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Materiali per Operatori del Benessere Immateriale
Earthwalk

 

CAPITOLO 1 / Indice / v. Capp. 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7

PARABOLA 1
C'era una volta un uomo che, causa un incidente, aveva perduto le gambe ed era diventato cieco. Per compensare questa perdita, aveva sviluppato grande forza e grande agilità nelle mani e nelle braccia, nonché grande acutezza d'udito. Compose musica magnifica e compì gesta stupefacenti. Gli altri restarono così impressionati da queste sue acquisizioni che si accecarono e amputarono le proprie gambe.


LE ESTENSIONI DELL'UOMO ovvero DIRE « CIAO » AL PUGNO SCHIZZINOSO


(Gli uomini) debbono rendersi prevedibili, perché, altrimenti, le macchine si irritano e li uccidono. Gregory Bateson

Fuori di qui tutto sembra meglio. R.J. Gatling


I dibattiti sulla tecnologia pongono generalmente in rilievo come gli strumenti e le macchine siano estensioni dell'organismo umano: il martello un'estensione del pugno, le ruote un'estensione del piede, l'elaboratore un'estensione del cervello, e così via. Si afferma che, per il tramite di queste estensioni, l'umanità conquisti il controllo del proprio ambiente. È vero che esistono anche certi spiacevoli effetti collaterali. Si dice che la gente deve essere più prudente - deve, cioè progettare un po' di più per il futuro. La tecnologia va controllata: Gran parte della tecnologia deve essere dedicata ai problemi determinati dalla tecnologia, e così via.
Se questo fosse un problema psicologico anziché sociale, il terapista al quale esso venisse posto potrebbe suggerire, con tatto, che la difficoltà risiede nel modo in cui il « paziente » l'ha definito. Di solito, i terapisti non hanno alcuna fiducia che un paziente ossessivo raggiunga la serenità
dedicando quotidianamente un maggior numero di ore ad ordinare i propri pensieri, o che un paziente paranoide acquisirà sicurezza prendendo maggiori precauzioni contro i suoi persecutori, o che un eroinomane riscatterà la propria dipendenza dalla droga assumendone dosi particolarmente massicce. La circolarità di tutte le nostre riflessioni sulla tecnologia suggerisce l'idea che, in certo qual modo, noi stiamo ricreando il problema nel tentativo di risolverlo.
Esercitare un controllo sul nostro ambiente limita la sua libertà ad influenzarci. Noi agiamo su di esso in modo tale da far sì che la sua influenza risulti, in parte, un prodotto dei nostri sforzi - cioè, contribuiamo a creare quello stimolo al quale rispondiamo. Controllare significa porre un po' di noi nell'ambiente per poi trattarlo come se fosse uno stimolo totalmente indipendente.
Però, l'esercizio del controllo intorpidisce ed affievolisce la nostra esperienza. Più controlliamo il nostro ambiente, meno possibile diventa la sperimentazione della novità, per quanto avidamente ne andiamo alla ricerca e tentiamo di piegarla. Novità e freschezza non possono essere, piegate - non possono essere commissionate o programmate, come un accadimento. Ai fini della loro esistenza, esse dipendono dal fatto che non si eserciti un controllo su di esse. Perseguirle significa distruggerle.
Il tentativo di controllo e di dominio dell'ambiente, quindi, inquina automaticamente quest'ultimo, in quanto diminuisce quell'aspetto di esso che ci rinnova, ci rinfresca, ci sorprende e ci alletta. Lo scopo del controllo è di generare la prevedibilità, ma la prevedibilità è tanto noiosa per quanto sicura, tanto affaticante per quanto confortante. Ogni atto di dominio sostituisce un po' d'ambiente con uno specchio, ma una casa di specchi può soddisfare soltanto persone molto ammalate.
Se questa fosse l'unica forma di inquinamento risultante dai nostri sforzi per dominare l'ambiente, potremmo, probabilmente, sopportarla e si potrebbero sottoscrivere, anche se non troppo entusiasticamente, tentativi generosi di risolvere i problemi della tecnologia con maggior
tecnologia. Ma il problema è assai più grave.
Ho fatto notare come controllare significhi mettere un po' di noi nell'ambiente. Ma quale po'? Qualche cosa di buono, o di cattivo? Qualche cosa di noto, o di ignoto? Di che cosa è composto questo ambiente fatto dall'uomo? Da quali parti di noi derivano queste scelte? Norman Brown riassume il pensiero psicologico riguardante questo problema e non è affatto rassicurante.
« II sé... viene conservato assorbendo continuamente dal mondo esterno le parti buone... ed espellendo le parti nocive dal mondo interno ».
Se ciò è vero, l'inquinamento non è un mero incidente - una funzione, cioè, della negligenza o di un industrialismo vecchia maniera. L'inquinamento è una parte inevitabile del rapporto fra umanità e ambiente - la nostra vera identità si basa sull'inquinamento psichico, così come la nostra integrità fisica si basa sull'espulsione dei rifiuti organici. Però l'ambìente è in grado di assorbire i rifiuti organici dell'uomo, se non di volgerli ad una buona utilizzazione; e quanto all'inquinamento psichico dell'uomo, che differenza fanno le fantasie? Ma che proietti pure la sua disposizione malvagia dove vuole - che importa? II pericolo nasce quando alle escrezioni psichiche dell'uomo vien data forma umana - quando le sue proiezioni appaiono come oggetti fisici. In effetti, non si possono ignorare le sue fantasie di superpotenza quando sono rappresentate da automobili ipercompresse che esigono il diritto di migliaia di vite a settimana; le sue paure paranoidi quando vengono espresse attraverso espedienti terrifici e banche di dati sulla sicurezza ; i suoi odii quando appaiono sotto forma di arsenale nucleare capace di eliminare la vita vertebrata sul nostro pianeta. In altre parole le nostre escrezioni psichiche manifestano una fastidiosa tendenza a diventar parte del nostro ambiente reale per cui siamo costretti a consumare i nostri rifiuti psichici sotto forma fisica. Invece di venire riciclati, come avviene negli scambi emotivi fra persone -conservando in tal modo un livello relativamente costante di tossico psichico- la loro materializzazione porta ad aumentare l'accumulo di tossico. La gente ha imparato da secoli quanto sia insalubre un qualsiasi _ luogo abitato da una grande quantità di umani, II riciclaggio esige l'accettazione della mortalità delle strutture individuali, mentre l'impulso tecnologico - cioè, la tendenza a dare agli impulsi psichici forma materiale anziché interpersonale - è fortemente influenzato dal bisogno di denegare la mortalità umana. Alcuni anni fa', un film di fantascienza ha così posto, in maniera drammatica, il problema della materializzazione del rifiuto psichico. Alcuni esploratori spaziali scoprono un pianeta che già aveva vantato una civiltà al più alto livello e i cui abitanti avevano trovato il modo di materializzare direttamente i pensieri. Gli esploratori non riescono a comprendere perche questa civiltà si fosse totalmente estinta, quando cominciano ad apparire mostri giganteschi. Allora si rendono conto di come gli abitanti del pianeta avessero trascurato di considerare che i desideri e le fantasie inconscie si sarebbero materializzate anch'esse unitamente ai pensieri coscientemente espressi, per cui essi furono distrutti da questa mancanza di perspicacia. Questo dramma costituisce una parabola per i nostri tempi. La nostra realtà differisce dalla fantasia spaziale in quanto (1) la materializzazione del pensiero e più lenta da effettuarsi, e (2) non c'è separazione fra pensieri consci e inconsci. Ogni progresso tecnologico racchiude in sé un mostro, ma quanto esprime, in un modo o nell'altro, oltre ai semplici desideri dei quali appare essere superficialmente espressione, il narcisismomostruoso dell'uomo.

Prendiamo in considerazione sia il concetto di « controllo per alzata di dito » o « controllo per premi-bottone », sia il modo in cui esso si applica alle fantasie di onnipotenza infantile narcisistica: « Io sono il mondo, esso è il mio corpo. » II bambino piange, il seno arriva, il mondo sorride.
Questo è il controllo per alzata di dito. Premi il bottone e tutti i desideri vengono soddisfatti. Ma com'è che le fantasie (e la realtà) del controllo per alzata di dito portano alla fantasia (e alla realtà) del « premere il bottone »? Perché il sogno di onnipotenza narcisistica porta sempre a quello di distruzione universale? Perché la soddisfazione dei bisogni alla premi-bottone non evoca beatitudine?
Per comprendere questo processo dobbiamo, per prima cosa, ricordarci che la fantasia di onnipotenza infantile è illusoria. Inizialmente, il dominio personale dell'ambiente non giuoca pressoché alcuna parte nella gratificazione. Il bambino è impotente, e i suoi bisogni vengono soddisfatti non perché è onnipotente, ma perché qualcuno lo ama, fintantoché lo ama. La piacevolezza della gratificazione è centralmente associata al non dover soddisfare i propri bisogni - a quella che Grace Stuart chiama « licenza dall'interesse di sé ». Le società primitive si rendono conto molto bene di tutto ciò e devolvono grandi quantità di energia allo scambio reciproco di doni, prassi questa che antropologhi e sociologhi occidentali generalmente interpretano come promotrice di qualsiasi tipo d'effetto collaterale sia esso sociale, sia economico. Ma, pur essendo questi sottoprodotti importanti e interessanti, non servono a spiegare l'esistenza della prassi. Non ci verrebbe mai in mente di attribuire la nostra preferenza per i rapporti sessuali sulla masturbazione al fatto che i primi promuovono la solidarietà comunitaria creando una rete di legami sociali. Diciamo semplicemente che sono più piacevoli, e lo stesso vale per lo scambio di doni.

La nostra cultura sembra aver perduto traccia di ciò, per cui è totalmente impegnata nell'illusione narcisistica che il piacere possa essere ottenuto attraverso il dominio. Ma l'essere capace di comandare al piacere o all'amore contiene un'evidente contraddizione. Il desiderio alla base della lotta compulsiva per il dominio è che qualcuno mi ami senza che io debba far nulla per determinarlo, che io riceva doni senza doverli chiedere e che a me pervenga quel piacere che non mi attendo e non cerco. Più controllo del processo si ha - cioè più è possibile comandare a questa donazione — meno, automaticamente, quest'ultima diventa gratificante.
Controllo e piacere non possono coesistere, perché si distruggono a vicenda. La ricerca della sicurezza svilisce la circolazione di qualsiasi cosa essa cerchi di garantire. A questo punto, si mette in moto un circolo vizioso. Dacché tanto più possiamo controllare la produzione del piacere tanto meno piacevole questo diventa, esso viene depauperato proprio dai nostri tentativi.
Quanto più diventa modesto, tanto più cerchiamo di controllarlo - di garantircelo - ma ciò, a sua volta, diminuisce il valore di gratificazione della fonte del piacere, e così via. Il tiranno decadente è un simbolo
familiare degli stadi avanzati di questo processo: tutto ciò che egli si sente dire è « II tuo volere è un comando per me », ciò nonostante è annoiato e insoddisfatto. Vuole che i suoi desideri vengano soddisfatti perché
qualcuno desidera soddisfarli spontaneamente, ma ciò non può essere comandato. Il tiranno desidera, altresì, che qualcuno lo ami per sè stesso, ma non osa rischiare e diffida di ogni amore che riceve. « Darei il mio
regno per un amico sincero », dice, ma non lo fa mai. Cerca piaceri sempre più esotici, ma ciò finisce sempre per stancarlo. Esige costante passatempo, ma questo assume forme sempre più sadiche non appena egli tenta di verificare l'amore di coloro che cercano di soddisfarlo. Dorme male e sente il bisogno di tradurre in atto fantasie distruttive, di rischiare morte e perdita.
È così che il controllo per premi-bottone porta a fantasie di premere il bottone nucleare. Il mondo ostile, avaro, insoddisfacente deve venire distrutto, unitamente al sé indegno e disgustoso. Si deve far cessare questa
richiesta senza tregua, questa tensione intollerabile. È l'ultimo comando che cerca l'ultima soddisfazione. È anche l'ultima sfida al mondo, contenente la segreta speranza che, alla fine, giungerà in soccorso, all'ultimo minuto, un essere ancor più potente, ma benevolo, per gratificare il desiderio d'esser liberati dalla responsabilità dell'auto-nutrizione.
Gli umani sono gli unici animali malvagi. Uccidono per sport e possiedono impulsi che non possono essere estinti. Le loro estensioni creano un ambiente corrispondentemente malvagio e non gestibile. Da tempo immemore gli storici hanno osservato che la guerra è la prima progenitrice dello sviluppo tecnologico. Ma da questa materializzazione del bisogno di coartare, che altro può derivare se non discordia e distruzione? E, quando la guerra, fredda o calda che sia, non è disponibile per stimolare la crescita tecnologica, l'ingordigia competitiva diventa lo sprone più importante. La tecnologia, in altre parole, è un'estensione dell'aspetto umano orientato alla penuria, mentalmente teso alla sicurezza, orientato al controllo della natura a fronte di un mondo percepito antipatico, avaro e insoddisfacente.
È assurdo, pertanto, parlare di utilizzazione della tecnologia per il bene o per il male, così com'è assurdo parlare di utilizzazione creativa di una bomba. L'impulso immesso nella progettazione, nella costruzione e nello sgancio di una bomba è implicitamente distruttivo, e l'impulso tecnologico, per lo stesso motivo, è implicitamente diffidente, coercitivo e pieno d'odio verso la vita. Per decenni questo è stato il tema dei film di fantascienza e di mostri, e, seppure sia facile disprezzare il messaggio sulla dannosità della scienza
sempliciotta di tali film, forse non dovremmo accantonare troppo drasticamente un allarme tanto spesso ripetuto, anche se da fonte tantomodesta.

Il tipico film del genere presenta uno scienziato che scopre un segreto capace di conferire un certo tipo di potere speciale. Di solito, lo scienziato è estremamente vanitoso ed ambizioso. Attraverso la sua scoperta o crea un mostro, o lo diventa lui stesso, o, in qualche altro modo, scatena una forza terribile sulla landa, dalla quale egli, insieme a parecchi altri, alla fine verrà distrutto. La massa del popolo, piuttosto stupida ma bonacciona, che gli si oppone, sopravvive alla calamità, per cui la forza malvagia viene, in qualche modo, distrutta (modo, di solito, poco convincente).
L'ultima scena, spesso, vede la distruzione della scoperta stessa - il laboratorio esplode in fiamme, il quaderno degli appunti viene buttato nel caminetto del soggiorno. Forse attraverso questa formula rozza, tentiamo di comunicarci qualche cosa In effetti, uomini alla caccia della fama e della gloria personale hanno creato mostri che ci distruggono. La formula del film è semplicemente una drammatizzazione del secolo scorso.
Scienziati, inventori, ingegneri (così come altre persone preminenti che, per fortuna, hanno un impatto meno concreto - scrittori, artisti, musicisti, e così via) sono, anche troppo spesso, persone che non hanno saputo conquistarsi, per qualità intrinseche, amore e ammirazione da coloro che li circondano e si sono, pertanto, rivolti all'ambiente non umano nel tentativo di estrarre queste risposte attraverso le proprie acquisizioni personali. Quando parliamo di estensione dell'uomo, quindi, dovremmo ammettere che il suo estendersi nell'ambiente non è gioia e pienezza di vita, ma gelosia, amarezza, frustrazione e rivalsa. C' è ben poco
da meravigliarsi che, quando osserviamo il mondo circostante creato dall'uomo, esso contenga tanta bruttura e odio per la vita, da costringerci a scappare in un qualche pezzetto di paese relativamente intatto.
La nostra dominanza del mondo è arrivata al punto in cui la parte di noi che viene espulsa in esso fa marcia indietro e inonda la personalità con le sue componenti rigettate. Ciò accade anche nella sfera interpersonale,
dove esercitiamo ancor più controllo di quanto sia a noi di vantaggio.
Nelle piccole comunità stabili, è possibile coltivare gli amici più intimi, non l'ambiente sociale nella sua totalità - è un dato. Tutti si conoscono e debbono, entro certi limiti, interagire con ciascuno. Ciò garantisce un certo
equilibrio di stili interpersonali e di schemi d'espressione. Come se ognuno fosse obbligato a possedere un regime interpersonale equilibrato. Ma gli Americani urbani e suburbani non vivono in comunità, vivono in reti.
Una rete è un indirizzario - una lista di persone che possono aver poco in comune, al di fuori di sè stesse. Ogni rete ha solamente un punto di riferimento che la definisce. Non esistono due persone che abbiano la stessa identica rete. Ciò significa che ogni persona controlla il proprio ambiente sociale, e che, se lo gradisce, può mantenersi interamente di stecche di zucchero filato interpersonali. Le persone della sua rete non si
conoscono tutte, per cui essa non è mai costretta ad integrare i lati disparati di sé, ma può compartimentalizzarli in rapporti sconnessi. Questo è uno dei motivi per cui le persone, tanto spesso, sperimentano ansia quando fanno il loro ingresso negli encounter groups — l'esposizione ad altra gente, nello stesso momento, di aspetti compartimentalizzati di sé fa sentire che la loro personalità si trova sulla linea del fuoco. D'altro canto, quest'ansia è accompagnata da sentimenti di eccitazione, rischio e vitalità.
Il sistema della rete preclude la possibilità della novità — si tende semplicemente a ripetere, in incontri successivi, la stessa esperienza. Si possono avere tipi diversi di amici, ma non si è costretti a sperimentarne
nuove combinazioni, mentre parecchi tipi vengono selettivamente esclusi del tutto. Ovviamente, nessuna comunità (di quelle, cioè, in cui ciascuno interagisce con ogni altro) è del tutto equilibrata — esistono sempre
fratture e limitazioni. Ma una vera comunità massimizza l'utilizzazione di tutte le risorse umane esistenti in essa - cioè a dire, tutte le possibilità di combinazione tendono ad essere utilizzate nel sistema di comunicazione
— mentre invece le reti minimizzano tale utilizzazione, dacché questa è limitata dalle capacità di ognuno ad assorbire stimoli sconvolgenti (nuove combinazioni).
Una comunità vera è come un sistema ecologico dove il rifiuto di una specie è sostentamento per l'altra, come lo scambio ossigeno-diossido di carbonio fra piante e animali. Ciò che l'una espelle, l'altra cerca. La gamma completa dell'emotività e del comportamento umano può essere così realizzata in una data forma o nell'altra. In una rete, invece, creiamo circuiti chiusi in cui continuamente ri-incontriamo ciò che abbiamo scaricato. Tuttavia, come Ross Speck ha dimostrato, l'intervento in una rete per renderla più simile ad una vera comunità tende ad avere profondi impatti riverberanti sugli individui coinvolti. Produce, altresì, un effetto generale di gruppo — un innalzamento dei sentimenti di vivacità, disponibilità emotiva e compassione. Questa elevazione è come l'effetto di una fresca brezza dopo un lungo periodo in un ambiente chiuso dove si inalano le proprie esalazioni.
Nella nostra società, le persone vengono indottrinate fin dall'infanzia con la nozione che la scelta personale è una grazia preclusa al genere umano — che tutti i nostri mali derivano dalla persistenza di ostacoli alla sua più piena realizzazione. Ciò nondimeno, i topi, di fronte alla scelta fra un regime salubre e la saccarina scelgono quest'ultima e muoiono di fame, e l'attività frenetica di comprare degli americani è, forse, lo stesso fenomeno.
La scelta tende ad essere liberatoria ed eccitante quando è dualistica - quando si può accettare o respingere ciò che appare essere il proprio destino. Questa è la situazione che affrontano coloro che, per la prima volta, abbandonano una comunità stabile. Ma lo spazio vitale di molti occidentali appartenenti alla classe media - in cui, in effetti, può essere realizzato un qualsiasi numero di possibilità - è notevolmente meno allegro. Se tutte le opzioni sono egualmente piacevoli ed esistono più di due scelte, allora, su base puramente matematica, per ogni decisione si perderebbe più di quanto si guadagnerebbe. Né questa è pura frivolezza matematica: Kiyo Morimoto dello Harvard Bureau of Study Counsel scrive con acutezza riguardo al senso di depressione e perdita che pare accompagnare le scelte fatte da studenti per i quali qualsiasi cosa è possibile.
Probabilmente, non esiste più arena in cui la libera scelta personale sia maggiormente e universalmente apprezzata della scelta coniugale, e, certamente, parecchi miserie ed orrori costituirono il risultato dell'imposi-
zione di norme culturali e di desideri parentali a spose e a sposi riluttanti.
Allo stesso tempo, sarebbe difficile sostenere che la libera scelta abbia portato un qualche incremento sostanziale alla felicità coniugale di tutto il paese. Quando la gente ha cominciato a scegliere il proprio compagno o la propria compagna, quel che è andato perduto è stato il dono di scoprire cose apprezzabili e desiderabili non cercate. Una volta che la scelta venne effettuata su base puramente pratica, sociale o economica, si determinò un'uguale possibilità di sposare una persona il cui stile personale e interpersonale avesse necessità di ristrutturare i propri schemi neurotici.
La tendenza compulsiva che, adesso, la gente ha di riprodurre le sue esperienze infantili nel matrimonio è in conflitto, in questo sistema, con la realtà dell'altra persona. Pur non patrocinando un ritomo al vecchio
sistema, dovremmo guardarci dai suoi vantaggi tanto quanto dagli inconvenienti più familiari.
Molta della nostra patologia attuale si basa su di una poco propizia tendenza umana di cercare l'autarchia. Se la specie si rivelerà un insuccesso, dovrà probabilmente la sua morte a questo stimolo. Per autarchia intendo l'auto-sufficienza - cioè, quel sistema basilare a tariffa elevata in cui nulla entra e nulla esce. Ma la mancanza di scambio è morte - i sistemi viventi sono in costante interscambio fisico col loro ambiente.

Che cosa fa si che gli umani cerchino tanto avidamente la latenza? L'umanità si è conquistata il suo attuale dominio attraverso il prolungamento della dipendenza infantile. L'infante umano è il cucciolo più impotente della terra, aggredito com'è, dall'interno e dall'esterno, da stimoli sui quali non ha controllo, ma ogni partita ha la sua contropartita, per cui, quando la specie si assunse questo terribile rischio, sviluppò simultaneamente una feroce cupidigia di sicurezza e di auto-sufficienza.
Possiamo, sì, sentirci più vivi e palpitanti quando ci permettiamo di
ricreare la nostra precedente vulnerabilità, ma pochi umani riescono a tollerarla per molto tempo.
Però, la sicurezza è morte, cosi come la vita è vulnerabilità. Il non arrischiare mai danni terribili e il non soffrire mai significa non essere vivi. « La vita è problemi, » decide il protagonista del film di Chayefsky, Middle of the Night, optando per un futuro pieno di guai ma vitale, e Norman Brown dimostra che « essere è essere vulnerabili. ». I meccanismi di sicurezza mimano la nostra morte e ci portano a familiarizzarci maggiormente con essa. Vita è guadagnare tutto e perdere tutto; sicurezza è guadagnare nulla e perdere nulla. Le assicurazioni sono la morte fondata su di un sistema di vendita a pagamento rateale.
L'autarchia enfatizza non soltanto la sicurezza, ma anche l'importanza dei confini individuali - dell'identità. E questa identità è anch'essa cosa morta — soltanto gli organismi individuati sono mortali. L'individualità umana comincia coi mausolei - faraoni e rajah l'hanno inventata.
Vita è fusione e flusso e movimento: Ciò che non possiede identità vive in eterno. Annunciare sè stessi significa annunciare la propria morte.
L'individualità cominciò con i re, perché furono i primi ad essere separati e sedotti dalla fantasia autarchica. I re, e i sistemi autoritari in genere, sorsero soltanto quando piccole unità sociali organiche collusero, furono infrante o sradicate da migrazioni involontarie, oppure caddero vittime di un'ipertrofia risultante dalla prosperità, per cui dovettero saldarsi, in certo qual modo, in unità di dimensione superiore. La perdita del senso di relazione totale e gestibile con l'ambiente personale e fisico determinò sia il desiderio di dipendenza, sia l'esigenza di autarchia, in cui il primo era diretto al re e la seconda proiettata su di esso.
Ma la coscienza di sé, con la sua illusione di auto-sufficienza, ingenerò nei re la paura della morte. Quando gli uomini perdono la consapevolezza della loro connessione reciproca hanno paura di morire. Pertanto, desiderano vivere a lungo ed immortalarsi nei figli o nei monumenti (« Grande re, vivi per sempre! »). Questo bisogno di estendersi in modo lineare nell'ambiente si chiama narcisismo e, ormai, non è più territorio esclusivo soltanto dei re. Esso costituisce l'unico tratto più importante della nostra specie. Il risultato della paura degli uomini che il morire sia solitudine definitiva è l'accresciuta verosimiglianza che tutta l'umanità morirà insieme.
L'occidente vive gli stadi avanzati della malattia. I milionari tendono ad accrescere le proprie ricchezze, o fanno di tutto perché i loro nomi vengano scolpiti su cumuli di pietre. Qualcuno desidera, perfino, che il proprio cadavere venga ibernato in modo da risuscitarlo quando si troverà la cura per la sua malattia (la prima azione di una società vitale dovrebbe essere di porre una croce sopra queste mummie). Ciò nonostante, molti Americani considerano perfettamente sani tutti questi comportamenti straordinari. La cultura occidentale è una specie di Linea Maginot della mente.
Si potrebbe obiettare che questa tetra raffigurazione si poggia su un concetto limitato e distorto di tecnologia - che ciò che è stato da me descritto rflette meramente il weltanschauung meccanico della precedente rivoluzione industriale, ignorando la visione più olistica e raffinata della rivoluzione elettronica o cibernetica. Tuttavia, se l'impulso tecnologico è colmo dei tipi di bisogni da me descritti, il ruolo svolto dalla tecnologia negli affari umani rimarrà lo stesso, indipendentemente da quanto raffinata diventi la tecnologia stessa nella sua imitazione della vita.

Nel Frankenstein originale, il tormentato dottore tenta di annullare il male causato dalla sua prima creazione, facendone una seconda, ma, all'ultimo minuto - rendendosi conto che generare un intera razza di mostri è una soluzione dubbia dei problemi creati da uno solo - distrugge la sua nuova Eva. Sfortunatamente, nessun tecnocrate ha, finora, mostrato la stessa intelligenza, probabilmente perché Frankenstein è stato scritto da una donna. Per rendere più chiaro il mio modo di pensare, vorrei anticipare uno sguardo alla terza rivoluzione tecnologica - quella che, presto, verrà annunciata dalla nostra abilità a manipolare i codici genetici. Prima che sia trascorso qualche decennio, la maggior parte della tecnologia esistente sarà resa obsoleta dall'abilità di programmare la materia vivente. Chi si preoccuperà di una cosa tanto goffa e rigida come una macchina, quando
potranno essere creati mostri viventi, dotati di adattamenti specializzati, per effettuare i medesimi compiti? Una volta che ci siamo impadroniti in modo completo del codice genetico, è possibile creare esseri viventi dalla forza smoderata, dall'intelligenza fantastica, dalla dimensione enorme ovvero minuscola, o dalla nutritività, docilità, sensualità abbondanti.
Mani, occhi e orecchie possono essere modificati in centinaia di modi per centinaia di compiti - lo zoccolo del cavallo, dopotutto, non è altro che una grossa unghia. E non soltanto i mostri saranno più flessibili e adattabili delle macchine, ma anche assai più interessanti - più sexy, se volete - perché soddisferanno più intimamente le nostre fantasie di potere. Inoltre potranno ridurre, a breve scadenza, l'inquinamento ambientale, dacché saranno biodegradabili ed esigeranno soltanto rifornimenti di energia biodegradabile. La vecchia metafora che oppone il verde al metallo non sarà più importante a fini ecologici, se, in effetti, mai lo è stata.
Gli scrittori di fantascienza si sono trastullati per anni con l'idea degli «androidi». Di solito, questi ultimi, con invero scarsa immaginazione, vengono ritratti come una sorta di classe servente, creata su rigido modello umano, che svolge compiti domestici routinari - come se esistesse un problema a creare varietà diverse di nuove specie. In alcune storie si ritrova anche una rivolta, per cui gli androidi sopraffanno e distruggono i
loro autori, seguendo l'esempio dei loro predecessori meccanici ed elettronici.

A mio parere, anche questa forma genetica non evita e non può evitare il dilemma di base della tecnologia — cioè il fatto che essa faciliti la sostituzione di rapporti reali (bilateralmente determinati) con altri fantasticati (unilateralmente determinati). In effetti, questo problema è concreto, dacché diventerà più difficile accertare la differenza fra un essere veramente separato e un essere programmato da sé stesso. In questa nuova era, chiunque può essere un Pigmalione che si costruisce amanti, amici, genitori, protettori, oggetti sessuali, discepoli e consanguinei. In effetti, anche la riproduzione bilaterale potrà scomparire del tutto quando la gente si troverà davanti il procedimento tentatore di ricostruire sé stessa con esatta somiglianza genetica. Un individuo, come fa notare Wiener, è fondamentalmente un messaggio, per cui è assai più probabile che il
diventare capace di trasmettere questo messaggio nel tempo gli titilli i ghiribizzi di immortalità molto più dell'ibernazione dei cadaveri. Come le macchine, gli androidi possono superare i loro creatori, possono conquistarli e ri-influenzarli. Ma possono trascendere la vanità e la fatuità dei loro fattori senza distruggerli, dacché la loro esistenza, in sé, è un'espressione del falso sé umano. Una delle possibilità più promettenti della specie umana è la sua incapacità di controllare il processo genetico, il che garantisce, così, un'occasionale dose curativa del dono di trovare cose appetibili e gradevoli non ricercate. La perdita di questo grado di libertà
suonerà, probabilmente, come campana a morto dell'umanità — non so proprio dire se per il bene o se per il male.
Alvin Toffler prevede che, presto, il prossimo sarà in grado di « riempire il mondo di gemelli, » di creare esseri umani con branchie per vivere sott'acqua, di aumentare fino all'infinito la durata dell'esistenza e di mantenere in vita cervelli scissi dal corpo: « II corpo umano arriverà ad essere considerato modulare. » Pur concedendosi un poco caratteristico conato doloroso di sconforto circa questi sviluppi, gli assunti sui quali essi sono fondati non vengono posti in dubbio. Per prima cosa, tecnologia e richieste della tecnica sono padrone, mentre gli esseri umani sono servi. Per Toffler, che rappresenta una specie di Neville Chamberlain nel rapporto fra umanità e tecnologia, il corpo umano è semplicemente un oggetto da manipolarsi a fini meccanici. Se una scimmia è più adatta di un umano al viaggio spaziale, costruiremo umani fatti come scimmie. Se la coda è utile, attaccheremo code al prossimo. Se le gambe sono superflue, le taglieremo via. È arduo fare obiezioni a queste brutalità, dacché esse differiscono soltanto per grado dalla crudeltà con cui gli umani, generalmente, trattano il proprio corpo. L'umanità si adatterà a qualsiasi cosa sia « necessaria » — cioè, a qualunque cosa venga richiesta dal progetto arbi-trario di un qualsiasi ignoto. I sentimenti suscitati da questi adattamenti forzati sono di secondaria importanza, da scaricarsi sui torreggianti cumuli di scorie di miseria umana che circondano ogni impresa tecnologica.
Secondo, il potere è l'unico movente umano legittimo. Una delle parole più ricorrenti di Toffler, oltre a « volere » (riferentesi all'inevitabile «progresso» della scienza e della tecnica) e «dovere» (riferentesi all'adattamento umano richiesto da questa massiccia forza inesorabile che schianta tutto ciò che incontra sul suo cammino), è « capace ». Gli esseri umani saranno capaci di vivere in fondo al mare, capaci di miniaturizzarsi, capaci di creare altri umani in laboratorio, capaci di costruire macchine che quotidianamente prendano decisioni in loro vece. Vivere in fondo al mare, sotto terra, sulla superficie lunare o in una capsula spaziale è, indubbiamente, una grande acquisizione - come essere capaci di scorreggiare « Annie Laurie » attraverso il buco della serratura - ma c'è da chiedersi perché ci si dovrebbe preoccuparsi di farlo, oltre che di vantarsene. Se osserviamo più da vicino tutti questi « capaci », un mucchio di essi risultano essere altrettanti « doveri ». Siccome siamo « capaci » di mantenere in vita più gente, alcuni di noi « devono » vivere in fondo al mare, altri nell'Antartico, altri su Marte. E se cerchiamo di scoprire perché dobbiamo desiderare di essere « capaci » di conservare vivi gli embrioni ex utero, troviamo che questa è una faccenda d'economia: il peso degli umani pienamente sviluppati racchiusi in una capsula spaziale diretta a Marte richiederebbe più propellente! Così, all'assurdità che la propria esistenza sia determinata da una qualsiasi arbitraria decisione di coloro che stanno al governo sulla necessità di colonizzare Marte, si aggiungerebbe quella di dover assumere le forme d'esistenza stabilite dal desiderio dell'organizzazione statale di mantenersi nei limiti del budget. I leaders di quelle civiltà estranee prodotte dalle fantasie spaziali spesso hanno moventi che appaiono ridicolmente banali, ma la beffa è in noi, dacché queste fantasie sono semplicemente proiezioni della nostra cultura. È nella nostra cultura che la vita delle persone viene minacciata o distrutta perché un qualche sconosciuto è roso da curiosità scientifica imparziale o porta avanti meccanicamente qualche procedura burocratica, o obbedisce ad un ordine le cui premesse sono state dimenticate.

Continua >>>>>>>>