La luce, il «dolce lome», rende sublimi le tenebre,
morte del sole e delle stelle e dell'occhio, come è «l'aer senza stelle»,
e il «loco d'ogni luce muto», e quel «ficcar lo viso al fondo» e «non
discernere alcuna cosa». Certo, l'eternità, le tenebre e la disperazione
sono caratteri comuni a tutto l'inferno; ma solo qui sono poesia, quando
l'inferno si affaccia per la prima volta alla immaginazione nella gagliardia
e freschezza delle prime impressioni. Appresso, diventano spettacolo
ordinario, come è il sole, visto ogni giorno.
E Dante, che parte da princìpi preconcetti nelle sue costruzioni scientifiche,
quando è tutto nel realizzare e formare i suoi mondi, opera con piena
spontaneità, abbandonato alle sue impressioni. Il canto terzo è il primo
apparire dell'inferno, e come ci si sente la prima impressione, come
si vede il poeta esaltato, turbato dalla sua visione, assediato di forme,
di fantasmi, impazienti di venire alla luce! In quel «diverse voci,
orribili favelle» ecc., non ci è solo il grido de' negligenti: ci è
lì tutto l'inferno, che manda il suo primo grido. Quel canto del sublime
è una sola nota musicale variamente graduata, è l'eterno, il tenebroso,
il terribile, l'infinito dell'inferno, che invade e ispira il poeta
e vien fuori co' vivi colori della prima impressione, è il vero canto
del regno de' morti, della «morta gente», è l'albero della vita, che
il poeta sfronda a foglia a foglia ad ogni passo che fa, e ne toglie
la speranza:
Lasciate ogni speranza voi che entrate.
E ne toglie le stelle:
risonavan per l'aer senza stelle.
E ne toglie il tempo:
facevano un tumulto il qual s'aggira
sempre in quell'aria senza tempo tinta.
E ne toglie il cielo:
non isperate mai veder lo cielo.
E ne toglie Dio:
ch'hanno perduto il ben dello intelletto.
Questa natura sublime dapprima è indeterminata, senza
contorni, cerchio, loco, null'altro: la diresti natura vuota, se non
la riempissero l'eternità e le tenebre e la morte e la disperazione.
Nel regno de' violenti prende una forma. Si esce dal sublime: si entra
nel bello negativo. Incontri tutto ciò che è figura, ordine, regolarità,
proporzione in terra; anzi con vocabolo umano è chiamata città, la città
di Dite. Vedi selve, laghi, sepolcri; e l'effetto poetico nasce dal
trovare la stessa figura, ma spogliata di tutti gli accessorii che la
rendono bella in terra.
Non frondi verdi, ma di color fosco:
non rami schietti, ma nodosi e involti
non pomi v'eran, ma stecchi con tosco.
La natura spogliata della sua vita, del suo cielo,
della sua luce, delle sue speranze, è un sublime che ti gitta nell'animo
il terrore; la natura spogliata della sua bellezza è un bello negativo
pieno di strazio e di malinconia. È la natura snaturata, depravata,
a immagine del peccato: con la virtù se n'è ita la bellezza, sua faccia.
Questa natura snaturata vien fuori con maggior vita nelle pene. Perchè
il concetto nella natura sta immobile come nell'architettura e nella
scultura; dove nelle pene acquista ogni varietà di attitudini e di movenze.
Le pene sono la coscienza fatta materia, e qui esprimono la violenza
della passione. In quella natura eterna e tenebrosa odi un mugghio,
«come fa mar per tempesta», e il rovescio della grandine, e il cozzo
delle moltitudini: moti disordinati, violenti, come i moti dell'animo.
Vedi tombe ardenti, laghi di sangue, alberi che piangono e parlano,
la natura sforzata e snaturata dal peccatore. Gli strani accozzamenti
producono l'effetto del maraviglioso e del fantastico, ma il fantastico
è presto vinto e ti piglia il raccapriccio e l'orrore. Il poeta prende
in troppa serietà il suo mondo per darsi uno spasso di artista e sorprenderti
con colpi di scena: tocca e passa; e non vuol fare effetto sulla tua
immaginazione, vuol colpire la tua coscienza. Dove il fantastico è più
sviluppato, è nella selva de' suicidi; ma anche lì vien subito la spiegazione,
e la maraviglia dà luogo a una profonda tristezza.
Ma il concetto non ha ancora la sua subiettività, non è ancora anima.
Un primo grado di questa forma è nel demonio. Cielo e inferno sono stati
sempre popolati di legioni angeliche e sataniche, che riempiono l'intervallo
tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e Satana. È la storia del bene e del male
che si sviluppa nella nostra anima, un progressivo indiarsi o indemoniarsi.
Diversi di nomi e di forme secondo le religioni e le civiltà, i demòni
hanno per base i diversi gradi del male, e per forma il gigantesco e
il mostruoso, il puro terrestre, il bestiale giunto all'umano, e spesso
preponderante, come nella sfinge, nella chimera, in Cerbero. Il demonio
di Dante non ha più la sua storia, come in terra, spirito tentatore
accanto all'uomo e ribelle e rivale di Dio. Qui è immobilizzato come
l'uomo; la sua storia è finita; cosa gli resta? Soffrire e far soffrire,
vittima e carnefice a un tempo, simbolo esso stesso e immagine del peccato
che flagella nell'uomo. Il Satana di Milton e Mefistofele, che combattono
contro Dio e contro l'uomo, erano compiute persone poetiche. Altra è
qui la situazione, e altro è il demonio. Esso è il vinto di Dio, e meno
che uomo, perchè non è dell'uomo che una sua parte sola, il peccato.
È piuttosto tipo, specie, simbolo, che persona. È il più basso gradino
nella scala degli esseri spirituali, lo spirito tra l'umano e il bestiale,
in cui l'intelletto è ancora istinto e la volontà è ancora appetito.
Figure vive e mobili della colpa, ma figure, semplice esteriorità: non
carattere, non passione, non intelligenza, non volontà. Fra gl'incontinenti
e i violenti il demonio è tragico e serio: è azione mimica e tutta esterna,
passione tradotta in moti e gesti, senza la parola, salvo brevi imprecazioni.
La natura ti dà figura e colore: qui la figura si muove e il colore
si anima, è la figura in azione. Il poeta ha scossa la polvere dalle
antiche forme pagane, e le ha rifatte e rinnovate. Come a costruire
il suo inferno toglie alla terra le sue forme, e strappandole dal circolo
loro assegnato, le compone diversamente e ti crea una nuova natura;
così ad esprimere lo spirito toglie dalla mitologia tutte le forme demoniache,
Minos Caronte, Cerbero, Pluto, Gerione, le arpie, le furie, e le trasporta
nel suo inferno: le trova vuote e libere, spogliate di concetto, di
vita e di religione, e le ricrea, le battezza, impressovi sopra il suo
pensiero e la sua religione. Il demonio meno lontano dall'uomo è Caronte,
in cui vien fuori l'apparenza di un carattere: impaziente rissoso, manesco,
che grida e batte. Il poeta si è ben guardato di sviluppare il comico
che è in questo carattere: la figura di Caronte rimane severa e grave,
e non fa dissonanza con la solennità della natura infernale, dove si
trova collocata. Minos è il giudizio rappresentato in modo affatto esteriore
e plastico, e rapido come saetta:
dicono e odono e poi son giù vòlte.
Le altre figure sono schizzi, appena disegnati; ingegnoso
è il ritratto di Gerione, che ha ispirato una delle più belle ottave
dell'Ariosto.
Noi concepiamo oramai la costruzione de' singoli canti. Il poeta comincia
col porci innanzi la natura del luogo e la qualità della pena; il demonio
ora precede, ora vien subito dopo; poi vedi peccatori presi insieme
e misti, non ancora l'individuo, ma l'uomo collettivo, gruppi di mezzo
a' quali spesso si stacca l'individuo e tira la tua attenzione.
I gruppi sono l'espressione generale del sentimento che riempie i peccatori
nella società infernale; sono la parentela del delitto, dove trovi nello
stesso lago di sangue i tiranni Ezzelino e Attila e gli assassini di
strada Rinier da Corneto e Rinier Pazzo.
Come nella natura e nel demonio, così ne' gruppi l'aspetto è dapprima
severo e tragico. Essi esprimono il sublime dello spirito la disperazione.
L'uomo ha bisogno di avere innanzi a sè qualche cosa a cui tenda; al
pensiero succede pensiero; il cuore vive quando da sentimento germoglia
sentimento; l'uomo vive quando è in un'onda assidua di pensieri e di
sentimenti; la disperazione è l'annullamento della vita morale, la stagnazione
del pensiero e del sentimento, la morte, il nulla, il caos, le tenebre
dello spirito, un sublime negativo. Come il sublime delle tenebre è
nella luce che muore, il sublime della disperazione è nella morte della
speranza:
nulla speranza gli conforta mai
non che di posa, ma di minor pena.
L'espressione estetica della disperazione è la bestemmia,
violenta reazione dell'anima, innanzi a cui tutto muore, e che nel suo
annichilamento involge l'universo:
Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,
l'umana specie e il luogo e il tempo e 'l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
La passione trasforma la faccia dell'uomo, abitualmente
tranquilla, il peccato gli siede sulla fronte e fiammeggia negli occhi:
momento fuggevole che Dante coglie e rende eterno ne' suoi gruppi. Gli
avari stanno col pugno chiuso, gl'irosi si lacerano le membra: violenza
di moti appassionati, niente che sia basso o vile: puoi abborrirli,
non puoi disprezzarli.
Immaginate una piramide. Nella larghissima base vedete la natura infernale.
Più su è il demonio, figura bestiale in faccia umana, bestia talora
in tutto, mai in tutto uomo. Alzate ancora l'occhio, e vedete gruppi
nella violenza della passione. È la stessa idea che si sviluppa e si
spiritualizza, insino a che da questo triplice fondo si eleva sulla
cima la statua, l'individuo libero, l'idea nella sua individuale realtà,
e più che l'idea, se stesso nella sua libertà. È di mezzo a quella folla
confusa, a quei gruppi, che escono i grandi uomini dell'inferno o piuttosto
della terra; è da questa triplice base dell'eternità che esce fuori
il tempo e la storia e l'Italia e più che altri Dante come uomo e come
cittadino.
L'inferno degl'incontinenti e de' violenti è il regno
delle grandi figure poetiche. Qui trovi come in una galleria di personaggi
eroici Francesca, Farinata, Cavalcanti, Pier delle Vigne, Brunetto Latini,
Capaneo, Dante, il Fato, Dio e la Fortuna. Sono in presenza forze colossali,
la energia della passione e la serenità del fato. Qui è Francesca eternamente
unita al suo Paolo, là è la Fortuna che non ode le imprecazioni degli
uomini e beata si gode. Ora ti percote il suono della divina giustizia
che in eterno rimbomba; ora ti stupisce Capaneo che tra le fiamme oppone
sè a tutte le folgori di Giove. Su questo fondo tragico s'innalza la
libera persona umana e vi si spiega in tutta la ricchezza delle sue
facoltà. Qui usciamo dalle astrattezze mistiche e scolastiche, e prendiamo
possesso della realtà. La donna non è più Beatrice, il tipo realizzato
de' trovatori, fluttuante ancora tra l'idea e la realtà; qui acquista
carattere, storia, passioni, una ricca e vivace personalità, è Francesca
da Rimini, la prima donna del mondo moderno. L'uomo non è più il santo
con le sue estasi e le sue visioni; qui ha la sua patria, il suo uffizio,
il suo partito, la sua famiglia, le sue passioni e il suo carattere;
è Farinata, è Cavalcanti, è Brunetto, è Pier delle Vigne, è Dante Alighieri,
alla cui fiera natura Virgilio applaude:
... ... Alma sdegnosa,
benedetta colei che in te s'incinse!
L'inferno dà loro una realtà più energica, creando
nuove immagini e nuovi colori. Pier delle Vigne giura «per le nuove
radici del suo legno». Farinata dice:
ciò mi tormenta più che questo letto.
All'annunzio della morte del figlio, Cavalcanti
supin ricadde e più non parve fuora.
Brunetto raccomanda il suo Tesoro, nel quale
si sente vivere ancora. Capaneo può dire: «Qual i' fui vivo, tal son
morto». E Francesca ricorda il tempo felice nella miseria. L'inferno
è il loro piedistallo, sul quale si ergono col petto e con la fronte,
affermando la loro umanità. Nascono situazioni e forme novissime, che
danno rilievo alle figure e a' sentimenti.
Questo mondo tragico, dove l'impeto della passione e la violenza del
carattere mette in gioco tutte le forze della vita, ha la sua perfetta
espressione in questi grandi individui, rimasti così vivi e giovani
e popolari, come Achille ed Ettore. È il mondo della grande poesia,
della epopea e della tragedia. E ora quale contrasto! Lasciamo appena
le falde dilatate di foco e la rena che s'infiamma come esca sotto fucile,
e ci troviamo in una pozzanghera che fa zuffa con gli occhi e col naso.
Lasciamo i tragici demòni dell'antichità, i centauri e le arpie, e incontriamo
diavoli con le corna e armati di frusta, e vilissimi uomini che alle
prime percosse scappano senz'aspettar le seconde nè le terze. In luogo
di Capaneo con la fronte levata, il primo che vediamo ha gli occhi bassi,
vergognoso di mostrarsi; e Dante, così riverente e pietoso finora e
anche sdegnoso, diviene maligno e sarcastico, e compone per la prima
volta il labbro ad un sorriso sardonico. Chiama «salse pungenti» quel
letamaio,
che dagli uman privati parea mosso
. Un altro lo sgrida:
... ... «Perchè se' tu sì ingordo
di riguardar più me che gli altri brutti?»
E Dante, che lo vede col capo lordo tanto che non parea
«s'era laico o cherco», gli ricorda crudelmente di averlo veduto in
terra co' capelli asciutti. E quegli esprime il suo dolore, «battendosi
la zucca». Tutto è mutato: natura, demonio e uomo, immagini e stile.
Cadiamo in pieno plebeo. Chi sono questi uomini? Sono adulatori e meretrici
dannati alla stessa pena: gli uni vendono l'anima, le altre vendono
il corpo. Sentite che noi passiamo in un altro mondo, nel mondo de'
fraudolenti.
Esteticamente, il mondo de' fraudolenti è la prosa della vita; precipitata
dal suo piedistallo ideale, e divenuta volgarità. È la passione che
si muta in vizio, il carattere che diviene abitudine, la forza che diviene
malizia. La passione è poetica, perchè ha virtù di concitare tutte le
forze dell'anima, sì ch'elle prorompano di fuori liberamente: il vizio
è la passione fatta abitudine, ripetizione degli stessi atti, un fare
perchè si è fatto; è l'artista divenuto artefice, l'arte divenuta mestiere.
L'uomo appassionato spiritualizza la sua azione, ci mette dentro se
stesso, ma nel vizioso l'anima è sonnolenta, la sua azione è stupida
materia, atto meccanico a cui lo spirito rimane estraneo. La passione
produce il carattere, la forte volontà, che è la stessa passione in
continuazione; il vizio ha compagna la fiacchezza e bassezza dell'anima,
non essendo altro la bassezza che l'abdicazione e l'apostasia della
propria anima. I grandi caratteri sicuri di sè hanno a loro istrumento
la forza, impetuosi fino all'imprudenza, semplici fino alla credulità;
gli animi fiacchi hanno a loro istrumento la malizia, coscienza della
loro impotenza, e, pipistrelli notturni, assaltano alle spalle e non
osano guardare in viso.
In questo mondo il di fuori è mutato, perchè mutato è il di dentro,
ove non trovi più caratteri e passioni, ma vizio, bassezza e malizia,
lo spirito oscurato e materializzato, la dissoluzione della vita. A
quei cerchi indeterminati, a quella città rosseggiante di Dite, nomi
e figure terrene, succede un non so che, una cosa senza nome, che il
poeta chiama bizzarramente «Malebolge», una natura sformata e in dissoluzione,
ripe scoscese, scogli mobili che fanno da ponticelli, e giù valloni
paludosi, dove le acque finora impetuose e correnti stagnano e si putrefanno,
valloni angusti, bolge, valigie, borse, che stringendosi più e più vanno
a finire in un pozzo: natura piccola, in rovina e in putrefazione. Al
demonio mitologico iroso e appassionato succede il diavolo cornuto,
essere grottesco, o piuttosto i diavoli che vanno in frotte, e si mescolano
in ignobili parlari con la gente più abbietta, e canzonano e sono canzonati,
maliziosi, bugiardi, plebei, osceni. Al vivo movimento delle bufere
e delle grandini e delle fiamme succede la materia in decomposizione,
quanti strazi di carne umana ti offrono i campi di battaglia e quante
malattie ti offre lo spedale. Tali la natura, il demonio, le pene. Vedi
ora l'uomo. La faccia umana è rimasta finora inviolata: innanzi all'immaginazione
la passione invermiglia la faccia di Francesca, e la grandezza dell'anima
pare nella faccia dell'uomo che si leva dritto dalla cintola in su.
Qui la faccia umana sparisce: hai caricature e sconciature di corpi.
Uomini cacciati in una buca, capo in giù, piedi in su; vólti travolti
in su le spalle, sì che il pianto scende giù per le reni; visi, occhi
e corpi imbacuccati e incappucciati; musi umani fuor della pegola a
modo di ranocchi; corpi, altri smozzicati, accismati, altri marciti
e imputriditi, scabbiosi, tisici, idropici. Di questa figura umana deturpata
e contraffatta l'immagine più viva è Bertram dal Bormio, il cui busto
si fa lanterna del suo capo che porta pesol per le chiome. In questo
mondo prosaico e plebeo, che comincia con Taide e finisce con mastro
Adamo, la materia ovvero la parte bestiale prevale tanto, che spesso
siamo in sul domandarci: - Costoro sono uomini o bestie? - Non sono
ancora bestie, e l'uomo già muore in loro:
che non è nero ancora e il bianco muore.
Sono figure miste in una faccia tra bestiale e umana;
e la più profonda concezione di Malebolge è questa trasformazione dell'uomo
in bestia e della bestia in uomo: hanno l'appetito e l'istinto della
bestia, hanno la coscienza dell'uomo. Si sanno uomini e sono bestie;
e qui è la pena, nella coscienza umana che loro è rimasta.
La forma estetica di questo mondo è la commedia, rappresentazione de'
difetti e de' vizi. Fra tanta fiacchezza della personalità il grande
uomo, l'individuo, è gittato nell'ombra, e vien su il descrittivo, l'esteriorità.
Nell'inferno tragico le descrizioni sono sobrie e rapide, l'interesse
principale è negli attori che prendono la parola: qui è un gregge muto,
visto da lontano. Virgilio dice a Dante: - Vedi là Mirra, vedi Giasone,
vedi Manto. - Appena è se qualche epiteto ti segna in fronte alcuno
de' più grandi personaggi, come si fa di Giasone:
e per dolor non par lacrima spanda.
Prima dite: «Il canto di Francesca, di Farinata, di
ser Brunetto Latini» ; ora dite: «Il canto de' ladri, de' falsari, de'
truffatori»: vi sono gruppi, non individui; vi è il descrittivo, manca
il drammatico. Manca la grandezza negli attori, e manca la pietà negli
spettatori. La figura umana così torta, che il pianto degli occhi bagnava
le natiche, cava a Dante lacrime; l'«homo sum» si sente colpito
in lui; ma Virgilio lo sgrida:
Ancor sei tu degli altri sciocchi?
Qui vive la pietà, quand'è ben morta.
Abbonda il descrittivo; l'immaginazione di Dante è
così robusta, che avendo a fare con oggetti così fuori della natura,
non che sentirsi impacciata, pare che scherzi: con tanta facilità e
spontaneità esprime le più varie e strane attitudini: la fiamma parla
come lingua d'uomo, le zanche piangono e fremono. Il più grande sforzo
dell'immaginazione umana è la trasformazione di uomini in bestie, nel
canto ventesimoquinto, quantunque la soverchia minutezza generi sazietà.
Fra tanti gruppi sorge qua e là alcuno individuo in cui si sviluppa
con più chiara coscienza il concetto di Malebolge. Un lato serio di
questo concetto è lo spirito che varca il limite assegnatogli. Se la
ragione potesse veder tutto,
mestier non era partorir Maria.
L'esperienza avea le sue colonne d'Ercole; la ragione
avea pure le sue colonne. Questo concetto qui è serio, non è sublime,
nè tragico; perchè l'uomo, che con la temerità oraziana sforza la natura,
è qui non dirimpetto a Dio come Prometeo e Capaneo, ma colpito e soggiogato,
senza che in lui paia vestigio di ribellione, di orgoglio e di violenza:
... ... Dove rui,
Anfiarao? perchè lasci la guerra?
E non restò di rovinare a valle,
fino a Minòs che ciascheduno afferra.
L'uomo di Orazio è sublime, perchè lo vedi nell'opera,
senti in lui la voluttà del frutto proibito, malgrado Dio e la natura.
Anfiarao è un puro nome; sublime di terrore è quel suo precipitare a
valle, mostrandocelo successivamente inabissarsi, ma il grottesco vien
subito dopo:
Mira che ha fatto petto delle spalle:
perchè volle veder troppo davante,
di rietro guarda e fa ritroso calle.
Ulisse, che ha varcato i segni di Ercole, è travolto
nelle acque per giudizio di Dio, «come a lui piacque». Pure un po' dell'audacia
di Ulisse è ancora in Dante, che gli mette in bocca nobili parole, e
ti fa sentire quell'ardente curiosità del sapere che invadeva i contemporanei.
Ti par di assistere al viaggio di Colombo. Il peccato diviene virtù.
Se la logica ghibellina pone in inferno l'autore dell'agguato contro
Troia, radice dell'impero sacro romano, la poesia alza una statua a
questo precursore di Colombo, che indica col braccio nuovi mari e nuovi
mondi, e dice a' compagni:
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza.
Ulisse è il grand'uomo solitario di Malebolge. È una
piramide piantata in mezzo al fango. Il comico penetra da tutt'i lati,
traendosi appresso il lordo, l'osceno, il disgustoso: lo spirito, divenuto
malizia, è qui decaduto, degradato; e con lui si oscura la nobile faccia
umana. Ulisse stesso per la sua malizia ha la sua figura coperta e fasciata
dalle fiamme. Siamo in un mondo comico.
La regina delle forme comiche è la caricatura, il difetto colto come
immagine e idealizzato. Al che si richiede che il personaggio operi
ingenuamente e brutalmente, come non avesse coscienza del suo difetto,
a quel modo che si vede in Sancio Panza e in don Abbondio, eccellenti
caratteri comici. I dannati di Malebolge sono così fatti: essi sono
cinici e perciò ridicoli, come i diavoli nel canto ventesimosecondo,
rissosi, abietti, vanitosi, bassamente feroci ne' loro atti. Così sono
i ladri, i truffatori, i barattieri, plebe in cui il vizio è così connaturato,
che non se ne accorge più. Tale è Nicolò terzo vano del suo papale ammanto,
che crede Dante venuto nell'inferno apposta per veder lui. Tali sono
pure Sinone e maestro Adamo. Essi si mostrano nella loro naturalezza,
e possono essere rappresentati nella forma diretta e immediata, isolando
il difetto dagli accessorii e idealizzandolo, divenuto un contromodello,
l'immagine opposta a quel tipo, a quel modello di perfezione che ciascuno
ha in mente: qui è la caricatura. Le concezioni di Dante sono di un
comico plebeo della più bassa lega: sia esempio la rissa tra Sinone
e maestro Adamo. Si rimane nel buffonesco, l'infimo grado del comico.
Quest'uomo, così possente creatore d'immagini nell'inferno tragico,
qui si sente arido, freddo, in un mondo non suo. Le situazioni sono
comiche, ma il comico è rozzamente formato, e non è artistico, non ha
la sua immagine che è la caricatura, nè la sua impressione che è il
riso. Due persone in rissa cadono in un lago d'acqua bollente che li
divide. Situazione comica, se mai ce ne fu. Il poeta dice:
Lo caldo sghermidor subito fue.
Espressione vivace, ma che non sveglia nessuna immagine
e ti lascia freddo. Non ha saputo cogliere quel movimento, quella smorfia
che fanno quando si sentono scottare e si sciolgono. La pancia di mastro
Adamo, che sotto il pugno di Sinone «sonò come fosse un tamburo», è
una felice caricatura; ma è una freddura il dire:
e mastro Adamo gli percosse 'l volto
col pugno suo che non parve men duro.
Manca spesso a Dante la caricatura, e i suoi versi
più comici non fanno ridere. Perchè a fare la caricatura bisogna fermare
l'immaginazione nell'oggetto comico, spassarcisi, obbliarsi in quello,
alzarlo a contromodello. Dante non ha questo sublime obblio comico,
non ha indulgenza, nè amabilità. Teme di sporcarsi tra quella gente,
e se ode, se ne fa rimproverare da Virgilio, e se ci sta, se ne scusa:
Ahi fera compagnia! Ma in chiesa
coi santi e in taverna coi ghiottoni.
Il suo riso è amaro; di sotto alla facezia spunta il
disdegno; e spesso nella mano la sferza gli si muta in pugnale.
Il riso muore, quando il personaggio comico ha coscienza del suo vizio,
e non che sentirne vergogna vi si pone al di sopra e ne fa il suo piedistallo.
Allora non sei tu che gli fai la caricatura; ma è lui stesso il suo
proprio artista, che si orna del suo difetto come di un manto reale,
e se ne incorona e se ne fa un'aureola, atteggiandosi e situandosi nel
modo più acconcio a dire: - Miratemi -; più acconcio a dare spicco al
suo vizio. La bestia non cela il suo vizio e non arrossisce; il rossore
è proprio della faccia umana. L'uomo consapevole del suo difetto, che
vi si pone al di sopra, rinuncia alla faccia umana e dicesi «sfacciato»
o «sfrontato». Qui la caricatura uccide se stessa, il comico giunto
alla sua ultima punta si scioglie; e n'esce un sentimento di supremo
disgusto e ribrezzo, che è il sublime del comico: la propria abbiezione
predicata e portata in trionfo aggiunge al disgusto un sentimento che
tocca quasi l'orrore. Qui Dante è nel suo campo. Il suo eroe è Vanni
Fucci. Mastro Adamo è come animale, senza coscienza della sua bassezza,
Vanni Fucci ha avuto la coscienza e l'ha soffocata; sono i due estremi
nella scala del vizio; l'uno non è mai salito fino all'uomo; l'altro
è passato per l'uomo ed è ricaduto nella bestia. Si sente bestia, e
si pone come tipo bestiale, e sceglie le circostanze più acconce a darvi
risalto:
Vita bestial mi piacque e non umana,
siccome a mul ch'io fui. Son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana.
Ecco l'uomo che fa le fiche a Dio, il Capaneo di Malebolge,
l'umano divenuto bestiale e idealizzato come tale.
Ma l'umano non muore mai in tutto. L'uomo diviene bestia, ma la bestia
torna uomo. E con senso profondo Dante anche sulla faccia sfrontata
di Vanni Fucci scoperto ladro gitta il rossore della vergogna:
e di trista vergogna si dipinse.
L'uomo che ha coscienza del suo vizio e se ne vergogna,
in luogo di mostrarlo al naturale (ciò che produce la caricatura) cerca
occultarlo sotto contraria apparenza: il poltrone fa il bravo. Nasce
il contrasto tra l'essere e il parere: la situazione divien comica,
e la sua forma è l'ironia. Lo spettatore indulgente e che vuole spassarsi
a sue spese finge di crederlo e di secondarlo; accetta come seria l'apparenza
che si dà, anzi la carica ancora di più; fa il bravo, ed egli lo chiama
un «Orlando», ma accompagnando le parole di un cotale ammiccar d'occhi
che esprima scambievole intelligenza, di un tuono di voce in falsetto,
di un riso equivoco, che vuol dire: - Io ti conosco. - Perciò l'essenziale
dell'ironia non è nell'immagine, ma nel sottinteso: è il riflesso che
succede allo spontaneo; immagine sottilizzata nel sentimento. Forma
delicata, perchè lo spettatore, alla vista del difetto che altri cerca
di mascherare, non sente collera, non gli strappa la maschera dal viso,
anzi se la mette egli stesso e serba una compostezza e una pulitezza,
equivoca ne' movimenti e ne' gesti. Forma di tempi civili, assai rara
nelle età barbare e nelle poesie primitive. Dante, accigliato, brusco,
tutto di un pezzo, com'è ne' suoi ritratti, ha troppa bile e collera,
e non è buono nè alla caricatura, nè all'ironia. Ma dalla sua fantasia
d'artista è uscita una di quelle creazioni, che sono le grandi scoperte
nella storia dell'arte, un mondo nuovo: il «nero cherubino», che strappa
a san Francesco l'anima di Guido da Montefeltro, è il padre di Mefistofele.
Egli crea il diavolo, gli dà il suo concetto e la sua funzione. Il diavolo
è l'ironia incarnata: non ci è uomo tanto briccone che il diavolo non
sia più briccone di lui, e capite che non è disposto a guastarsi la
bile per le bricconerie degli uomini. L'uomo può ingannare un altro
uomo, ma non può ficcarla al diavolo, perchè il diavolo nel suo senso
poetico è lui stesso, la sua coscienza che risponde con un'alta risata
a' suoi sofismi, e gli fa il controsillogismo, e gli dice beffandolo:
... ... Forse
tu non sapevi ch'io loico fossi!
Il brutto come il bello muore nel sublime. E il brutto
è sublime quando offende il nostro senso morale ed estetico e ci gitta
in violenta reazione. Scoppia la collera, l'indignazione, l'orrore:
il comico è immediatamente soffocato. Quando veggo un difetto rivelarsi
all'improvviso, uso la caricatura. Quando veggo un difetto che cerca
mascherarsi, prendo la maschera anch'io e uso l'ironia. Ma quando quel
difetto mi offende, mi sfida, mi provoca, si mette dirimpetto a me come
contraddizione al mio intimo senso, la mia coscienza così audacemente
negata e contraddetta reagisce: io strappo al vizio la maschera e lo
mostro qual è, nella sua laida nudità. La caricatura e l'ironia si risolvono
in una forma superiore, il sarcasmo, la porta per la quale volgiamo
le spalle al comico e rientriamo nella grande poesia.
Nel sarcasmo caricatura e ironia riappariscono, ma per morire: nasce
la caricatura, ed è guastata; spunta la maschera, ed è strappata. E
la morte viene da questo, che nella forma sarcastica del brutto ci è
l'idea che l'uccide, il suo contrario. Nel canto de' simoniaci il sarcasmo
fa la sua splendida apparizione. Il comico muore sotto l'ira di Dante.
L'antitesi tra quello che è di fuori e quello che è nella sua anima
scoppia in ravvicinamenti innaturali, come «calcando i buoni e sollevando
i pravi», «Dio d'oro e d'argento»; e spesso in parole a doppio contenuto,
che è l'immagine del sarcasmo. Tale è la parola rimasa proverbiale,
con che è qualificata la servilità della Chiesa. Parimente chiama «adulterio»
la simonia e «idolatria» l'avarizia, parole, nelle quali entrano come
elementi la santità del matrimonio e il vero Dio: in una sola immagine
c'è il brutto e ci è l'idea che lo condanna.
Ma il sarcasmo dee purificare e consumare se stesso. Finchè rimane nel
particolare e nel personale, il linguaggio è acre, bilioso: hai Giovenale
e Menzini. Il poeta, non che rimanere imprigionato in quello spettacolo,
dee spiccarsene, porcisi al di sopra, allargare l'orizzonte, essere
eloquente, voce di verità, espressione impersonale della coscienza.
Certo, in quel canto de' simoniaci vive immortale la vendetta dell'uomo
ingannato che anticipa a Bonifazio l'inferno, e del ghibellino e del
cristiano che vede nel papato temporale una pietra d'inciampo e di scandalo.
Ma i sentimenti e le passioni personali, se hanno ispirato il poeta
e resa terribilmente ingegnosa la sua fantasia, non penetrano nella
rappresentazione. Bisogna sapere la storia per indovinare i terribili
incentivi dell'alta creazione. Ciò che qui senti è la convinzione, la
buona fede del poeta, la sincerità e l'impersonalità della sua collera:
onde sgorga dal suo labbro eloquente tanta magnificenza d'immagini e
di concetti. Prima Dante è in collera con Nicolò, pinto in pochi tratti
vano, piccolo, col cervello e co' sensi nel piede. E comincia col «tu»,
e l'assale corpo a corpo, con ironia amara che si trasforma nel pugnale
del sarcasmo:
e guarda ben la mal tolta moneta,
ch'esser ti fece contra Carlo ardito.
Ma nel pendìo dell'ingiuria si contiene d'un tratto,
passaggio meritamente ammirato: la piccola persona di Nicolò scomparisce;
sottentra il «voi», i papi, il papato; le idee guadagnano di ampiezza
senza perdere di energia, e da ultimo la collera svanisce in una certa
tristezza pura di ogni stizza; è un deplorare, non è più un inveire:
Ahi Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!
Tale è Malebolge: miniera inesausta di caratteri comici,
concezione delle più originali, dove il comico è posto ed è sciolto.
Poco felice nel maneggio delle forme comiche, il poeta è insuperabile
quando se ne sviluppa, mutato il riso in collera, come nella sua invettiva,
nella pena di Bertram dal Bormio, nella rappresentazione di Vanni Fucci.
Rimane un fondo comico che aspetta ancora il suo artista. Pure in quella
materia appena formata vive immortale il suo nero cherubino.
Nel pozzo de' traditori la vita scende di un grado più giù: l'uomo bestia
diviene l'uomo ghiaccio, l'essere petrificato, il fossile. In questo
regresso dell'inferno, in questo cammino a ritroso dell'umanità siamo
giunti a quei formidabili inizi del genere umano, regno della materia
stupida, vuota di spirito, il puro terrestre, rappresentato ne' giganti,
figli della terra, nella loro lotta contro Giove, natura celeste e spirituale,
inferiore di forza fisica, ma armato del fulmine:
... ... con minaccia
Giove dal cielo ancora, quando tuona
Con questo mito concorda la storia biblica degli angeli
ribelli. Qui all'ingresso trovi i giganti; alla fine Lucifero: mitologia
e Bibbia si mescolano, espressioni della stessa idea. La lotta è finita:
i giganti sono incatenati; Lucifero è immenso e stupido carname, il
gradino infimo nella scala de' demòni. Il gigantesco è la poesia della
materia; ma qui, vuoto e inerte, è prosa. Tra' giganti e Lucifero stanno
i dannati fitti nel ghiaccio. Le acque putride di Malebolge, ventate
dalle enormi ali di Lucifero, si agghiacciano, s'indurano, diventano
mare di vetro, di dentro a cui traspariscono come festuche i traditori
contro i congiunti nella Caina, contro la patria nell'Antenora, contro
gli amici nella Tolomea, e contro i benefattori nella Giudecca. La pena
è una, ma graduata secondo il delitto. Il movimento si estingue a poco
a poco, la vita si va petrificando, finchè cessa in tutto la lacrima,
la parola e il moto. L'immagine più schietta di questo mondo cristallizzato
è il teschio dell'arcivescovo Ruggieri, inanimato e immobile sotto i
denti di Ugolino.
L'Ugolino è una delle più straordinarie e interessanti fantasie. E per
lui che la vita e la poesia entra in questo mare morto, dove la natura
e il demonio e l'uomo è materia stupida e senza interesse. Come concetto
morale, il tradimento è la colpa più grave; ma qui manca l'organo della
colpa: il grido della coscienza sembra agghiacciato insieme col colpevole.
Questo grido può uscire dal petto concitato di Dante spettatore, come
è già avvenuto in Malebolge, dove l'invettiva di Dante risolve il comico.
Qui ci è di meglio. Tra questi esseri petrificati Dante gitta il suo
Ugolino, ghiacciato con gli altri, come traditore egli pure, ma col
capo sul capo di Ruggieri, perchè insieme egli è il suo tradito e il
suo carnefice. È la vittima che qui alza il grido contro il traditore,
e gli sta eternamente co' denti sul capo, saziando in quello il suo
odio, istrumento inconscio della vendetta di Dio. Così è nato l'Ugolino,
il personaggio più ricco, più moderno, più popolare di Dante dove l'analisi
è più profonda e più sviluppata, nelle sue straordinarie proporzioni
così umano e vero.
Prendete ora una carta topografica dell'inferno, e guardate questa piramide
capovolta, a forma d'imbuto. Vedete l'immensa base alla cima, senza
figura altra che di cerchi, fra le tenebre eterne; e poi quei cerchi
prendon figura di città rosseggiante di fiamme, e la città di bolgia
putrida e puzzolenta, e la bolgia di pozzo entro il quale è petrificata
la natura; in cima l'infinito, alla fine il tristo buco
sopra 'l qual pontan tutte le altre rocce;
e voi avete così l'immagine visibile di questo inferno
estetico. Gli è come nelle rivoluzioni. Nel primo entusiasmo tutto è
grande; poi vien fuori il sanguinario, il feroce, l'orribile, finchè
da' più bassi fondi della società sale su il laido, l'abietto e il plebeo.
Questa decomposizione e depravazione successiva della vita è l'Inferno.
L'Inferno è l'uomo compiutamente realizzato come individuo, nella
pienezza e libertà delle sue forze. E può misurare la grandezza dell'opera,
chi vede gli abbozzi di Dino Compagni, o lo scarno Ezzelino,
o le rozze formazioni de' misteri e delle leggende. L'individuo era
ancora astratto e impigliato nelle formole, nelle allegorie e nell'ascetismo.
In quelle vuote generalità ci è la donna e l'uomo, come genere, come
simbolo, come l'anima; manca l'individuo. E manca tanto, che spesso
non ha un nome, ed è la «mia donna», o «un giovine», «un santo uomo».
Non un nome solo era rimasto vivo nel mondo dell'arte, fra tante liriche
e leggende. Dante volea scrivere il mistero dell'anima; si cacciò tra
allegorie e formole, ed ecco uscirgli dalla fantasia l'individuo, volente
e possente, nel rigoglio e nella gioventù della forza, spezzato il nocciolo
dove lo avea chiuso il medio evo. I pittori disegnavano santi e cupole,
i filosofi fantasticavano sull'ente; i lirici platonizzavano, gli ascetici
contemplavano e pregavano: Dante pensava l'inferno; e là, tra' furori
della carne e l'infuriar delle passioni, trovava la stoffa di Adamo,
l'uomo com'è impastato, con la sua grandezza e con la sua miseria, e
non descritto, ma rappresentato e in azione, e non solo ne' suoi atti,
ma ne' suoi motivi più intimi. Così apparvero sull'orizzonte poetico
Francesca, Farinata, Cavalcanti, la Fortuna, Pier delle Vigne, Brunetto,
Capaneo, Ulisse, Vanni Fucci, il «nero cherubino», Nicolò terzo e Ugolino.
Tutte le corde del cuore umano vibrano. Vedi attorno a questa schiera
d'immortali, turba infinita di popolo nella maggior varietà di attitudini,
di forme, di sentimenti, di caratteri, che ti passano avanti, alcuni
appena sbozzati, altri numero e nome, altri segnati in fronte di qualche
frase indimenticabile, che li eterna, come Taide, Mosca, Giasone, Omero,
Aristotile, papa Celestino, Bonifazio, Clemente, Bruto, Bocca degli
Abati, Bertram dal Bormio. Nel regno de' morti si sente per la prima
volta la vita nel mondo moderno. Come è bella la luce, il «dolce lome»,
a Cavalcanti! Quanta malinconia è in quella selva de' suicidi, spogliata
del verde! Come è commovente Brunetto, che raccomanda a Dante il suo
Tesoro, e Pier delle Vigne che gli raccomanda la sua memoria!
Come ride quel giardino del peccato innanzi a Francesca! Col vivo sentimento
della dolce vita, della bella natura, è accompagnato il sentimento della
famiglia. Quel padre che cade supino, udendo la morte del figlio, e
Ugolino che dannato a morire di fame guarda nel viso a' figliuoli, e
Anselmuccio che gli domanda: - Che hai? - E Gaddo che gli dice: - Perchè
non mi aiuti? - Sono scene solitarie della poesia italiana. Ciascuno
è in una situazione appassionata. I sentimenti spinti alla punta idealizzano
e ingrandiscono gli oggetti. Tutto è colossale, e tutto è naturale E
in mezzo torreggia Dante, il più infernale, il più vivente di tutti,
pietoso, sdegnoso, gentile, crudele, sarcastico, vendicativo, feroce,
col suo elevato sentimento morale col suo culto della grandezza e della
scienza anche nella colpa, coi suo dispregio del vile e dell'ignobile,
alto sopra tanta plebe, così ingegnoso nelle sue vendette, così eloquente
nelle sue invettive.
Queste grandi figure, là sul loro piedistallo rigide ed epiche come
statue, attendono l'artista che le prenda per mano e le gitti nel tumulto
della vita e le faccia esseri drammatici. E l'artista non fu un italiano:
fu Shakespeare.
Chi vuole ora concepire il Purgatorio, si metta
in quella età della vita che le passioni si scoloriscono, e l'esperienza
e il disinganno tolgono le illusioni, e scemata la parte attiva e personale,
l'uomo si sente generalizzare, si sente più come genere che come individuo.
Spettatore più che attore, la vita si manifesta in lui non come azione,
ma come contemplazione artistica, filosofica, religiosa. In quella calma
delle passioni e de' sensi era posto l'ideale antico del savio, l'ideale
nuovo del santo, fuso insieme in quel Catone, che Dante chiama nel Convito
anima nobilissima e la più perfetta immagine di Dio in terra. Catone
è il savio antico, pinto come i filosofi, con quella sua lunga barba,
in quella calma e gravità della sua decorosa vecchiezza:
degno di tanta riverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Ma è qualcosa di più; è il savio battezzato e santificato,
con la fronte radiante, illuminata dalla grazia, sì che pare un sole.
Virgilio non comprende questo savio cristianizzato, e parla al Catone
di sua conoscenza, ricordando la sua virtù, la sua morte per la libertà,
la sua Marzia. E il nuovo Catone risponde: - Marzia, che piacque tanto
agli occhi miei, non mi move più; ma se Donna del cielo ti guida, non
ci è mestier lusinga:
basta ben che per lei mi richegge.
Che cosa è il Purgatorio? È il mondo dove questo
doppio ideale è realizzato: il mondo di Catone o della libertà, dove
lo spirito si sviluppa dalla carne e cerca la sua libertà:
Libertà va cercando ch'è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Altro concetto, altra natura, altro uomo, altra forma,
altro stile. Non è più l'Iliade, è l'Odissea, è un nuovo
poema. Paragonare Inferno e Purgatorio e maravigliarsi
che qui non sieno le bellezze ammirate colà, gli è come maravigliarsi
che il purgatorio sia purgatorio e non inferno. O, se pur vogliamo maravigliarci
di qualche cosa, maravigliamoci che il poeta abbia potuto così compiutamente
dimenticare l'antico se stesso, le sue abitudini di concepire, di disporre,
di colorire, e seppellito in questo nuovo mondo ricrearsi l'ingegno
e la fantasia a quella immagine, e con tanta spontaneità che pare non
se ne accorga: obblio dell'anima nella cosa, il secreto della vita,
dell'amore e del genio.
L'inferno e il regno della carne, che scende con costante regresso sino
a Lucifero. Il purgatorio e il regno dello spirito, che sale di grado
in grado sino al paradiso. È là che si sviluppa il mistero, la Commedia
dell'anima, la quale dall'estremo del male si riscote e si sente
e mediante l'espiazione e il dolore si purifica e si salva. Onde con
senso profondo il purgatorio esce dall'ultima bolgia infernale, e Lucifero,
principe delle tenebre, e quello stesso per le spalle del quale Dante
salendo esce a riveder le stelle.
Ci è un avanti-purgatorio, dove la carne fa la sua ultima apparizione.
Il suo potere non è più al di dentro: l'anima è già libera; della carne
non resta che la mala abitudine. Gradazione finissima e altamente comica,
dalla quale è uscito l'immortale ritratto di Belacqua, caricatura felicissima
nella figura, ne' movimenti, nelle parole, e tanto più comica quanto
più Belacqua si sforza di rimaner serio, usando un'ironia che si volge
contro di lui.
Questo avanti-purgatorio è quasi una transizione tra l'inferno e il
purgatorio: il peccato vi è e non v'è; e ancora nell'abitudine non è
più nell'anima; il demonio ci sta sotto la forma del serpente d'Eva,
involto tra l'erbe e i fiori, cacciato via da due angioli dalle vesti
e dalle ali di color verde, simbolo della speranza. Comparisce per scomparire,
quasi per far testimonianza che se ne va dalla scena per sempre. Innanzi
alla porta del purgatorio scompare il diavolo e muore la carne, e con
la carne gran parte di poesia se ne va.
L'anima non appartiene più alla carne, ma l'ha avuta una volta sua padrona
e se ne ricorda. La carne non è più una realtà, come nell'inferno, ma
una ricordanza. Ne' sette gironi, rispondenti a' sette peccati mortali,
le anime ricordano le colpe per condannarle; ricordano le virtù per
compiacersene.
Quel ricordare le colpe non è se non l'inferno che ricomparisce in purgatorio
per esservi giudicato e condannato; quel ricordare le virtù non è se
non il paradiso che preluce in purgatorio per esservi desiderato e vagheggiato:
l'inferno ci sta in rimembranza; il paradiso ci sta in desiderio. Carne
e spirito non sono una realtà: la tirannia della carne è una rimembranza;
la libertà dello spirito è un desiderio.
Poichè la realtà non è più in presenza, ma in immaginazione, essa vi
sta non come azione rappresentata e drammatica, ma come immagine dello
spirito, a quel modo che noi riproduciamo dentro di noi la figura delle
cose non presenti, e pingiamo al di fuori quello spettro della mente.
Questa realtà dipinta vien fuori nelle pareti e ne' bassirilievi del
purgatorio. Nell'inferno e nel paradiso non sono pitture, perchè ivi
la realtà è natura vivente, è l'originale, di cui nel purgatorio hai
il ritratto. Inferno e paradiso sono in purgatorio, ma in pittura, come
il passato e l'avvenire delle anime, non presenti agli occhi, ma all'immaginativa.
Quelle pitture sono il loro «memento», lo spettacolo di quello
che furono, di quello che saranno, che le stimola, mette in attività
la loro mente, si che ricordano altri esempli e si affinano, si purgano.
Siamo dunque fuori della vita. Le passioni tornano innanzi alle anime,
ma non sono più le loro passioni, sono fuori di esse, contemplate in
sè o in altri con l'occhio dell'uomo pentito. Anche le virtù sono estrinseche
alle anime, contemplate al di fuori come esempli e ammaestramenti. Le
anime sono spettatrici, contemplanti, non attrici. Passioni buone o
cattive non sono in presenza e in azione, ma sono una visione dello
spirito, figurata in intagli e pitture.
Questa concezione così semplice e vera nella sua profondità è la pittura
e la scoltura, l'arte dello spazio, idealizzata nella parola e fatta
poesia. Perchè il poeta non dipinge, ma descrive il dipinto. La parola
non può riprodurre lo spazio che successivamente, e perciò è inefficace
a darti la figura, come fa il pennello e lo scarpello. Nè Dante si sforza
di dipingere, entrando in una gara assurda col pittore. Ma compie e
idealizza il dipinto, mostrando non la figura, ma la sua espressione
e impressione: dinanzi all'immaginazione la figura diviene mobile, acquista
sentimento e parola.
Le aguglie di Traiano in vista si movono al vento; la vedovella è atteggiata
di lagrime e di dolore; nell'attitudine di Maria si legge: «Ecce
ancilla Dei»; l'angiolo intagliato in atto soave non sembrava immagine
che tace:
Giurato si saria ch'ei dicesse Ave.
Davide ballando sembra più e meno che re; e gli sta
di contro Micol, che ammirava,
siccome donna dispettosa e trista.
Erano i tempi di Giotto, e parevano maravigliosi quei
primi tentativi dell'arte. Quest'alto ideale pittorico di Dante fa presentire
i miracoli del pennello italiano. Il poeta avea innanzi all'immaginazione
figure animate, parlanti, dipinte da
Colui, che mai non vide cosa nuova,
ben più vivaci che non gliele potevano offrire i suoi contemporanei.
Più in la il dipinto sparisce: senza aiuto di senso, per sua sola virtù,
lo spirito intuisce il bene e il male, ricorda i buoni e i cattivi esempli,
vede da se stesso e in se stesso. La realtà non solo non ha la sua esistenza,
come cosa sensata, il sensibile; ma neppure come figurativa, in pittura;
diviene una visione diretta dello spirito, che opera già libero e astratto
dal senso. Nasce un'altra forma dell'arte, la visione estatica. L'anima
vede farsi dentro di sè una luce improvvisa, nella quale pullulano immagini
sopra immagini come bolle d'acqua che gonfiano e sgonfiano, e l'universo
visibile si dilegua innanzi a questa luce interiore, di modo che il
«suono di mille tube» non basterebbe a rompere la contemplazione. Dante
trova forme nuove ed energiche ad esprimere questo fenomeno. Le immagini
«piovono» nell'alta fantasia; la mente è
... ... sì ristretta
dentro di se', che di fuor non venia
cosa che fosse allor da lei ricetta.
L'immaginativa ne «ruba» di fuori, sì
che uom non s'accorge
perchè d'intorno suonin mille tube.
L'anima vòlta in estasi ficca gli occhi nell'immagine
con ardente affetto:
come dicesse a Dio: - D'altro non calme -.
Tra queste visioni bellissima è quella del martirio
di santo Stefano: un quadro a contrasto, dove tra la folla inferocita
che grida: - Martira, martira -, è la figura del santo, la persona già
aggravata dalla morte e china verso terra, ma gli occhi al cielo preganti
pace e perdono: è il soprastare dell'anima nell'abbandono del corpo.
Siamo dunque in piena vita contemplativa. Il processo della santificazione
si sviluppa. Nell'inferno i tumulti e le tempeste della vita reale appassionata
dal furore de' sensi: qui entriamo in quel mondo di romiti e di santi,
in quel mondo de' misteri e delle estasi, così popolare, nel mondo di
Girolamo, di Francesco d'Assisi e di Bonaventura, dove la pittura attingea
le sue ispirazioni.
Nella visione estatica lo spirito ha già un primo grado di santificazione,
ha conquistato la sua libertà dal senso, ha già il suo paradiso; ma
è un paradiso interiore, immagine e desiderio, e non sarà realtà, paradiso
reale, se non quando quella luce e quelle immagini, vedute dallo spirito
entro di sè, sieno fuori di sè, sieno cose e non immagini. Il purgatorio
è il regno delle immagini, uno spettro dell'inferno, un simulacro del
paradiso.
Nella visione estatica lo spirito è attivo e conscio; nel sogno è passivo
e inconscio: è una forma di visione superiore, non solo senza opera
del senso, ma senza opera dello spirito; è visione divina, prodotta
da Dio. Perciò il sogno
anzi che 'l fatto sia, sa le novelle;
e l'anima
alle sue vision quasi è divina.
Nel sogno si rivela il significato delle visioni e
delle apparenze del purgatorio. Che cosa significano quelle pitture
e quelle estasi? che cosa è il purgatorio? È il regno dell'intelletto
e del vero, dove il senso è spogliato delle sue belle e piacevoli apparenze,
e mostrato qual'è, brutto e puzzolento. L'apparenza è una sirena:
Io son - cantava - io son dolce Sirena,
che i marinari in mezzo al mar dismago,
tanto son di piacere a sentir piena.
Ma una donna santa, la Verità, fende i drappi; e la
mostra qual femmina balba e scialba, e mostra il ventre:
quel mi svegliò col puzzo che ne usciva.
Vinto il senso e l'apparenza, si presenta a Dante in
sogno l'immagine della vita, non quale pare, ma qual è, la vera vita
a cui sospira e che cerca nel suo pellegrinaggio. E vede la vita nella
prima delle due sue forme, la vita attiva, lo affaticarsi nelle buone
opere per giungere alla beatitudine della vita contemplativa. La sirena
è rozzamente abbozzata: manca a Dante il senso della voluttà; senti
nel verso stesso non so che intralciato e stanco. Lia è una delle sue
più fresche creazioni, personaggio tipico così perfetto nel suo genere,
come la Fortuna. La sua felicità non è ancora beatitudine, come è della
suora che vive guardando Dio, il suo miraglio; ma appunto perciò è più
interessante e poetica, più umana, più vicina a noi questa bella fanciulla,
che va tutta lieta pel prato, e coglie fiori e se ne fa ghirlanda e
si mira allo specchio. Tale è la prima immagine che il giovine incontra
sovente ne' suoi sogni!
L'ultima forma sotto la quale si presenta la realtà è la visione simbolica,
dove la forma non significa più se stessa, ma un'altra cosa. Il purgatorio
finisce tra' simboli: è il paradiso che si offre all'anima sotto figura.
Cristo è un grifone, e il carro su cui sta è la Chiesa, e Dante ha una
serie di strane visioni, che rappresentano simbolicamente la storia
della Chiesa.
Così la realtà corpulenta e tempestosa dell'inferno si va diradando
e sottilizzando per trasformarsi nella vera realtà, lo spirito o il
paradiso. Questo processo di carne a spirito è il purgatorio, dove la
forma diviene pittura, estasi, sogno, simbolo. Il simbolo già non è
più forma, ma puro spirito, lavoro intellettuale. Sotto la figura ci
è la nuova e vera realtà, pronta a svilupparsene e comparire essa direttamente.
L'uomo del purgatorio ha i sentimenti conformi a questo stato dell'anima.
Il suo carattere è la calma interiore, assai simile alla tranquilla
gioia dell'uomo virtuoso, che nella miseria terrena sulle ali della
fede e della speranza alza lo spirito al paradiso. Le ombre sono contente
nel fuoco, gli affetti hanno dolci e temperati, il desiderio puro d'inquietudine
e d'impazienza. Ne nasce un mondo idillico, che ricorda l'età dell'oro,
dove tutto è pace e affetto, e dove si manifestano con effusione le
pure gioie dell'arte, i dolci sentimenti dell'amicizia. In questo mondo
di pitture e scolture Dante si è coronato di artisti: Casella, Sordello,
Guido Guinicelli, Buonagiunta da Lucca, Arnaldo Daniello, Oderisi, Stazio,
e ne ha cavato episodi commoventi, che fanno vibrare le fibre più delicate
del cuore umano. Ricorderò il suo incontro con Casella, e il ritratto
di Sordello, e i cari ragionamenti dell'arte con Guinicelli e Buonagiunta,
e l'incontro di Stazio e Virgilio. È un lato della vita nuovo, pur così
vero in tempi che la vita intima della famiglia, dell'arte e dell'amicizia
era un rifugio e quasi un asilo fra le tempeste della vita pubblica.
Come tocca il core l'amicizia di Dante e di Forese, fratello di Corso
Donati, il principale nemico di Dante, e quel domandar ch'egli fa di
Piccarda! I movimenti improvvisi dell'affetto e della maraviglia sono
colti con tanta felicità, che rimangono anche oggi vivi nel popolo,
come è l'«o» lungo e roco delle anime che veggon l'ombra di Dante, o
il paragone delle pecorelle, e la calma di Sordello,
a guisa di leon quando si posa,
mutata subito in un sì vivace impeto di affetti, e
Stazio che corre incontro a Virgilio per abbracciarlo, obliando di essere
un'ombra, e il cerchio dell'anime intorno a Dante,
quasi obliando d'ire a farsi belle,
e Casella che se ne spicca e si gitta tra le braccia
di Dante:
Oh ombre vane, fuor che nell'aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Questa intimità, questo tenere nel cuore un cantuccio
chiuso al mondo, riservato alla famiglia, agli amici, all'arte, alla
natura, quasi tempio domestico, impenetrabile a' profani, è il mondo
rappresentato nel Purgatorio. Le ricordanze de' casi anche più
tristi sono pure di amarezza, raddolcite dalle speranze dell'ultimo
giorno. Manfredi non ha una ingiuria per i suoi nemici, chiede perdono,
ed ha già perdonato.
Io mi rendei
piangendo a quei che volentier perdona.
Buonconte di Montefeltro racconta le circostanze più
strazianti della sua morte con una calma e una serenità, che diresti
indifferenza, se non te ne rivelasse il secreto il sentimento espresso
in questi versi:
Qui vi perdei la vista
nel nome di Maria finio, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Ciascuno ha conservato in quel cantuccio del cuore
il suo tempio domestico. Ciascuno vuol essere ricordato a' suoi diletti.
Come è caro quel Forese con quel «Nella mia»,
la vedovella mia che tanto amai!
E Buonconte ricorda la sua Giovanna e gli altri che
si sono dimenticati di lui, e Manfredi vuol essere ricordato a Costanza,
e Iacopo a' suoi fanesi, che pregassero per lui: la sola Pia non ha
alcun nome nel suo santuario domestico, e non ha che Dante che possa
ricordarsi di lei:
ricordati di me, che son la Pia.
Questo mondo così affettuoso è penetrato di malinconia:
sentimento nuovo, che avrà tanta parte nella poesia moderna, e generato
qui, nel Purgatorio. Questo sentimento ti prende a udir la Pia,
così delicata nella solitudine del suo cuore; eppure non era sola, e
ricorda la gemma, pegno d'amore. La tenerezza e delicatezza de' sentimenti
dispone l'animo alla malinconia: perchè malinconia non è se non dolce
dolore, dolore raddolcito da immagini care e tenere. Richiede perciò
anime raccolte che vivano in fantasia, sieno «pensose», non distratte
dal mondo, chiuse nella loro intimità La malinconia è il frutto più
delicato di questo mondo intimo. Come ti va al core quell'ora che incomincia
i tristi lai la rondinella, presso alla mattina, e quella squilla di
lontano,
che pare il giorno pianger che si more,
e quell'ora della sera che i naviganti partono e s'inteneriscono
pensando
lo dì c'han detto a' dolci amici: addio!
Qui Dante gitta via l'astronomia, che rende spesso
così aride le sue albe e le sue primavere, e rende tutte le dolcezze
di una natura malinconica. Tra le scene più intime, più penetrate di
malinconia, è il suo incontro con Casella. Cominciano espansioni di
affetto. Nel primo impeto corrono ad abbracciarsi. Casella dice:
Così com'io t'amai
nel mortal corpo, così t'amo sciolta.
Dante risponde: - Casella mio! - e lo prega a voler
cantare, come faceva in vita, che col canto gli acquietava l'anima,
e ora l'anima sua è così affannata. E Casella canta una poesia di Dante,
e Dante e Virgilio e le anime fanno cerchio, rapite, dimentiche del
purgatorio, sgridate da Catone. Ma se Catone non perdona, perdonano
le muse. Quest'oblio del purgatorio, questa musica che ci riconduce
alle care memorie della vita, la terra che scende nell'altro mondo e
si impossessa delle anime, sì che obliano di essere ombre e vogliono
abbracciare gli amici e pendono dalla bocca di Casella, questo è poesia.
Ci si sente qua dentro la malinconia dell'esilio, l'uomo che giovine
ancora desiderava con la sua Bice e i suoi amici e le loro donne ritrarsi
in un'isola e farne il santuario dei suoi affetti e obliarvi il mondo.
E c'è la malinconia propria del purgatorio, quel vedere di là con mutati
occhi le grandezze e gli affetti terreni, quel disabbellirsi della vita,
quel cadere di tutte le illusioni:
Non è il mondan rumore altro ch'un fiato
di vento, ch'or vien quinci ed or vien quindi,
e muta nome perchè muta lato.
Una delle figure più interessanti è Adriano. All'ultimo
della grandezza dice:
Vidi che lì non si quetava il core,
ne più salir poteasi in quella vita;
per che di questa in me s'accese amore.
Questo papa disilluso ha lunga e mala parentela, e
sono tutti morti per lui, eccetto la buona Alagia:
E questa sola m'è di la rimasa.
Quest'ultimo verso è pregno di malinconia.
Questa calma filosofica, che fa guardare dall'alto del purgatorio la
vita e ne scopre il vano e il nulla, restringe il circolo della personalità
e della realtà terrena. Gli individui appariscono e spariscono, appena
disegnati; hanno la bellezza, ma anche la monotonia e l'immobilità della
calma. Sono uomini che discutono e conversano in una sala, più che uomini
agitati e appassionati. I grandi individui storici, le grandi creature
della fantasia scompariscono.
Più che negli individui la vita si manifesta nei gruppi: la vita qui
è meno individuo che genere. La comune anima ha la sua espressione nel
canto. Nell'inferno non ci son cori; perchè non vi è l'unità dell'amore.
L'odio è solitario; l'amore è simpatia e armonia; la musica e il canto
conseguono i loro effetti nella misurata varietà delle voci e degl'istrumenti.
Qui le anime sono esseri musicali, che escono dalla loro coscienza individuale,
assorte in uno stesso spirito di carità:
Una parola era in tutto e un modo,
sì che parea tra esse ogni concordia.
Le anime compariscono a gruppi e cantano salmi e inni,
espressione varia di dolore, di speranza, di preghiera, di letizia,
di lodi al Signore. Quando giungono al purgatorio, le odi cantare: «In
exitu Israel de Aegypto». Giungono nella valle, ed ecco intonare
il Salve Regina. La sera odi l'inno: «Te lucis ante terminum Rerum
creator poscimus». Entrando nel purgatorio, risuona il Te Deum.
Sono i salmi e gl'inni della Chiesa, cantati secondo le varie occasioni,
e di cui il poeta dice le prime parole. Ti par d'essere in chiesa e
udir cantare i fedeli. Quei canti latini erano allora nella bocca di
tutti, erano cantati da tutti in chiesa; il primo verso bastava a ricordarli.
Il poeta ha creduto bastar questo ad accendere ne' petti l'entusiasmo
religioso. E forse bastava allora, quando quei versi suscitavano tante
rimembranze e immagini della vita religiosa. La poesia qui non è nella
rappresentazione, ma in quei lettori e in quei tempi. Un nome, una parola
basta in certi tempi a produrre tutto l'effetto: con quei tempi se ne
va la loro poesia, e restano cosa morta. Molte parti del poema dantesco,
aride liste di nomi e di fatti, soprattutto le allusioni politiche,
allora così vive, oggi son morte. E tutta questa lirica del purgatorio
è cosa morta. Perchè Dante non crea dal suo seno quei sentimenti, ma
li trova belli e scritti ne' canti latini, e si contenta di dirne le
prime parole. Pure, la situazione delle anime purganti è altamente lirica;
la loro personalità non è individuale, ma collettiva, e l'espressione
di quella comune anima svegliatasi in loro è l'onda canora de' sentimenti.
Qui mancò la vena e la forza al gran poeta, e si rimise a Davide di
quello ch'era suo compito. Più che visioni e simboli e dipinti, la vita
del purgatorio era questa effusione lirica di dolore, di speranza, di
amore, di quell'incendio interiore che rende le anime affettuose, concordi
in uno stesso spirito di carità. Ha saputo così ben dipingerle queste
anime ardenti, che s'incontrano, si baciano e vanno innanzi, tirate
su verso il cielo!
Li veggio d'ogni parte farsi presta
ciascun'ombra, e baciarsi una con una,
senza restar, contente a breve feste.
Così per entro loro schiera bruna
s'ammusa l'una con l'altra formica,
forse a spiar lor via e lor fortuna.
E che poteva e sapeva con pari felicità esprimere i
loro sentimenti, non solo il vago e l'indeterminato, ma anche il proprio
e il successivo, ed essere il Davide del suo purgatorio, lo mostra il
suo «paternostro», rimaso canto solitario.
Le fuggitive apparizioni degli angeli sono quasi immagine anticipata
del paradiso nel luogo della speranza. In essi non e alcuna subbiettività:
sono forme eteree vestite di luce, fluttuanti come le mistiche visioni
dell'estasi, e nondimeno ciascuna con propria apparenza e attitudine.
Tal che parea beato per iscritto...
Verdi come fogliette pur mo' nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate...
Ben discernea in lor la testa bionda,
ma nelle facce l'occhio si smarria,
come virtù ch'a troppo si confonda...
A noi venìa la creatura bella,
bianco vestita, e nella faccia quale
par tremolando mattutina stella.
Molto per la pittura, poco per la poesia. Manca la
parola, manca la personalità. Ci è il corpo dell'angiolo; non ci è l'angiolo.
Nelle dolci note, tra quelle forme d'angioli, l'anima s'infutura, «gusta
le primizie del piacere eterno». Di che prende qualità la natura del
purgatorio, una montagna, scala al paradiso, in principio faticosa a
salire:
E quanto uom più va su, e men fa male.
Però quando ella ti parrà soave
tanto che il su andar ti sia leggiero,
com'a seconda in giuso l'andar con nave,
allor sarai al fin d'esto sentiero.
Il luogo è rallegrato da luce non propria, ma riflessa
dal sole e dalle stelle, che sono il paradiso dantesco. La prima impressione
della luce, uscendo dall'inferno, cava a Dante questa bella immagine:
Dolce color d'oriental zaffiro
che s'accoglieva nel sereno aspetto
dell'aer puro infino al primo giro,
agli occhi miei ricomincio diletto.
La natura è l'accordo musicale e la voce di quel di
dentro: qui natura, angeli e anime sono un solo canto, un solo universo
lirico. Scena stupenda è nel canto settimo, maravigliosa consonanza
tra le ombre sedute, quete, che cantano «Salve Regina», e la
vista allegra del seno erboso e fiorito dove stanno:
Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavità di mille odori
vi faceva un incognito indistinto.
«Salve Regina» in sul verde e in su' fiori
quindi seder, cantando, anime vidi.
Le anime piangono e cantano, e il luogo alpestre è
lieto di apriche valli e di campi odorati: il quale contrasto ha termine,
quando l'anima si leva con libera volontà a miglior soglia, tolte le
«schiume della coscienza», con pura letizia. Così come nell'inferno
si scende sino al pozzo ghiacciato della morte, nel purgatorio si sale
sino al paradiso terrestre, immagine terrena del paradiso, dove l'anima
è monda del peccato o della carne, e rifatta bella e innocente. Tutto
è qui che alletti lo sguardo e lusinghi l'immaginazione: riso di cielo,
canti di uccelli, vaghezza di fiori, e tremolar di fronde e mormorare
di acque, descritto con dolcezza e melodia, ma insieme con tale austera
misura, che non dà luogo a mollezza ed ebbrezza di sensi, nè il diletto
turba la calma.
Il purgatorio è il centro di questo mistero o commedia dell'anima; è
qua che il nodo si scioglie. Dante, più che spettatore è attore. Uscito
dall'inferno, appena all'ingresso del purgatorio l'angiolo incide sulla
sua fronte sette «P», che sono i sette peccati mortali, che si purgano
ne' sette gironi. Da un girone all'altro una «P» scomparisce dalla fronte,
finchè van via tutte, e puro e rinnovellato giunge al paradiso terrestre.
Passa da uno stato nell'altro in sonno, cioè a dire per virtù della
grazia, senza sua coscienza. È Lucia, «nemica di ciascun crudele», che
lo piglia dormente e sognante, e lo conduce in purgatorio. Così la storia
intima dell'anima, i suoi errori, le passioni, i traviamenti, i pentimenti,
sono storia esterna e simbolica: il dramma è strozzato nella sua culla.
La crisi del dramma, il punto in cui il nodo si scioglie, e il pentimento,
l'anima che si riconosce, e caccia via da sè il peccato, e si pente
e si vergogna e ne fa confessione. A questo punto il dramma si fa umano,
e ciò che avrebbe potuto far Dante, si vede da quello che ha fatto qui;
ma una storia intima, personale, drammatica dell'anima, com'è il Faust,
non era possibile in tempi ancora epici, simbolici, mistici e scolastici.
Qui tutt'i personaggi del dramma si trovano a fronte. Di qua Dante,
Virgilio, Stazio; di là Beatrice con gli angeli; in mezzo e il rio che
li divide, bipartito in due fiumi, Lete, l'obblio, ed Eunoè, la forza.
Nell'uno l'anima si spoglia della scoria del passato; nell'altra attinge
virtù di salire alle stelle.
L'alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Lete si passasse, e tal vivanda
fosse gustata senza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda.
Di là è Matilde, che tuffa le anime, pagato lo scotto
del pentimento, e le passa all'altra riva, rifatte nell'antico stato
d'innocenza. E lo specchio dell'anima rinnovellata è Matilde, che danza
e sceglie fiori, in sembianza ancora umana, celeste creatura, con l'ingenua
giocondità di fanciulla, con la leggerezza di una silfide, col pudico
sguardo di vergine, il viso radiante di luce. Tale era Lia, affacciatasi
al poeta in sogno, il presentimento di Matilde, il nunzio del paradiso
terrestre.
La scena dove questo mistero dell'anima si scioglie ha le sacre e venerabili
apparenze di un mistero liturgico, una di quelle sacre rappresentazioni
che si facevano durante le processioni. Vedi una Chiesa animata e ambulante
in processione: sette candelabri, che a distanza parevano sette alberi
d'oro, e dietro gente vestita di bianco che canta «Osanna», e
le fiammelle lasciano dietro di sè lunghe liste lucenti, e sotto questo
cielo di luce sfila la processione. Ecco a due a due i profeti e i patriarchi
dell'antico Testamento, sono ventiquattro seniori coronati di giglio:
Tutti cantavan: - Benedetta tue
nelle figlie di Adamo, e benedette
sieno in eterno le bellezze tue. -
Segue la Chiesa in figura di carro trionfale, a due
ruote (i due testamenti), tra quattro animali (i quattro vangeli), tirato
da un grifone, simbolo di Cristo; a destra Fede, Speranza e Carità;
a sinistra Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza, vestite di porpora;
dietro due vecchi, san Luca e san Paolo, e dietro a loro, quattro in
umile paruta, forse gli scrittori dell'Epistole, e solo e dormente
san Giovanni dall'Apocalisse:
E diretro da tutti un veglio solo
venir dormendo con la faccia arguta.
Si ode un tuono. La processione si ferma. Comincia
la rappresentazione. Virgilio guarda attonito, non meno che Dante. Il
senso di quella processione allegorica gli sfugge. La missione del savio
pagano è finita. Hai innanzi la dottrina nuova, la Chiesa di Cristo
co' suoi profeti e patriarchi, co' suoi evangelisti e apostoli, co'
suoi libri santi.
Fermata la processione, uno canta e gli altri ripetono: «Veni sponsa,
de Libano», e sul carro si leva moltitudine di angioli che cantano
e gittano fiori.
Tutti dicean: - Benedictus qui venis
e fior gittando di sopra e dintorno
manibus o date lilia plenis. -
Tra questa nuvola di fiori appare donna sovra candido
velo, cinta d'oliva, sotto verde manto, vestita di colore di fiamma;
appare come la Madonna nelle processioni, sotto i fiori che le gittano
dalle finestre i fedeli. Dante non la vede, ma la sente: è Beatrice.
Quest'apoteosi di Beatrice, questo primo apparire della sua donna ancora
velata fra tanta gloria, scioglie l'immaginazione dalla rigidità de'
simboli e de' riti, e le dà le libere ali dell'arte. Il dramma si fa
umano; spuntano le immagini e i sentimenti:
Io vidi già nel cominciar del giorno
le parte oriental tutta rosata,
e l'altro ciel di bel sereno adorno
e la faccia del sol nascere ombrata
sì chè per temperanza di vapori
l'occhio la sostenea lunga fiata.
Così dentro una nuvola di fiori,
che dalle mani angeliche saliva
e ricadeva giù dentro e di fuori,
sovra candido vel, cinta di oliva
donna m'apparve sotto il verde manto
vestita di color di fiamma viva.
L'apparire di Beatrice è lo sparire di Virgilio. Qui
l'astrattezza del simbolo è superata. Ti senti innanzi ad un'anima d'uomo.
Quella donna è la sua Beatrice, l'amore della sua prima giovinezza;
e Virgilio e il dolcissimo padre che sparisce, quando più ne aveva bisogno,
quando era proprio come un fantolino in paura che si volge alla mamma;
e si volge, e non lo vede più, e lo chiama tre volte per nome nella
mente sbigottita. Il mistero liturgico si trasforma in un dramma moderno:
E lo spirito mio che già cotanto
tempo era stato ch'alla sua presenza
non era di stupor tremando affranto,
senza dagli occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d'antico amor sentì la gran potenza.
Tosto che nella vista mi percosse
l'alta virtù che già m'avea trafitto
prima ch'io fuor di puerizia fosse,
volsimi alla sinistra, col respitto
col quale il fantolin corre alla mamma,
quando ha paura o quando egli è afflitto,
per dicer a Virgilio: - Men che dramma
di sangue m'è rimaso, che non tremi;
conosco i segni dell'antica fiamma -.
Ma Virgilio ne avea lasciati scemi
di sè; Virgilio dolcissimo padre,
Virgilio, a cui per mia salute dièmi.
Dal pianto di Dante esce un felicissimo passaggio per
introdurre in iscena Beatrice:
Dante, perchè Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora,
che pianger ti convien per altra spada.
Gli occhi di Dante sono là verso la donna, che lo chiama
per nome:
Guardami ben: ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d'accedere al monte?
Non sapei tu che qui l'uomo è felice?
E gli occhi cadono nella fontana, e non sostenendo
la propria vista, cadono sull'erba:
Gli occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, io trassi all'erba:
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Qui è la prima volta e sola che un'azione è rappresentata
nel suo cammino e nel suo svolgimento, come in un mistero, e Dante vi
rivela un ingegno drammatico superiore. I più intimi e rapidi movimenti
dell'animo scappan fuori; i due attori, Dante e Beatrice, vi sono perfettamente
disegnati; gli angioli fanno coro e intervengono. La scena è rapida,
calda, piena di movimenti e di gradazioni fini e profonde. La vergogna
di Dante senza lacrime e sospiri giunge a poco a poco sino al pianto
dirotto. Dapprima sta li più attonito che compunto, ma quando gli angioli
nel loro canto hanno aria di compatirgli, come se dicessero: «Donna,
perchè sì lo stempre?» scoppia il pianto. Quello che non potè il rimprovero,
ottiene il compatimento. Gradazione vera e profonda e rappresentata
con rara evidenza d'immagine. Instando Beatrice: - Di' di', se questo
è vero -, tra confusione e vergogna, esitando e incalzato gli esce un
tale «sì» dalla bocca, che si poteva vedere, ma non udire:
al quale intender fur mestier le viste.
I sentimenti dell'animo scoppiano con tanta ingenuità
e naturalezza, che rasentano il grottesco; quando Beatrice dice: «Alza
la barba», il nostro dottore con linguaggio della scuola riflette:
e quando per la «barba» il «viso» chiese,
ben conobbi 'l velen dell'argomento.
Il berretto dottorale spunta tutto ad un tratto sul
capo di Dante fra le lacrime e i sospiri, e dà a questa magnifica storia
del cuore un colorito locale.
Queste gradazioni corrispondono alle parole di Beatrice. Qui non ci
è dialogo: è lei che parla: le risposte di Dante sono le sue emozioni.
Pure non ci è monotonia, ne declamazione: tutto esce da una situazione
vera e finamente analizzata. «Regalmente proterva», la sua severità
è raddolcita poi dal canto degli angioli. Beatrice non parla più a Dante:
parla agli angioli, e narra loro la storia di Dante. La situazione diviene
meno appassionata, ma più elevata: mai la poesia non s'era alzata a
un linguaggio sì nobile; lo spiritualismo cristiano trovava la sua musa:
Quando di carne a spirto era salita
e bellezza e virtù cresciuta m'era,
fu' io a lui men cara e men gradita:
e torse i passi suoi per via non vera,
immagini di ben seguendo false,
che nulla promission rendono intera.
Poi si volta a Dante, e il discorso diviene personale,
stringente, implacabile nella sua logica. E una sola idea sotto varie
forme, ostinata, insistente, che vuole da Dante una risposta. - Sei
uomo, hai la barba: come potesti preferire a me le cose fallaci della
terra,
o pargoletta,
o altra vanità per sì breve uso?
- E quando Dante potè formare la voce, viene la risposta:
... ... Le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che 'l vostro viso si nascose.
Come si vede, è l'antica lotta tra il senso e la ragione
che qui ha il suo termine; è la vita tragica dell'anima fra gli errori
e le battaglie del senso, che qui si scioglie in commedia, cioè in lieto
fine, con la vittoria dello spirito. L'idea è più che trasparente, è
manifestata direttamente nel suo linguaggio teologico. Ma l'idea e calata
nella realtà della vita e produce una vera scena drammatica, con tale
fusione di terreno e di celeste, di passione e di ragione, di concreto
e di astratto, che vi trovi la stoffa da cui dovea sorgere più tardi
il dramma spagnuolo.
Dante, pentito, tuffato nel fiume Lete, e menato a Beatrice dalle virtù,
sue ancelle:
Noi sem qui ninfe; e nel ciel semo stelle.
Pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Menrenti agli occhi suoi...
E Beatrice gli svela la sua faccia. Non è poesia che
possa rendere quello che Dante vede, quello che sente:
O isplendor di viva luce eterna,
chi pallido si fece sotto l'ombra
sì di Parnasso, e bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te, qual tu paresti,
là, dove armonizzando il ciel ti adombra,
quando nell'aere aperto ti solvesti?
Compiuta la rappresentazione, ricomincia la processione
sino all'albero della vita, dove, antitesi a questa Chiesa gloriosa
di Cristo, apparisce in visione allegorica la Chiesa terrena, trafitta
dall'impero, travagliata dall'eresia, corrotta dal dono di Costantino,
smembrata da Maometto, e in ultimo meretrice fra le braccia del re di
Francia. Concetto stupendo, questo apparire della vita terrena nell'ultimo
del purgatorio, germogliata dall'albero infausto del peccato di Adamo.
Il terreno apparisce quando ci si dilegua per sempre dinanzi, non solo
in realtà, ma in ricordanza. Siamo già alla soglia del paradiso.
Così finisce questa processione dantesca, una delle concezioni più grandiose
del poema, anzi in sè sola tutto un poema, dove ci vediamo sfilare davanti
tutt'i grandi personaggi della Chiesa celeste, immagine anticipata del
regno di Dio, un'apoteosi del cristianesimo, entro di cui si rappresenta
il più alto mistero liturgico, la Commedia dell'anima.
Questa processione dove far molta impressione in quei tempi delle processioni,
de' misteri e delle allegorie, quando gli angeli, le virtù e i vizi,
e Cristo e Dio stesso entravano in iscena. Ma è appunto questo carattere
liturgico e simbolico, che qui scema in gran parte la bellezza della
poesia. Questo difetto nuoce soprattutto nella rappresentazione della
Chiesa terrena, dove l'aquila, la volpe, e il drago e il gigante e la
meretrice rimpiccoliscono un concetto così magnifico, una storia così
interessante.
Lo stesso contrasto si affaccia a Dante, quando il mantovano Sordello,
sentendo Virgilio esser di Mantova, esce dalla sua calma di leone:
O mantovano, io son Sordello.
della tua terra. - E l'un l'altro abbracciava.
E Dante pensa alla sua Firenze, dove
... ... l'un l'altro si rode
di quei che un muro e una fossa serra.
Qui non è impigliato nelle allegorie. Scoppia il contrasto
impetuoso, eloquente, e n'esce una poesia tutta cose, dove si riflettono
i più diversi movimenti dell'animo, il dolore, lo sdegno, la pietà,
l'ironia, una calma tristezza.
Il Purgatorio è il dolce rifugio della vecchiezza.
Quando la vita si disabbella a' nostri sguardi, quando le volgiamo le
spalle e ci chiudiamo nella santità degli affetti domestici tra la famiglia
e gli amici, nelle opere dell'arte e del pensiero, il Purgatorio
ci s'illumina di viva luce e diviene il nostro libro, e ci scopriamo
molte delicate bellezze, una gran parte di noi. Fu il libro di Lamennais,
di Balbo, di Schlosser.
Viene il Paradiso. Altro concetto, altra vita, altre forme.
Il paradiso e il regno dello spirito, venuto a libertà, emancipato dalla
carne o dal senso, perciò il soprasensibile, o come dice Dante, il trasumanare,
il di la dall'umano. È quel regno della filosofia che Dante volea realizzare
in terra, il regno della pace, dove intelletto, amore e atto sono una
cosa. Amore conduce lo spirito al supremo intelletto, e il supremo intelletto
è insieme supremo atto. La triade è insieme unità. Quando l'uomo è alzato
dall'amore fino a Dio, hai la congiunzione dell'umano e del divino,
il sommo bene, il paradiso.
Questo ascetismo o misticismo non è dottrina astratta, è una forma della
vita umana. Ci è nel nostro spirito un di là, ciò che dicesi il sentimento
dell'infinito, la cui esistenza si rivela più chiaramente alle nature
elevate.
L'arte antica avea materializzato questo di là, umanando il cielo, e
la filosofia partendo dalle più diverse direzioni era giunta a questa
conclusione pratica, che l'ideale della saggezza, e perciò della felicità,
è posto nella eguaglianza dell'animo, ciò che dicevasi «apatia», affrancamento
dalle passioni e dalla carne: pagana tranquillità, che vedi nelle figure
quiete e serene e semplici dell'arte greca.
Questa calma filosofica trovi nelle figure eroiche del limbo:
Sembianza avevan ne' trista ne' lieta...
Parlavan rado, con passi soavi
Virgilio n'è il tipo più puro, le cui impressioni vanno
di rado al di là di un sospiro, o di un movimento tosto represso. Questa
calma è la fisonomia del purgatorio, il carattere più spiccato di quelle
anime, dove l'aspirazione al cielo è senza inquietudine, sicure di salirvi
quandochessia. Ma già in quelle anime penetra un elemento nuovo, l'estasi,
il rapimento, la contemplazione; ci sta Catone, ma irradiato di luce.
Col cristianesimo s'era restaurato nello spirito questo inquieto di
là, e divenne in breve molta parte della vita, anzi la principale occupazione
della vita. E si sviluppò un'arte e una letteratura conforme. Chi vede
gli ammirabili mosaici del paradiso sotto le cupole di San Marco e di
San Giovanni Laterano, o le facce estatiche de' santi consumate dal
fervore divino ha innanzi stampato il tipo di questo uomo nuovo. Quel
di là, il celeste, il divino, appare su quelle facce, come appare nella
Città di Dio di santo Agostino e nella Dieta salutis di
san Bonaventura. A questa immagine avea composta la sua Gerusalemme
celeste frate Giacomino da Verona nel secolo decimoterzo.
Questo di là, intravveduto nelle estasi, ne' sogni, nelle visioni nelle
allegorie del purgatorio, eccolo qui nella sua sostanza, è il paradiso.
Il quale intravveduto nella vita ha una forma, e può essere arte; ma
non si concepisce come, veduto ora nella sua purezza, come regno dello
spirito, possa avere una rappresentazione. Il paradiso può essere un
canto lirico, che contenga. non la descrizione di cosa che è al di sopra
della forma, ma la vaga aspirazione dell'anima a «non so che divino»,
ed anche allora l'obietto del desiderio, pur rimanendo «un incognito
indistinto», riceve la sua bellezza da immagini terrene, come nell'Aspirazione
e nel Pellegrino di Schiller, e in questi bei versi del Purgatorio,
imitati dal Tasso:
Chiamavi il cielo e intorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze eterne.
Per rendere artistico il paradiso, Dante ha immaginato
un paradiso umano, accessibile al senso e all'immaginazione. In paradiso
non c'è canto, e non luce e non riso; ma essendo Dante spettatore terreno
del paradiso, lo vede sotto forme terrene:
Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultade, e mani e piedi
attribuisce a Dio ed altro intende.
Così Dante ha potuto conciliare la teologia e l'arte.
Il paradiso teologico è spirito, fuori del senso e dell'immaginazione,
e dell'intelletto; Dante gli dà parvenza umana e lo rende sensibile
ed intelligibile. Le anime ridono, cantano, ragionano come uomini. Questo
rende il paradiso accessibile all'arte.
Siamo all'ultima dissoluzione della forma. Corpulenta e materiale nell'Inferno,
pittorica e fantastica nel Purgatorio, qui è lirica e musicale,
immediata parvenza dello spirito, assoluta luce senza contenuto, fascia
e cerchio dello spirito, non esso spirito. Il purgatorio, come la terra,
riceve la luce dal sole e dalle stelle, e queste l'hanno immediatamente
da Dio, sicchè le anime purganti, come gli uomini, veggono il sole,
e nel sole intravvedono Dio, offertosi già alla fantasia popolare come
emanazione di luce; ma i beati intuiscono Dio direttamente per la luce
che move da lui senza mezzo:
lume che a lui veder ne condiziona.
Adunque il paradiso e la più spirituale manifestazione
di Dio; e perciò di tutte le forme non rimane altro che luce, di tutti
gli affetti non altro che amore, di tutt'i sentimenti non altro che
beatitudine, di tutti gli atti non altro che contemplazione. Amore,
beatitudine, contemplazione prendono anche forma di luce; gli spiriti
si scaldano ai raggi d'amore; la beatitudine o letizia sfavilla negli
occhi e fiammeggia nel riso; e la verità è siccome in uno specchio dipinta
nel cospetto eterno:
Luce intellettual piena d'amore,
amor di vero ben pien di letizia,
letizia che trascende ogni dolzore.
Gli affetti e i pensieri delle anime si manifestano
con la luce; l'ira di san Pietro fa trascolorare tutto il paradiso.
Il paradiso ha ancora la sua storia e il suo progresso, come l'inferno
e il purgatorio. È una progressiva manifestazione dello spirito o di
Dio in una forma sempre più sottile sino al suo compiuto sparire, manifestazione
ascendente di Dio che risponde a' diversi ordini o gradi di virtù. Sali
di stella in stella, come di virtù in virtù, sino al cielo empireo,
soggiorno di Dio.
Ad esprimere queste gradazioni, unica forma è la luce. Perciò non hai
qui, come nell'inferno o nel purgatorio, differenze qualitative, ma
unicamente quantitative, un più e un meno. Prima la luce non è così
viva che celi la faccia umana; più si sale e più la luce occulta le
forme come in un santuario. Come è la luce, così è il riso di Beatrice,
un «crescendo» superiore ad ogni determinazione; la fantasia, formando,
non può seguire l'intelletto, che distingue. Bene il poeta vi adopera
l'estremo del suo ingegno, conscio della grandezza e difficoltà dell'impresa:
L'acqua ch'io prendo giammai non si corse.
Minerva spira e conducemi Apollo,
e nove Muse mi dimostran l'Orse.
Dapprima caldo di questo mondo, sua fattura, allettato
dalla novità o dal maraviglioso de' fenomeni che gli si affacciano,
le immagini gli escono vivaci, peregrine; poi quasi stanco diviene arido
e dà in sottigliezze; ma lo vedi rilevarsi e poggiare più e più a inarrivabile
altezza, sereno, estatico: diresti che la difficoltà lo alletti, la
novità lo rinfranchi, l'infinito lo esalti.
Il paradiso propriamente detto è il cielo empireo, immobile e che tutto
move, centro dell'universo. Ivi sono gli spiriti, ma secondo i gradi
de' loro meriti e della loro beatitudine appariscono ne' nove cieli
che girano intorno alla terra, la luna, Mercurio, Venere, il sole, Marte,
Giove, Saturno, le stelle fisse e il primo mobile. Ne' primi sette cieli,
che sono i sette pianeti, ti sta avanti tutta la vita terrena. La luna
è una specie di avanti-paradiso. I negligenti aprono l'inferno e il
purgatorio, e aprono anche il paradiso. E i negligenti del paradiso
sono i manchevoli non per volontà propria, ma per violenza altrui. Il
loro merito non è pieno, perchè mancò loro quella forza di volontà che
tenne Lorenzo sulla grata e fe' Muzio severo alla sua mano. Perciò in
loro rimane ancora un vestigio della terra: la faccia umana. In Mercurio,
Venere, il sole, Marte, Giove hai le glorie della vita attiva, i legislatori,
gli amanti, i dottori, i martiri, i giusti. In Saturno hai la corona
e la perfezione della vita, i contemplanti. Percorsi i diversi gradi
di virtù, comincia il tripudio, o come dice il poeta, il trionfo della
beatitudine. Ed hai nelle stelle fisse il trionfo di Cristo, nel primo
mobile il trionfo degli angioli, e nell'empireo la visione di Dio, la
congiunzione dell'umano e del divino, dove s'acqueta il desiderio. Questa
storia del paradiso secondo i diversi gradi di beatitudine ha la sua
forma ne' diversi gradi di luce.
La luce, veste e fascia delle anime, è la sola superstite di tutte le
forme terrene, e non è vera forma, ma semplice parvenza e illusione
dell'occhio mortale. Essa è la stessa beatitudine, la letizia delle
anime, che prende quell'aspetto agli occhi di Dante:
La mia letizia mi ti tien celato
che mi raggia d'intorno e mi nasconde
quasi animal di sua seta fasciato.
Queste parvenze dell'interna letizia si atteggiano,
si determinano, si configurano ne' più diversi modi, e non sono altro
che i sentimenti o i pensieri delle anime che paion fuori in quelle
forme. E n'esce la natura del paradiso, luce diversamente atteggiata
e configurata, che ha aspetto or di aquila, or di croci, or di cerchio,
or di costellazione, ora di scala, con viste nuove e maravigliose. Queste
combinazioni di luce non sono altro che gruppi d'anime, che esprimono
i loro pensieri co' loro moti e atteggiamenti. A rendere intelligibili
le parvenze di questo mondo di luce, il poeta si tira appresso la natura
terrestre e ne coglie i fenomeni più fuggevoli, più delicati, e ne fa
lo specchio della natura celeste. Così rientra la terra in paradiso,
non come sostanziale, ma come immagine, parvenza delle parvenze celesti.
È la terra che rende amabile questo paradiso di Dante; è il sentimento
della natura che diffonde la vita tra queste combinazioni ingegnose
e simboliche. La terra ha pure la sua parte di paradiso, ed è in quei
fenomeni che inebbriano, innalzano l'animo e lo dispongono alla tenerezza
e all'amore: trovi qui tutto che in terra è di più etereo, di più sfumato,
di più soave. E come l'impressione estetica nasce appunto da questo
profondo sentimento della natura terrestre, avviene che il lettore ricorda
il paragone, senza quasi più sapere a che cosa si riferisca. Questi
paragoni di Dante sono le vere gemme del Paradiso:
Come a raggio di sol che puro mèi
per fratta nube, già prato di fiori
vider coverti d'ombra gli occhi miei;
vid'io così più turbe di splendori
fulgorati di su da' raggi ardenti,
senza veder principio di fulgori.
Sì come 'l Sol che si cela egli stessi
per troppa luce, quando il caldo ha rose
le temperanze de' vapori spessi,
per più letizia sì mi si nascose
dentro al suo raggio la figura santa,
e così chiusa chiusa mi rispose...
Come l'augello, intra l'amate fronde,
posato al nido de' suoi dolci nati,
la notte che le cose ci nasconde,
che per veder gli aspetti desiati
e per trovar lo cibo onde gli pasca,
in che i gravi labori gli sono grati,
previene 'l tempo in su l'aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur se l'alba nasca...
... come orologio che ne chiami
nell'ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perchè l'ami;
che l'una parte e l'altra tira ed urge,
«tin tin» sonando con si dolce nota,
che il ben disposto spirto d'amor turge...
... e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
Qual lodoletta che in aere si spazia,
prima cantando e poi tace contenta
dell'ultima dolcezza che la sazia...
Pareva a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.
Per entro sè l'eterna margherita
ne ricevette, com'acqua recepe
raggio di luce, rimanendo unita.
Siccome schiera d'api che s'infiora
una fiata, ed una si ritorna
là dove suo lavoro s'insapora...
E vidi lume in forma di riviera,
fulvido di fulgore, intra duo rive,
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d'ogni parte si mettean ne' fiori
quasi rubin che oro circoscrive.
Poi come inebriate dagli odori
riprofondavan sè nel miro gurge;
e s'una entrava, un'altra usciane fuori.
Queste tre ultime terzine sono mirabili di spontaneità
e di evidenza. Il poeta ha circonfuso le celesti sustanze di tutto ciò
che in terra è più ridente e smagliante. Siamo nell'empireo. La virtù
visiva è stanca, ma si raccende alle parole di Beatrice, sì che gli
appare la riviera di luce, e fortificata la vista in quella riviera,
in quei fiori inebbrianti, in quell'oro, in quei rubini, in quelle vive
faville, Dante discerne ambo le corti del cielo nel santo delirio del
loro tripudio. Ma in verità gli scanni de' beati sono meno poetici di
queste due rive dipinte di mirabil primavera.
Ma la forma, come parvenza dello spirito, è un press'a poco, un quasi,
un come, «fioca e corta» al concetto. Questa impotenza della forma produce
un sublime negativo, che Dante esprime con l'energia intellettuale di
chi ha vivo il sentimento dell'infinito:
... appressando sè al suo desire
nostro intelletto si profonda tanto
che la memoria retro non può ire.
... ogni minor natura
è corto recettacolo a quel bene,
che non ha fine e sè con sè misura.
... nella giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
com'occhio per lo mare, entro s'interna;
chè, benchè dalla proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
egli è, ma 'l cela lui l'esser profondo.
La letizia che move le anime e «trascende ogni dolzore»,
non è se non beatitudine. E rende beate le anime l'entusiasmo dell'amore
e la chiarezza intellettiva, o come dice Dante, «luce intellettual piena
d'amore». Esse hanno allegro il cuore e allegra la mente. Nel cuore
è perenne desiderio e perenne appagamento. Nella mente la verità sta
come «dipinta».
La luce è forma inadeguata della beatitudine. Ti dà la parvenza, ma
non il sentimento e non il pensiero. Spuntano perciò due altre forme,
il canto e la visione intellettuale.
Quello che nel purgatorio è amicizia, nel paradiso è amore, ardore di
desiderio placato sempre non saziato mai, infinito come lo spirito.
Stato lirico e musicale, che ha la sua espressione nella melodia e nel
canto. La medesimezza del sentimento spinto sino all'entusiasmo genera
la comunione delle anime; la persona non è l'individuo, ma il gruppo,
come è delle moltitudini nei grandi giorni della vita pubblica. I gruppi
qui non sono cori, che accompagnino e compiano l'azione individuale,
ma sono la stessa individualità diffusa in tutte le anime, o se vogliamo
chiamarli cori, sono il coro di personaggi invisibili e muti, di Cristo,
di Maria e d'Iddio. Ecco il coro di Maria:
Per entro 'l cielo scese una facella,
formata in cerchio a guisa di corona,
e cinsela e girossi intorno ad ella.
Qualunque melodia più dolce suona
quaggiù e più a sè l'anima tira,
parrebbe nube che squarciata tuona,
comparata al suonar di quella lira,
onde si coronava il bel zaffiro,
del quale il ciel più chiaro s'inzaffira.
- Io sono amore angelico che giro
l'alta letizia che spira dal ventre
che fu albergo del nostro desiro;
e girerommi, Donna del ciel, mentre
che seguirai tuo Figlio e farai dia
più la spera superna, perchè lì entre -.
Così la circulata melodia
si sigillava, e tutti gli altri lumi
facèn sonar lo nome di Maria...
E come fantolin che inver' la mamma
tende le braccia, poi che 'l latte prese,
per l'animo che infin di fuor s'infiamma;
ciascun di quei candori in su si stese
con la sua cima sì che l'alto affetto
ch'egli aveano a Maria, mi fu palese.
Indi rimaser lì nel mio cospetto,
«Regina coeli» cantando sì dolce
che mai da me non si partì il diletto.
Quella facella è l'angiolo Gabriele, e il coro è angelico.
Angioli e beati sono penetrati dello stesso spirito, hanno vita comune,
se non che negli angioli la virtù è innocenza e la letizia è irriflessa:
plenitudine volante tra' beati e Dio, che il poeta ha rappresentato
in alcuni bei tratti; è un andare e venire nel modo abbandonato e allegro
della prima età, tripudianti e folleggianti con una espansione che il
poeta chiama «arte» e «gioco»:
Qual è quell'angel che con tanto gioco
guarda negli occhi la nostra Regina,
innamorato sì che par di fuoco?
L'amicizia o comunione delle anime è detta dal poeta
«sodalizio». I loro moti sono danze, le loro voci sono canti; ma, in
quell'accordo di voci, in quel turbine di movimenti la personalità scompare:
è una musica in cui i diversi suoni si confondono e si perdono in una
sola melode. Non ci è differenza di aspetto, ma per dir così una faccia
sola. Questa comunanza di vita è il fondo lirico del Paradiso,
ma è la sua parte fiacca, perchè il poeta, contento a citare le prime
parole di canti ecclesiastici, non ha avuta tanta libertà e attività
di spirito da creare la lirica del paradiso, rappresentando nel canto
i sentimenti e gli affetti del celeste sodalizio. E dove potea giungere,
lo mostra la preghiera di san Bernardo, che è un vero inno alla Vergine,
e l'inno a san Francesco d'Assisi e l'inno a san Domenico, nella loro
semplicità anche un po' rozza tutto cose e più schietti che i magniloquenti
inni moderni.
I canti delle anime sono vuoti di contenuto, voci e non parole, musica
e non poesia: è tutto una sola onda di luce, di melodia e di voce, che
ti porta seco:
- Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo -
cominciò - gloria - tutto il paradiso,
tal che m'inebbriava il dolce canto.
Ciò ch'io vedeva, mi sembrava un riso
dell'universo, perochè mia ebbrezza
entrava per l'udire e per lo viso.
Oh gioia! Oh ineffabile allegrezza!
Oh vita intera d'amore e di pace!
Oh senza brama sicura ricchezza!
È l'armonia universale, l'inno della creazione. La
luce, vincendo la corporale impenetrabilità e frammischiando i suoi
raggi, esprime anche al di fuori questa compenetrazione delle anime,
l'individualità sparita nel mare dell'essere. Il poeta, signore anzi
tiranno della lingua, forma ardite parole a significare questa medesimezza
amorosa degli esseri nell'essere: «inciela», «imparadisa», «india»,
«intuassi», «immei», «inlei», «s'infutura», «s'illuia», delle quali
voci alcune dopo lungo obblio rivivono. La redenzione dell'anima è la
sua progressiva emancipazione dall'egoismo della coscienza; la sua individualità
non le basta; si sente incompiuta, parziale, disarmonica, e sospira
alla idealità nella vita universale. Questo è il carattere della vita
in paradiso. Non solo sparisce la faccia umana, ma in gran parte anche
la personalità. Vivono gli uni negli altri e tutti in Dio.
Questo vanire delle forme e della stessa personalità riduce il paradiso
a una corda sola, a lungo andare monotona, se non vi penetrasse la terra
e con la terra altre forme ed altre passioni. La terra penetra come
contrapposto a questa vita d'amore e di pace. È vita d'odio e di vana
scienza, e provoca le collere e i sarcasmi de' celesti.
Il contrapposto è colto in alcuni momenti altamente poetici. Accolto
nel sole gloriosamente allato a Beatrice, si affaccia al poeta tutta
la vanità delle cure terrestri:
O insensata cura de' mortali
quanto son difettivi sillogismi
quei che ti fanno in basso batter l'ali!
Chi dietro a iura, e chi ad aforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi in rubare, e chi in civil negozio;
chi nel diletto della carne involto
s'affaticava e chi si dava all'ozio.
Un altro momento di alta poesia è quando il poeta dall'alto
delle stelle fisse guarda alla terra:
... e vidi questo globo
tal ch'io sorrisi del suo vil sembiante.
La terra «che ci fa tanto feroci», veduta dal cielo,
gli pare un'aiuola. Il concetto, abbellito e allargato dal Tasso, ha
qui una severità di esecuzione quasi ieratica. Il poeta si sente già
cittadino del cielo, e guarda così di passata e con appena un sorriso
a tanta viltà di sembiante volgendone immediatamente l'occhio e mirando
in Beatrice:
L'aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendomi io con gli eterni gemelli,
tutta m'apparve da' colli alle foci:
poscia rivolsi gli occhi agli occhi belli.
Pure è quest'aiuola che desta nel seno de' beati varietà
di sentimenti e di passioni, facendo vibrar nuove corde. Accanto all'inno
spunta la satira in tutte le sue gradazioni, il frizzo, la caricatura,
l'ironia, il sarcasmo. Qual frizzo, che l'allusione di Carlo Martello,
così pungente nella sua generalità:
e fanno re di tal, che è da sermone!
Beatrice, dottissima in teologia, si mostra non meno
dotta nel maneggio della caricatura e dell'ironia, frustando i predicatori
plebei di quel tempo:
Or si va con motti e con iscede
a predicare, e pur che ben si rida,
gonfia 'l cappuccio e più non si richiede.
Giustiniano conchiude il suo nobilissimo racconto dei casi e della gloria
dell'antica Roma con fiere minacce ai guelfi, nemici dell'aquila imperiale.
Papa e monaci sono i più assaliti. San Tommaso, dette le lodi di san
Francesco, riprende i francescani, e san Benedetto i benedettini, e
san Pietro il papa. Tutt'i re di quel tempo mandano sangue sotto il
flagello di Dante. Non si può attendere da' santi alcuna indulgenza
alle umane fralezze. La satira è acerba; la sua musa è l'indignazione,
e la sua forma ordinaria è l'invettiva. Le forme comiche sono uccise
in sul nascere e si sciolgono nel sarcasmo. Il sarcasmo non è qui nè
un pensiero, nè un tratto di spirito, ma pittura viva del vizio, con
parole anche grossolane, come «cloaca», che mettano in vista il laido
e il disgustoso. Il vizio è colto non in una forma generale e declamatoria,
ma là, in quegli uomini, in quel tempo, sotto quelli aspetti, con pienezza
di particolari ed esattezza di colorito. Capilavori di questo genere
sono la pittura de' benedettini e l'invettiva di san Pietro.
Questo contrapposto tra il cielo e la terra non è altro se non l'antitesi
che è in terra tra i buoni e i cattivi, e per scendere al particolare,
tra l'età dell'oro del cristianesimo e i tempi degeneri del poeta; è
il presente condannato dal passato, è il passato messo in risalto dal
suo contrasto con la corruzione presente. Ci erano i benedettini, ma
ci era stato san Benedetto; ci era Bonifazio e Clemente, ma ci era stato
san Pietro e Lino e Cleto e Sisto e Pio e Calisto e Urbano. Gli uomini
di quell'aurea età più illustri per santità e per scienza sono qui raccolti,
come in un pantheon; è il mondo eroico cristiano, succeduto a quel mondo
eroico pagano stato descritto nel Limbo, e di cui Giustiniano fa il
panegirico in paradiso.
Questa età dell'oro collocata nel passato e messa a confronto con la
tristizia di quei tempi ha ispirato a Dante una delle scene più interessanti,
ed è la pittura dell'antica e della nuova Firenze, fatta dal Cacciaguida,
uno de' suoi antenati. Ivi inno e satira sono fusi insieme: vedi l'ideale
dell'età dell'oro e della domestica felicità con tanta semplicità di
costumi, con tanta modestia di vita, e di rincontro vedi il villano
di Aguglione e le sfacciate donne fiorentine. La conclusione di questa
scena di famiglia prende proporzioni epiche: Dante si fa egli medesimo
il suo piedistallo. Nella predizione che Cacciaguida gli fa del suo
esilio è tanta malinconia e tanto affetto, che ben si pare la profonda
tristezza del vecchio e stanco poeta. L'esilio non è rappresentato ne'
patimenti materiali: Dio riserba dolori più acuti ai magnanimi, lasciare
ogni cosa diletta più caramente e domandare il pane all'insolente pietà
degli estranei: questo strazio di tanti miseri vive qui immortale ne'
versi divenuti proverbiali del più misero e del più grande. Ma è un
dolore virile: tosto rileva la fronte, e dall'alto del suo ingegno e
della sua missione poetica vede a' suoi piedi tutt'i potenti della terra.
La letizia delle anime non è solo amore, ma visione intellettuale. La
luce, il riso non sono altro che manifestazione del loro perfetto vedere:
perciò la luce e detta «intellettuale». Beatrice spiega così il suo
riso a Dante:
S'io ti fiameggio nel caldo d'amore
di là dal modo che in terra si vede,
sì che degli occhi tuoi vinco il valore,
non ti maravigliar; chè ciò procede
da perfetto veder, che, come apprende,
così nel bene appreso move il piede.
La beatitudine e la contemplazione, e la contemplazione
è appunto questa perfetta visione intellettuale. Perciò le anime non
investigano, non discutono e non dimostrano, ma veggono e descrivono
la verità, non come idea, ma come natura vivente. In terra ci è l'apparenza
del vero, e perciò diversità di sistemi filosofici, come spiega Beatrice:
Voi non andate giù per un sentiero
filosofando: tanto vi trasporta
l'amor dell'apparenza e 'l suo pensiero.
In paradiso la verità è tutta dipinta nel cospetto
eterno; in Dio è legato con amore in un volume ciò che per l'universo
si squaderna; vedere Dio è vedere la verità. E non è visione solo di
cose, ma di pensieri e di desidèri. I beati vedono il pensiero di Dante
senza ch'egli lo esprima.
La scienza com'era concepita a' tempi di Dante, sposata alla teologia,
avea una forma concreta e individuale, materia contemplabile e altamente
poetica. Un Dio personale, che, immobile motore, produce amando l'idea
esemplare dell'universo, pura intelligenza e pura luce, che penetra
e risplende in una parte più e meno in un'altra sino alle ultime contingenze;
gli astri, dove si affacciano i beati, influenti sulle umane sorti e
governati da intelligenze da cui spira il moto e le virtù de' loro giri;
il cielo empireo, centro di tutt'i cerchi cosmici e soggiorno della
pura luce; l'universo, splendore della divinità, dove appare squadernato
ciò che in Dio è un volume; l'ordine e l'accordo di tutto il creato
dalle infime incarnazioni fino alle nove gerarchie degli angioli; la
caduta dell'uomo per il primo peccato e il suo riscatto per l'incarnazione
e la passione del Verbo; la verità rivelata, oscura all'intelletto,
visibile al cuore, avvalorata dalla fede, confortata dalla speranza,
infiammata dalla carità: in questa scienza della creazione il pensiero
è talmente concretato e incorporato, che il poeta può contemplarlo come
cosa vivente, come natura. Perciò la forma scientifica è qui meno un
ragionamento che una descrizione, come di cosa che si vede e non si
dimostra. Il perfetto vedere de' beati è privilegio di Dante; nessuno
gli sta del pari nella forza e chiarezza della visione. Spirito dommatico,
credente e poetico, predica dal paradiso la verità assoluta, e non la
pensa, la scolpisce. Diresti che pensi con l'immaginazione, aguzzata
dalla grandezza e verità dello spettacolo. Nascono ardite metafore e
maravigliose comparazioni. L'accordo della prescienza col libero arbitrio
è una delle concezioni più difficili e astruse; ma qui non è una concezione,
è una visione, uno spettacolo: così potente è questa immaginazione dantesca:
La contingenza che fuor del quaderno
della vostra materia non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto eterno.
Necessità però quindi non prende,
se non come dal viso in che si specchia
nave che per corrente giù discende.
Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti si apparecchia.
Il poeta procede per deduzione, guardando le cose dall'alto
del paradiso, da cui dechina via via fino alle ultime conseguenze: forma
contemplativa e dommatica, anzi che discorsiva e dimostrativa, e propria
della poesia, presentando all'immaginazione vasti orizzonti in una sola
comprensione:
Guardando nel suo Figlio con l'Amore
che l'uno e l'altro eternalmente spira
lo primo e ineffabile valore
quanto per mente e per occhio si gira
con tant'ordine fe' ch'esser non puote
senza gustar di lui chi ciò rimira.
Questa forma poetica della scienza, questa visione
intellettuale, abbozzata nel Tesoretto, è condotta qui a molta
perfezione. È un certo modo di situare l'oggetto e metterlo in vista,
sì che l'occhio dell'immaginazione lo comprenda tutto. Se ci è cosa
che ripugna a questa forma, è lo scolasticismo con la barbarie delle
sue formole e le sue astrazioni; ma l'immaginazione vi fa penetrare
l'aria e la luce: miracolo prodotto dalle due grandi potenze della mente
dantesca, la virtù sintetica e la virtù formativa. Veggasi la stupenda
descrizione che fa Beatrice del moto degli astri, di poco inferiore
alla storia del processo creativo, il capolavoro di questo genere. Qui
la scienza della creazione è abbracciata in un solo girar d'occhio,
con sì stretta e rapida concatenazione che tutto il creato ti sta innanzi
come una sola idea semplice. Ci sono concetti difficilissimi ad esprimersi,
come l'unità della luce nella sua diversità, e l'imperfezione della
natura, che non ti dà mai realizzato l'ideale. I concetti qui non sono
astrazioni, ma forze vive, gli attori della creazione, la luce, il cielo,
la natura, e non hai un ragionamento, hai una storia animata, con una
chiarezza e vigore di rappresentazione che fa di Dio e della natura
vere persone poetiche:
Ciò che non muore e ciò che può morire
non è se non splendor di quell'idea,
che partorisce amando il nostro Sire.
Chè quella viva luce che si mea
dal suo Lucente, che non si disuna
da lui, nè dall'amor che in lor s'intrea;
per sua bontate il suo raggiare aduna
quasi specchiato in nuove sussistenze,
eternalmente rimanendosi una.
Queste tre terzine sono una maraviglia di chiarezza
e di energia in dir cosa difficilissima. Nè minor potenza d'intuizione
trovi nella fine, quando, paragonando l'ideale alla cera del suggello,
aggiunge:
ma la natura la dà sempre scema,
similemente operando all'artista,
che ha l'abito dell'arte e man che trema.
Ed anche la mano di Dante trema, che fra tante bellezze
ci è non poca scoria. Non di rado vedi non il poeta, ma il dottore che
esce dall'università di Parigi, pieno il capo di tesi e di sillogismi.
Molte quistioni sono troppo speciali, altre sono infarcite di barbarie
scolastica: definizioni, distinzioni, citazioni, argomentazioni. E questo
è non per difetto di virtù poetica, ma per falso giudizio. A lui pare
che questo lusso di scienza sia la cima della poesia, e se ne vanta,
e si beffa di quelli che lo hanno sin qui seguito in piccola barca.
- Tornate indietro - egli dice - che il mio libro e per soli quei pochi
che possono gustare il pan degli angioli; - e sono i filosofi e i dottori
suoi pari. Perciò il Paradiso e poco letto e poco gustato. Stanca
soprattutto la sua monotonia, che par quasi una serie di dimande e di
risposte fra maestro e discente.
La visione intellettuale è la beatitudine. L'esposizione della scienza
riesce in cantici e inni, le ultime parole del veggente si confondono
con gli osanna del cielo:
Finito questo, l'alta corte santa
risuona per le spere un Dio lodiamo,
nella melode che lassù si canta.
Siccome io tacqui, un dolcissimo canto
risono per lo cielo, e la mia donna
dicea con gli altri: «Santo, santo, santo !»
Così è sciolto questo mistero dell'anima. Adombrato
ne' simboli e allegorie del Purgatorio, qui il mistero è svelato,
è la Divina Commedia dell'anima, il suo indiarsi nell'eterna
letizia. La forza che tira Dante a Dio, si che sale come rivo,
se di alto monte scende giuso ad imo,
è l'amore, è Beatrice, che all'alto volo gli veste
le piume Beatrice è in sè il compendio del paradiso, lo specchio dove
quello si riflette ne' suoi mutamenti. Puoi dipingerla quando prega
Virgilio o quando «regalmente proterva» rimprovera l'amante; ma qui
è spiritualizzata tanto, che è indarno opera di pennello. La stessa
parola non è possente di descrivere quel riso e quella bellezza trasmutabile,
se non ne' suoi effetti su Dante e su' celesti. Ecco uno de' più bei
luoghi:
Quivi la donna mia vid'io sì lieta,
come nel lume di quel ciel si mise,
che più lucente se ne fe' il pianeta;
e se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec'io, che pur di mia natura
trasmutabile son per tutte guise!
Come in peschiera che è tranquilla e pura
traggono i pesci a ciò che vien di fuori,
per modo che lo stimin lor pastura;
sì vid'io ben più di mille splendori
trarsi ver' noi, ed in ciascun s'udia:
Ecco chi crescerà li nostri amori. -
Spiritualizzato il corpo, spiritualizzata l'anima.
L'amore è purificato: nulla resta più di sensuale. Dante che nel purgatorio
sentì il tremore dell'antica fiamma, qui ode Beatrice con un sentimento
assai vicino alla riverenza. Quando ella si allontana, ei non manda
un lamento: ogni parte terrestre è in lui arsa e consumata. Le sue parole
sono affettuose; ma è affetto di riverente gratitudine, siccome, nel
piccolo cenno che gli fa Beatrice, l'amore dell'uomo come ombra si dilegua
nell'amore di Dio, ella lo ama in Dio:
Così orai, e quella si lontana,
come parea, sorrise e riguardommi:
poi si tornò alla eterna fontana.
Come Dante non potè entrare nel paradiso terrestre
a vedere il simbolo del trionfo di Cristo senza lo «scotto» del pentimento,
così non può ne' «gemelli» o stelle fisse contemplare il trionfo di
Cristo che non dichiari la sua fede. Allora san Pietro lo incorona poeta,
e poeta vuol dire banditore della verità. San Pietro gli dice:
e non asconder quel ch'io non ascondo.
Così la Commedia ha la sua consacrazione e la
sua missione. È la verità bandita dal cielo, della quale Dante si fa
l'apostolo e il profeta: è il «poema sacro». Con quella stessa
coscienza della sua grandezza che si fe' «sesto fra cotanto senno»,
qui si pone accanto a san Pietro e se ne fa l'interprete, congiungendo
in sè le due corone, il savio e il santo, l'antica e la nuova civiltà,
il filosofo e il teologo. Dichiarata la sua fede, consacrato e incoronato,
Dante si sente oramai vicino a Dio. Avea già contemplata la divinità
nella sua umanità, il Dio-uomo. Il trionfo di Cristo, la festa dell'Incarnazione,
sembra reminiscenza di funzioni ecclesiastiche, co' suoi principali
attori, Cristo, la Vergine, Gabriello. Cristo e la Vergine sono come
nel santuario, invisibili; la festa è tutta fuori di loro e intorno
a loro. Succede il trionfo degli angioli, e poi nell'empireo il trionfo
di Dio.
L'empireo è la città di Dio, il convento de' beati, il proprio e vero
paradiso. Beatrice raggia sì, che il poeta si concede vinto più che
tragedo o comico superato dal suo tema, e desiste dal seguir
più dietro a sua bellezza poetando,
come all'ultimo suo ciascun artista.
Ivi è la luce intellettuale, che fa visibile
lo Creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
La luce ha figura circolare, come il giallo di una
rosa, le cui bianche foglie si distendono per l'infinito spazio, e sono
gli scanni de' beati. San Bernardo spiega e descrive il maraviglioso
giardino. Il punto che più splende è là dove sono
gli occhi da Dio diletti e venerati,
dove è la Vergine e gli angioli. Quel punto è la pacifica
orifiamma del paradiso, la bandiera della pace. Il giardino, la rosa,
l'orifiamma sono immagini graziose, ma inadeguate. Queste metafore non
valgono la stupenda terzina, dove san Bernardo è rappresentato in forma
umana e intelligibile:
Diffuso era per gli occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio,
quale a tenero padre si conviene.
Il paradiso, appunto perchè paradiso, non puoi determinarlo
troppo e descriverlo, senza impiccolirlo. La sua forma adeguata è il
sentimento, l'eterno tripudio: ciò che è ben colto in quella plenitudine
volante di angeli, che diffondono un po' di vita tra quella calma. Il
vero significato lirico del paradiso è nell'inno di Dante a Beatrice
e nell'inno di san Bernardo alla Vergine, ne' quali è il paradiso guardato
dalla terra con sentimenti e impressioni di uomo. I beati stessi diventano
interessanti, quando tra quella luce vedi spuntare
visi a carità suadi,
ed atti ornati di tutte onestadi
o quando «chiudon le mani» implorando la Vergine.
Anche Dio ha voluto descrivere Dante, e vede in lui l'universo, e poi
la Trinità, e poi l'Incarnazione, congiunzione dell'umano e del divino,
in cui si acqueta il desiderio, il «disiro» e il «velle»,
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