi si dice, e di ben far vi è caro;

e nelle sue cacce, nelle sue ballate senti non di rado la freschezza dell'aura campestre, come è quella così briosa delle «donne che givano cogliendo fiori per un boschetto», e l'altra delle «montanine», di una grazia così ingenua. In città è un burlone, pieno il capo di motti, di facezie, di fatterelli, e te li snocciola come gli escono, con tutto il sapore del dialetto e con un'aria di bonomia che ne accresce l'effetto. I suoi sonetti e le canzoni sono molto al di sotto de' madrigali e ballate o canzoni a ballo, di un andare svelto e allegro, dove non mancano pensieri galanti e gentili: dietro il poeta senti l'uomo che ci piglia gusto e vi si sollazza, e sta già con l'immaginazione nella lieta brigata dove i versi saranno cantati, tra musica e ballo. Veggasi la ballata del «pruno» e il madrigale del «falcone».
Le novelle del Sacchetti hanno per materia lo stesso mondo boccaccevole in un aspetto più borghese e domestico: frizzi, burle, amorazzi, ipocrisie fratesche, aneddoti, pettegolezzi vengon fuori, bassa vita popolana in forma popolana. Alcuni le pregiano più che il Decamerone, per lo stile semplice e naturale e rapido, non privo di malizia e di arguzia fiorentina. Ma la naturalezza del Sacchetti è quella dell'uomo a cui le muse sono avare de' loro doni. Non è artista, e neppure d'intenzione. Gli manca ogni sorta d'ispirazione Quel mondo con tanta magnificenza organizzato nel Decamerone è qui un materiale grezzo, appena digrossato. Perciò delle sue trecento novelle si ricorda appena qualche aneddoto: nessun personaggio è rimasto vivo.
Il Sacchetti sopravvisse al secolo. Nel suo buon umore ci è una nota malinconica, che all'ultimo manda più lugubre suono. Non piace al brav'uomo un mondo, in cui chi ha più danari vale più, e grida che «vertù con pecunia non si acquista», e che «gentilezza e virtù son nella mota». Dipinge al vivo gli avvocati de' suoi tempi:

Legge civile e ragion canonica
apparan ben, ma nel mal spesso l'usano:
difendono i ladroni, e gli altri accusano.
Chi ha danari e chi più puote scusano:
tristo a colui che con costor s'incronica,
se non empie lor man sotto la tonica!

Ora se la piglia con le vecchie. Ora è tutto stizzoso per le nuove fogge di vestire portate a Firenze da altri paesi. Grida contro la turba de' rimatori e de' cantori:

Pieno è il mondo di chi vuol far rime:
tal compitar non sa che fa ballate,
tosto volendo che sieno intonate.
Così del canto avvien: senz'alcun'arte
mille Marchetti veggio in ogni parte.

E quando muore il Boccaccio, «copioso fonte di eleganza», esclama:

Ora è mancata ogni poesia,
e vòte son le case di Parnaso...
S'io piango o grido, che miracol fia,
pensando che un sol c'era rimaso
Giovan Boccacci, ora è di vita fore? ...
... Quel duol che mi pugne
è che niun riman, nè alcun viene,
che dia segno di spene
a confortar che io salute aspetti,
perchè in virtù non è chi si diletti...
Sarà virtù già mai più in altrui
O starà quanto medicina ascosta,
quando anni cinquecento perdè il corso? ...
Chi fia in quella etate,
forse vedrà rinascer tal semenza;
ma io ho pur temenza,
che prima non risuoni l'alta tromba, ...
che si farà sentir per ogni tomba.
Ne' numeri ciascuno ha mente pronta,
dove moltiplicando s'apparecchia
sempre tirare a sè con la man destra...
E le meccaniche arti
abbraccia chi vuol esser degno ed alto...
Ben veggio giovinetti assai salire
non con virtù, perchè la curan poco,
ma tutto adopran in corporea vesta: ...
... già mai non cercan loco
dove si faccia delle muse festa.
Come deggio sperar che surga Dante,
che già chi il sappia legger non si trova?
E Giovanni che è morto ne fe' scola.
Tutte le profezie che disson sempre
tra il Sessanta e l'Ottanta esser il mondo
pieno di svari e fortunosi giorni,
vidon che si dovean perder le tempre
di ciascun valoroso e gire al fondo.
E questo è quel che par che non soggiorni...
E s'egli è alcun che guardi,
gli studi in forni vede già conversi...

Questa canzone di cui abbiamo citati alcuni brani è l'elogio funebre del Trecento, pronunziato dal più candido e simpatico de' suoi scrittori, l'ultimo trecentista. Sulla fine del secolo il vecchio burlone gitta uno sguardo malinconico indietro, e gli si affaccia la grande figura di Dante, e l'Africa col suo «alto poeta», e Giovan Boccacci non col suo festevole Decamerone, ma co' dotti e magni volumi latini, De' viri illustri, Delle donne chiare, e «il terzo»:

Buccolica; il quarto: Monti e fiumi;
il quinto: Degl'iddii e lor costumi.

Oimè! Dante è morto. Morto è Boccacci. Petrarca muore. Chi rimane? E l'ultimo trecentista guarda intorno e risponde: - Nessuno. - Ricorda le infauste profezie, nunzie di sciagure fra il sessanta e l'ottanta, e gli pare venuto il finimondo. La forte semenza da cui uscirono i tre grandi e tanti altri dottissimi, teologi, filosofi, legisti, astrologi, è perita per sempre? O risurgerà dopo cinquecento anni, come fu della medicina? O non verrà prima il giudizio finale? Il mondo è dato all'abaco e alle arti meccaniche: «nuda è l'adorna scuola» da tutte sue parti:

non si trova fenestra
che valor dentro chiuda.

La nuova generazione è tutta dietro alle mode e a' sollazzi e al guadagno, e non cura virtù, e spregia le muse, e non ci è chi sappia leggere Dante, e gli studi sono mutati in forni. Il poeta accomiata la canzone in questo modo:

Orfana, trista, sconsolata e cieca,
senza conforto e fuor d'ogni speranza,
se alcun giorno t'avanza,
come tu puoi, ne va' peregrinando,
e di' al cielo: - Io mi ti raccomando. -

Con questi tristi presentimenti si chiude il secolo. Il Dugento finisce con Cino e Cavalcanti e Dante già adulti e chiari, finisce come un'aurora entro cui si vede già brillare la vita nuova, una nuova èra. Il Trecento finisce come un tristo tramonto, così tristo e oscuro che il buon Franco pensa: - Chi sa se tornerà il sole? -
Antonio da Ferrara, sparsasi voce della morte del Petrarca, intuona anche lui un poetico Lamento. Piangono intorno al grand'uomo Gramatica, Rettorica, Storia, Filosofia, e lo accompagnano al sepolcro di Parnaso,

Virgilio, Ovidio, Giovenale e Stazio,
Lucrezio, Persio, Lucano e Orazio
e Gallo.

E Pallas Minerva, venuta dall'angelico regno, conserva la sua corona. In ultimo della mesta processione spunta l'autore col suo nome, cognome e soprannome:

È Anton de' Beccar, quel da Ferrara,
che poco sa, ma volentieri impara.

È anche un brav'uomo costui, vede anche lui tutto nero:

Del mondo bandita è concordia e pace,
per l'universo la discordia trona,
sommerso è ogni bene,
l'amor di Dio ha bando,
e parmi che la fe' vada mancando.

Sono lamenti senili di uomini superficiali e mediocri, dove non trovi alcuna profondità di vista e non forza di mente o di sentimento. Pur vi trovi, ancorchè in forma pedantesca, la fisonomia del secolo negli ultimi giorni della sua esistenza.
Quella nota malinconica è la stessa forza che tirò alla Certosa il vecchio Boccaccio, e volse a Maria gli ardori del Petrarca, e rattristò le ultime ore di Franco Sacchetti, e piegò le ginocchia di Giovanna innanzi a Caterina da Siena. Perchè quella forza, contraddetta e negata nella vita, occupava ancora l'intelletto, e tra le orgie di una borghesia arricchita e gaudente comparirà talora come un rimorso, e chiamerà gli uomini alla penitenza.
«La fede va mancando», grida il ferrarese. e gli studi «si convertono in forni», nota il fiorentino. Non si potea meglio dipingere la fisonomia che andava prendendo il secolo e che comunicava alla nuova generazione. Possiamo disegnarla in brevi tratti.
Come il popolo grasso piglia il sopravvento in Firenze, così nelle altre parti d'Italia la borghesia si costituisce, si ordina, diviene una classe importante per industrie, per commerci, per intelligenza e per coltura. E lo stacco si fa profondo tra la plebe e la classe colta. La coltura non è privilegio di pochi, ma si allarga e si diffonde, e fa del popolo italiano il più civile di Europa.
La vita pubblica e la vita religiosa rimane stazionaria fra l'universale indifferenza. Continuano le stesse forme, ma sciolte dallo spirito che le rendea venerabili, quelle persone, quei riti e quel linguaggio appariscono cosa ridicola e diventano il motivo comico delle liete brigate.
La vita privata viene su. Ed è vita socievole, spensierata, condita dallo spirito. Gli uomini si uniscono in compagnie o brigate non per discutere, ma per sollazzarsi, in città e in villa. E si sollazzano a spese delle classi inculte. Trovatori, cantori e novellatori non sono più il privilegio delle castella e delle corti. L'allegria feudale si spande anche nelle case de' ricchi borghesi, e i racconti e i piacevoli ragionamenti condiscono i loro piaceri, e in una forma spesso licenziosa e cinica. La licenza del linguaggio era il solletico dell'allegria.
Così venne una letteratura sensuale e motteggiatrice, profana e pagana. Le novelle e i romanzi tennero il campo. L'allegra vita della città si specchiava in forme liriche svelte e graziose, rispetti, strambotti, frottole, ballate e madrigali. L'allegra vita de' campi avea pur le sue forme, le «cacce» e gl'idilli. L'anima di questa letteratura è lo spirito comico e il sentimento idillico.
La forma dello spirito comico è la caricatura penetrata di un'ironia maliziosa, ma non maligna. La forma idillica è la descrizione della bella natura, penetrata di una molle sensualità. Traspare da tutta questa letteratura una certa quiete e tranquillità interiore, come di gente spensierata e soddisfatta.
Giovanni Boccaccio è il grande artista che apre questo mondo allegro della natura. Il misticismo perisce, ma ben vendicato, traendosi appresso religione, moralità, patria, famiglia, ogni semplicità e dignità di vita. Vengono nuovi ideali: la voluttà idillica e l'allegria comica. Sono le due divinità della nuova letteratura.
Ma come l'antica letteratura vede i suoi ideali attraverso un involucro allegorico-scolastico, così la nuova non può trovare se stessa se non attraverso l'involucro del mondo greco-latino.
La vita del Boccaccio è in compendio la vita letteraria italiana, come si andrà sviluppando. Comincia scopritore instancabile di manoscritti, e tutto mitologia e storia greca e romana. Non è ancora un artista, è un erudito. La sua immaginazione erra in Atene e in Troia. Tenta questo e quel genere, e non trova mai se stesso. Quel mondo è come un denso velo che muta il colore degli oggetti e gliene toglie la vista immediata. Imita Dante, imita Virgilio, petrarcheggia e platoneggia come il buon Sacchetti. Scrive magni volumi latini, ammirazione de' contemporanei. E si scopre artista, quando, gittato via tutto questo bagaglio, scrive per sollazzo, abbandonato alla genialità dell'umore. Dove cerca il piacere, trova la gloria.
Questa vita ne' suoi tentennamenti, nelle sue imitazioni, nelle sue pedanterie, ne' suoi ideali, è la storia della nuova letteratura.

XI - «LE STANZE»

Siamo al secolo decimoquinto. Il mondo greco-latino si presenta alle immaginazioni come una specie di Pompei, che tutti vogliono visitare e studiare. L'Italia ritrova i suoi antenati, e i Boccacci si moltiplicano, l'impulso dato da lui e dal Petrarca diviene una febbre, o per dir meglio, quella tale corrente elettrica che incerti momenti investe tutta una società e la riempie dello stesso spirito. Quella stessa attività che gittava l'Europa crociata in Palestina, e più tardi spingendola verso le Indie le farà trovare l'America, tira ora gl'italiani a disseppellire il mondo civile rimasto per così lungo tempo sotto le ceneri della barbarie. Quella lingua era la lingua loro, e quel sapere era il loro sapere: agl'italiani pareva avere racquistato la conoscenza e il possesso di sè stessi, essere rinati alla civiltà. E la nuova èra fu chiamata il «Rinascimento».Nè questo era un sentimento che sorgeva improvviso. Per lunga tradizione Roma era capitale del mondo, gli stranieri erano barbari, gl'italiani erano sempre gli antichi romani, erano sangue latino, e la loro lingua era il latino, e la lingua parlata era chiamata il «latino volgare», un latino usato dal volgo. Questo sentimento, legato in Dante con le sue opinioni ghibelline, ispirava più tardi l'Africa e latinizzava anche le facezie del Boccaccio. Ora diviene il sentimento di tutti e dà la sua impronta al secolo. La storia ricorda con gratitudine gli Aurispi, i Guarini, i Filelfi, i Bracciolini, che furono i Colombi di questo mondo nuovo. Gli scopritori sono insieme professori e scrittori. Dopo le lunghe peregrinazioni in oriente e in occidente, vengono le letture, i comenti, le traduzioni. Il latino è già così diffuso, che i classici greci si volgono in latino, perchè se ne abbia notizia, come i dugentisti volgevano in volgare i latini. Pullulano latinisti e grecisti: la passione invade anche le donne. Grande stimolo è non solo la fama, ma il guadagno. Diffusa la coltura, i letterati moltiplicano e si stringono intorno alle corti e si disputano i rilievi ringhiando. Sorgono centri letterari nelle grandi città: a Roma, a Napoli, a Firenze, più tardi a Ferrara intorno agli Estensi. E quei centri si organizzano e diventano accademie Sorge la pontaniana a Napoli, l'Accademia platonica a Firenze, quella di Pomponio Leto e di Platina a Roma. Illustri greci, caduta Costantinopoli, traggono a Firenze. Gemistio spiega Platone a' mercatanti fiorentini. Marsilio Ficino, il traduttore di Platone, lo predica dal pulpito, come la Bibbia. Pico della Mirandola, morto a trentun anno, stupisce l'Italia con la sua dottrina, ed oltrepassando il mondo greco, cerca in Oriente la culla della civiltà.
I caratteri di questa coltura sono palpabili.
Innanzi tutto ti colpisce la sua universalità. Il centro del movimento non è più solo Bologna e Firenze. Padova gareggia con Bologna. Il mezzodì dopo lungo sonno prende il suo posto nella storia letteraria, e il Panormita fa già presentire il Pontano e il Sannazzaro. Roma è il convegno di tutti gli eruditi, attirati dalla liberalità di Nicolò quinto. La coltura acquista una fisonomia nazionale, diviene italiana. Anche il volgare, trattato dalle classi colte ed atteggiato alla latina, si scosta dagli elementi locali e municipali, e prende aria italiana.
Ma è l'Italia de' letterati, col suo centro di gravità nelle corti. Il movimento è tutto sulla superficie, e non viene dal popolo e non cala nel popolo. O, per dir meglio, popolo non ci è. Cadute sono le repubbliche, mancata è ogni lotta intellettuale, ogni passione politica. Hai plebe infinita, cenciosa e superstiziosa, la cui voce è coperta dalla rumorosa gioia delle corti e de' letterati, esalata in versi latini. A' letterati fama, onori e quattrini; a' principi incensi, tra il fumo de' quali sono giunti a noi papa Nicolò, Alfonso il magnanimo, Cosimo padre della patria, e più tardi Lorenzo il magnifico, e Leone decimo e i duchi di Este. I letterati facevano come i capitani di ventura: servivano chi pagava meglio: il nemico dell'oggi diventa il protettore del dimani. Erranti per le corti, si vendevano all'incanto.
Questa fiacchezza e servilità di carattere, accompagnata con una profonda indifferenza religiosa, morale e politica, di cui vediamo gli albori fin da' tempi del Boccaccio, è giunta ora a tal punto che è costume e abito sociale, e si manifesta con una franchezza che oggi appare cinismo. Una certa ipocrisia c'è, quando si ha ad esprimere dottrine non ricevute universalmente; ma quanto alla rappresentazione della vita, ti è innanzi nella sua nudità. È una letteratura senza veli, e più sfacciata in latino che in volgare.
Ne nasce l'indifferenza del contenuto. Ciò che importa non è cosa s'ha a dire, ma come s'ha a dire. I più sono secretari di principi, pronti a vestire del loro latino concetti altrui. La bella unità della vita, come Dante l'aveva immaginata, la concordia amorosa dell'intelletto e dell'atto, è rotta. Il letterato non ha obbligo di avere delle opinioni, e tanto meno di conformarvi la vita. Il pensiero è per lui un dato, venutogli dal di fuori, quale esso sia: a lui spetta dargli la veste. Il suo cervello è un ricco emporio di frasi, di sentenze, di eleganze; il suo orecchio è pieno di cadenze e di armonie: forme vuote e staccate da ogni contenuto. Così nacque il letterato e la forma letteraria.
Il movimento iniziato a Bologna era intellettuale: si cercava negli antichi la scienza. Il movimento ora è puramente letterario: si cerca negli antichi la forma. Sorge la critica, circondata di grammatiche e di rettoriche; il gusto si raffina; gli scrittori antichi non sono più confusi in una eguale adorazione: si giudicano, si classificano, pigliano posto. Questi lavori filologici ed eruditi sono la parte più seria e più durevole di questa coltura. Spiccano fra tutti le Eleganze di Lorenzo Valla. Il titolo ti dà già la fisonomia del secolo.
Effetti di questa coltura cortigiana e letteraria, co' suoi vari centri in tutta Italia, sono una certa stanchezza di produzione, l'inerzia del pensiero, l'imitazione delle forme antiche come modelli assoluti, l'uomo e la natura guardati a traverso di quelle forme. È una nuova trascendenza, il nuovo involucro. Lo scrittore non dice quello che pensa o immagina o sente, perchè non è l'immagine che gli sta innanzi, ma la frase di Orazio o di Virgilio vede il mondo non nella sua vista immediata, ma come si trova rappresentato da' classici, a quel modo che Dante vedea Beatrice a traverso di Aristotile e di san Tommaso.
Ma non ci è guscio che tenga incontro all'arte. Dante potè spesso rompere quel guscio, perchè era artista. E se in questa cultura fossero elementi seri di vita intellettuale e di elevate ispirazioni, non è dubbio che vedremmo venire il grande artista, destinato a farne sentire il suono pur tra queste forme latine. Ciò che ferve nell'intimo seno di una società, tosto o tardi vien su e spezza ogni involucro. Si dà colpa al latino, che questo non sia avvenuto. E se il medio evo non ha potuto sviluppare tra noi tutte le sue forme, se il mondo interiore della coscienza s'è infiacchito, la colpa è de' classici che paganizzarono la vita e le lettere! La verità è che i classici di questo fatto sono innocentissimi. Certo, il mondo di Omero e di Virgilio, di Tucidide e di Livio, non è un mondo fiacco e frivolo. E se i latinisti non poterono riprodurne che l'esterno meccanismo, e se sotto a quel meccanismo ci è il vuoto, gli è che il vuoto era nell'anima loro, e nessuno dà ciò che non ha. Un cuore pieno trova il modo di spandersi anche nelle forme più artificiali e più ripugnanti.
Leggete questi latinisti. Cosa c'è lì dentro che viva e si mova? Lo spirito del Boccaccio che aleggia in quei versi e in quelle prose: la quiete idillica e il sale comico, in una forma elegante e vezzosa. Questo studio dell'eleganza nelle forme, accompagnato co' tranquilli ozi della villa e i sollazzevoli convegni della città, era in iscorcio tutta la vita del letterato.
Così, quando il secolo era travagliato da mistiche astrazioni e da disputazioni sottili, il latino fu scolastico. E ora che il naturalismo idillico e comico del Boccaccio è il vero e solo mondo poetico, il latino è idillico, dico il latino artistico e vivo. La grande orchestra di Dante è divenuta già nel Petrarca la flebile elegia. In questo latino elegante il dolore è elegiaco, e il piacere è idillico. La vita è tutta al di fuori, è un riso della natura e dell'anima: la stessa elegia è un rapimento voluttuoso de' sensi. Sulle rive di Mergellina il Pontano canta gli Amori e i Bagni di Baia, ora tutto vezzeggiativi e languori, ora motteggevole e faceto. Mergellina, Posilipo, Capri, Amalfi, le isole, le fonti, le colline escono dalla sua immaginazione pagana ninfe vezzose, e allegrano le nozze della sua Lepidina. La crassa sensualità è vaporizzata fra le grazie dell'immaginazione e i deliziosi profumi dell'eleganza. La sua musa, come la sua colomba, «fugit insulsos et parum venustos» «odit sorditiem», nega i suoi doni a quelli che sono «illepidi atque inelegantes», e «gaudet nitore», e rassomiglia alla sua «puella», di cui nessuna «vivit mundior elegant'orve». Spirito ed eleganza, questo è il mondo poetico di una borghesia colta e contenta, che cantava i suoi ozi e passava il tempo tra Quintiliano, Cicerone, Virgilio, e i bagni e le cacce e gli amori. Ne senti l'eco tra le delizie di Baia e tra le villette di Fiesole. Il Pontano scrivea la Lepidina tra' susurri della cheta marina; il Poliziano scrivea il Rusticus tra le aure della sua villetta fiesolana. In tutte e due ispiratrice è la bella natura campestre, con più immaginazione nel Pontano, con più sentimento nel Poliziano. Piace la «cerula» ninfa Posilipo e la «candida» Mergellina, e quel voler essere uccello per cascarle in grembo è un bel tratto galante, una sensualità dell'immaginazione. Il Pontano è figurativo, tutto vezzi e tutto spirito; il Poliziano è più semplice, più vicino alla natura, e te ne dà l'impressione:

Hic resonat blando tibi pinus amata susurro;
hic vaga coniferis insibilat aura cupressis:
hic scatebris salit et bullantibus incita venis
pura coloratos interstrepit unda lapillos.

Questo latino, maneggiato con tanta sveltezza, modulato con tanta grazia, non cade nel vuoto, come lingua morta, e questi canti non sono stimati lavori di pura erudizione e imitazione. Lorenzo Valla chiama il latino la «lingua nostra»; nessuna cosa di qualche importanza non si scrivea se non in latino, e metteasi a fuggire il volgare quello studio che oggi si mette a fuggire il dialetto. Dante stesso era detto «poeta da calzolai e da fornai». Non pareva impossibile continuare il latino, come i greci continuavano il greco, parlare la lingua universale, la lingua della scienza e della coltura, essere intesi da tutti gli uomini istrutti.
Ma queste tendenze trovavano naturale resistenza a Firenze, dove il volgare avea messo salde radici, illustrato da tanta gloria, nè potea parer vergogna scrivere nella lingua di Dante e del Petrarca. Ivi una classe colta nettamente distinta non era, e popolo grasso e popolo minuto erano ancora il popolo, con una comune fisonomia. Grandissima l'ammirazione de' classici; frequentissimi gli Studi del Landino, del Crisoloro, del Poliziano; si udiva a bocca aperta Gemistio e il Ficino e il Pico; si disputava di Platone e di Aristotile (discussioni erudite, senza conclusione e serietà pratica); si applaudiva al Poliziano quando cantava la bellezza o la morte dell'Albiera o gli occhi di Lorenzo, «purus apollinei sideris nitor», come fossero gli occhi di Laura. Ma insieme si difendeva il volgare come gloria nazionale; e il Filelfo spiegava Dante, e il Landino sponeva il Petrarca, e Leonardo Bruni sosteneva essere il volgare lo stesso latino antico com'era parlato a Roma, e Lorenzo de' Medici preferiva il Petrarca a' poeti latini, chiamava «unico» Dante, celebrava la facondia e la vena del Boccaccio, e di Cino e di Cavalcanti e di altri minori scrivea le lodi con acume e maturità di giudizio. Ci erano gli oppositori, i grammatici, i pedanti, che dicevano Dante uno spropositato, un ignorante, «rerum ommum ignarum» e che scrivea così male in latino. Ma in Firenze non attecchivano. Cristoforo Landino nel suo studio, dove spiegava a un tempo Dante e Virgilio, pigliando a esporre il Petrarca, insegnava non esser la lingua toscana al di sotto della latina, e non altrimenti che quella doversi sottoporre a regole di grammatica e di rettorica. Certo, il vezzo del latino introduceva nel volgare caduto in mano a' pedanti vocaboli e frasi e giri, di cui si sentono gli effetti fino nella prosa del Machiavelli; ma quella barbara mescolanza per la sua esagerazione divenne ridicola, e non potè alterare le forme del volgare, così come erano state fissate negli scrittori e si mantenevano vive nel popolo. Nè l'uso fu mai intermesso; e Lionardo scrivea in volgare la vita di Dante e del Boccaccio, e in volgare Feo Belcari scrivea le vite de' santi e le rappresentazioni, e si continuavano i rispetti, gli strambotti, le frottole, le cacce, le ballate, tutt'i generi di lirica popolare legati con le feste e gl'intrattenimenti pubblici e privati, le mascherate, le giostre, le serenate, le rappresentazioni, i giuochi, le sfide. Non era cosa facile guastare o sopraffare una lingua legata così intimamente con la vita.
La forza della lingua volgare era appunto in questo: che rifletteva la vita pubblica e privata, divenuta parte inseparabile della società nelle sue usanze e ne' suoi sentimenti. Onde se gli uomini colti, trasportati dalla corrente comune, scrivevano in latino per procacciarsi fama, nell'uso vario della vita adoperavano il volgare, condotto ormai al suo maggior grado di grazia e di finezza, parlato e scritto bene generalmente. Un gran mutamento era però avvenuto nella letteratura volgare. Il mondo ascetico-mistico-scolastico del secolo passato non era potuto più risorgere di sotto a' colpi del Petrarca e più del Boccaccio, ed era tenuto rozzo e barbaro, e continuava la sua vita come un mondo fatto abituale e convenzionale a cui è straniera l'anima. Al contrario era in uno stato di produzione e di sviluppo il mondo profano, la «gaia scienza», e dava i suoi colori anche alle cose sacre. Le laude erano intonate come i rispetti, e i misteri acquistavano la tinta romanzesca delle novelle e romanzi allora in voga. La Stella ricorda in molte parti le avventure della bella sventurata Zinevra, «sei anni andata tapinando per lo mondo». Spesso c'entra il comico e il buffonesco, e ti par d'essere in piazza a sentir le ciane che si accapigliano. La lauda tende al rispetto; la leggenda tende alla novella.
La leggenda è un racconto maraviglioso animato da uno spirito mistico e ascetico, con le sue estasi, le sue visioni, i suoi miracoli. Ci è al di sotto la fede che fa muovere i monti e ti tiene al di sopra de' sensi, anzi sforza i sensi e dà loro le ali dell'immaginazione. Questo mondo miracoloso dello spirito, fatto così palpabile come fosse corpo, è rappresentato senza alcuno artificio che lo renda verisimile, anzi con la più grande ingenuità, essendo quelle verità incontrastate pel narratore e pe' lettori. Questa impressione ti fanno le leggende del Passavanti e le Vite del Cavalca.
Questo è il mondo stesso che comparisce nelle rappresentazioni o misteri di questo secolo. Sono antiche rappresentazioni, messe a nuovo, intonacate, imbiancate, a uso di un pubblico più colto. Santo Abraam, Alessio, Abramo, Eugenia e Maddalena, i santi e i padri e i romiti del Cavalca ti sfilano innanzi. Con la natia rozzezza è ita via anche la semplicità e l'unzione e ogni sentimento liturgico e ascetico. Il miracolo ci sta come miracolo, cioè a dire come una macchina del maraviglioso, a quel modo che è la fortuna nelle novelle del Boccaccio. Il motivo drammatico è l'effetto che fanno sugli spettatori certe grandi mutazioni e improvvise nello stato de' personaggi, morale o materiale: perciò non gradazioni, non ombre, non sfumature; i contorni sono chiari e decisi; l'azione è tutta esteriore e superficiale, e si ferma solo quando una mutazione improvvisa provoca esplosioni liriche di gioia, di dolore, di maraviglia. Ci è quella lirica superficiale e quella chiarezza epica che è propria del Boccaccio. La lirica è sacra di nome, e non ha quell'elevazione dell'anima verso un mondo superiore, che senti in Dante o in Caterina: ci è la preghiera, non ce n'è il sentimento. L'azione è pedestre e borghese, di una prosaica chiarezza, non animata dal sentimento, non trasformata dall'immaginazione. E il mondo dantesco vestito alla borghese, i cui accenti di dolore sono elegia, le cui mistiche gioie sono idilli mancato è il senso del terribile e del sublime, mancata è l'indignazione e l'invettiva: se alcuna serietà rimane ancora in queste spettacolose rappresentazioni, apparecchiate con tanta pompa di scene e di decorazioni, è reminiscenza ed eco di un mondo indebolito nella coscienza. Ci erano ancora le confraternite, che a grandi spese davano di queste rappresentazioni; ma i fratelli non erano più i contemporanei di Dante, e non gli autori e non gli spettatori. Si andava alle rappresentazioni, come alle feste carnascialesche, per sollazzarsi. E si sollazzavano, come si conviene a gente colta e artistica, co' piaceri dello spirito e dell'immaginazione. Il mistero era per essi un piacevole esercizio dell'immaginazione, una ricreazione dello spirito. Con la coscienza vuota e con la vita tutta esterna e superficiale, il dramma era così poco possibile come la tragedia o l'eloquenza sacra, o come rifare la visione o la leggenda. Se quelle rappresentazioni fra tanto liscio e intonaco rimasero stazionarie, e non poterono mai acquistare la serietà e profondità di un vero mondo drammatico, fu perchè mancò all'Italia un ingegno drammatico, come affermano alcuni, quasi l'ingegno fosse un frutto miracoloso, generato senza radici, e venuto espressamente dal cielo? O fu, come affermano altri, perchè il latino attirò a sè gli uomini colti, e il mistero fu trascurato come cosa del popolo, quasi che autori de' misteri non fossero gli uomini più colti di quel tempo, o il latino, che non potè uccidere il volgare, potesse uccidere l'anima di una nazione, quando un'anima ci fosse stata? La verità è che il povero latino non potè uccider nulla, perchè nulla ci era, niuna serietà di sentimento religioso, politico, morale, pubblico e privato, da cui potesse uscire il dramma. Quel mondo spensierato e sensuale non ti potea dare che l'idillico e il comico; e in tanto fiorire della coltura, con tanta disposizione ed educazione artistica, non potea produrre che un mondo simile a sè, un mondo di pura immaginazione. Il mistero è un aborto, è una materia sacra che non dice più nulla alla mente ed al cuore, senza alcuna serietà di motivi, e trasformata da uomini colti in un puro giuoco d'immaginazione dove angioli e demoni, paradiso e inferno hanno così poca serietà come Apollo e Diana e Plutone. La serietà e solennità della materia era in flagrante contraddizione con quella forma tutta senso e tutta superficie, e con quel mondo spensierato e allegro della pura immaginazione, idillico-comico-elegiaco. Il mistero ci fu, quale poteva realizzarlo l'Italia in questa disposizione dello spirito, e ci fu l'ingegno, quale poteva essere allora l'ingegno italiano. Quel mistero fu l'Orfeo, e quell'ingegno fu Angiolo Poliziano.
Il Poliziano è la più spiccata espressione della letteratura in questo secolo. Ci è già l'immagine schietta del letterato, fuori di ogni partecipazione alla vita pubblica, vuoto di ogni coscienza religiosa o politica o morale, cortigiano, amante del quieto vivere, e che alterna le ore tra gli studi e i lieti ozi. Ebbe in Lorenzo un protettore, un amico, e divenne la sua ombra, il suo compagno ne' sollazzi pubblici e secreti. Cominciò la vita, voltando l'Iliade in latino, grecista e latinista sommo. Dettava epigrammi latini con la facilità di un improvvisatore. Si traeva da tutta Europa a sentirlo spiegare Omero e Virgilio. E non si ammirava solo l'erudito, ma l'uomo di gusto e il poeta, che ispirato vi aggiungeva le sue emozioni e le sue impressioni e i suoi carmi. Il suo studio e la sua villetta di Fiesole sono il compendio di questa vita tranquilla e placida, spenta a quarant'anni.
Il Poliziano aveva uno squisito sentimento della forma nella piena indifferenza di ogni contenuto. Il tempio era vuoto: vi entrò Apollo e lo empì d'immagini e di armonie. Il mondo antico s'impossessò subito di un'anima dove ogni vestigio del medio evo era scomparso. Il Boccaccio senti che è ancora medio evo, e lo vedi alle prese co' canoni e le scienze sacre e le forme dantesche: il vecchio e il nuovo Adamo combattono in lui, come nel Petrarca: erano tempi di transizione. Nel Poliziano tutto è concorde e deciso: non ci è più lotta. Teologia, scolasticismo, simbolismo, il medio evo nelle sue forme e nel suo contenuto, di cui vedevi ancora la memoria prosaica nelle laude e ne' misteri, è un mondo in tutto estraneo alla sua coltura e al suo sentire. Quello è per lui la barbarie. E non ha bisogno di cacciarlo dalla sua anima: non ve lo trova. Il sentimento della bella forma, già così grande nel Petrarca e nel Boccaccio, in lui è tutto; e quel mondo della bella forma, appresso al quale correvano faticosamente il Boccaccio e il Petrarca fin da' primi anni, è il mondo suo, e ci vive come fosse nato là dentro, e ne ha non solo la conoscenza, ma il gusto. Questo era la coltura, l'umanità, il risorgimento, orgoglio di una società erudita, artistica, idillica, sensuale, quale il Boccaccio l'avea abbozzata, e che ora si specchia nel Poliziano come nel suo modello ideale. Perchè questa generazione, caduta così basso, fiacca di tempra e vuota di coscienza, aveva pure la sua idealità, il suo divino, ed era l'orgoglio della coltura, il sentimento della forma. Le sue mascherate, le cacce, le serenate, le giostre, le feste, tanta parte di quella vita oziosa e allegra, erano nobilitate dalle arti dello spirito e da' piaceri dell'immaginazione. E se il cardinale Gonzaga, rientrando nella patria, bandisce pubbliche feste e cerca nella poesia il loro ornamento e decoro, il giovane Poliziano gli scrive in due giorni l'Orfeo. E che cosa è l'Orfeo? Come gli venne in mente Orfeo? Giovanni Boccaccio nel Ninfale e nell'Ameto canta la fine della barbarie e il regno della coltura o dell'umanità. Il rozzo Ameto, educato dalle arti e dalle muse, apre l'animo alla bellezza e all'amore, e di bruto si sente fatto uomo. Atalante trasforma il bosco di Diana in città, e vi marita le ninfe, e v'introduce costumi civili. Orfeo è il grande protagonista di questo regno della coltura, venuto dall'antichità giovine e glorioso ne' carmi di Ovidio e di Virgilio. Questo fondatore dell'umanità col suono della lira e con la dolcezza del canto mansuefà le fiere e gli uomini e impietosisce la morte e incanta l'inferno. È il trionfo dell'arte e della coltura su' rozzi istinti della natura, consacrato dal martirio, quando, sforzando le leggi naturali, è dato in balìa all'ebbro furore delle baccanti. Dopo lungo obblio nella notte della seconda barbarie, Orfeo rinasce tra le feste della nuova civiltà, inaugurando il regno dell'umanità, o per dir meglio, dell'umanismo. Questo è il mistero del secolo, è l'ideale del Risorgimento. Le sacre rappresentazioni cacciate dalle città menano vita oscura nei contadi, e cadono in così profondo obblio che giacciono ancora polverose nelle biblioteche.
L'Orfeo è un mondo di pura immaginazione. I misteri avevano la loro radice in un mondo ascetico, fatto tradizionale e convenzionale, pur sempre reale per una gran parte degli spettatori. Qui tutti sanno che Orfeo, le driadi, le baccanti, le furie, Plutone e il suo inferno sono creature dell'immaginazione. A quel modo che nelle giostre i borghesi camuffati da cavalieri riproducevano il mondo cavalleresco, i nuovi ateniesi dovevano provare una grande soddisfazione a vedersi sfilare innanzi co' loro costumi e abiti le ombre del mondo antico. Che entusiasmo fu quello, quando Baccio Ugolini, vestito da Orfeo e con la cetra in mano, scendeva il monte, cantando in magnifici versi latini le lodi del cardinale! «Redeunt saturnia regna.» Sembravano ritornati i tempi di Atene e Roma; salutavano con immenso grido di applauso Orfeo, nunzio alle genti della nuova èra, della nuova civiltà. Nel medio evo si dicea «vivere in ispirito», ed era il ratto dell'anima alienata da' sensi in un mondo superiore. Ciò che una volta ispirava il sentimento religioso, oggi ispira il sentimento dell'arte, la sola religione sopravvissuta, e si vive in immaginazione. I ricchi, a quel modo che decorano i palagi degli avi, decorano con l'arte i loro piaceri.
E che decorazione è quest'Orfeo! Dove sotto forme antiche vive e si move quella società, idealizzata nell'anima armoniosa del poeta. È un mondo mobile e superficiale, a celeri apparizioni, e mentre fissi lo sguardo il fantasma ti fugge: la parola è come ebbra e si esala nel suono e nel canto; il pensiero è appena iniziale, incalzato dalle onde musicali; la tragedia è un'elegia; l'inno è un idillio; e n'esce un mondo idillico-elegiaco, penetrato di un dolce lamento, che non ti turba, anzi ti lusinga e ti accarezza, insino a che questo bel mondo dell'arte ti si disfà come nebbia, e ti svegli violentemente tra il furore e l'ebbrezza dei sensi. Il canto di Aristeo, il coro delle driadi, il ditirambo delle baccanti sono le tre tappe di questo mondo incantato, la cui quiete idillica penetrata di flebile e molle elegia si scioglie nel disordine bacchico. La lettura non basta a darne un'adeguata idea. Bisogna aggiungervi gli attori e le decorazioni e il canto e la musica e l'entusiasmo e l'ebbrezza di una società che ci vedea una così viva immagine di se stessa. Il suo ideale, il suo Orfeo è una lieve apparizione, ondeggiante tra' più delicati profumi, a cui se troppo ti accosti, ti fuggirà come Euridice. È un mondo che non ha altra serietà, se non quella che gli dà l'immaginazione; le passioni sono emozioni, gli avvenimenti sono apparizioni, i personaggi sono ombre; la vita danza e canta, e non si ferma e non puoi fissarla. La stessa leggerezza penetra nelle forme, flessibili, variamente modulate, e come tutta un'orchestra di metri, entranti gli uni negli altri in una sola armonia. Il settenario rammorbidisce l'endecasillabo; la ballata dà le ali all'ottava; le rime si annodano ne' più voluttuosi intrecci. Ora è il dialetto nella sua grazia, ora è la lingua nella sua maestà; qui lo sdrucciolo ti tira nella rapida corsa, là il tronco ti arresta e ti culla; con una facilità e un brio che pare il poeta giuochi con i suoi strumenti.
Così Orfeo, il figlio di Apollo e di Calliope, rinacque; così divenne il nunzio del Risorgimento. Le edizioni moltiplicarono; penetrò dalle corti nel contado; se ne fecero imitazioni; comparve la Istoria e favola d'Orfeo; e anche oggi nelle valli toscane ti giunge la melodia di Orfeo dalla dolce lira, una storia in ottava rima. Personaggio indovinato, comparso proprio alla sua ora nel mondo moderno, segnacolo e vessillo del secolo.
L'Orfeo nacque tra le feste di Mantova; e tra le feste di Firenze nacquero le Stanze. Quel mondo borghese della cortesia, così ben dipinto nel Decamerone, riproducea nelle sue giostre il mondo profano de' romanzi e delle novelle, la cavalleria. I poeti celebrano a suon di tromba «le gloriose pompe e i fieri ludi» di questi mercanti improvvisati cavalieri e vestiti all'eroica: non ci era più la realtà; ce n'era l'immaginazione. Le giostre erano in fondo una rappresentazione teatrale, e i giostranti erano attori che rappresentavano i personaggi de' romanzi, spettacolo continuato oggi nelle corse, con questo progresso, che gli attori sono i cavalli. Ridicoli sono i poeti che narrano le alte geste de' giostranti come fossero Orlando e Carlomagno, con le frasi ampollose de' romanzi, e descrivono minutamente gli abiti, le fogge, le divise, gli stemmi, gli scontri con una serietà frivola. Anche Giuliano de' Medici fece la sua giostra, e divenne l'eroe di quel poemetto che i posteri hanno chiamato le Stanze.
Comincia a suon di tromba. Il poeta vuol celebrare le gloriose imprese:

sì che i gran nomi e ' fatti egregi e soli
fortuna o morte o tempo non involi.

Ma i fatti egregi e i gran nomi sono dimenticati. E che cosa è rimasto? Le Stanze: forme vaganti, di cui nessuno cerca il legame, ciascuna compiuta in sè. Nella giovine mente del poeta non ci è il romanzo: ci è Stazio e Claudiano con le loro Selve, ci è Teocrito ed Euripide, ci è Ovidio con le sue Metamorfosi, ci è Virgilio con la sua Georgica, ci è il Petrarca con la sua Laura; ci è tutto un mondo d'immagini fluttuanti, sciolte, disseminate come le stelle nel cielo all'occhio semplice del pastore. Questo è il mondo che vien fuori in un legame artificiale e meccanico, delle cui fila interrotte nessuno si cura: perchè la giostra non è il motivo di questo mondo, è la semplice occasione. La sua unità non è in un'azione frivola e incompiuta, debole trama. La sua unità è in se stesso, nello spirito che lo move, ed è quel vivo sentimento della natura e della bellezza che dal Boccaccio in qua è il mondo della coltura.
La primavera, la notte, la vita rustica, la caccia, la casa di Venere, il giardino d'Amore, gl'intagli, non sono già episodi, sono questo mondo esso medesimo nella sua sostanza, animato da un solo soffio. Sono l'apoteosi di Venere e d'Amore, della bella natura, la nuova divinità.
E la natura non ha già quel vago, che ti fa pensoso e ti tiene in una dolce malinconia; non sei nel regno de' misteri e delle ombre, nel regno musicale del sentimento: sei nel regno dell'immaginazione. Venere è nuda, Iside ha alzato il velo. Non hai più gli schizzi di Dante, hai i quadri del Boccaccio; non hai più la faccia di Giotto, hai la figura del Perugino; non hai più il terzetto nel suo raccoglimento, hai l'ottava rima nella sua espansione. Ci è quel sentimento idillico e sensuale che ispirò il Boccaccio, e di cui senti la fragranza nella Lepidila e nel Rusticus: l'anima sta come rilassata in dolce riposo, non fantasticando ma figurando parte a parte e disegnando, quasi voglia assaporare goccia a goccia i suoi piaceri. E non è la descrizione minuta, anatomica, spesso ottusa, del Boccaccio; chè mentre la natura ti si offre distinta come un bel paesaggio, non sai onde o come ti giungono mormorii, concenti, note, come la voce di una divinità nascosta nel suo grembo. La sensualità filtrata fra tanta dolcezza di note lascia in fondo la sua parte grossolana ed esce fuori purificata; e non è la musa civettuola del Boccaccio, è la casta musa del Parnaso, che copre la sua nudità e vi gitta sopra il suo manto verginale. Nel Boccaccio è la carne che accende l'immaginazione: nel Poliziano l'immaginazione è come un crogiuolo, dove l'oro si affina. La sensuale e volgare Griseida si spoglia in quel crogiuolo la sua parte terrea, e diviene la gentile Simonetta, bellezza nuda, sviluppata da ogni velo allegorico dantesco e petrarchesco, a contorni precisi e finiti, pur divina nella sua realtà:

Continua >>>>