Manca a questa prosa quell'ultima finitezza, che viene
dalla grazia, dalla eleganza, dalle qualità musicali. È il difetto della
sua qualità più spiccato in lui, non toscano e con l'orecchio educato
più alla gravità latina che alla sveltezza del dialetto natio.
Machiavelli, Bruno, Campanella, Galileo, Sarpi non erano esseri solitari.
Erano il risultato de' tempi nuovi, gli astri maggiori, intorno a cui
si movevano schiere di uomini liberi, animati dallo stesso spirito.
Cosa volevano? Cercare l'essere dietro il parere, come dicea Machiavelli;
cercare lo spirito attraverso alle forme, come dicea la Riforma; cercare
il reale e il positivo, e non ne' libri, ma nello studio diretto delle
cose, come dicea Galileo; o, come diceano Bruno e Campanella, cercare
l'uno attraverso il molteplice, cercare il divino nella natura. Sono
formole diverse di uno stesso concetto. Riformati e filosofi nelle loro
tendenze s'incontravano su di un terreno comune. Camminavano con disugual
passo; molti erano innanzi troppo; altri restavano a mezza via; ma per
tutti la via era quella. Volevano squarciar le forme addensate dalla
superstizione e dalla fantasia e fatte venerabili, e guardare le cose
svelate nella loro sostanza o realtà, guardarle col proprio sguardo,
col lume naturale. La lotta contro Aristotile e gli scolastici, contro
le forme e le dottrine ecclesiastiche, contro le «intrusioni umane»
nella Chiesa, contro i simboli, le fantasie, i dogmi, il soprannaturale,
era il lato negativo di questo movimento. Lato positivo era il reale,
come metodo e come contenuto: l'uomo e la natura studiati direttamente
dall'intelletto, prendendo per base l'esperienza e l'osservazione. Paolo
Sarpi trasportava la lotta dalle generalità filosofiche in mezzo agl'interessi,
dove potea aver favorevoli i principi e i popoli: perciò fu più temuto,
ed ebbe più influenza.
Se la ristaurazione cattolica fosse stata vera e ragionevole
restaurazione, cioè a dire conciliazione, come volea il Sarpi, e come
fantasticava il Campanella, si sarebbe assimilato il nuovo in ciò che
era pratico e compatibile. Ma la storia non si fa co' «se», nè col senno
di poi. Il movimento era ancora nella sua forma istintiva, nel suo stato
violento e contraddittorio. D'altra parte la Chiesa più che da sentimenti
e convinzioni religiose era mossa da interessi mondani e da passioni
politiche. Perciò la restaurazione si chiarì un'aperta reazione. Nessuno
di queste condizioni morbose ha avuto una intelligenza più chiara che
Paolo Sarpi. Ecco alcuni brani delle sue pitture:
«Le pene canoniche erano andate in disuso, perchè,
mancato il fervore antico, non si potevano più sopportare... Il presente
secolo non era simile a' passati, ne' quali tutte le deliberazioni della
Chiesa erano ricevute senza pensarci più oltre, là dove nel presente
ognuno vuol farsi giudice ed esaminar le ragioni... Il rimedio è appropriato
al male, ma supera le forze del corpo infermo, ed in luogo di guarirlo
sarebbe per condurlo a morte e pensando di riacquistar la Germania,
farebbe perdere l'Italia, ed alienare quella maggiormente.»
Così parlava il cardinale Pucci, per dissuadere Adriano
sesto, che voleva a forza di pene canoniche sradicare le idee nuove,
e ricondurre
«l'aureo secolo della Chiesa primitiva, nel quale i
prelati avevano assoluto governo sopra i fedeli, non per altro se non
perchè erano tenuti in continuo esercizio colle penitenze; dove ne'
tempi che corrono, fatti oziosi, vogliono scuotersi dall'ubbidienza».
Del qual parere era anche il cardinale fra Tommaso
da Gaeta, a cui il Sarpi fa dire:
«Il popolo germanico, che sepolto nell'ozio presta
orecchio a Martino che predica la libertà cristiana, se fosse con penitenze
tenuto in freno, non penserebbe a questa novità.»
Oltre a questo rimedio delle penitenze, il buono Adriano
voleva una seria riforma, quando anche dovesse lasciare il potere temporale.
Ma contro gli ragiona il cardinale Soderino in questo modo:
«Non esservi speranza di confondere ed estirpare i
luterani colla correzione de' costumi della Corte; anzi questo essere
un mezzo di aumentare a loro molto più il credito. Imperocchè la plebe,
che sempre giudica dagli eventi, quando per l'emenda seguita resterà
certificata che con ragione il governo pontificio era ripreso in qualche
parte, si persuaderà facilmente che anco le altre novità proposte abbiano
buoni fondamenti... In tutte le cose umane avviene che il ricevere soddisfazione
in alcune richieste dà pretensione di procacciarne altre e di stimare
che sieno dovute. Nissuna cosa far perire un governo maggiormente che
il mutare i modi di reggerlo; l'aprire vie nuove e non usate essere
un esporsi a gravi pericoli, e sicurissima cosa essere camminare per
li vestigi de' santi pontefici. Nissuno avere mai estinto l'eresie con
le riforme, ma con le crociate e con eccitare i prencipi e popoli all'estirpazione
di quelle.»
Quel bravo cardinale ammette che ci è del cattivo;
ma non bisogna toccarvi, per non dar ragione agli avversari. E all'ultimo
riserba il più prezioso, la ragione più efficace:
«Nissuna riforma potersi fare, la quale non diminuisca
notabilmente l'entrate ecclesiastiche; le quali avendo quattro fonti,
uno temporale, le rendite dello Stato ecclesiastico, gli altri spirituali,
le indulgenze, le dispense e la collazione de' beneficii, non si può
otturare alcuno di questi che le entrate non restino troncate in un
quarto.»
Adriano conchiuse che farebbe le riforme passo a passo: il qual sistema
moderato non piacque a' tedeschi, i quali rispondevano motteggiando
che da un passo all'altro sarebbe corso un secolo. Si può immaginare
quale impressione dovessero fare su' contemporanei queste rivelazioni
di Paolo Sarpi, che metteva in tanta evidenza i motivi mondani e politici
della ristaurazione cattolica.
La quale, essendo aperta reazione, fondavasi sopra idee e tendenze affatto
opposte alle altre. Questi proclamavano l'indipendenza e la forza della
ragione, quelli la sua incompetenza e la sua debolezza. Questi celebravano
la coltura e la scienza, quelli stavano con la pura fede, co' poveri
di spirito e con i semplici di cuore. Gli uni si fondavano sull'esperienza
e sull'osservazione; gli altri sulla rivelazione e sull'autorità di
Aristotile, degli scolastici, de' santi Padri e de' dottori. Gli uni
facevano centro de' loro studi la natura e l'uomo; gli altri sottilizzavano
sugli attributi di Dio, sulla predestinazione e sulla grazia. Gli uni
volevano togliere alla Chiesa ogni temporalità, e semplicizzare le forme
ed il culto; gli altri volevano mantenere inviolate tutte le forme,
anche le assurde e le grottesche, e non che rinunziare al temporale,
ma volevano dilatare la loro ingerenza e il loro dominio, prendendo
a base il potere assoluto del papa e la sua supremazia anche nelle cose
temporali. Fin d'allora valse il motto: «Aut sint ut sunt, aut non
sint»; o vivere così, o morire.
Questa reazione così cieca sarebbe durata poco, se non fosse stata sorretta
dalla tenace abilità de' gesuiti, la milizia del papa. I quali, doma
l'aperta ribellione co' terrori dell'Inquisizione, vollero guadagnare
alla restaurazione anche le volontà e le coscienze, mostrando in questo
assunto una conoscenza degli uomini e del secolo e un'arte di governo,
che li resero degni continuatori della politica medicea. Persuasi che
governa il mondo chi più sa, coltivarono gli studi e si sforzarono di
mantenere il primato del clero nella coltura. Non potendo estirpare
in tutto il nuovo, accettarono la superficie, e vestirono la società
a nuovo per meglio conservare il vecchio. Presero dunque aria di uomini
colti e liberali, scossero da sè la polvere scolastica, e per meglio
vincere il laicato presero ne' modi e ne' tratti apparenze più laicali
che fratesche, confidandosi di abbatterlo con le sue armi. Divenuti
amici e protettori de' letterati e fautori della coltura, apersero scuole
e convitti, e presero nelle loro mani l'istruzione e l'educazione pubblica.
Non mancarono i teatrini, le commedie, le accademie, altre imitazioni
degli usi laicali. La superficie era la stessa, lo spirito era diverso.
Perchè, dove gli uomini nuovi miravano a tirare l'attenzione dal di
fuori al di dentro, dagli accidenti e dagli accessorii al sostanziale,
dalle forme allo spirito, essi miravano a coltivare la memoria, ad allettare
i sensi e l'immaginazione più che l'intelletto, a trattenere l'attenzione
sulla superficie, sì che l'intelligenza fra tante cognizioni empiriche
rimaneva passiva e vuota: onde usciva una coltura mezzana e superficiale,
più simile ad erudizione che a scienza. Al che si accomodava facilmente
la tempra fiacca de' più, contenti di quello spolvero, che dava loro
un'aria di nuovo, l'aria del secolo e così a buon mercato. I gesuiti
vennero in moda, sfogandosi i mali umori del secolo sopra gli altri
ordini religiosi, come restii ad ogni novità. Il loro successo fu grande,
perchè in luogo di alzare gli uomini alla scienza, abbassarono la scienza
agli uomini, lasciando le plebi nell'ignoranza e le altre classi in
quella mezza istruzione, che è peggiore dell'ignoranza. Parimente, non
potendo alzare gli uomini alla purità del Vangelo, abbassarono il Vangelo
alla fiacchezza degli uomini, e costruirono una morale a uso del secolo,
piena di scappatoie, di casi, di distinzioni, un compromesso tra la
coscienza e il vizio, o, come si disse, una doppia coscienza. E nacque
la dottrina del «probabilismo», secondo la quale un «doctor gravis»
rende probabile un'opinione, e l'opinione probabile basta alla giustificazione
di qualsiasi azione, nè può un confessore ricusarsi di assolvere chi
abbia operato secondo un'opinione probabile. Un giudice, dice un dottore,
può decidere la causa a favore dell'amico, seguendo un'opinione probabile,
ancorchè contraria alla sua coscienza. Un medico, dice un altro dottore,
può con lo stesso criterio dare una medicina, ancorchè egli opini che
farà danno. Richiedono sola cautela che non ci sia scandalo, e non già
perchè la cosa sia in sè cattiva, ma per il pregiudizio che ne può venire.
Questa morale rilassata era favorita da un'altra teoria, «directio
intentionis», formulata a questo modo, che un'azione cattiva sia
lecita quando il fine sia lecito. È la massima che il fine giustifica
i mezzi, applicata non solo alle azioni politiche, ma alla vita privata.
Non è peccato annegare in un fiume un fanciullo eretico, per battezzarlo.
Uccidi il corpo, ma salvi l'anima. Non è peccato uccidere la donna,
che ti ha venduto l'onore, quando puoi temere che svelando il fatto
noccia alla tua riputazione.
E all'ultimo viene la dottrina «reservatio et restrictio mentalis».
Il giuramento non ti lega, se tu usi parole a doppio senso, rimanendo
a te l'interpretazione, o se aggiungi a bassa voce qualche parola che
ne muti il senso. Non è bugia, dice un dottore, usare parole doppie
che tu prendi in un senso, ancorchè gli altri le prendano in un senso
opposto. E non è bugia dire una cosa falsa, quando nel tuo pensiero
intendi altro. Hai ammazzato il padre; pure puoi dire francamente: -
Non l'ho ammazzato -, quando dentro di te pensi a un altro che realmente
non hai ammazzato, o ci aggiungi qualche riserva mentale, come: - Prima
ch'egli nascesse, non l'ammazzai di certo. - Questa scaltrezza, aggiunge
il dottore, è di grande utilità, porgendoti modo di nascondere senza
bugia quello che hai a nascondere.
Vedi quante scappatoie! E ce n'era per tutt'i casi. In quell'arsenale
trovi come puoi senza peccato non andare talora a messa, o spendervi
poco tempo, o durante la messa conversare, o andando a messa guardare
le donne con desidèri amorosi. Se vuoi rimanere in buon concetto presso
il tuo confessore, scegli un altro, quando abbi commesso qualche peccato
grave. E se ti pesa il dirlo, usa parole doppie, o fa una confessione
generale per gittarlo così alla rinfusa nella moltitudine de' peccati
vecchi.
Ciascuno immagina, con quella facile scienza, con quella più facile
morale, che seguito e che favore dovettero avere i gesuiti, maestri,
confessori, predicatori, missionari, scrittori, uomini di mondo e di
chiesa. Seppero conoscere il secolo, e lo dominarono. E mantennero il
dominio con l'energia e la logica della loro volontà. Salirono a tanta
potenza che ingelosirono i principi, e posero talora in sospetto anche
i papi. Prendendo a base l'ubbidienza passiva, di modo che l'uomo dirimpetto
al suo superiore fosse «perinde ac cadaver», stabilirono la monarchia
assoluta. Ma volevano che il papa dominasse i principi, e volevano loro
dominare il papa.
I principi si difendevano, offendendo, e cercando fino un sostegno nelle
idee nuove. Così Paolo Sarpi difendeva la libertà di Venezia. La lotta
era disuguale, perchè alle armi spirituali era scemata la riputazione,
e i principi avevano guadagnata tutta quella forza, ch'era mancata a'
feudi ed a' comuni. I gesuiti allora, non trasandando le armi puramente
ecclesiastiche, operarono principalmente come un corpo politico, e seppero
maneggiare le armi mondane con una tenacità uguale alla destrezza. Presero
aria di democratici, e cercarono forza ne' popoli contro i principi.
Fin dal 1562 Lainez, il secondo generale de' gesuiti, sosteneva nel
Concilio di Trento che la Chiesa ha le sue leggi da Dio, ma la società
ha il dritto di scegliersi essa il suo governo. Il cardinale Bellarmino
sostiene che il potere politico è da Dio; ma il dritto divino è non
ne' singoli uomini, ma nella intera società, non ci essendo nessuna
buona ragione che uno o molti debbano comandare agli altri; che monarchia,
aristocrazia, repubblica sono forme che derivano dalla natura dell'uomo;
e che perciò, quando ci è alcuna legittima ragione, può il popolo mutare
la sua forma di governo, come fecero i romani. Ecco già spuntare la
«sovranità del popolo», e il «dritto dell'insurrezione». Mariana vuole
la monarchia, ma a patto che ubbidisca al consiglio de' migliori cittadini
raccolti in senato. Era spagnuolo, e scriveva sotto Filippo terzo, che
tenea Campanella nelle prigioni di Napoli. Non ammette il dritto ereditario,
«nato dalla troppa possanza de' re e dalla servilità de' popoli», e
causa di tanti mali, non ci essendo niente più mostruoso che «commettere
le sorti di un popolo a fanciulli ancora in culla e al capriccio di
una donna». Re che offende i dritti de' popoli e disprezza la religione
è come una bestia feroce, e «ciascuno gli può metter le mani addosso».
I dritti di successione non possono esser mutati che col consenso del
popolo; perchè «dal popolo viene il dritto della signoria». Il re ha
il suo potere dal popolo; perciò «non è signore dello Stato o de' singoli
individui, ma un primo magistrato, pagato da' cittadini». Il re non
può da solo porre le tasse, fare leggi, scegliersi il successore; perchè
«le son cose che interessano non solo il re, ma anche il popolo». Il
re è sottoposto alle leggi, e quando le viola, il popolo ha il dritto
«di deporlo e punirlo con la morte». Queste erano le risposte che davano
a' principi i gesuiti. Ma erano armi a doppio taglio. Perchè si potea
loro rispondere che se il dritto di signoria è non ne' singoli individui,
ma nella universalità de' cittadini, quel dritto nelle faccende ecclesiastiche
è non nel papa, ma nella Chiesa o universalità de' fedeli, e per essa
nel concilio, che può perciò deporre e anche punire il papa. Che cosa
diveniva allora il loro papa, il vicario di Dio? Essi erano repubblicani
dirimpetto allo Stato, ed assolutisti dirimpetto alla Chiesa. E, per
dire la verità, si mostravano repubblicani per meglio dominare i principi,
ed erano assolutisti per avere tutto il potere nelle loro mani. Nè voglio
dir già che i loro scrittori erano di mala fede, anzi moltissimi erano
sinceri, credenti e patrioti, primo fra tutti Mariana. Parlo de' capi,
più uomini politici che uomini di fede.
Dicono che corruppero e infiacchirono i popoli. Il che è così poco giusto,
come dire che Marino corruppe il gusto. Furono effetto e causa. Furono
il cattolicismo rammodernato, accomodato possibilmente a' nuovi tempi
per meglio conservarlo nella sua sostanza; furono l'intelletto che succede
alla fede e all'immaginazione, e si affida più nell'arte del governo
che nelle passioni e nella violenza, l'intelletto spinto sino alla sua
ultima depravazione, sofistico e seicentistico; nacquero da quello stesso
spirito che portò sulla scena del mondo Machiavelli. Perciò furono un
progresso, un naturale portato della storia. La loro responsabilità
è questa, che, trovando nel secolo fiacchezza e ignoranza, non lavorarono
a combatterla per migliorare l'uomo, anzi la favorirono e se ne fecero
piedistallo. Torto di tutte le reazioni. Vollero una coltura con licenza
de' superiori, e stretta in pochi. E quando la coltura, rotte le dighe,
si diffuse, finì il loro regno.
La diffusione della coltura era visibile in Italia. E non parlo solo
delle scienze esatte e naturali, dove i gesuiti si mostrarono valentissimi,
seguendo anche loro la via aperta da Galileo, ma pur delle scienze storiche
e sociali. L'abbondanza dell'oro per la scoperta dell'America e la crisi
monetaria die' occasione a' primi scritti di economia, il Discorso
sopra le monete e la vera proporzione fra l'oro e l'argento di Gaspare
Scaruffi, che propugnava, come Campanella, l'uniformità monetaria; e
il trattato sulle Cause che possono fare abbondare i regni di oro
e d'argento di Antonio Serra di Cosenza, scritto alla Vicaria, dove
l'autore, come complice di Campanella, era tenuto prigione. Moltiplicarono
i trattati di giurisprudenza, massime nella seconda metà del secolo.
Alberico Centile nel suo libro De iure belli fa già presentire
Grozio, e gli è vicino per forza speculativa Alessandro Turamini, che
scrisse De Pandectis. Tra gl'interpreti del dritto romano sono
degni di nota l'Alciato, l'Averani, il Farinaccio, il Fabro. Fondatori
della storia del dritto furono il «gran» Carlo Sigonio, come lo chiama
Vico, e il Panciroli, maestro del Tasso.
Pubblicarono lavori non dispregevoli di cronologia l'Allacci, il Riccioli,
il Vecchietti. Comparivano storie venete, napolitane, piemontesi, pisane,
il Nani, il Garzoni, il Summonte, il Capecelatro, il Tesauro, il Roncioni:
cronache più che storie, volgari di sentimento e di stile. In Roma naturalmente
si sviluppava l'archeologia. Il Fabretti di Urbino scrivea degli Acquidotti
romani e della Colonna traiana, e pubblicava in otto serie
quattrocentotrenta iscrizioni dottamente illustrate. Moltiplicavano
le compilazioni, le raccolte, come sussidio agli studiosi. Il Zilioli
scrisse l'Indice di tutt'i libri di dritto pontificio e cesareo,
e il Ziletti in ventotto volumi il trattato Iuris universi. Avevi
già annali, giornali, biblioteche, cataloghi, e simili mezzi di diffusione.
Vittorio Siri aveva pubblicato il Mercurio politico e le Memorie
recondite, l'Avogadro il Mercurio veridico. Il Nazzari cominciò
a Roma nel 1668, il Giornale de' letterati, e il Cinelli pubblicava
la Biblioteca volante, una specie di storia letteraria. Comparivano
gli Annali del Baronio, le Vite de' pàpi e cardinali del
Ciacconio, la Storia generale de' concili di monsignor Battaglini,
la Storia delle eresie del Bernini, la Napoli sacra di
Cesare Caracciolo e la Sicilia sacra del Pirro, liste e notizie
di vescovi, la Miscellanea italica erudita del padre Roberti,
la Bibliotheca selecta e l'Apparatus sacer del gesuita
Possevino, il Mappamondo storico del padre Foresti, continuato
da Apostolo Zeno, un primo tentativo di storia universale. Aggiungi
relazioni come la Descrizione della Moscovia del Possevino, i
viaggi del Carreri napolitano, che nel 1698 compì a piedi il giro del
mondo, la Relazione dello Zani bolognese, che fu in Moscovia,
le Lettere del Negri da Ravenna, che giunse fino al capo Nord,
la descrizione delle Indie del fiorentino Sassetti, che primo die' notizia
della lingua sanscrita. Si conoscea meglio il mondo, e meglio i popoli
stranieri. Pietro Maffei da Bergamo scrivea in elegante latino delle
Indie orientali, il Falletti ferrarese della Lega di Smalcalda,
il Bentivoglio in lingua artificiata e falsamente elegante delle Guerre
di Fiandra, il Davila con semplicità trascurata delle Guerre
civili di Francia, il padre Strada prolissamente delle cose belgiche.
A questa coltura empirica e di mera erudizione partecipavano tutti,
laici e chierici, uomini nuovi e uomini vecchi, e i gesuiti vi si mostravano
operosissimi: si pensava poco, ma s'imparava molto e da molti. La coltura
guadagnava di estensione, ma perdeva di profondità. Chi avesse allora
guardata l'Italia con occhio plebeo, potea dirla una terra felice. Rivoluzione
e guerra aveano abbandonato le sue contrade: piena pace, tranquilli
gli spiriti, in riposo il cervello. Le piccole cose vi erano avvenimenti:
l'Inghilterra aveva Cromwell, ella avea Masaniello. L'Europa camminava
senza di lei e fuori di lei, tra guerre e rivoluzioni nelle quali si
elaborava e si accelerava la nuova civiltà. Lei giaceva beata in quel
dolce ozio idillico, che era il sospiro e la musa de' suoi poeti. Dalle
guerre di Alemagna usciva la libertà di coscienza, dalle rivoluzioni
inglesi usciva la libertà politica, dalle guerre civili di Francia usciva
la potente unità francese e il secolo d'oro, la monarchia di Carlo quinto
e di Filippo secondo si andava ad infrangere contro la piccola nazionalità
olandese. L'Italia assisteva a questi grandi avvenimenti senza comprenderli.
Davila e Bentivoglio ci pescavano intrighi e fattarelli curiosi, la
parte teatrale. E sì che tra quegli avvenimenti ci erano pure grandi
attori italiani, Caterina de' Medici, Mazzarino, Eugenio di Savoia,
Montecuccoli, il cui trattato della guerra è una delle opere più serie
scritte a quel tempo. Si combatteva non solo con la spada, ma con la
penna: le quistioni più astratte interessavano ed infiammavano le moltitudini;
dall'attrito scintillavano nuovi problemi e nuove soluzioni; era una
generale fermentazione d'idee e di cose. Ciò che fermentava nel cervello
solitario di Bruno e di Campanella, fluttuante, contraddittorio, lì
era pensiero, stimolato dalla passione, affinato dalla lotta, pronto
all'applicazione, in un gran teatro, fra tanta eco, con una chiarezza
e precisione di contorni, come fosse già cosa. Questa chiarezza è già
intera in Bacone e in Cartesio, dove il mondo moderno si scioglie da
tutti gli elementi scolastici e mistici, da tutti i preconcetti, e si
afferma in forme nette e recise. Perciò Galileo, Bacone, Cartesio sono
i veri padri del mondo moderno, la coscienza della nuova scienza. Il
metodo, che Galileo applicava alle scienze naturali, diviene nelle mani
di Bacone il metodo universale e assoluto, la via della verità in tutte
le sue applicazioni: l'induzione caccia via il sillogismo, e l'esperienza
mette in fuga il soprannaturale. Cartesio col suo «de omnibus dubitandum»
riassume il lato negativo del nuovo movimento, togliendo ogni valore
all'autorità e alla tradizione - e col suo «cogito, ergo sum»
pone la prima pietra alla costruzione dell'edificio, inizia l'affermazione.
Come la Riforma, così Cartesio pone a fondamento della coscienza il
senso individuale; e come Galileo stabilisce il mondo naturale su' fatti,
così egli stabilisce il mondo metafisico su di un fatto, «io penso».
All'esperienza esterna si aggiunge l'esperienza interna, l'analisi psicologica.
L'ente, ch'era il primo filosofico, qui è un prodotto della coscienza,
un «ergo». L'evidenza innanzi a' sensi e innanzi alla coscienza,
il senso interno, è il criterio della verità. Cartesio, che era un matematico,
introduce nella filosofia la forma geometrica, credendo che in virtù
della forma entrasse nel mondo metafisico quella evidenza ch'era nel
mondo matematico. Era un'illusione, il cui benefizio fu di cacciar via
definitivamente le forme scolastiche e aprire la strada a quella forma
naturale di discorso, di cui Machiavelli avea dato esempio, ed egli
medesimo nel suo ammirabile Metodo. Queste idee non erano nuove
in Italia, anzi erano volgari a tutti gli uomini nuovi; ma, naufragate
in vaste sintesi immature e senza eco, rimanevano sterili. Qui le vedi
a posto, staccate, rilevate, formulate con chiarezza ed energia, e parvero
una rivelazione. D'altra parte Cartesio ebbe cura di non rompere con
la fede, e di accentuare la natura spirituale dell'anima e la sua distinzione
dal corpo, base della dottrina cristiana, sì che dicea parergli meno
sicura l'esistenza del corpo che quella dello spirito; oltre a ciò,
con le sue idee innate lasciava aperto un varco alla teologia e al soprannaturale.
Così egli ti dava la prima filosofia nuova che sembrasse conciliabile
con la religione, in un tempo che per l'infanzia della critica e della
coscienza non era facile pesare tutte le sue conseguenze. Perciò, come
la Riforma religiosa, la sua riforma filosofica ebbe un gran successo;
perchè le riforme efficaci son quelle che prendono una forma meno lontana
dal passato e dallo stato reale degli spiriti. Aggiungi la sua superficialità,
l'estrema chiarezza, la forma accessibile, quel presentar poche idee
e nette innanzi alle moltitudini: si rivelava già lo spirito francese
volgarizzatore e popolare. La conseguenza naturale della riforma era
questa, che l'uomo rientrava in grembo della natura, diveniva una parte
della storia naturale. Posto che la filosofia ha la sua base nella coscienza,
lo studio della coscienza o de' fatti psicologici diveniva la condizione
preliminare di ogni metafisica, come lo studio della natura diveniva
l'antecedente di ogni cosmologia. Il mondo usciva dalle astrazioni degli
universali ed entrava in uno studio serio dell'uomo e della natura,
nello studio del reale. Per questa via modesta e concludente si era
messo Galileo; di là uscivano i grandi progressi delle scienze positive.
Cartesio applicava alla metafisica gli stessi procedimenti della filosofia
naturale, togliendola di mezzo al soprannaturale, al fantastico, all'ipotetico,
e dandole una base sicura nell'esperienza e nell'osservazione. Ma i
fatti psicologici erano ancora troppo scarsi e superficiali, perchè
ne potesse uscire una soluzione de' problemi metafisici, e l'Europa
era ancora troppo giovane, troppo impregnata di teologia e di metafisica,
di misteri e di forze occulte, perchè potesse aver la pazienza di studiare
i dati de' problemi prima di accingersi a risolverli. Le «idee innate»
e i «vortici» di Cartesio, la «visione di Dio» di Malebranche, la «sostanza
unica» di Spinosa, l'«armonia prestabilita» di Leibnizio erano teodicee
ipotetiche e provvisorie, che appagavano il pensiero moderno abbandonato
a se stesso, e attestavano il suo vigore speculativo. Ma l'impulso era
dato, e fra quelle immaginazioni progrediva la storia naturale dell'intelletto
umano, la scienza dell'uomo. Le meditazioni di Cartesio, i maravigliosi
capitoli di Malebranche sull'immaginazione e sulle passioni, i Pensieri
di Pascal, dove l'uomo in presenza di se stesso si sente ancora un enigma,
preludevano al Saggio sull'intelletto umano di Giovanni Locke,
l'erede di Bacone, di una grandezza eguale alla sua modestia. Ivi la
riforma cartesiana aveva la sua ultima espressione, il suo punto di
fermata; ivi la filosofia trovava il suo Galileo, realizzava l'ideale
del suo risorgimento, al quale fra molti ostacoli tendevano gli uomini
nuovi, acquistava la sua base positiva, fondata sull'esperienza e sull'osservazione,
sulla «cosa effettuale», come dicea Machiavelli, e col «lume naturale»,
come dicea Bruno, con la scorta dell'occhio del corpo e della mente,
come dicea Galileo, e leggendo nel libro della natura, come dicea Campanella.
Cadevano insieme forme scolastiche e forme geometriche; la filosofia
usciva dal suo tempo eroico ed entrava nella sua età umana; agli oracoli
dottrinali succedevano forme popolari, e vi si affinavano le moderne
lingue. La semplicità, la chiarezza, l'ordine, la naturalezza divenivano
le qualità essenziali della forma, e n'era un primo e stupendo esempio
il Saggio di Locke. Così la filosofia nella sua linea divergente
dalla teologia giungeva sino all'opposto, dal soprannaturale e dal soprasensibile
giungeva al puro naturale ed al puro sensibile, giungeva al motto: «Niente
è nell'intelletto che non sia stato prima nel senso». E non era già
un concetto astratto e solitario, era lo spirito nuovo, penetrato in
tutto lo scibile, e che ora, come ultimo risultato, faceva la sua apparizione
in filosofia. Anche la morale si emancipava dal precetto divino o ecclesiastico,
e cercava la sua base nella natura dell'uomo, e non dell'uomo quale
l'avea formato la società, ma nell'integrità e verginità del suo essere.
Comparve un dritto naturale, come era comparsa una filosofia naturale;
ed entrano in iscena Grozio, Hobbes, Puffendorfio. A quel modo che Campanella
e Sarpi con tutti i riformati vagheggiavano la Chiesa primitiva nella
purità delle sue istituzioni, e in nome di quella attaccavano come alterazione
e falsificazione l'opera posteriore de' papi, i filosofi vagheggiavano
l'uomo primitivo, nello stato di natura, e combattevano tutte le istituzioni
sociali, che non erano di accordo con quello. Il movimento religioso
diveniva anche politico e sociale; l'idea era una, che si sentiva ora
abbastanza forte per dilatare le sue conseguenze anche negli ordini
politici. Sorge uno spirito di critica e d'investigazione, che non tien
conto di nessun'autorità e tradizione, e fa valere il suo scetticismo
in tutti i fatti e i princìpi tenuti fino a quel punto indiscutibili,
come un assioma. Bayle è là, con la sua ironia, col suo dubbio universale.
Come Locke realizzava il «cogito», egli realizzava il «de
omnibus dubitandum». E chi paragoni il suo Dizionario con
le Raccolte italiane, può vedere dov'era la vita e dov'era la
morte.
Che faceva l'Italia innanzi a quel colossale movimento di cose e d'idee?
L'Italia creava l'Arcadia. Era il vero prodotto della sua esistenza
individuale e morale. I suoi poeti rappresentavano l'età dell'oro, e
in quella nullità della vita presente fabbricavano temi astratti e insipidi
amori tra pastori e pastorelle. I suoi scienziati, lasciando correre
il mondo per la sua china, si occupavano del mondo antico e scrutavano
in tutti i versi le reliquie di Roma e di Atene; e poichè le idee erano
date e non discutibili, si occupavano de' fatti, e non potendo essere
autori, erano interpreti, comentatori ed eruditi. Letteratura e scienza
erano Arcadia, centro Cristina di Svezia, povera donna, che non comprendendo
i grandi avvenimenti, de' quali erano stati tanta parte i suoi Gustavo
e Carlo, si era rifuggita a Roma co' suoi tesori, e si sentiva tanto
felice tra quegli arcadi, ch'ella proteggeva, e che con dolce ricambio
chiamavano lei «immortale e divina». Felice Cristina! E felice Italia!
L'inferiorità intellettuale degli italiani era già un fatto noto nella
dotta Europa, e ne attribuivano la cagione al mal governo papale-spagnuolo.
Gli stessi italiani aveano oramai coscienza della loro decadenza, e
non avvezzi più a pensare col capo proprio, attendevano con avidità
le idee oltramontane, e mendicavano elogi da' forestieri. Giovanni Leclerc
scriveva anno per anno la sua Biblioteca, una specie d'inventario
ragionato delle opere nuove. E come si tenea fortunato quell'italiano,
che potea averci là dentro un posticino! La lingua francese era divenuta
quasi comune, e prendeva il posto della latina. Un movimento d'importazione
c'era, lento, e impedito da molti ostacoli, e vivamente combattuto nelle
accademie e nelle scuole, dove regnava Suarez e Alvarez, tra interpreti
e comentatori. La Fisica di Cartesio penetrò in Napoli settanta
anni dopo la sua morte, e quando già era dimenticata in Francia, e non
si aveva ancora notizia del suo Metodo e delle sue Meditazioni.
Grozio girava per le mani di pochi. Di Spinosa e di Hobbes il solo nome
faceva orrore. Di Giovanni Locke appena qualche sentore. Un movimento
si annunziava negli spiriti, quel non so che di vago, quel bisogno di
cose nuove che testimonia il ritorno della vita. Pareva che il cervello,
dopo lungo sonno, si svegliasse. I renatisti penetravano nelle scuole
co' loro «metodi strepitosi», come li chiamava Vico, promettitori di
scienza facile e sicura. Definizioni, assiomi, problemi, teoremi, scolii,
postulati cacciavano di sede sillogismi, entimemi e soriti. Il «quod
erat demonstrandum» succedeva all'«ergo». Chiamavano «pedanti»
i peripatetici, e questi chiamavano loro «ciarlatani». Sempre così.
Il vecchio è detto «pedanteria», ed il nuovo «ciarlataneria». E qualche
cosa di vero c'è. Perchè il vecchio nella sua decrepitezza e stagnazione
ha del pedante, e il nuovo nella sua giovanile esagerazione ha del ciarlatano.
Ciascuno ha il suo lato debole, che non può nascondere all'occhio acuto
e appassionato dell'avversario.
La riforma cartesiana in Italia non produsse alcun serio progresso scientifico,
com'è d'ogni scienza importata e non uscita da una lenta elaborazione
dello spirito nazionale. Fu utile come mezzo di diffusione delle idee
nuove. Le quali, cacciate d'Italia co' roghi, con gli esili, con le
torture e coi pugnali, vi rientrarono sotto la protezione delle idee
cristiane. La riforma era detta il «platonismo cartesiano», ed aveva
aria di ribenedire la religione in nome della filosofia. L'Inquisizione,
in quel movimento rapidissimo d'idee, preoccupata di Spinosa, aperto
nemico, lasciava passare il nuovo Platone, che almeno non toccava i
dogmi. I peripatetici invocarono l'Inquisizione contro i novatori, e
i novatori rispondevano proclamando Aristotile nemico della religione.
Così il movimento ricominciava in Italia, col permesso o almeno la tolleranza
di Roma. Ed era movimento arcadico, confinato nelle astrattezze e rispettoso
verso tutte le istituzioni. Il movimento rimaneva superficiale; ma si
diffondeva, guadagnava gli animi alle novità, sopraffaceva i peripatetici,
s'infiltrava nella nuova generazione, la metteva in comunione coll'Europa,
preparava la trasformazione dello spirito nazionale.
Il serio movimento scientifico usciva di là, dove s'era
arrestato, dal seno stesso dell'erudizione. Lo studio del passato era
come una ginnastica intellettuale, dove lo spirito ripigliava le sue
forze. Alle raccolte successero le illustrazioni. E vi si sviluppò uno
spirito d'investigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale
usciva naturalmente il dubbio e la discussione. Lo spirito nuovo inseguiva
gli eruditi tra quegli antichi monumenti. Già non erano più semplici
eruditi, erano critici. In Europa la critica usciva dal libero esame
e dalla ribellione: era roba eretica. In Italia era parte di Arcadia,
un esercizio intellettuale sul passato, e li lasciavano fare. Il critico
di Europa era Bayle; il critico d'Italia era Muratori. Le sue vaste
e diligenti raccolte, Rerum italicarum scriptores, Antiquitates medii
aevi, Annali d'Italia, Novus thesaurus inscriptionum, la Verona
illustrata e la Storia diplomatica di Scipione Maffei, le
Illustrazioni del Fabretti segnano già questo periodo, dove la
scienza è ancora erudizione, e nella erudizione si sviluppa la critica.
Non è ancora filosofia, ma è già buon senso, fortificato dalla diligenza
della ricerca, e dalla pazienza dell'osservazione. Muratori è assai
vicino a Galileo per il suo spirito positivo e modesto, e pel giusto
criterio. E anche egli osò. Osò combattere il potere temporale, osò
porre in guardia gl'italiani contro gli errori e le illusioni della
fantasia. Se non gliene venne condanna, fu tolleranza intelligente di
Benedetto decimoquarto, il quale disse che «le opere degli uomini grandi
non si proibiscono», e che la quistione del potere temporale «era materia
non dogmatica nè di disciplina».
Anche il Maffei parve incredulo al Tartarotti, perchè negava la magia,
e parve eretico al padre Concina, perchè scrivea De' teatri antichi
e moderni; ma quel buon papa decretò «non doversi abolire i teatri,
bensì cercare che le rappresentazioni siano al più possibile oneste
e probe». L'Italia papale era più papista del papa.
Un arcade era pure Gian Vincenzo Gravina, tutto Grecia e Roma, tutto
papato e impero, fra testi e comenti, con le spalle vòlte all'Europa.
Dommatico e assoluto, sentenzia e poco discute, in istile monotono e
plumbeo. È ancora il pedante italiano, sepolto sotto il peso della sua
dottrina, senza ispirazione, nè originalità, e così vuoto di sentimento,
come d'immaginazione. Pure già senti che siamo verso la fine del secolo.
Già non hai più innanzi l'erudito che raccoglie e discute testi, ma
il critico che si vale della storia e della filosofia per illustrare
la giurisprudenza, e si alza ad un concetto del dritto, e ne cerca il
principio generatore. Anche la sua Ragion poetica, se non mostra
gusto e sentimento dell'arte, colpa non sua, esce da' limiti empirici
della pura erudizione, e ti dà riflessioni d'un carattere generale.
Ecco un altro uomo d'ingegno, Francesco Bianchini, veronese. A che pensa
costui? Pensa agli assiri, a' medi e a' troiani. Non raccoglie, ma pensa,
cioè a dire scruta, paragona, giudica, congettura, arzigogola e costruisce.
I monumenti non rimangono più lettera morta: parlano, illustrano la
cronologia e la storia. Per mezzo di essi si stabiliscono le date, le
epoche, i costumi, i pensieri, i simboli, si rifà il mondo preistorico.
In questa geologia della storia i fatti e gli uomini vacillano, si assottigliano,
diventano favole, e le favole diventano idee. Comparve la sua Storia
nel 1697, Vico aveva ventinove anni.
L'erudizione generava dunque la critica. In Italia si svegliava il senso
storico e il senso filosofico. E si svegliava non sul vivo, ma sul morto,
nello studio del passato. Questo era il carattere del suo progresso
scientifico. Quelli che si occupavano del presente a loro rischio, erano
cervelli spostati. E tra questi cervelli balzani c'era il milanese Gregorio
Leti, che pose in luce la cronaca scandalosa dell'età in uno stile che
vuol essere europeo e non è italiano, e Ferrante Pallavicino nel suo
Corriere svaligiato, una specie di satira-omnibus, dove ce n'è
per tutti. In quel vacuo dell'esistenza sciupavano l'ingegno in argomenti
grotteschi, e in forme che parevano ingegnose ed erano freddure, un
seicentismo arcadico. Il canonico Garzoni scrivea il Teatro de' cervelli
mondani, L'Ospedale de' pazzi incurabili, la Sinagoga
degl'ignoranti, il Serraglio degli stupori del mondo. Sono
discorsi accademici, infarciti d'erudizione indigesta, più curiosa che
soda. I quali erano la vera piaga d'Italia, e attestavano una coltura
verbosa e pedantesca senz'alcuna serietà di scopo e di mezzi. Il più
noto di questi dotti, e ce n'erano moltissimi, è Anton Maria Salvini,
cervello ingombro, cuore fiacco e immaginazione povera, vita vuota.
E volle tradurre Omero.
Fra tanta erudizione cresceva Vico. Studiò la filosofia in Suarez, la
grammatica in Alvarez, il dritto in Vulteio. Pedagogo in casa della
Rocca in Vatolla, un paesello nel Cilento, si chiuse per nove anni nella
biblioteca del convento, e vi si formò come Campanella. Quando, compiuto
il suo ufficio, tornò in Napoli, era già un uomo dotto, come poteva
essere un italiano, e ce n'erano parecchi anche tra' gesuiti. Era il
tempo del Muratori, del Fontanini, dell'abate Conti, del Maffei, del
Salvini. «dottissimo, eruditissimo» era Lionardo da Capua, e Tommaso
Cornelio «latinissimo»: così li qualifica Vico. Il quale conosceva a
fondo il mondo greco e latino, Aristotile e Platone con tutta la serie
degl'interpreti fino a quel tempo; ammirava nel Cinquecento quello stesso
mondo redivivo ne' Ficini, ne' Pico, ne' Mattei Acquaviva, ne' Patrizi,
ne' Piccolomini, ne' Mazzoni; di letteratura, di archeologia, di giurisprudenza
peritissimo; il medio evo gli era giunto con la scolastica e con Aristotile,
il Cinquecento con Platone e Cicerone; de' fatti europei sapeva quanto
era possibile in Italia. Era un dotto del Rinnovamento, che scoteva
da sè la polvere del medio evo e cercava la vita e la verità nel mondo
antico. Il suo sapere era erudizione, la forma del suo pensiero era
latina, e il suo contenuto ordinario era il dritto romano. Avvocato
senza clienti, fece il letterato e il maestro di scuola. Passati erano
i bei tempi di Pietro Aretino. La letteratura senza l'insegnamento era
povera e nuda, come la filosofia. Andava per le case insegnando, facea
canzoni, dissertazioni, orazioni, vite, a occasione o a richiesta. Lo
conobbe don Giuseppe Lucina, «uomo di una immensa erudizione greca,
latina e toscana in tutte le spezie del sapere umano e divino», e lo
fe' conoscere a don Niccolò Caravita, un avvocato primario e «gran favoreggiatore
de' letterati». Vico, parte merito, parte protezione, fu professore
di rettorica all'università. Vita semplice e ordinaria, dal 1668 al
1744. Vita accademica, tranquilla, di erudito italiano, formatosi nelle
biblioteche e fuori del mondo, rimasto abbarbicato al suolo della patria.
Il movimento europeo gli giunse a traverso la sua biblioteca, e gli
giunse nella forma più antipatica a' suoi studi e al suo genio. Gli
venne addosso la fisica di Gassendi, e poi la fisica di Boyle, e poi
la fisica di Cartesio. - La gran novità - pensava il nostro erudito.
- Ma l'hanno già detto, questo, Epicuro e Lucrezio. - E per capire Gassendi
si pose a studiare Lucrezio. Ma la novità piacque. - Fisica, fisica
vuol essere, - diceva la nuova generazione - macchine; non più logica
scolastica, ma Euclide; sperimenti, matematiche; la metafisica bisogna
lasciarla ai frati. - Che diveniva Vico con la sua erudizione e col
suo dritto romano? Reagì, e cercò la fisica non con le macchine e con
gli sperimenti, ma ne' suoi studi di erudito. Le scienze positive entravano
appena nel gran quadro della sua cultura, e di matematiche sapeva non
oltre di Euclide, stimando «alle menti già dalla metafisica fatte universali
non... agevole quello studio proprio degli ingegni minuti». Cercò dunque
la fisica fuori delle matematiche e fuori delle scienze sperimentali,
la cercò fra i tesori della sua erudizione, e la trovò nei «numeri»
di Pitagora, ne' «punti» di Zenone, nelle «idee divine» di Platone,
nell'antichissima sapienza italica. L'Europa aveva Newton e Leibnizio;
e a Napoli si stampava De antiquissima italorum sapientia. Erano
due colture, due mondi scientifici che si urtavano. Da una parte era
il pensiero creatore, che faceva la storia moderna, dall'altra il pensiero
critico che meditava sulla storia passata. Chiuso nella sua erudizione,
segregato nella sua biblioteca dal mondo de' vivi, quando Vico tornò
in Napoli, trovò nuova cagione di maraviglia. L'aveva lasciata tutto
fisica; la trovava tutto metafisica. Le Meditazioni e il Metodo
di Cartesio avevano prodotto la nuova mania. Vico sentì disgusto per
una città che cangiava opinione da un dì all'altro «come moda di vesti».
E vi si sentì straniero, e vi stette per alcun tempo straniero e sconosciuto.
Vedeva il movimento attraverso i suoi studi e i suoi preconcetti.
Quelle fisiche atomistiche gli pareva non poter condurre che all'ateismo
e alla morale del piacere, e le accusava di falsa posizione, perchè
l'atomo, il loro principio, era corpo già formato, perciò era principiato
e non il principio, e andava cercando il principio al di là dell'atomo,
ne' numeri e ne' punti. Soffiava in lui lo stesso spirito di Bruno e
di Campanella. Si sentiva concittadino di Pitagora e discepolo dell'antica
sapienza italica. Quanto al metodo geometrico, rifiutava di ammetterlo
come una panacea universale: era buono in certi casi, e si potea usarlo
senza quel lusso di forme esteriori, dove vedea ambizione, pretensione
e ciarlataneria. Il «cogito»gli pareva così poco serio, come
l'atomo. Era anch'esso principiato e non principio; dava fenomeni, non
dava la scienza. Giudicava Cartesio uomo ambiziosissimo ed anche un
po' impostore, e quel suo «metodo», dove, annullando la scienza con
la bacchetta magica del suo «cogito», la fa ricomparire a un
tratto, gli pareva un artificio rettorico. Quel suo de omnibus dubitandum
lo scandalizzava. Quella tavola rasa di tutto il passato, quel disprezzo
di ogni tradizione, di ogni autorità, di ogni erudizione, lo feriva
nei suoi studi, nella sua credenza e nella sua vita intellettuale, e
si difendeva con vigore, come si difende dal masnadiero la roba e la
vita. La diffusione della coltura, la moltiplicità dei libri, quei metodi
strepitosi abbreviativi, quella superficialità di studi con tanta audacia
di giudizi, fenomeni naturali di ogni transizione, quando un mondo se
ne va e un altro viene, movevano la sua collera. Avvezzo ai severi e
profondi studi, a pensare co' sapienti ed a scrivere pei sapienti, gli
spiacea quella tendenza a vulgarizzare la scienza, quella rapida propagazione
d'idee superficiali e cattive. E se la pigliava con la stampa. Si gloriava
di non appartenere a nessuna setta. E lì era il suo punto debole. Posto
tra due secoli, in quel conflitto di due mondi che si davano le ultime
battaglie, non era nè con gli uni, nè con gli altri, e le cantava a
tutti e due. Era troppo innanzi pe' peripatetici, pe' gesuiti e per
gli eruditi; era troppo indietro per gli altri. Questi trovavano ridicoli
i suoi «punti metafisici»; quelli trovavano avventate le sue etimologie
e sospetta la sua erudizione. Era da solo un terzo partito, come si
direbbe oggi, la ragione serena e superiore, che nota le lacune, le
contraddizioni e le esagerazioni, ma ragione ancora disarmata, solitaria,
senza seguaci, fuori degl'interessi e delle passioni, perciò in quel
fervore della lotta appena avvertita e di nessuna efficacia. Se dietro
al critico ci fosse stato l'uomo, un po' di quello spirito propagatore
e apostolico di Bruno e Campanella, sarebbe stato vittima degli uni
e degli altri. Ma era un filosofo inoffensivo, tutto cattedra, casa
e studio, e guerreggiava contro i libri, rispettosissimo verso gli uomini.
Oltrechè le sue ubbie rimanevano nelle altissime regioni della filosofia
e della erudizione, dove pochi potevano seguirlo, e fu lasciato vivere
fra le nubi, stimato per la sua dottrina, venerato per la sua pietà
e bontà. Conscio e scontento della sua solitudine, vi si ostinò, benedicendo
«non aver lui avuto maestro nelle cui parole avesse giurato», e ringraziando
«quelle selve, fra le quali dal suo buon genio guidato, aveva fatto
il maggior corso de' suoi studi». Il latino veniva in fastidio, ed egli
pose da canto greco e toscano, e fu tutto latino. Veniva in moda il
francese: e' non volle apprendere il francese. La letteratura tendeva
al nuovo, ed egli accusava questa letteratura «non... animata dalla
sapienza greca..., o invigorita dalla grandezza romana». Nella medicina
era con Galeno contro i moderni, divenuti scettici «per le spesse mutazioni
de' sistemi di fisica». Nel dritto biasimava gli eruditi moderni, e
se ne stava con gli antichi interpreti. Vantavano l'evidenza delle matematiche;
ed egli se ne stava tra' misteri della metafisica. Predicavano la ragione
individuale, ed egli le opponeva la tradizione, la voce del genere umano.
Gli uomini popolari, i progressisti di quel tempo, erano Lionardo di
Capua, Cornelio, Doria, Calopreso, che stavano con le idee nuove, con
lo spirito del secolo. Lui era un retrivo, con tanto di coda, come si
direbbe oggi. La coltura europea e la coltura italiana s'incontravano
per la prima volta, l'una maestra, l'altra ancella. Vico resisteva.
Era vanità di pedante? era fierezza di grande uomo? Resisteva a Cartesio,
a Malebranche, a Pascal, i cui Pensieri erano «lumi sparsi»,
a Grozio, a Puffendorfio, a Locke, il cui Saggio era la «metafisica
del senso». Resisteva, ma li studiava più che non facessero i novatori.
Resisteva come chi sente la sua forza e non si lascia sopraffare. Accettava
i problemi, combattea le soluzioni, e le cercava per le vie sue, co'
suoi metodi e coi suoi studi. Era la resistenza della coltura italiana,
che non si lasciava assorbire, e stava chiusa nel suo passato, ma resistenza
del genio, che cercando nel passato trovava il mondo moderno. Era il
retrivo che guardando indietro e andando per la sua via, si trova da
ultimo in prima fila, innanzi a tutti quelli che lo precedevano. Questa
era la resistenza di Vico. Era un moderno, e si sentiva e si credeva
antico, e resistendo allo spirito nuovo, riceveva quello entro di sè.
Bacone gli aveva fatta una grande impressione. Era il suo uomo, dopo
Platone e Tacito. Quel suo libro, De augumentis scientiarum,
gli faceva dire: - Roma e Grecia non hanno avuto un Bacone. - Trovava
in lui congiunto il senso ideale di Platone, il senso pratico di Tacito,
la «sapienza riposta» dell'uno, la sapienza volgare dell'altro. E poi,
gli apriva nuovi orizzonti. Avea studiato tanto, e la sua scienza non
era più un libro chiuso, ci era tanto da aggiungere, tanto da riformare.
Voleva egli pure conferire del suo «nella somma che costituisce l'universal
repubblica delle lettere». Non è più un erudito immobilizzato nel passato,
è un riformatore, un investigante. Critica, dubita, esamina, approfondisce.
Sente il morso dello spirito nuovo. Ne' suoi studi dell'antica sapienza
italica, vedi già il disdegno delle «etimologie grammaticali», il dispregio
dell'erudizione volgare, l'uomo che tenta nuove vie, intravvede nuovi
orizzonti, cerca tra i particolari le alte generalità.
Più tardi gli capitò Grozio. E divenne il suo «quarto autore». Grozio
gli completa Bacone. Costui vide «tutto il saper umano e divino doversi
supplire in ciò che non ha, ed emendare in ciò che ha; ma intorno alle
leggi..., non s'innalzò troppo all'universo delle città ed alla scorsa
di tutt'i tempi, nè alla distesa di tutte le nazioni». Grozio gli dà
un dritto universale, in cui «è sistemata tutta la filosofia e teologia».
Il comentatore del dritto romano si sente alzare a filosofo. Cerca una
filosofia del dritto con Grozio, e si fa il suo annotatore: poi riflette
che è un eretico, e lascia stare.
La materia della sua coltura è sempre quella, dritto romano, storia
romana, antichità. La sua fisica è pitagorica, la sua metafisica è platonica,
conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia e l'ente, l'uno,
Dio. Tutto viene da Dio, tutto torna a Dio, l'«unum simplicissimum»
di Ficino. L'uomo e la natura sono le sue ombre, i suoi fenomeni. La
scienza è conoscere Dio, «perdere se stesso» in Dio. E vien su il Dio
di Campanella, l'eterno lume, il senno eterno, con le sue primalità,
«nosse, velle, posse». Fin qui Vico è un luogo comune. La sua
erudizione e la sua filosofia camminano in linea parallela, e non s'incontrano.
Manca l'attrito. Ci è l'ascetico, il teologo, il platonico, l'erudito,
ci è l'italiano di quel tempo nello stato ordinario delle sue credenze
e della sua cultura.
Dentro a questa cultura e contro a queste credenze venne ad urtare Cartesio.
- La cultura non ha valore; del passato bisogna far tavola. Datemi materia
e moto, ed io farò il mondo. Il vero te lo dà la coscienza ed il senso.
- Cosa diveniva l'erudizione di Vico, la fisica di Vico, la metafisica
di Vico? Cosa divenivano le «idee divine» di Platone? E il «simplicissimum»
di Ficino cosa diveniva? E il dritto romano, la storia, la tradizione,
la filologia, la poesia, la rettorica, non era più buona a nulla? Nella
violenta contraddizione Vico sviluppò le sue forze. Uscì del vago e
del comune, trovò un terreno, un problema, un avversario. La sua erudizione
si spiritualizzava. La sua filosofia si concretava. E si compivano l'una
nell'altra.
Già non si perde negli accessorii; vede e investe subito la dottrina
avversaria nella sua base. Vuole atterrare Cartesio, e con lo stesso
colpo atterra tutta la nuova scienza, e non andando indietro, ma andando
più avanti. La sua confutazione di Cartesio è completa, è l'ultima parola
della critica. Ma la sua critica non è solo negativa: è creatrice; la
negazione si risolve in un'affermazione più vasta, che tirasi appresso,
come frammenti di verità, le nuove dottrine, e le alloga, le mette a
posto. La nuova scienza, la scienza degli uomini nuovi, trova nella
Scienza nuova il suo limite, e perciò la sua verità.
La nuova scienza, uscita da lotta religiosa e politica, è in uno stato
di guerra contro il passato, e lo combatte sotto tutte le sue forme.
La tradizione, l'autorità, la fede è il suo nemico, e cerca riparo nella
forza e nell'indipendenza della ragione individuale; gli «universali»,
gli «enti», le «quiddità» lo infastidiscono della metafisica, e cerca
la sua base nella psicologia, nella coscienza; il soprannaturale, il
sopramondano offende il suo intelletto adulto, e vi oppone lo studio
diretto della natura, la fisica nel suo senso più generale, le scienze
positive; al gergo scolastico cerca un antidoto nella precisione delle
matematiche, nel metodo geometrico; ai misteri, alle cabale, alle scienze
occulte, alle astrazioni oppone l'esperienza rischiarata dall'osservazione,
la percezione chiara e distinta, l'evidenza della coscienza e del senso;
alla società in quello stato di corruzione oppone l'uomo integro e primitivo,
la natura dell'uomo, dalla quale cava i princìpi della morale e del
dritto. Questo è lo spirito della nuova scienza: naturalismo e umanismo,
fisica e psicologia. Cartesio in maschera di Platone porta la bandiera.
Ma non inganna Vico, che gli strappa la maschera. - Tu non sei che un
epicureo. La tua fisica è atomistica, la tua metafisica è sensista,
il tuo trattato Delle passioni par fatto più per i medici che
per i filosofi; segui la morale del piacere. - Combattendo Cartesio,
la quistione gli si allarga, attinge nella sua essenza tutto il nuovo
movimento. Anch'esso è un'astrazione. È un'ideologia empirica, idea
vuota, e vuoto fatto. L'importante non è di dire «io penso» (la grande
novità!), ma è di spiegare come il pensiero si fa. L'importante non
è di osservare il fatto, ma di esaminare come il fatto si fa. Il vero
non è nella sua immobilità, ma nel suo divenire, nel suo «farsi». L'idea
è vera, colta nel suo farsi. Il pensiero è moto che va da un termine
all'altro, è idea che si fa, si realizza come natura, e ritorna idea,
si ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò «verum et factum»,
vero e fatto sono convertibili, nel fatto vive il vero, il fatto è pensiero,
è scienza; la storia è una scienza, e come ci è una logica per il moto
delle idee, ci è anche una logica per il moto de' fatti, una «storia
ideale eterna, sulla quale corrono le storie di tutte le nazioni».
Ecco ribenedetta tradizione, autorità e fede; ecco filologia, storia,
poesia, mitologia, tutta l'erudizione rientrata in grembo della scienza.
La storia è fatta dall'uomo, come le matematiche, e perciò è scienza
non meno di quelle. È il pensiero che fa quello che pensa, è la «metafisica
della mente umana», la sua «costanza», il suo processo di formazione
secondo le leggi fisse del pensiero umano. Perciò la sua base non è
nella coscienza individuale, ma nella coscienza del genere umano, nella
ragione universale. I nuovi filosofi vogliono rifare il mondo coi loro
princìpi assoluti, co' loro dritti universali. Ma non sono i filosofi
che fanno la storia, e il mondo non si rifà con le astrazioni. Per rifare
la società non basta condannarla: bisogna studiarla e comprenderla.
E questo fa la «Scienza nuova».
A Vico non basta porre le basi; mette mano alla costruzione. Se la storia
ha la sua costanza scientifica, se è fatta dal pensiero, com'e fatta?
Qual è il suo processo di formazione? Che la storia sia una scienza,
non era cosa nuova nella filosofia italiana. Alla storia formata dall'arbitrio
divino e dal caso Machiavelli avea già contrapposta la «forza delle
cose», lo spirito della storia eterno e immutabile. L'«intelletto universale»
di Bruno, la «ragione che governa il mondo» di Campanella rientrano
nella stessa idea. Platone con le sue «idee divine» porgeva già il filo
a Vico. L'importante era di eseguire il problema, il cui dato era già
posto, era il trovar le leggi di questo spirito della storia, era il
«probare per causas», il generare la storia come l'uomo genera
le matematiche, il fare la storia della storia, ciò che era fare una
scienza nuova. Di questa storia ideale egli «ritrova le guise dentro
le modificazioni della nostra medesima mente umana», cerca la base nella
natura dell'uomo, doppio com'è, spirito e corpo. È una psicologia applicata
alla storia. Stabilisce alcuni canoni psicologici, ch'egli chiama «degnità»,
o «princìpi». Il concetto è questo: che l'uomo, come essere naturale,
opera per istinti, sotto la pressura dei suoi bisogni, interessi e passioni;
ma ivi appunto si sviluppa come essere pensante, come Mente, sì che
nelle sue opere più grossolane e corpulente ce n'è come un'immagine
velata, il sentore. La quale immagine si fa più chiara, secondo che
«la mente più si spiega», insino a che il pensiero si manifesta nella
sua propria forma, opera come riflessione o filosofia. Questo, che è
il corso naturale della vita individuale, è anche il corso naturale
e la storia di tutte le nazioni, quando non ci sia interruzione o deviazione
per violenza di casi estrinseca, come fu per Numanzia oppressa nel suo
fiorire da' romani. Perciò nelle nazioni ci è tre età, la divina, l'eroica
e la umana. Precede lo stato selvaggio o di mera barbarie, dove l'uomo
è servo del corpo, e come una «fiera vagante nella gran selva della
terra». La libertà è il «tenere in freno i moti della concupiscenza,
che viene dal corpo, e dar loro altra direzione, che viene dalla mente
ed è propria dell'uomo». Secondo che la mente si spiega, o si fa più
intelligente, si sviluppa la libertà, prevale la ragione o l'«umanità».
La prima età ragionevole o socievole, l'età divina, sorse co' matrimoni
e l'agricoltura, quando, «a' primi fulmini dopo l'universal diluvio»,
gli uomini «si umiliarono ad una forza superiore che immaginarono essere
Giove, e tutte le umane utilità e tutti gli aiuti porti nelle loro necessità
immaginarono essere dei». Allora, rinunziando alla vaga venere, ebbero
certe mogli, certi figli e certe dimore, sorsero le famiglie governate
da' padri con «famigliari imperii ciclopici». In questi regni famigliari,
divenuti sicuro asilo contro i selvaggi o vaganti, riparavano i deboli
e gli oppressi, che furono ricevuti in protezione, come clienti o famoli.
Così si ampliarono i regni famigliari, e si spiegarono le «repubbliche
erculee» sopra ordini naturalmente migliori per virtù eroiche, la pietà
verso gl'iddii, la prudenza, o il consigliarsi co' divini auspìci, la
temperanza, onde i concubiti umani e pudichi co' divini auspìci, la
fortezza, uccider fiere, domar terreni, la magnanimità, il soccorrere
a' deboli e a' pericolanti. In questi primi ordini naturali comincia
la libertà, e il primo spiegarsi della mente. Nacque la corruzione.
I padri, lasciati grandi per la religione e virtù de' loro maggiori
e per le fatiche de' clienti, tralignarono, uscirono dall'ordine naturale,
che è quello della giustizia, abusarono delle leggi di protezione e
di tutela, tiranneggiarono: indi la ribellione de' clienti. Allora padri
delle famiglie si unirono con le loro attinenze in ordini contro di
quelli, e per pacificarli, con la prima legge agraria concessero il
«dominio bonitario», ritenendosi essi il «dominio ottimo», o «sovrano
famigliare»: onde nacquero le prime città sopra «ordini regnanti di
nobili», e l'«ordine civile». Finirono i regni divini: cominciarono
gli eroici. La religione fu custodita negli ordini eroici, e perciò
gli auspìci e i matrimoni, e per essa religione furono de' soli eroi
tutt'i diritti e tutte le ragioni civili. Ma «spiegandosi le umane menti»,
i plebei intesero essere di egual natura umana co' nobili, e vollero
entrare anch'essi negli ordini civili delle città, essere sovrani nelle
città. Finisce l'età eroica, comincia l'età umana, l'età della eguaglianza,
la «repubblica popolare», dove comandano gli ottimi non per nascita,
ma per virtù. In questo stato della mente agli uomini non è più necessario
fare le azioni virtuose per «sensi di religione», perchè la filosofia
fa intendere le «virtù nella loro idea»; in forza della quale riflessione,
quando anche gli uomini non abbiano virtù, almeno si vergognano de'
vizi. Nasce la filosofia e l'eloquenza, insino a che l'una è corrotta
dagli scettici, l'altra da' sofisti. Allora, corrompendosi gli stati
popolari, viene l'anarchia, il totale disordine, la peggiore delle tirannidi,
che è la sfrenata libertà de' popoli liberi. I quali o cadono in servitù
di un monarca, che rechi in sua mano tutti gli ordini e tutte le leggi
con la forza delle armi; o diventano schiavi per «diritto natural delle
genti», conquistati con armi da nazioni migliori, essendo giusto che
chi non sa governarsi da sè si lasci governare da altri che il possa,
e che nel mondo governino sempre i migliori; o, abbandonati a sè, in
quella folla di corpi vivendo in una solitudine d'animi e di voleri,
seguendo ognuno il suo piacere e capriccio, con disperate guerre civili
vanno a fare selve delle città, e delle selve covili d'uomini, e in
lunghi secoli di barbarie vanno ad «irrugginire le malnate sottigliezze
degl'ingegni maliziosi». Con questa «barbarie della riflessione» si
ritorna allo stato selvaggio, alla «barbarie del senso», e ricomincia
con lo stess'ordine una nuova storia, si rifà lo stesso corso.
Questa è la «storia ideale eterna», la logica della storia, applicabile
a tutte le storie particolari. È in fondo la storia della mente nel
suo spiegarsi, come dice Vico, dallo stato di senso, in cui è come dispersa,
sino allo stato di riflessione, in cui si riconosce e si afferma. L'operazione
con la quale l'intelletto giunge alla verità è la stessa operazione
con la quale l'intelletto fa la storia. Locke aveva il suo complemento
in Vico. La teoria della conoscenza aveva il suo riscontro nella teoria
della storia. Era una nuova applicazione della psicologia. Gli uomini
operano secondo i loro impulsi e fini particolari; ma «i risultati sono
superiori a' loro fini», sono risultati mentali, il successivo progredire
della mente nel suo spiegarsi. Perciò le passioni, gl'interessi, gli
accidenti, i fini particolari sono non la storia, ma le occasioni, e
gl'istrumenti della storia; perciò una scienza della storia è possibile.
Machiavelli e Hobbes ti dànno la storia occasionale, non la storia finale
e sostanziale. La loro storia è vera, ma non è intera, è frammento di
verità. La verità è nella totalità, nel vedere «cuncta ea, quae in
re insunt, ad rem sunt affecta», l'idea nella pienezza del suo contenuto
e delle sue attinenze. Machiavelli è non meno di Vico un profondo osservatore
de' fatti psicologici, è un ritrattista, ma non è un metafisico. La
psicologia di Vico entra già nelle regioni della metafisica, ti dà le
prime linee della nuova metafisica, fondata non sull'immobilità dell'ente
guardato nei suoi attributi, ma sul suo moto o divenire; perciò non
descrizione o dimostrazione, come te la dava Aristotile e Platone, ma
vero dramma, la storia dello spirito nel mondo. In questo dramma tutto
ha la sua spiegazione, tutto è allogato, la guerra, la conquista, la
rivoluzione, la tirannide, l'errore, la passione, il male, il dolore,
fatti necessari e strumenti del progresso. Ciascuna età storica ha la
sua guisa di nascere e di vivere, la sua natura, onde procede la forza
delle cose, la sapienza volgare del genere umano, il senso comune delle
genti, la forza collettiva. Non è l'individuo, è questa forza collettiva,
che fa la storia; e spesso i più celebrati individui non sono che simboli
e immagini, «caratteri poetici» di quella forza, come Zoroastro, Ercole,
Omero, Solone. Cerchi un individuo, e trovi un popolo; cerchi un fatto,
e trovi un'idea. Fabbro della storia è «l'umano arbitrio regolato con
la sapienza volgare».
Rimaneva a dare la dimostrazione di questa storia ideale: dimostrare
cioè che tutte le storie particolari sono, secondo quella, regolate
da uno stesso corso d'idee, ubbidienti a un solo tipo. La prova poteva
cercarla a priori nella logica stessa dello spirito nel suo spiegarsi.
Lo spirito si estrinseca in conformità della sua natura, in che è la
sua logica, la legge del suo divenire, e quel divenire è appunto la
storia. Ma Vico, appena adombrate le prime linee della nuova metafisica,
si arresta sulla soglia, e ritorna erudito, e cerca la prova a posteriori,
consultando tutte le storie, e cercando in tutte il suo corso, il suo
sistema, e non solo nelle grandi linee, ma ne' più minuti accidenti.
Impresa titanica di erudizione e critica italiana. E s'immerge tra'
«rottami dell'antichità», e raccoglie i minimi frammenti, e li anima:
«intus legit», li fa corpi interi, ricostituisce la storia reale
a immagine della sua storia ideale. È il mondo guardato da un nuovo
orizzonte, ricreato dalla critica e dalla filosofia, e con la sua originalità
scolpita in quella potente forma, lapidaria e metaforica, come una legge
delle dodici tavole. Cerca tra quei rottami la prova della «scienza
nuova», e scopre per via nuove scienze. Lingua, mitologia, poesia, giurisprudenza,
religioni, culti, arti, costumi, industrie, commercio, non sono fatti
arbitrari, sono fatti dello spirito, le scienze della sua Scienza. Cronologia,
geografia, fisica, cosmografia, astronomia, tutto si rinnova sotto questa
nuova critica. Ad ogni passo senti il grido trionfale del gran creatore:
- Ecco una nuova scoperta! - Alla metafisica della mente umana, filosofia
dell'umanità o delle idee umane, onde scaturisce una giurisprudenza,
una morale e una politica del genere umano, corrisponde la logica, «fas
gentium», una scienza dell'espressione di esse idee, la filologia.
Ecco dunque una scienza delle lingue e de' miti e delle forme poetiche,
una lingua del genere umano, una teoria dell'espressione ne' miti, ne'
versi, nel canto, nelle arti. E come teoria e scienza non è che «natura
delle cose», e la natura delle cose è nelle «guise di lor nascimenti»;
l'uomo ardito, sgombro lo spirito d'ogni idea anticipata e fidato al
solo suo intendere; si addentra nelle origini dell'umanità, guaste dalla
doppia «boria» «delle nazioni e de' dotti», e tu assisti alla prima
formazione delle società, de' governi, delle leggi, de' costumi, delle
lingue, vedi nascere la storia di entro la mente umana, e svilupparsi
logicamente da' suoi elementi o princìpi, «religione, nozze, sepolture»,
svilupparsi sotto tutte le forme, come governo, come legge, come costume,
come religione, come arte, come scienza, come fatto, come parola. La
sua grande erudizione gli porge infiniti materiali, che interpreta,
spiega, alloga, dispone, secondo i bisogni della sua costruzione, audace
nelle etimologie, acuto nelle interpretazioni e ne' confronti, sicurissimo
ne' suoi procedimenti e nelle sue conclusioni, e con l'aria di chi scopre
ad ogni tratto nuovi mondi, tenendo sotto i piedi le tradizioni e le
storie volgari. Così è nata questa prima storia dell'umanità, una specie
di Divina Commedia, che dalla «gran selva della terra» per l'inferno
del puro sensibile si va realizzando tra via sino all'età umana della
riflessione o della filosofia; irta di forme, di miti, di etimologie,
di simboli, di allegorie, e non meno grande che quella; pregna di presentimenti,
di divinazioni, d'idee scientifiche, di veri e di scoperte: opera di
una fantasia concitata dall'ingegno filosofico e fortificata dall'erudizione,
che ha tutta l'aria di una grande rivelazione.
È la Divina Commedia della scienza, la vasta sintesi, che riassume
il passato e apre l'avvenire, tutta ancora ingombra di vecchi frantumi
dominati da uno spirito nuovo. Platonico e cristiano, continuatore di
Ficino e di Pico, uno di spirito con Torquato Tasso, Vico non comprende
la Riforma, e non i tempi nuovi, e vuol concordare la sua filosofia
con la teologia, e la sua erudizione con la filosofia, costruire un'armonia
sociale come un'armonia provvidenziale. La sua metafisica ha sotto i
pie il globo, e gli occhi estatici in su verso l'occhio della provvidenza,
onde le piovono i raggi delle divine idee. Vuole la ragione, ma vuole
anche l'autorità, e non certo degli «addottrinati», ma del genere umano;
vuole la fede e la tradizione; anzi fede e tradizione non sono che essa
medesima la ragione, «sapienza volgare». Tale era l'uomo formato nella
biblioteca di un convento; ma, entrando nel mondo de' viventi, lo spirito
nuovo l'incalza, e combattendo Cartesio, subisce l'influenza di Cartesio.
Era impossibile che un uomo d'ingegno non dovesse sentirsi trasformare
al contatto dell'ingegno. Tutto dietro a costruir la sua scienza, gli
si affaccia il «de omnibus dubitandum» ed il «cogito»:
«... in meditando i princìpi di questa Scienza, dobbiamo...
ridurci in uno stato di una somma ignoranza di tutta l'umana e divina
erudizione, come se per questa ricerca non vi fussero mai stati per
noi nè filosofi, nè filologi, e chi si vuol profittare, egli in tale
stato si dee ridurre, perché nel meditarvi non ne sia egli turbato e
distolto dalle comuni invecchiate anticipazioni.»
Parole auree, che sembrano tolte da una pagina del
Metodo. E in questa ignoranza cartesiana, qual è l'«unica verità»,
che fra tante dubbiezze non si può mettere in dubbio, ed è perciò la
«prima di siffatta Scienza»? È il «cogito», è la mente umana.
«Poiché... il mondo delle gentili nazioni... è stato...
fatto dagli uomini, i di lui princìpi si debbono ritruovare dentro la
natura della nostra mente umana e nella forza del nostro intendere.»
La provvidenza e la metafisica, che guarda in lei,
sono nel gran quadro un semplice antecedente, o, com'egli dice, un'«anticipazione»,
un convenuto e non dimostrato: il quadro è la mente umana nella natura
e nell'ordine della sua esplicazione, la mente umana delle nazioni,
la storia delle umane idee. La provvidenza regola il mondo, assistendo
il libero arbitrio con la sua grazia, ed oltrepassando ne' suoi risultati
i fini particolari degli uomini; ma questi risultati provvidenziali
non sono più miracolo, sono scienza umana, sono lo «schiarire delle
idee», lo «spiegarsi della mente». Come Bruno, Vico canta la provvidenza
e narra l'uomo: non è più teologia, è psicologia. Provvidenza e metafisica
sono di lontano, come sole o cielo, nello sfondo del quadro: il quadro
è l'uomo, e la sua luce, la sua scienza è in lui stesso, nella sua mente.
La base di questa scienza è moderna, ci è Cartesio col suo scetticismo
e col suo «cogito». Ben talora, portato dall'alto ingegno speculativo,
spicca il volo verso la teologia e la metafisica, ma Cartesio è là che
lo richiama, e lo tiene stretto ne' fatti psicologici. Nel quale studio
del processo della mente negl'individui e ne' popoli fa osservazioni
così profonde e insieme così giuste, che ben si sente il contemporaneo
di Malebranche, di Pascal, di Locke, di Leibnizio, il più affine al
suo spirito, e ch'egli chiama «il primo ingegno del secolo». Nè solo
è moderno nella base, ma nelle conclusioni, mostrando nell'ultimo spiegarsi
della mente vittoriosi i princìpi de' nuovi filosofi. Perchè corona
della sua epopea storica è lo spiritualizzarsi delle forme, il trionfo
della filosofia, o della mente nella sua «riflessione», la fine delle
aristocrazie, e perciò de' feudi e della servitù, la libertà e l'uguaglianza
di tutte le classi, come stato delle società «ingentilite e umane»,
come ultimo risultato della coltura. È la teocrazia e l'aristocrazia
conquise dalla democrazia per il naturale spiegarsi della mente, è l'affermazione
e la glorificazione dello spirito nuovo. Ma qui appunto Vico se ne spicca
e rimane solo in mezzo al suo secolo. Posto tra il mondo della sua biblioteca,
biblico-teologico-platonico, e il mondo naturale di Cartesio e di Grozio,
due assoluti, e impenetrabili come due solidi, e che si scomunicavano
l'un l'altro, cerca la conciliazione in un mondo superiore, l'idea mobilizzata
o storica, e in una scienza superiore, la critica, l'idea analizzata
e giustificata ne' momenti della sua esistenza, la scienza uscita dall'assolutezza
e rigidità del suo dommatismo, e mobilizzata come il suo contenuto.
La critica è rifare con la riflessione quello che la mente ha fatto
nella sua spontaneità. È la mente «spiegata e schiarita», che si riflette
sulla sua opera e vi trova se stessa nella sua identità e nella sua
continuità; è la coscienza dell'umanità. In questo mondo superiore tutto
si move e tutto si riconcilia e si giustifica; i princìpi, che i nuovi
filosofi predicavano assoluti e perciò applicabili in ogni tempo e in
ogni luogo, e co' quali dannavano tutto il passato, si riferiscono a
stati sociali di certe epoche e di certi luoghi; ed i princìpi contrari,
appunto perchè in certi tempi hanno governato il mondo e sono stati
«comportevoli», sono veri anch'essi, come anticipazioni e vestigi de'
princìpi nuovi. Perciò il criterio della verità non è l'idea in sè,
ma l'idea come si fa o si manifesta nella storia della mente, il senso
comune del genere umano, ciò ch'egli chiama la «filosofia dell'autorità».
Qui Vico avea contro di sè Platone e Grozio, il passato e il presente.
La malattia del secolo era appunto la condanna del passato in nome di
princìpi astratti, come il passato condannava esso in nome di altri
princìpi astratti. Vico era come chi, vivuto solitario nel suo gabinetto,
scenda in piazza d'improvviso, e vegga gli uomini concitati, co' pugni
tesi, pronti a venire alle mani. A lui quegli uomini debbono sembrare
de' pazzi da catena. - A che tanto furore contro il passato? Il quale,
appunto perchè è stato, ha avuto la sua ragion d'essere. E poniamo pure
sia tutto cattivo, credete di poter distruggere con la forza l'opera
di molti secoli? I vostri princìpi! Ma credete voi che la storia si
fa da' filosofi e co' princìpi? La vostra ragione! Ma ci è anche la
ragione degli altri, uomini come voi, e che sanno ragionare al pari
di voi. E poi, un po' di rispetto, io credo, si dee pure all'autorità.
E non parlo di tanti dottori, ne' quali non avete fede: parlo dell'autorità
del genere umano, al quale, se uomini siete non potete negar fede. Un
po' meno di ragione, e un po' più di senso comune. - Un discorso simile
sarebbe parsa una stranezza a quegli uomini pieni di odio e di fede.
E qualcuno poteva rispondergli: - Fàtti in là, e sta' fra le tue nuvole,
e non venire fra gli uomini, chè non te ne intendi. Il passato tu lo
hai studiato su' libri: è la tua erudizione. Ma il passato è per noi
cosa reale, di cui sentiamo le punture ad ogni nostro passo. Il fuoco
ci scotta, e tu ci vuoi provare che, perchè è, ha la sua ragion di essere.
Lascia prima che noi lo spengiamo, e poi ci parla della sua natura.
Quando ci avremo tolto di dosso codesto passato, nostro martirio e de'
padri nostri, forse allora potremo essere giusti anche noi e gustar
la tua critica. - Vico rimase solo nel secolo battagliero; e quando
la lotta ebbe fine si alzò come iride di pace la sua immagine su' combattenti,
e comunicò la parola del nuovo secolo: «critica». Non più dommatismo,
non più scetticismo: critica. Nè altro è la storia di Vico che una critica
dell'umanità: l'idea vivente fatta storia e, nel suo eterno peregrinaggio
seguita, compresa, giustificata in tutt'i momenti della sua vita. I
princìpi, come gl'individui e come la società, nascono, crescono e muoiono,
o piuttosto, poichè niente muore, si trasformano, pigliando forme sempre
più ragionevoli, più conformi alla mente, più ideali. Indi la necessità
del progresso, insita nella stessa natura della mente, la sua fatalità.
La teoria del progresso è per Vico come la terra promessa. La vede,
la formula, stabilisce la sua base, traccia il suo cammino, diresti
che l'indica col dito, e quando non gli resta a fare che un passo per
giungervi, la gli fugge dinanzi, e riman chiuso nel suo cerchio e non
sa uscirne. Poneva le premesse e gli fuggiva la conseguenza. Gli è perchè,
profondo conoscitore del mondo greco-romano, non seppe spiegarsi il
medio evo, e non comprese i tempi suoi, parendogli indizio di decadenza
e di dissoluzione quella vasta agitazione religiosa e politica, in cui
era la crisi e la salute. D'altra parte lui, che negava l'esistenza
di Omero, non osò sottoporre alla sua critica il mito di Adamo e le
tradizioni bibliche e il dogma della provvidenza e la missione del cristianesimo,
lasciando grandi ombre nelle sue pitture. Vedi la coscienza moderna
rilucere nel mondo pagano, ardita nelle sue negazioni e nelle sue spiegazioni,
e, quando sta per entrare nel mondo inquieto e appassionato de' vivi,
chiudere gli occhi per non vedere. Ciò che è proprio de' grandi pensatori;
aprire le grandi vie, stabilire le grandi premesse, e lasciare a' discepoli
le facili conseguenze. Come Cartesio, Vico non indovinò i formidabili
effetti che doveano uscire dalle sue speculazioni. Cartesio avrebbe
rinnegati per suoi Spinosa e Locke, e Vico Condorcet, Herder ed Hegel.
Poichè si occupa più degli antichi che de' moderni, più de' morti che
de' vivi, i vivi lo dimenticarono. La sua Scienza parve più una curiosa
stranezza di erudito, che una profonda meditazione di filosofo, e non
fu presa sul serio.
Intanto il secolo camminava con passo sempre più celere,
tirando le conseguenze dalle premesse poste nel secolo decimosettimo.
La scienza si faceva pratica, e scendeva in mezzo al popolo. Non s'investigava
più: si applicava, e si divulgava. La forma usciva dalla calma scientifica,
e diveniva letteraria; le lingue volgari cacciavano via gli ultimi avanzi
del latino. Il trattato e la dissertazione divenivano memorie, lettere,
racconti, articoli, dialoghi, aneddoti; forme scolastiche e forme geometriche
davano luogo al discorso naturale, imitatore del linguaggio parlato.
La scienza prendeva aria di conversazione, anche negli scrittori più
solenni come Buffon e Montesquieu, conversazione di uomini colti in
sale eleganti. Per dirla con Vico, la «sapienza riposta» diveniva «sapienza
volgare», e, scendendo nella vita, prendeva le passioni e gli abiti
della vita: ora amabile e spiritosa, come in Fontenelle, ora limpida,
scorrevole, facile, come in Condillac e in Elvezio; ora rettorica e
sentimentale, come in Diderot. Il «dritto naturale» di Grozio generava
il Contratto sociale, la società era dannata in nome della natura,
e l'erudita dissertazione di Grozio ruggiva nella forma ardente e appassionata
di Rousseau. Lo scetticismo un po' impacciato di Bayle, velato fra tante
cautele oratorie, si apriva alla schietta e gioiosa malizia di Voltaire.
L'erudizione e la dimostrazione gittavano le loro armi pesanti e divenivano
un amabile senso comune. La scienza diveniva letteratura, e la letteratura
a sua volta non era più serena contemplazione, era un'arma puntata contro
il passato. Tragedie, commedie, romanzi, storie, dialoghi, tutto era
pensiero militante che dalle alte cime della speculazione scendeva in
piazza tra gli uomini, e si propagava a tutte le classi e si applicava
a tutte le quistioni. Le sue forme, filosofia, arte, critica, filologia,
erano macchine di guerra e la macchina più formidabile fu l'Enciclopedia.
Condorcet proclamava il progresso. Diderot proclamava l'ideale. Elvezio
proclamava la natura. Rousseau proclamava i dritti dell'uomo. Voltaire
proclamava il regno del senso comune. Vattel proclamava il dritto di
resistenza. Smith glorificava il lavoro libero. Blackstone rivelava
la Carta inglese. Franklin annunziava la nuova «carta» all'Europa.
La società sembrava un caos, dove la filosofia dovea portare l'ordine
e la luce. Una nuova coscienza si formava negli uomini, una nuova fede.
Riformare secondo la scienza istituzioni, governi, leggi e costumi,
era l'ideale di tutti, era la missione della filosofia. I filosofi acquistarono
quella importanza che ebbero al secolo decimosesto i letterati. Maggiore
era la fede in questo avvenire filosofico, e più viva era la passione
contro il presente. Tutto era male, e il male era stato tutto opera
maliziosa di preti e di re, nell'ignoranza de' popoli. «Superstizione»,
«pregiudizio», «oppressione» erano le parole, che riassumevano innanzi
alle moltitudini tutto il passato. «Libertà, uguaglianza, fraternità
umana» erano il verbo, che riassumeva l'avvenire. Tutto il moto scientifico
dal secolo decimosesto in qua aveva acquistata la semplicità di un catechismo.
La rivoluzione era già nella mente.
Che cosa era la rivoluzione? Era il Rinnovamento che si scioglieva da
ogni involucro classico e teologico, e acquistava coscienza di sè, si
sentiva tempo moderno. Era il libero pensiero che si ribellava alla
teologia. Era la natura che si ribellava alla forza occulta, e cercava
ne' fatti la sua base. Era l'uomo che cercava nella sua natura i suoi
dritti e il suo avvenire. Era una nuova forza, il popolo, che sorgeva
sulle rovine del papato e dell'impero. Era una nuova classe, la borghesia,
che cercava il suo posto nella società sulle rovine del clero e dell'aristocrazia.
Era la nuova «carta», non venuta da concessioni divine o umane, ma trovata
dall'uomo nel fondo della sua coscienza, e proclamata in quella immortale
Dichiarazione de' dritti dell'uomo. Era la libertà del pensiero,
della parola, della proprietà e del lavoro, l'eguaglianza de' dritti
e de' doveri. Era la fine de' tempi divini ed eroici e feudali, il rivelarsi
di quella «età umana», così ammirabilmente descritta da Vico. Il medio
evo finiva: cominciava l'evo moderno.
E che cosa era questa vecchia società, soprapposta a tutto il resto?
Ci era alla cima il papato assoluto e la monarchia assoluta, che si
pretendevano amendue di dritto divino, ed erano stampati sullo stesso
modello. Il papato pretendea ancora al dominio universale, ma in parola
e conscio della scemata possanza. Pur si facea valere mediante i gesuiti,
e mantenea vigorosamente la sua influenza e la sua giurisdizione in
tutti gli Stati. Come re, il papa governava in modi così assoluti come
tutti i monarchi. L'assolutismo dominava in tutta Europa. Quello che
era la corte romana al Cinquecento, erano allora tutte le corti: scostumatezza,
dissipazione, ignoranza. I conventi screditati, chiamati «covi del vizio»,
«asilo dell'ozio e dell'ignoranza». Il clero, scemato di coltura e di
riputazione, aumentato di numero e di ricchezza. I vescovi, adulatori
in corte, tiranni nelle diocesi, signori feudali. I nobili, a' piedi
del trono, e co' piedi sopra i vassalli. Altare e trono, appoggiati
sul clero e sulla nobiltà: lì era la libertà, lì era il dritto; tutto
il resto era poco o meno che cosa, e valeva assai poco. La fonte del
dritto era nella concessione papale o sovrana: era investitura, privilegio,
immunità, esenzione. Le leggi erano un caos. Leggi romane, longobarde,
canoniche, feudali, usi, costumanze. Un altro caos erano le imposte.
Ce n'erano del papa, del clero, de' baroni, del re, sotto molti nomi
e molte forme. Che cosa era il popolo? Materia «taillable et corvèable
a merci». Nessuna sicurezza per le proprietà e le persone, nessuna
protezione nelle leggi, nessuna guarentigia nei giudizi, secrete le
procedure, sproporzionate e arbitrarie le pene. Si può dire di quella
vecchia società quello che allora già si diceva della proprietà feudale.
Era manomorta, l'uomo così immobilizzato, come la terra. La palude non
era solo nel territorio, era nel cervello.
Dirimpetto a queste classi privilegiate, cristallizzate dal dommatismo,
cioè a dire da un complesso d'idee ammesse per tradizione e fuori di
ogni discussione, sorgeva lo scetticismo della borghesia, che tutto
ponea in dubbio, di tutto facea discussione. La borghesia faceva in
grandi proporzioni quello che prima compirono i comuni italiani. Era
il «medio ceto», avvocati, medici, architetti, letterati, artisti, scienziati,
professori, prevalenti già di coltura, che non si contentavano più di
rappresentanze nominali, e volevano il loro posto nella società. Non
è già che si affermassero anch'essi come classe, e volessero privilegi.
Volevano libertà per tutti, uguaglianza di dritti e doveri, parlavano
in nome di tutto il popolo. Qui era il progresso. Ma nel fatto erano
essi la classe predestinata, e in buona fede, parlando per tutti, lavoravano
per sè. La loro arma di guerra era lo scetticismo. Alla fede e all'autorità
opponevano il dubbio e l'esame. Oggi è moda declamare contro lo scetticismo.
Pure non dobbiamo dimenticare che di là uscì l'emancipazione del pensiero
umano. Esso cancellò l'intolleranza religiosa, la credulità scientifica,
e la servilità politica.
Il movimento, che usciva dalle fila della borghesia, non era solo popolare,
cioè nelle sue idee e nelle sue tendenze comune a tutte le classi, ma
era ancora cosmopolitico, o, come si dice oggi, «internazionale». L'accento
era umano, più che nazionale. L'America e l'Europa si abbracciavano
in un linguaggio che esprimeva idee e speranze comuni; lo svizzero,
l'olandese, il francese, il tedesco, l'inglese parevano nati nello stesso
paese, educati alle stesse idee. Il movimento era universale nel suo
obbiettivo e nel suo contenuto. L'obbiettivo erano tutte le classi e
tutte le nazioni. Il contenuto era non solo una riforma religiosa, politica,
morale e civile, ma un radicale mutamento nelle stesse condizioni economiche
della società, ciò che oggi direbbesi «riforma sociale», correndo nel
suo lirismo sino alla comunione de' beni. Nato dal costante lavoro di
tre secoli, il movimento per la sua universalità contenea in idea o
in germe tutta la storia futura del mondo pel corso di molti secoli.
Pure, ciò che era appena un principio, sembrava esser la fine: tanto
parea cosa facile effettuare di un colpo tutto il programma.
Dove il movimento si mostrava più energico e concentrato, e di natura
assolutamente cosmopolitica, era in Francia. Ed essendo la lingua francese
già molto divulgata, la propaganda era irresistibile. Nelle altre nazioni
appariva appena, e nelle sue forme più modeste.
La forma più temperata di questo movimento era l'antica lotta tra papato
e impero, divenuta lotta giurisdizionale tra la corte romana e le monarchie.
In questo terreno i novatori avevano per sè i principi, e all'ombra
loro spandevano le nuove idee. I giureconsulti stavano per antica tradizione
coi principi, e difendevano i loro dritti contro la Chiesa con una dottrina
ed un acume non scevro di sottigliezza sofistica: erano i liberali di
quel tempo, e fu loro opera che le nuove idee si dilatassero nella classe
colta. Nel campo avverso erano i gesuiti, inframmettenti, intolleranti,
che invelenivano la lotta e ne allargavano le proporzioni. Erano essi
lo sprone che stuzzicava l'ingegno. In quel contrasto si formò Paolo
Sarpi; da quel contrasto uscirono le Provinciali di Pascal, e
il giansenismo e la scuola di Portoreale e le libertà gallicane, preludi
di quel movimento, che prendeva allora in Francia proporzioni così vaste.
Ma in Italia il movimento iniziato con tanta larghezza e ardire nel
Cinquecento, arrestato e snaturato dalla reazione trentina, si manteneva
ancora in quella forma, era lotta giurisdizionale tra papa e principi.
Il pensiero era ito molto innanzi, ma in pochi o tra pochi: ci erano
fantasie solitarie; mancava l'eco, non ci era ancora la moltitudine.
Ma il movimento in quella forma così circoscritta guadagnava terreno,
e costituiva un vero partito politico, intorno al quale stava schierata
tutta la borghesia. Era un liberalismo a buon mercato, via a fortuna
e favori principeschi, quando rimaneva in quei limiti, e, attaccando
curia e gesuiti, si mostrava riverente al papa e alla Chiesa. In Napoli
la coltura avea preso questo aspetto, e mentre il buon Vico fantasticava
una storia dell'umanità e andava col pensiero così lungi, fervea la
lotta giurisdizionale, dov'erano principali attori giureconsulti eminenti,
Capasso, D'Andrea, D'Aulisio, Argento, Pietro Giannone. I gesuiti cercavano
appoggio nell'ignoranza popolare, e li predicavano empi e nemici del
papa. L'avevano principalmente contro il Giannone, e tanto gli aizzarono
contro il minuto popolo, che fu più volte a rischio della vita. Scomunicato
dall'arcivescovo, per aver lasciato stampar la sua Storia senza
il suo permesso, riparò a Vienna, nè osò più tornare a Napoli, ancorchè
l'arcivescovo ci avesse avuto torto, e fosse stata ritrattata la scomunica.
I giureconsulti sostenevano bastare per la stampa la licenza regia,
non avere alcun valore la proibizione ecclesiastica, ed essere invalide
le scomuniche senza fondamento di ragione. Era il libero esame applicato
alla giurisdizione e agli atti ecclesiastici. E ci era sotto altro,
lo spirito laico che si ridestava, e lo spirito borghese che si annunziava,
il medio ceto, che all'ombra del principe, interessato anche lui nella
lotta, si facea valere così contro la nobiltà, come e più contro il
clero.
Da questa lotta uscì la Storia civile del regno di Napoli, e
più tardi il Triregno, di Pietro Giannone. La Storia per la sua
universalità fu tradotta in molte lingue, riguardando principalmente
la quistione giurisdizionale, ardente in tutti gli Stati cattolici.
Giannone lasciò gli argomenti e venne a' fatti, prendendo il potere
temporale fino nelle origini, e seguendolo ne' suoi ingrandimenti e
nelle sue usurpazioni. È una requisitoria, tanto più formidabile, quanto
maggiore è la calma dell'esposizione istorica e l'imparzialità continuamente
ostentata dell'erudizione e della dottrina. Non mancano sarcasmi e punture,
ma protesta sempre che è contro gli abusi e le esorbitanze, e affetta
il maggior rispetto verso le istituzioni. Vedi prominente l'universalità
della Chiesa, tutta la comunione dei fedeli, insino a che sorge usurpatore
l'episcopato, assorbito a sua volta dal papato. Il concetto è questo,
che il dritto è nella universalità de' fedeli: è la democrazia applicata
alla Chiesa. Ma il concetto democratico è annacquato in quest'altro,
che i principi, come capi della società laica, hanno ereditato i suoi
dritti. Il popolo sparisce, ed entra in iscena Cesare con quel famoso
motto: «Date a Cesare quel che è di Cesare». I gesuiti ritorcevano l'argomento,
sostenendo che la fonte del dritto non è ne' principi, ma ne' popoli.
Così democratizzavano i gesuiti per difendere il papato, e democratizzavano
i giannonisti per combattere il papato. Erano inconseguenti gli uni
e gli altri, e la vera conseguenza doveva tirarla il popolo contro il
papato e la monarchia assoluta. S'immagini quale propaganda inconscia
facevano. Era facile conchiudere, che se la fonte del dritto è nel popolo,
sovrana legittima è la democrazia, l'universalità de' fedeli e l'universalità
de' cittadini. Il vero padrone mettea il capo fuori, salutando gesuiti
e giannonisti come suoi precursori, benemeriti tutti e due, perchè lavoravano
gli uni a scalzare il principato assoluto, gli altri a scalzare il papato
assoluto. Erano «istrumenti della provvidenza», avrebbe dettoVico, la
quale tirava dall'opera loro risultati superiori a' loro fini.
Si era sempre parlato dell'età primitiva della Chiesa. Una immagine
confusa ne rimanea alle moltitudini, come dell'età dell'oro Dante, Machiavelli,
Sarpi, Campanella richiamavano la Chiesa a quei tempi evangelici, più
conformi alla purità del Vangelo. Quello era anche il cavallo di battaglia
per gli eretici. Ecco quella età divenuta storia particolareggiata,
accertata e in buono e chiaro volgare nelle pagine del Giannone. I primi
tre secoli della Chiesa sono descritti coll'immaginazione vòlta alla
Chiesa di quel tempo. Scrittore e lettore facevano il paragone. Di mezzo
alla narrazione germogliava l'allusione, la confutazione, l'epigramma.
Allora la gerarchia era molto semplice, e non ci erano che vescovi,
preti, e diaconi, e i preti non erano soggetti a' vescovi, ma erano
il loro senato, i loro consiglieri, e alla cima non ci era nessuno che
comandasse: comandava il sinodo, l'assemblea de' vescovi. La legge era
la sacra Scrittura; i provvedimenti presi nei sinodi erano semplici
regolamenti per l'amministrazione delle chiese, e non ci era la ragion
canonica,
«la quale, col lungo correr degli anni, emula della
ragion civile, maneggiata da' romani pontefici, ardì non pur pareggiare,
ma interamente sottomettersi le leggi civili».
La Chiesa non avea alcuna giurisdizione: la sua giustizia
era chiamata «notio», «iudicium», «audientia»,
non «iurisdictio»; ed era censura di costumi, e arbitrato volontario.
Clero e popolo eleggevano i vescovi, e anche nell'elezione de' preti
e de' diaconi clero e popolo vi avevano lor parte. La Chiesa vivea di
offerte volontarie, non avea stabili, e non decime Ciò che soverchiava,
si dava a' poveri. Tale era la Chiesa primitiva:
«ma assai mostruosa e con più strane forme sarà mirata
nell'età meno a noi lontane, quando, non bastandole d'avere in tante
guise trasformato lo stato civile e temporale de' principi, tentò anche
di sottoporre interamente l'imperio al sacerdozio.»
I monaci erano pochi, solitari, e religiosi, ma la
corruzione venne subito, e
« non senza stupore scorgerassi come in queste nostre
provincie abbiano potuto germogliar tanti e sì vari ordini, fondandovi
sì numerosi e magnifici monasteri, che ormai occupano la maggior parte
della repubblica e de' nostri averi, formando un corpo tanto considerabile,
che ha potuto mutar lo stato civile e temporale di questo nostro reame.»
Come non avea la Chiesa giustizia contenziosa nè giurisdizione,
così non avea foro, nè territorio; perchè ciò «non dipende dalle chiavi,
nè è di diritto divino, ma più tosto di diritto umano e positivo, procedendo
dalla concessione o permissione de' principi temporali, ai quali solamente
«Dio ha dato in mano la giustizia», come dice il Salmista: «Deus
iudicium suum regi dedit». Nè avea potere d'imponer pene afflittive
di corpo, d'esilio, e molto meno di mutilazione di membra o di morte;
e ne' delitti più gravi di eresia toccava a' principi di punire con
temporali pene i delinquenti. Degli abusi della Chiesa spettava il rimedio
a' principi, che facevano leggi per porvi un freno, specialmente per
gli acquisti de' beni temporali; e «i padri della Chiesa», come sant'Ambrogio
e san Girolamo, «non si dolevano di tali leggi, nè che i principi non
potessero stabilirle, nè lor passò mai per pensiero che per ciò si fosse
offesa l'immunità o libertà della Chiesa». Federico secondo proibì l'acquisto
de' beni stabili alle chiese, monasteri, templari ed altri luoghi religiosi.
«Ma essendosi nel tempo degli Angioini introdotte presso
di noi altre massime, che persuasero non potere il principe rimediare
a questi abusi, e riputata perciò la costituzione di Federico empia
ed ingiuriosa all'immunità delle chiese si ritornò a' disordini di prima.
E se la cosa fosse stata ristretta a que' termini, sarebbe stata comportabile;
ma da poi si videro le chiese e i monasteri abbondare di tanti stati
e ricchezze, ed in tanto numero, che piccola fatica resta loro d'assorbire
quel poco ch'è rimaso in potere de' secolari.»
Il potere temporale «appartiene allo Stato in corpo»;
ma i principi hanno guadagnata e ottenuta la signoria in tutt'i paesi
del mondo. E, se il romano pontefice e i prelati della Chiesa hanno
«potere temporale», non è già
«perchè fosse stato prodotto dalla sovranità spirituale,
e fosse una delle sue appartenenze necessarie, ma si è da loro acquistato
di volta in volta per titoli umani, per concessioni di principi, o per
prescrizioni legittime, non già apostolico iure, come dice san
Bernardo: «Nec enim ille tibi dare quod non habebat, potuit».
Questo quadro della Chiesa primitiva accompagnato con
tali riscontri ti dà come in iscorcio tutto il processo della storia.
La lotta tra le leggi canoniche e le civili è come il centro di un vasto
ordito, che abbraccia tutta la storia della legislazione, illuminata
dalla storia de' governi e delle mutazioni politiche. Vico e Giannone
erano contemporanei. Giannone era di otto anni più giovane. Ma non parlano
l'uno dell'altro, come non si conoscessero. Pure lavoravano su di un
fondo comune, le leggi, e riuscivano per diversa via alle stesse conclusioni.
L'uno era il filosofo, l'altro lo storico del mondo civile. Tutti e
due avvocati mediocri, profondi giureconsulti. Vico si tenea alto nelle
sue speculazioni filosofiche e nelle sue origini, e non scendeva in
mezzo agl'interessi e alle passioni, e passò inosservato. Ma grandissima
fu la fama e l'influenza dell'altro, perchè scende nelle quistioni più
delicate di quel tempo, ed è scrittore militante, animato dallo stesso
spirito de' combattenti. Parla ardito, e già con quel motteggio, che
era proprio del secolo: sente dietro di sè tutta la sua classe, e tutti
gli uomini colti. La persecuzione fece di lui un eroe, lo confermò nella
sua via, lo spinse fino al Triregno, la più radicale negazione
del papato e dello spiritualismo religioso, a volerne giudicare da'
sunti. Il manoscritto fu seppellito negli archivi dell'Inquisizione.
Il suo motto era: - Bisogna demolire il regno celeste -. Non gli basta
più la polizia ecclesiastica: vuole colpire il papato nella sua radice,
rompendo il legame che stringe gli uomini al cielo. Fa perciò una storia
del regno celeste, come prima avea fatto una storia delle leggi ecclesiastiche;
e, come questa è il centro di un quadro più vasto, quella è il centro
di un quadro che abbraccia tutta l'umanità. Mostrare i dogmi nella loro
origine, nelle loro alterazioni, nella loro negazione, scuotere la fede
nel dogma della risurrezione degli uomini: questo fa con grande erudizione
e con sottili considerazioni. Ma l'ambiente in Italia non era ancora
tale, che vi potessero trovar favore idee così radicali, elaborate a
Vienna e a Ginevra. La coltura avea sviluppato l'ingegno, ma non avea
ancora formato il carattere. In Giannone stesso l'uomo era inferiore
allo scrittore. Nè i tempi erano così feroci nella persecuzione, e così
assoluti nella proibizione, che rendessero possibili le disperate resistenze
sino al martirio. Ci era una mezza libertà, e perciò una mezza opposizione.
Ci era il liberalismo del medio ceto, rivolto contro i baroni e i chierici,
favorito dal sovrano, e perciò in certi limiti cortigiano, ipocrita,
e, come si dice oggi, in guanti gialli. Un saggio delle idee di quel
tempo e di questo modo di opposizione ce lo dà il seguente brano di
uno scrittore napolitano di quella età:
«La giusta idea che fossero i chierici ministri del regno del cielo
gli aveva esentati da tutt'i pesi del regno della terra; e la cura destinata
loro delle anime e del culto divino gli ha oltre misura arricchiti di
beni e privilegi in questo mondo. Non è già nostra intenzione di diminuire
in nulla la vantaggiosa opinione del clero presso il popolo: quEi ministri
della religione li rispettiamo nel fondo del cuore. La religione è una
delle prime leggi fondamentali dello Stato; e il senso di tali leggi
non deve mai formare l'oggetto della discussione del semplice cittadino.
Al consiglio del sovrano appartiene il decidere delle loro inutilità
e vantaggi; siccome la sua suprema potestà ne crea o depone i ministri,
ne fissa o sospende l'esercizio, i riti, le funzioni, ne spiega o vela
le dottrine, o le vendica, altera ed abroga, conformemente a' lumi che
su di ciò la divinità, di cui è il rappresentante, gl'ispira. Dico la
«divinità», perchè altrimenti che significherebbe quel «Dei gratia
rex»? Ascoltare e ubbidire, ecco in questo caso il dovere del suddito.
Ma la religione, e soprattutto la vera religione, ordina agli uomini
di amarsi, vuole che ciaschedun popolo abbia le migliori leggi politiche,
le migliori leggi civili. Ella impone a' suoi ministri l'osservanza
di queste leggi. Essi devono dare l'esempio: la loro condotta è la base
della purità delle coscienze de' popoli. Ma, parlando a cuore aperto,
hanno eglino da più secoli mai dato, o danno tuttora un tale esempio?
Le loro immunità personali, l'esenzione de' loro beni da' tributi, le
giurisdizioni usurpate, gl'immensi acquisti sorpresi, la maniera rigogliosa
con la quale hanno sempre sostenuto tali giurisdizioni ed acquisti,
le dottrine bizzarre da loro insegnate a tal fine, e tanti altri loro
pretesi privilegi, dritti e riguardi non sono nel fondo tante manifeste
infrazioni delle leggi politiche e civili? Essi sono troppo ragionevoli
onde volere sottrarsi all'evidenza di questo argomento. Noi non parliamo
a' sacerdoti di Cibele o di Bacco, e molto meno ai preti di Hume e di
Rousseau: noi ci lusinghiamo di ragionare co' ministri della vera religione,
e fra questi soprattutto con quei d'Italia, li quali si son quasi sempre
distinti per l'affabilità e dolcezza del loro carattere, non meno che
per l'aborrimento pel bigottismo e l'intolleranza. Non vi ha una contea,
baronia o altro simile feudo, non vi ha una rendita stabile e fissa,
un'abitazione comoda e decorosa destinata a compensare i sudori di un
ministro di Stato, di un presidente, di un consigliere o di un generale;
dove tanti guardiani, priori, vescovi ed abati possedono sotto questo
titolo de' pingui feudi e rendite fisse intatte da' pesi de' sovrani
ed intangibili, e le loro abitazioni fanno scorno a quelle de' principi.
I frati, comechè giurino solennemente di osservare una maggior povertà
del clero secolare, sono andati più oltre nell'accumulare, e han tolto
a' poveri secolari i mezzi da potere sussistere. In coscienza potrebbono
essi occupare nell'università le cattedre, nella Corte le cariche, nelle
parrocchie i pulpiti, e fino nelle case l'intendenza degli affari domestici?
Potrebbero senz'arrossire far da speziale, da mercante e da banchiere?
In quanto al loro numero, è divenuto così eccessivo, che, se i principi
non vi mettono presto rimedio, il loro vortice inghiottirà l'intiero
Stato. Onde viene che il minimo villaggio d'Italia debba esser retto
da cinquanta o sessanta preti, senza contare gl'iniziati di altro rango.
Le città vi pullulano di campanili e i conventi fanno ombra al sole.
Vi ha in qualcheduna di esse venticinque conventi di frati o suore di
san Domenico, sette collegi di gesuiti, altrettante case di teatini,
una ventina o trentina di monasteri di frati francescani, forse cinquanta
altri di diversi ordini religiosi di ambi i sessi, e più di quattro
o cinquecento altre chiese e cappelle di minor conto; ma non vi sono
all'incontro che trentasei smilze parrocchie, verun osservatorio astronomico,
verun'accademia di pittura, di scoltura, di architettura, di chirurgia,
di agricoltura e di altre arti e scienze, veruna buona fabbrica di panni
o di tele, veruna buona manifattura di seta o di cotone, veruna biblioteca
appartenente al pubblico, verun orto botanico o gabinetto di curiosità
naturali o teatro anatomico, veruna cura per rendere i porti netti,
le strade comode ed agiate, gli alberghi propri e le città illuminate,
il commercio più vivo. Pensano i chierici di dover sempre sentire i
comodi della società senza mai sentirne alcun peso? che la bilancia
penderà sempre a lor favore? che non vi sarà mai da sperar l'equilibrio?»
Pittura viva di quel tempo nelle sue idee e nel suo
linguaggio Si sente a mille miglia il laico, il borghese e l'avvocato.
Il sovrano è per lui l'infallibile. Dovere del suddito è «ascoltare»
e «ubbidire». Rispetta la religione; ha il maggiore ossequio verso i
suoi ministri; li accarezza anche; e fra tante dolcezze che botte da
orbo! Il suo dispetto è che quelli sieno così ricchi; e lui, cioè loro,
fra tante strettezze. Se anche loro avessero un feudo, passi. Ci si
vede l'effetto della coltura. Il confronto fra tante chiese e conventi,
e tanta negligenza di scienze, arti, industrie e commerci, è eloquente.
Si sente il progresso dello spirito con un carattere ancora volgare.
L'animo è ancora servile, lo spirito si è emancipato. Tali erano i giureconsulti,
da' quali usciva il movimento liberale, in quella forma un po' grottesca,
tra l'insolenza verso il prete e la servilità verso il sovrano. Pure,
teneri com'erano delle leggi, doveano essere portati naturalmente, per
necessità della loro professione, a combattere l'arbitrio non solo ne'
chierici, ma anche ne' laici, e a promovere una monarchia non più assoluta,
ma legale, se non liberale. Questa tendenza è già manifesta in Giannone.
Adora le leggi romane, ma adora innanzi tutto la legge, ed è inesorabile
verso l'arbitrio:
«Fin da' primi tempi - egli dice - della repubblica
niente altro bramavasi dalla licenziosa gioventù romana, salvo che non
esser governati dalle leggi, ma che dovesse al re ogni cosa rimettersi
ed al suo arbitrio, Né ciò per altra ragione se non per quella che...
vien rapportata da Livio: «Regem hominem esse, a quo impetres, ubi
ius, ubi iniuria opus sit. Leges rem surdam, inexorabilem esse».
Sentimenti pur troppo licenziosi e dannevoli. Meglio sarà che nella
repubblica abbondino le leggi, che rimetter tutto all'arbitrio de' magistrati.»
Così la quistione ecclesiastica si allargava, e diveniva quistione legale,
combattere l'arbitrio sotto ogni forma. Le usurpazioni de' nobili e
de' chierici erano contrastate come illegittime, contrarie alle leggi
politiche e civili. E del pari erano biasimati gli atti arbitrari nelle
autorità secolari, e anche nel monarca. In questo pendio si andava molto
innanzi. Arbitrio erano non solo gli atti fuori delle leggi, ma le leggi
stesse non conformi a giustizia ed equità. Gli scrittori cominciarono
a notare tutt'i disordini e abusi nelle leggi civili e criminali, e
i principi lasciavano dire, perchè non si toccava della forma de' governi,
nè era messa in dubbio la loro potestà, anzi si facea loro appello per
isradicare gli abusi. Il moto liberale in Italia non veniva dalla filosofia
o da «ragioni metafisiche», come dicea Giannone, ma da un intimo sentimento
di legalità e di giustizia. Al Cinquecento il motto de' riformatori
era la «corruttela de' costumi». Allora fu l'«ingiustizia delle leggi».
Quel moto era religioso ed etico, questo era politico, quello stesso
moto sviluppato nelle sue premesse e allargato nelle sue conseguenze.
Il movimento, rimasto in gran parte speculativo e senza immediate applicazioni
in Bruno, in Campanella, in Vico, quasi ancora un'utopia, allargandosi
nella classe colta, si concretava nello scopo e ne' mezzi, per opera
principalmente de' giureconsulti. Scopo era combattere i privilegi ecclesiastici
e feudali in nome dell'eguaglianza, combattere l'arbitrio in nome della
legge, e riformare la legge in nome della giustizia e dell'equità. La
leva era il principato civile, elemento laico, legale e riformatore,
sul quale si appoggiavano le speranze de' novatori. Le idee erano sviluppate
con grande erudizione, con molta sottigliezza d'interpretazioni e di
argomentazioni, come di gente avvezzata alle dispute forensi. In Germania
il movimento era appena spuntato, rimasto nelle alte regioni della speculazione.
Il sensismo di Locke avea generato lo scetticismo di Hume, e n'era nata
una nuova speculazione sull'intelletto umano, una filosofia o una critica
dell'intelletto, del quale Locke avea scritta la storia. Kant e poi
Fichte concentravano lo spirito in quegli ardui problemi, e attendevano
a gittare profonde le radici prima di alzare l'albero; pensavano alla
base, sulla quale dovea sorgere la civiltà nazionale. Di questi filosofi
in Italia era appena penetrato Locke, e in una traduzione mutilata dalla
censura. Il movimento, come si andava sviluppando nell'Inghilterra e
in Germania, aveva appena qualche eco in Italia, anzi anche colà penava
a farsi via, dominato dagl'influssi francesi. La Francia era la grande
volgarizzatrice delle idee dal secolo anteriore elaborate: era non la
dimostrazione, ma l'epilogo; non la ricerca, ma la formola; non la speculazione,
ma l'applicazione; la scienza già assodata ne' suoi princìpi e divenuta
catechismo, in una forma letteraria e popolare, che rendeva la propaganda
irresistibile. La negazione giungeva all'ultima sua efficacia nell'ironia
bonaria di Voltaire, con tanto buon senso sotto tanta malizia. L'affermazione
giungeva alla precisione di un catechismo in Rousseau, che combatteva
quella società convenzionale in nome della società naturale, dalla quale
scaturivano i dritti dell'uomo, il suffragio universale e la sovranità
del popolo. Già la sua non era quasi più una speculazione filosofica:
era una bibbia, filosofia divenuta sentimento, e calata nell'immaginazione.
Montesquieu sollevava i più ardui problemi di politica e di legislazione,
in una forma incisiva, la quale, più che scienza, era sapienza condensata
e formolata. Intorno a questi centri si aggruppavano gli enciclopedisti,
e una moltitudine di scrittori diversi d'ingegno e di coltura, ma tenuti
tutti a quel tempo grandi uomini. Ben presto non ci fu più uomo colto
in Italia che non li leggesse avidamente.
Abbondarono i «filosofi», i «filantropi» e gli «spiriti forti», i nuovi
nomi de' liberali o degli uomini nuovi, o novatori. I filosofi erano
filantropi o amici dell'uomo, o umanitari, e insieme spiriti forti o
liberi pensatori, che in nome della ragione o della scienza condannavano
tutto ciò che nelle idee o ne' fatti se ne allontanava. La loro azione
pubblica era avvalorata dalle associazioni secrete de' franchi muratori,
mossi dagli stessi fini e dagli stessi sentimenti. Emancipare il pensiero
e l'azione da ogni ostacolo esteriore, religioso o sociale, uguagliare
giuridicamente le classi, provvedere all'istruzione e al benessere delle
classi inferiori, queste erano le basi del nuovo edificio che si voleva
costruire. Credevasi che tutto questo si potesse ottenere con articoli
di leggi, a quel modo che avevano fatto Solone, Licurgo, Numa. E blandivano
i sovrani, e li predicavano istrumenti provvidenziali per il rinnovamento
del mondo. Si formò una pubblica opinione, il cui centro era Parigi,
la cui voce erano i filosofi. Seguire la pubblica opinione, fare alcune
riforme secondo i dettami de' filosofi era un mezzo di governo, un modo
di acquistarsi fama e popolarità a buon mercato, come era nel secolo
decimosesto il proteggere letterati e artisti. Il gran delitto del secolo,
il violento attentato alla nazionalità polacca rimase seppellito sotto
quel nembo di fiori che i filosofi sparsero sulla memoria di Elisabetta
e Caterina seconda, di Maria Teresa e Giuseppe secondo e di Federico
secondo, i cortigiani e i corteggiati di Voltaire, di D'Alembert, di
Raynal, e degli enciclopedisti. Nè voglio già dire che fossero riformatori
solo per calcolo: chè sarebbe calunniare la natura umana. Riforme benefiche,
e non pericolose alla loro autorità, anzi buone a rafforzarla, le facevano
volentieri, cospirando insieme l'utile proprio e l'interesse pubblico:
il calcolo si accompagnava col desiderio del bene, col piacere delle
lodi, e con l'intima persuasione, imbevuti com'erano delle stesse idee.
Il simile avveniva in Italia. I principi gareggiarono nelle riforme,
Carlo terzo e Ferdinando quarto, Maria Teresa e Giuseppe secondo, Leopoldo,
Carlo Emmanuele, e fino papa Ganganelli, che alla pubblica opinione
offerse in olocausto i gesuiti. I filosofi, domandando in nome della
libertà e della uguaglianza l'abolizione di tutt'i privilegi feudali,
ecclesiastici, comunali, provinciali, e di ogni distinzione di classi,
o di ordini sociali, avevano seco i principi, che lottavano appunto
da gran tempo per conseguire questo scopo, fondando il loro potere assoluto
sulla soppressione di ogni libertà o privilegio locale. Fin qui filosofia
e monarchia assoluta andavano di conserva. Lo stesso accordo era per
le riforme economiche, amministrative e giuridiche, come semplicizzare
le imposte, unificare le leggi, svincolare la proprietà, promovere l'industria
e il commercio e l'agricoltura, assicurare contro l'arbitrio la vita
e le sostanze de' cittadini. I principi ci stavano, e qual più, qual
meno erano innanzi in quella via. Pensavano che, fiaccato il clero e
la nobiltà, sciolte le maestranze, rimosse tutte le resistenze locali,
sarebbe rimasta nelle loro mani la signoria assoluta, assicurata da'
due nuovi ordigni che succedevano a quella compagine disfatta del medio
evo, la burocrazia e l'esercito. E non pensavano che i princìpi da cui
movevano quelle riforme, e che costituivano la pubblica opinione, menavano
a conseguenze più lontane, essendo impossibile che abolendo i privilegi
rimanesse salvo il privilegio più mostruoso, ch'era la monarchia assoluta
e di dritto divino, e che, frenando l'arbitrio ne' preti, ne' baroni
e ne' magistrati, potessero essi governare a lungo co' biglietti regi
e i motupropri. Erano conseguenze inevitabili, che presto o tardi avrebbero
condotta la rivoluzione anche se la Francia non ne avesse dato l'esempio.
Ma per allora nessuno ci badava, e si procedeva allegramente nelle riforme,
persuasi tutti che bastassero ministri «illuminati» e principi «paterni»
per potere pacificamente e per gradi rinnovare la società. Gli scrittori
non impediti, anzi incoraggiati e protetti, lasciavano le speculazioni
astratte, e trattavano i problemi più delicati e di applicazione immediata
con quella sicurezza che veniva e dall'applauso pubblico e dalla benevolenza
de' principi, «direttori della pubblica felicità». Beccaria dice:
«I grandi monarchi, i benefattori dell'umanità, che
ci reggono, amano le verità esposte dall'oscuro filosofo,... e i disordini
presenti... sono la satira e il rimprovero delle passate età, non già
di questo secolo e de' suoi legislatori.»
|