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Earthwalk

CAPITOLO 1 (seconda parte) / Indice / v. Capp. 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7


Terzo, in accordo col modo di pensare occidentale, il corpo è visto più come macchina che come organismo. Questa macchina è dotata di parti sostituibili accuratamente intese, ma la sua globalità suscita scarso
interesse ed è comparativamente ignorata. Molto apprezzata è la parte che presiede al problem-solving e la fantasia di separarla da tutto il resto è estremamente popolare. La convinzione di tanti schizofrenici che il
cervello potrebbe funzionare meglio soltanto se il corpo nel quale è inserito potesse essere eliminato è condivisa, oggi, dagli scienziati - e non c'è da sorprendersi. « Meglio » significa che potrebbe perseguire la propria
logica senza il feedback distraente derivante dal mondo concreto.
Comunque, dacché i guai che attualmente ci circondano sono ampio prodotto di un simile modo di pensare disincarnato, forse è necessario riesaminare un simile assunto.
Quando l'uomo inventò la macchina, di cui non esisteva modello in natura, l'inventò a sua immagine. La macchina non viene dal nulla - essa rispecchia il cervello meccanico dell'uomo. L'umano è il solo essere animale programmato per ignorare proprio quel feedback che è simultaneamente programmato ad utilizzare, ecco perché soltanto un umano può rendere un animale, o un altro umano, neurotico o pazzo. Come fa notare Weston La Barre, la sola realtà non può rendere neurotico un animale — per distruggere la rispondenza dell'animale ci vuole l'applicazione meccanica di un qualche sistema simbolico contorto. Questo, forse, è il motivo
per cui i fanciulli autistici sono, generalmente, progenie di intellettuali. La psicopatologia è un sottoprodotto dell'abilità a generare simboli sempre presentata, nelle interpretazioni della commedia dell'evoluzione, come
forza caratteristica dell'umanità. Però, unita a questa forza, c'è una magagna fatale, incorporata fin dall'inizio nella specie - la capacità, cioè, di ignorare il feedback significativo in favore di un circuitismo simbolico
interiore.
Una volta, Freud chiosò sulla paura diffusa per gli automi e, nello stesso contesto, suggerì che le sensazioni inquietanti (unheimlich) erano attivate da visioni familiari (heimlich), ma represse. Collegando queste due idee, vorrei dimostrare che quanto vi è di heimlich e unheimlich circa gli automi è il fatto che essi riflettono una qualità repulsivamente ed esclusivamente umana. La nostra paura delle creature simili a robot che si muovono nel più completo disprezzo meccanico per le conseguenze esterne è la paura del cervello umano. La protagonista di un film dell'orrore impetra grazia, ma il mostro non le presta attenzione. « È inumano », essa grida, e, invece, sbaglia. L'umanità è l'unica che ignora i propri segnali di resa. Gli esseri umani sono « esenti » dalla necessità istintuale di reprimere l'aggressione quando un cospecifico si arrende. Una macchina è libera da tutto fuorché dal suo programma. Un cieco è libero dal sole accecante, un sordo dal suono assordante. Quando parliamo di libertà, il più delle volte intendiamo libertà dai messaggi — l'abilità, cioè, di dedicare attenzione soltanto agli schemi concettuali inferiori. Questa libertà schizoide - la capacità, cioè, di operare soltanto in risposta alla logica interna, di ignorare il feedback - è ciò che rende possibile lo sterminio di massa. Hiroshima, Dresda, Auschwitz, Vietnam - tutto si poggia su questa liberazione — su questa capacità di procedere secondo
un insieme di principi sistematici in modo meccanico, burocratico, rigoroso.
Ma l'orrore non è l'unica reazione al comportamento da automa.
Henry Bergson fece notare molto tempo fa' che l'« inelasticità meccanica », ovvero la presentazione di « qualche cosa di meccanico incrostato sul vivente » costituiva una fonte importante di humour, per cui la narrativa, prodotta dall'ispirazione di genere patriottico o religioso, attinge anch'essa pesantemente dalla capacità di ignorare il feedback. Seguire un testo interiore indipendentemente dall'informazione esterna è comico, orrifico o eroico, a seconda di come la cultura definisce la situazione. Il mostro meccanico che ci fa paura, il clown che si siede su di una sedia inesistente e la sottile linea rossa dei soldati che marciano coraggiosamente verso la morte rappresentano soltanto atteggiamenti diversi nei confronti dello stesso fenomeno.
In passato, la tendenza ad ignorare il feedback proveniente sia dalle budella, sia dal mondo esterno, veniva chiamata «coraggio» ed era altamente apprezzata. Il coraggio è stato sempre accuratamente distinto dal mero valore o dalla temerarietà - per essere coraggiosi si deve essere capaci a riconoscere il rischio mortale e, contemporaneamente, ignorare sia il pericolo, sia i propri istinti di conservazione. Non esiste animale coraggioso: se, in caso di pericolo, esso non fugge è perché (a) è intrappolato, o (b) è più adirato che impaurito. Però, quando la paura supera l'ira, scappa appena può.
Una risposta simile a quella della macchina a fronte del pericolo non ebbe alcun valore reale fino a quando gli uomini non cominciarono a farsi la guerra - non essendo necessaria né per la caccia, né per la sopravvivenza di altri predatori. I popoli più meccanici vinsero quelli meno tali, per cui si attuò una profonda selezione culturale. L'evoluzione è piena di simili errori.
Se questo processo non è reversibile, la nostra specie distruggerà il pianeta - e, speriamo, prima che abbia una qualche possibilità di espellere un colonizzatore. Quando gli esseri umani si liberarono della dipendenza dall'istinto di comunicazione, si liberarono altresì completamente dal dover comunicare i loro istinti, o dal dover rispondere a tali comunicazioni. Ciò vuole semplicemente dire che noi, che condividiamo lo spazio di questo piccolo pianeta, dobbiamo tentare di venire incontro ai nostri bisogni affrontando vuoi la «libertà» di fornire una reciproca rappresentazione falsa di questi stessi bisogni, vuoi la nostra « capacità » di ignorare i bisogni altrui, siano essi rappresentati in maniera falsa o no.
Oggi, parecchie delle virtù maggiormente apprezzate nei secoli passati non hanno più valore. Dal punto di vista ecologico virtù quali il coraggio e la perseveranza sono soltanto cattive abitudini. Dovremmo prendere in considerazione l'opportunità di assegnare medaglie per la codardia, poiché il codardo è sensibile all'ambiente e ai bisogni fisici di almeno un altro essere umano.

Si potrebbe, altresì, esaminare con maggior sospetto la virtù dell'essere capaci di portare a termine un compito. Che cosa è la distraibilità se non la corrispondenza e sensibilità peggiorativamentedefinite? Dal punto di vista di un cavallo col paraocchi, i cavalli, senza paraocchi sono distraibili. In questo stesso modo la cultura occidentale considera i suoi contemporanei « non sviluppati » (cioè, senza paraocchi) deprezzandone la superficiale tendenza ad essere distratti dalla ricerca del rapporto fra una singola innovazione e qualsiasi altra cosa inerente la loro vita. Essere distraibili significa essere sonsapevoli dell'interconnessione indissolubile della materia vivente - chiaramente, questo non è il modo per portare a termine le cose. Per esemplificare questa situazione, mi sia concesso di riprodurre un brano di una lettera scritta da una laureata marocchina: « ...Ogni singola piccola azione diventa un'interazione assai complicata. Vivo in una piccola città araba dove non ci sono molti telefoni. Io ho bisogno del telefono per mettermi in contatto con le persone che devo intervistare e guarda caso, è proprio l'élite borghese modernizzata a restare senza fiato se mi allontano dal nostro modo di agire tradizionale. Mi recai al posto telefonico pubblico che non è automatico. Consegnai il mio elenco di numeri all'operatore che mi conosceva da anni. Volle sapere perche desideravo chiamare tutte queste persone. Gli spiegai che facevo una specie di sondaggio sociologico. Volle maggiori dettagli. Gli dissi che ci sarebbe voluto circa un'ora per spiegarlo, il che avrebbe coinciso con la chiusura del posto telefonico. Lo prese come un insulto e mi chiese di aspettare finche non mi avesse chiamato. Lo feci. Mi chiamò per dirmi che i numeri erano occupati o non rispondevano e che, in ogni caso avrei dovuto cavarmi dalla mente di monopolizzare un telefono pubblico per chiamare tante persone. Allora gli dissi che ero desolata di essermi mostrata cosi ansiosa circa il tempo e che ero disposta a dirgli che cosa stavo facendo. Lo feci. Volle sapere come 10 o 20 persone, del tutto speciali e particolari, potessero essere rappresentative di altre centinaia e migliaia, che avevano soltanto poche cose in comune fra di loro. Così cominciai a spiegare la -théorie de la probabilité"! Egli, allora, non si trovò d' accordo e la respinse come fosse immondezza. Gli dissi che era nel suo diritto non accettarla, che questo era i1 destino normale di una teoria - alcuni 1'accettano altri no. Questo mio atteggiamento non gli piacque e disse che cercavo di evitare la discussione, perché pensavo che non fosse in grado di discutere in quanto non aveva potuto proseguire gli studi ed era finito a fare un lavoro stupido, ecc. Tentai di convincerlo del contrario. Mi ci vollero altri due incontri e altri tre giorni per ottenere l'uso del telefono. Quella famosa "anesthésie" che tanto mi preoccupava a Cambridge è, in effetti, ciò che consente di essere efficiente, mentre la sua assenza ti lascia totalmente immerso in un ambiente che non puoi controllare perché sei troppo emotivamente coinvolto e ad un simile grado di passionalità »

Una cultura tradizionale è piena di distrazioni. Non è possibile trattare impersonalmente con l'ambiente, o seguire un programma interiore nella maniera meccanica e lineare, come siamo soliti fare in Occidente. Si viene presi in una trama intricata di legami che spingono indietro ed esigono un'analisi di come ogni nuova azione si interconnette con tutto il resto. I rapporti sono primari, per cui hanno la precedenza sul perseguimento della conoscenza o sull'acquisizione personale. I problemi ecologici da noi oggi affrontati non sono possibili quando
sussiste questo modo di pensare; l'assorbimento nelle inter-relazioni impedisce perfino di proporsi il tipo di risposta meccanica che porta agli squilibri ecologici. Non è concesso posporre (indefinitamente) il tratta-
mento delle conseguenze « sociali » o « umane » di certe vocazioni narcisistiche. Fino a quando i fondamenti di una società tradizionale non siano stati frantumati, lo sviluppo di stravaganze quali le armi nucleari e i sondaggi sociologici è fuori questione, anche qualora ne fosse disponibile la conoscenza tecnica. Il loro valore, meditato a fronte di tutto ciò che riguarda la società, verrebbe stabilito prima di imbarcarsi nell'impresa, piuttosto che affermato da un dipartimento di pubbliche relazioni dopo essere diventato un fait accompli, secondo la prassi della nostra società.
Gli Americani si beano per la disinvoltura con cui riescono a far sì che le cose vengano portate a termine, ma tutto ciò è dovuto al semplice espediente di aver abolito qualsiasi meccanismo sociale atto a meditare
anticipatamente sulle cose. Ciò viene ampiamente fatto per il tramite di slogans assolutistici quali libera impresa, libertà scientifica, libertà di scelta e così via. Questi slogans sono stati propagandati con così tanto successo che la maggior parte dei popoli civili, pur affrontando quotidianamente le conseguenze disastrose dell'allontanamento dai meccanismi di equilibrio sociale, ha l'impressione che il giuoco valga la candela. Virtù come coraggio, perseveranza, acquisizione personale sono fondamentalmente disinseritrici. Strappano l'individuo o il gruppo dalla trama sociale ed ecologica in cui sono inseriti e li spronano verso corsi autonomi lineari che non guardano né a destra, né a sinistra. Rimuovendo parte del proencefalo di un pesce, esso perde il tipo di risposta a cui è adusato. Presumibilmente, qualora venissero sufficientemente rimosse anche altre parti, egli potrebbe perfino ignorare del tutto il suo ambiente e nuotare intorno al mondo, seguendo un corso tanto preciso quanto quello di un navigatore umano. Così come stanno le cose, è necessario ammettere che il pesce non potrà mai arrivare ovunque. La natura, nella sua primitività, ha fatto in modo che tutto ciò che i pesci effettuano svolazzi, come farfalla, al di sopra dell'utile diretto, intorno alle loro fonti di cibo, ai loro bisogni procreativi e reciproci.
Tutte le virtù disinseritrici - coraggio perseveranza, rettitudine, castità, ambizione, onore, doverosità, autodisciplina, temperanza, purezza, fiducia di sé, imparzialità, incorruttibilità, attendibilità, coscienziosità,
sobrietà, ascetismo, spiritualità, sono ecologicamente malsane. Tutte esprimono lo stesso arrogante assunto circa l'importanza del singolo nella società e l'importanza dell'umanità nell'universo. Immaginare che abbia
importanza (eccetto per coloro che sono a contatto immediato con lui) se un uomo è o non è virtuoso, santo o auto-realizzato è il colmo dellapomposità.
Le qualità opposte — codardia, distraibilità, sensualità, incapacità a portare a termine compiti o a resistere alle tentazioni, parzialità, dipendenza, incoerenza, corruttibilità, e così via — sono semplici. Esprimono l'inserimento dell'umanità in un sistema organico più ampio — in un sistema che ha le proprie leggi e la propria giustizia. Come tali, esse, in definitiva, hanno un maggior valore rispetto alle discipline ai fini della sopravvivenza, dacché servono a reinserire l'individuo nel proprio ambiente. Questo non per dire che le virtù arroganti debbano essere
estirpate dal repertorio umano. Abbiamo soltanto bisogno di conoscere il prezzo delle virtù disinseritrici.
Gli Anglosassoni, per esempio, hanno considerato sempre con parecchia ironia, colorata d'invidia, la « mentalità manana » dei proletari latini. Tuttavia, in molti casi, il dire « manana » è semplicemente questione di privilegiare per prime le cose principali - di non aver voglia di sacrificare gioia e buoni rapporti al servizio di schemi alla diventa-ricco-presto degli attivi industriali. Quando, poi, scopriamo vieppiù che gran parte di quello che il povero latino è stato incapace di fare sarebbe stato meglio averlo risparmiato alla nostra società, cominciamo ad avere maggior rispetto per il suo sistema di priorità.

Eppure, pochi popoli sono stati capaci di resistere all'assalto dell'ideologia occidentale. Sedotti dalla promessa di una piccola ricchezza e di una vita più lunga, hanno disertato in massa. Non è forse questo un indice della superiorità della nostra cultura orientata all'acquisizione? Presumibilmente, i nostri antenati vivevano in una sorta di cultura stabile, orientata al presente e, evidentemente, non ne erano soddisfatti. Dacché, in ogni caso, indietro non si può ritornare, e dacché la maggioranza della gente sembra averla rifiutata appena possibile, che scopo hanno questi odiosi confronti?
Esistendo un enorme divario fra culture orientate al presente, o tradizionali, ovvero « primitive », mi sia concesso dichiarare che cosa considero in blocco quando faccio raffronti con l'occidente industriale.
Definisco « comunità semplice » quella in cui la gente vive in un piccolo villaggio o in piccola banda; in cui per tutta la vita si è raramente esposti ad un luogo diverso dal proprio villaggio, territorio di caccia, o circuito
nomade; in cui, per tutta la vita, si stabiliranno pochi rapporti nuovi salvo attraverso le nascite, e pochi se ne perderanno, se non per morte; in cui si vive ampiamente del presente; e in cui ci si percepisce come parte
organica inseparabile del proprio ambiente sociale e naturale immediato. Metà della popolazione del mondo vive ancora in condizioni che si avvicinano, per molti aspetti, a questo tipo, ma il loro numero sta rapidamente diminuendo.
Non ho intenzione di elevare la comunità semplice ad utopia. Le persone nate in una società industriale sono inadatte a vivere in tali condizioni e risulterebbe cosa penosa se ci provassero. Inoltre, la comunità semplice presenta un grosso lato debole - è altamente vulnerabile alla conquista. Né siamo noi così ingenui da attribuire ad essa un certo tipo di felicità primitiva. Anche fra quelle incontaminate dal contatto occidentale, parecchie sono afflitte da costumi sociali oppressivi, e se le gioie di un simile modo di vivere sembrano assai più intense, altrettanto dicasi delle miserie. La vita, inoltre, sebbene emotivamente più ricca, è anche più breve. Gli occidentali la troverebbero, oltretutto, stupida, non foss'altro a causa dei loro sensi ottusi e dell'emotività infiacchita - pur necessari per vivere in condizioni di caos urbano.
Io mi fisso sulla comunità semplice soltanto perché è assai scarsamente compreso il rapporto fra ciò che abbiamo perduto quando l'abbiamo abbandonata e la nostra crisi attuale. La nostra storia culturale tende ad essere presentata come un'ininterrotta ascesa verso il paradiso (mai del tutto raggiunto; però è proprio lì, passato l'angolo) o come una coraggiosa avventura dalla dipendenza confortevole ad una libertà solitaria, sì, ma ammirabile. Occasionalmente, qualcuno, sì, suggerisce, con squallida nostalgia, che l'impresa nel suo complesso è stata un disastro mai mitigato - come l'invasione russa da parte di Napoleone o la guerra
nel Vietnam - ma viene generalmente congedato come una Mariuccia nervosa.
Il mio intento non è di condannare la cultura occidentale o di idealizzare il passato. Desidero soltanto modificare un tantino l'equilibrio. La vituperazione che scrittori come Toffler accumulano su coloro che, con qualche nostalgia, meditano sul passato tradisce un'ostinata non volontà di effettuare i cambiamenti radicali necessari per districarci dalle nostre attuali difficoltà. Se assumiamo la posizione secondo cui ogni passo fino ad ora compiuto dall'umanità occidentale è stato necessario e auspicabile, non abbiamo la probabilità di iniziare un'analisi con qualche nuovo orientamento mentale sull'argomento.
Torniamo, quindi, alla comunità semplice e ai motivi del suo accantonamento. Prima di tutto, è scorretto dire che tali comunità, quando poste davanti ad una scelta, abbiano sempre scelto il progresso. Il nostro paese ospita parecchie tribù amerinde che si sono aggrappate disperatamente al loro sistema di vita, opponendosi ad assurdi vantaggi iniziali, ed altrettante se ne possono trovare in ogni parte del mondo. Sempre più i componenti le società primitive vanno facendo confronti lucidi ed articolati fra le loro e la cultura occidentale, mostrando di possedere un'idea chiara di quest'ultima e di ciò che in essa troverebbero. In effetti, le loro critiche sono sostanzialmente le stesse fatte dagli occidentali. Inoltre, ciò che viene spacciato come « scelta » della cultura occidentale spesso risulta essere, più che altro, questione d'essersi impiccati con le proprie mani. Decimati da conflitti armati e da malattie occidentali, inondati da prodotti lavorati occidentali e con le proprie istituzioni
rovesciate dalla violenza, il dilemma è quello di adottare il sistema occidentale o di rinunciare ad avere una qualsiasi cultura coerente. Nel Vietnam del Sud abbiamo creato un'intera nazione di spostati, la maggior
parte dei quali « sceglierà » indubbiamente gli schemi occidentali.
Ma, anche nel caso di coloro che hanno liberamente scelto la cultura occidentale, è necessario vedere come mai l'hanno scelta. Ciò che della nostra cultura maggiormente impressiona le genti non occidentali è il suo potere. Fucili, bombe, bulldozers, elicotteri — tutto esprime il potere del colonialista. Non esiste il problema che la cultura occidentale possa offrire maggior piacere, più sapere, migliori rapporti fra popoli o con l'ambiente
— soltanto potere. Pochi si sentirebbero di sostenere seriamente che un vulcano è meglio di un fiore, ma gli umani sono sempre stati inclini ad adorare più i vulcani che i fiori. Quando qualcuno arriva e colpisce in testa
con una clava, si rispetta e si invidia tanto la sua clava, quanto il suo potere di farla franca attraverso l'atto del colpire, per cui si tenta di emularlo, se non altro per auto-protezione.
Quando un gruppo potente comincia a operare secondo le proprie norme competitive, gli assunti cooperativi cedono sempre il passo ad altri di tipo competitivo. Questo è proprio quel che ci vuole per distruggere la
fiducia e far sorgere un altro sistema competitivo. La storia dell'Occidente è semplicemente una disseminazione progressiva di questa infezione: una società dominante ne brutalizza una semplice che, alla fine, sopraffà il suo
oppressore per diventare, essa stessa, un oppressore.
È piuttosto falso sostenere che i popoli d'Occidente, diventati insoddisfatti della vita primitiva, progredirono al di là di essa. Sarebbe più accurato dire che la selezione culturale ha popolato il mondo di insoddisfatti — di persone incapaci di gioire del mondo che li circonda, per quello che è. Ciò è poco sorprendente — gli insoddisfatti creano i guerrieri migliori. Ma è assolutamente distruttivo per la vita sul pianeta che un tutto ecologico sia dominato da chi è tanto alienato da esso da aver perduto la capacità di percepirlo. Se non siamo contenti del nostro pianeta, tanto varrebbe suicidarsi e lasciarlo a chi lo è. In ogni caso, come hanno fatto già notare molti osservatori, le condizioni che diedero alla competitività valore di sopravvivenza sono ormai scomparse, per cui, ora, ci rivolgiamo agli sconfitti per vedere come si può conquistare l'ultima vittoria.

La differenza fra i due modi di pensare trova ottimi esempi nell'area della salute. C'è voluto più di un secolo perché la medicina occidentale riscoprisse ciò che dottori e sciamani sapevano da tempo: (1) che la malattia si verifica in un organismo nel suo complesso e non, come nella macchina, in una parte difettosa di esso; e (2) che ogni organismo è organicamente collegato sia agli altri, sia all'ambiente totale, per cui una qualsiasi « cura » che non tenga in considerazione questi rapporti rischia di risultare effimera. Ciò che noi stigmatizziamo come magia è scientifico quando propugna la globalità e l'interconnessione delle forme viventi. La medicina scientifica, d'altro canto, è irrazionale in quanto tratta l'organismo come se fosse una macchina, sconnessa da quanto la circonda e internamente sconnettibile. Come osserva Bateson, la medicina è una scienza «la cui struttura è essenzialmente quella di una valigetta di espedienti », dotata di « una conoscenza straordinariamente modesta » del corpo come « sistema auto-correttivo organizzato sistematicamente e ciberneticamente. Le sue interdipendenze interne sono appena comprese. »

I dottori si compiacciono di dire « il tuo corpo ha bisogno di fare ilpieno, come la tua auto », o, più ambiguamente, « il tuo corpo è l'unica macchina che migliori con l'uso ». La tecnica del medico occidentale è
essenzialmente quella dell'idraulico o del meccanico - localizzare il problema in un dato posto, per poi trattare questa parte come se fosse indipendentemente malfunzionante - si consideri il fascino dei trapianti.
Una volta che il problema è localizzato, si utilizza nuovamente lo schema automobilistico di « fissarlo ». La parte difettosa viene rimossa, o sostituita, ovvero, se ne migliora il funzionamento attraverso l'uso di prodotti chimici. Alla capacità del paziente di verbalizzare la propria afflizione viene assegnato lo stesso peso che un meccanico darebbe alle osservazioni derivanti da un'autoradio. La risposta a « Mi duole » è una serie di tests. Il dottore ascolta il motore, verifica la pressione dei pneumatici. Mentre il medico stregone risponde al messaggio del paziente e alla sua situazione vitale, oltre che ai suoi rapporti vitali, il dottore occidentale risponde alla propria attrezzatura. I medici, spesso, sono indotti ad ignorare le lamentele del paziente che, per loro, sono causa di confusione, a favore del trattamento di una « malattia » (rivelata dai tests) di cui il paziente è ignaro e di cui non soffre. Questo invadente e frammentario approccio all'organismo minaccia i confini psichici dell'individuo, per cui genera ansia che produce una pluralità di sintomi da trattarsi nello stesso modo frazionato, cosicché il medico è costantemente teso a curare gli effetti della propria cattiva medicina.
La medicina occidentale è un esempio straordinario della nostra alienazione dal corpo - considerandolo come una macchina che non ci appartiene ma che, alle prime avvisaglie, siamo desiderosi di assediare
con veleni, al fine di castigare quelle parti che non « funzionano » in modo tale da consentirci di lavorare. Anche quando qualcuno si fa avanti sottolineando il nostro disprezzo per il corpo, lo fa generalmente per dire che « esso » funzionerà meglio se si provvede ai « suoi » bisogni: « un rilassamento ti darà nuove energie per lavorare », o « dedicare attenzione
ai ritmi naturali del tuo corpo ti renderà più efficiente. »

Nulla più di tali frasi potrebbe fornire un esempio agghiacciante del distacco schizoide dal corpo, eppure esse appaiono quotidianamente attraverso i mezzi pubblicitari. Per esempio, è stato annunciato che, presto, verranno fatte pillole per curare il mal di jet - bell'esempio, questo, del nostro desiderio di brutalizzare il corpo a servizio della tecnologia, proprio di quelli che caratterizzano il modo in cui essa « risolve » i problemi da lei stessa creati.
Si sacrifica il bisogno umano per assecondare un qualche scopo strumentale. Ma, dacché un corpo disprezzato tende a prendersi la sua rivincita, ecco che si pone il problema a chi possiede una mentalità orientata al compito: per adattare il corpo allo shock sono necessari giorni di assenza dal lavoro. Allora, per risparmiare più tempo (poiché questo è, soprattutto, il motivo per cui abbiamo i jets) viene escogitata una pillola che ovvi alle necessità di tale adattamento. Gli effetti laterali di tale pillola, per essere annullati, possono ben esigerne un'altra e questa catena di reazioni è pane per la farmacologia in America, dove un'ampia porzione di malattie è prodotta dal farmaco stesso. Ciò può accelerare l'istituzione di vanesi ritiri sanitari dove la gente si rechi per un certo periodo di tempo onde districare, sotto prudente supervisione medica, i molteplici effetti interattivi di tutte le pillole che ingerisce. E così, la classica tecnica americana di proliferare la disarmonia crea un'altra industria. Poco sorprende lo stupefacente incremento del cancro negli Stati Uniti: una medicina disintegrale si rispecchia puramente in una malattia di disunione corporale.
Ma, a parte queste follie periferiche, la medicina occidentale non ha, forse, avuto generalmente successo? È giusto demolire il medico occidentale in raffronto al medico stregone quando, in effetti, con la sua teoria
ipoteticamente inadeguata, ha ottenuto assai di più di quanto non abbia fatto lo stregone?
Nessuno può negare che il medico occidentale abbia « ottenuto » di più - dopo tutto, questa è l'essenza stessa della civiltà occidentale. Che, poi, abbia curato molte più persone al di là dei mali che le affliggono, questa è cosa assai dubbia - dipende, al solito, dal criterio utilizzato. La medicina occidentale si avvale sempre di quello della longevità - una scelta rivelatrice, dato il ruolo delle bramosie di immortalità nella formazione dell'impulso tecnologico - e non c'è dubbio circa la straordinaria potenza dei medici occidentali a mantenere in vita le
persone, anche contro la loro volontà e il benessere della specie.
Ma se utilizziamo il criterio della salute per capita, il tanto vantato trionfo della medicina occidentale comincia ad apparire una vittoria di Pirro. Quello che abbiamo ottenuto è, sì, una vita più lunga, ma anche un pò più malaticcia. Medici che hanno avuto occasione di esaminare popoli «primitivi» viventi in condizioni stabili e rigorose, protetti dal contato con l'Occidente e non del tutto malnutriti, sono rimasti impressionati dalla loro salute in confronto a quella degli occidentali. D'accordo, questa buona salute è più da attribuirsi all'assenza di cambiamento, di tensione e di confusione urbana che non alle occasionali somministrazioni del medico stregone, il cui principale contributo può essere la sua adesione alla regola cardinale di Ippocrate - così uniformemente e abbondantemente sbeffeggiata da coloro che l'hanno insegnata. Rene Dubos sottolinea l'importanza di condizioni immodificabili ai fini della salute e cita, come Toffler, la prova schiacciante che il cambiamento ambientale tende a favorire la malattia.
Ma sarebbe follia fondare questo argomento su pochi Eden non deteriorati. Per ognuna di queste isole di salute esiste una tribù altrettanto « primitiva » debilitata da scarsa nutrizione e da infezione parassitica. La medicina occidentale potrebbe compierla sulla base del criterio di salute, qualora potesse dimostrare che le popolazioni occidentali sono state, generalmente parlando, di gran lunga libere dal male. Sfortunatamente, così non è. Tentativi recenti di valutare su vasta scala la salute della popolazione hanno suggerito che quasi ognuno di noi
è almeno tanto ammalato da « esigere » attenzione medica. Ciò potrebbe anche essere considerato come tentativo per aumentare il lavoro dei medici però altre ricerche hanno dimostrato come, entro un periodo di
24-36 ore dal 50 all'80 per cento dell'intera popolazione ingurgiti almeno un farmaco. Che gli Stati Uniti siano o no una società ammalata, certamente ritengono di esserlo. Malgrado le brillanti acquisizioni mediche degli scorsi due secoli, sembrerebbe che la persona media, in un giorno medio, si senta, se mai, un po' peggio di prima.
Ma i « progressi » della medicina sono stati soltanto secondariamente motivati dal desiderio di accrescere la salute. Il loro movente principale,come nel caso di altre acquisizioni scientifiche e tecnologiche, è stato
quello di esercitare il potere. I medici occidentali sono sempre stati più zelanti nel conquistare il corpo che nel curarlo. La vecchia battuta sull'operazione che è un successo anche se il paziente muore esprime sì ancora la fondamentale disparità fra gli obiettivi del paziente e quelli del suo supposto guaritore, però, oggi, sembra un tantino fuori luogo, dacché il superiore obiettivo non pecuniario della professione e quello di esibire il proprio potere divino sulla morte. Si consideri lo zelo fanatico con cui i pazienti moribondi sono conservati in vita mediante tubi, spirali e prodotti chimici. Ma per chi viene compiuto questo sforzo eroico? Per un paziente
privo di conoscenza? Se gli fosse stato richiesto (e, ovviamente, non gli viene mai richiesto - come se il suo corpo appartenesse all'istituzione) probabilmente avrebbe espresso il desiderio di lasciare questo ambiente inumano e di morire a casa, fra i suoi cari. Per i parenti, che vanno in malora per pagare questo magnifico risultato, per cui non sono più in grado sia di piangere, sia di continuare a vivere? Difficile. È soltanto per il medico e per la sua professione. Egli « ha fatto tutto ciò che poteva » (si noti il sottile assunto su cui si basa questa frase — il suo ruolo è di mantenere vivo il corpo, non quello di somministrargli la salute del vivo, che potrebbe anche esigere di lasciar morire il morto), per cui la classe sacerdotale medica ha potuto celebrare ancora una volta la sua famosa
danza della vittoria sulla morte.

Coloro che propagandano con maggior fervore il progresso tecnologico hanno sempre enfatizzato la gioia della supremazia. Tuttavia, è interessante che la parola « compimento » significhi riempire, completare. Ma che cos'è che manca? Nessuno sulla terra sembra sentirsi così incompleto dell'uomo occidentale. O forse ha fatto un buco dentro di sé per riempirlo? Potrebbe forse esistere una qualche relazione fra la sua ostinata insistenza a percepire il mondo come un insieme di parti scollegate e la sua incapacità a sentirlo nella sua interezza? Non potrebbero, forse, il frenetico ed incessante output d'energia dell'uomo occidentale, così come la proliferazione sbalorditiva dell'informazione, dei prodotti lavorati e delle imprese, derivare tutti dal disperato tentativo di creare l'interezza mancante attraverso la futile procedura di aggiungere parti ancora più sconnesse?

Per ora, queste domande vanno posticipate. Al momento, desidero puramente far notare come, di solito, l'incapacità a percepire l'interezza passi, per un qualche motivo, sotto il nome di « razionalismo ». La strategia è semplice. Se si opera col criterio quantitativo, come fanno sempre i razionalisti, allora è più importante essere corretti riguardo ai dettagli, piuttosto che riguardo alla totalità, dacché esistono più parti che interi. A dire il vero, la scienza, la medicina e la tecnologia hanno dimostrato un'autorevole accuratezza riguardo ad innumerevoli dettagli, unitamente ad un'incapacità erudita ad affermare un sistema organico totale - incapacità che hanno trasmesso a tutti noi, anche se molto possiamo lottare contro di essa. Tutto ciò, quantitativamente, assomma ad
un gran bel risultato, oltre che a costituire la base di tutta la nostra arroganza verso i maghi e gli stregoni primitivi che tendono ad essere corretti riguardo alla totalità e ridicolmente incongrui riguardo al dettaglio, per cui, su base puramente quantitativa, fanno di gran lunga peggio.

Ma, pur dando per scontato tutto quanto sopra, viene spesso accampato il fatto (di solito con malcelato orgoglio) che «non si può fermare la tecnologia ». Se questo significa che è improbabile che venga passata una legislazione che « proibisca » l'innovazione tecnologica, o, se passata, che venga fatta rispettare, sono d'accordo. Non posso pensare a nulla di più assurdo ed estemporaneo, salvo, forse, alla nozione condivisa
da Toffler e dalla maggior parte degli osservatori, che la crescita tecnologica proseguirà lungo lo stesso sentiero lineare e accelerativo da essa finora seguito. Entrambe le nozioni condividono un concetto erroneo sul verificarsi del cambiamento sociale, ma questo è un problema che vorrei lasciare ad un capitolo successivo. La crescita tecnologica si indebolirà drasticamente quando la patologia motivazionale che la guida si inaridirà totalmente, e ci sono indizi di come ciò abbia già iniziato a verificarsi. D'altro canto, se non si verificherà presto, 1' impeto attuale della tecnologia è sufficiente a distruggere il pianeta in trent'anni ed anche questo ha già iniziato a verificarsi. Quale dei due accadrà prima è questione di congettura, ma l'inaridimento totale dell'impulso tecnologico dipende, in parte, dalla diffusione di schemi di pensiero non caratteristici, da un fenomemo ampiamente spontaneo di cui questo libro costituisce un esempio inadeguatamente consapevole.

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