I dibattiti sulla tecnologia pongono generalmente in rilievo come
gli strumenti e le macchine siano estensioni dell'organismo umano:
il martello un'estensione del pugno, le ruote un'estensione del
piede, l'elaboratore un'estensione del cervello, e così
via. Si afferma che, per il tramite di queste estensioni, l'umanità
conquisti il controllo del proprio ambiente. È vero che
esistono anche certi spiacevoli effetti collaterali. Si dice che
la gente deve essere più prudente - deve, cioè progettare
un po' di più per il futuro. La tecnologia va controllata:
Gran parte della tecnologia deve essere dedicata ai problemi determinati
dalla tecnologia, e così via.
Se questo fosse un problema psicologico anziché sociale,
il terapista al quale esso venisse posto potrebbe suggerire, con
tatto, che la difficoltà risiede nel modo in cui il «
paziente » l'ha definito. Di solito, i terapisti non hanno
alcuna fiducia che un paziente ossessivo raggiunga la serenità
dedicando quotidianamente un maggior numero di ore ad ordinare
i propri pensieri, o che un paziente paranoide acquisirà
sicurezza prendendo maggiori precauzioni contro i suoi persecutori,
o che un eroinomane riscatterà la propria dipendenza dalla
droga assumendone dosi particolarmente massicce. La circolarità
di tutte le nostre riflessioni sulla tecnologia suggerisce l'idea
che, in certo qual modo, noi stiamo ricreando il problema nel
tentativo di risolverlo.
Esercitare un controllo sul nostro ambiente limita la sua libertà
ad influenzarci. Noi agiamo su di esso in modo tale da far sì
che la sua influenza risulti, in parte, un prodotto dei nostri
sforzi - cioè, contribuiamo a creare quello stimolo al
quale rispondiamo. Controllare significa porre un po' di noi nell'ambiente
per poi trattarlo come se fosse uno stimolo totalmente indipendente.
Però, l'esercizio del controllo intorpidisce ed affievolisce
la nostra esperienza. Più controlliamo il nostro ambiente,
meno possibile diventa la sperimentazione della novità,
per quanto avidamente ne andiamo alla ricerca e tentiamo di piegarla.
Novità e freschezza non possono essere, piegate - non possono
essere commissionate o programmate, come un accadimento. Ai fini
della loro esistenza, esse dipendono dal fatto che non si eserciti
un controllo su di esse. Perseguirle significa distruggerle.
Il tentativo di controllo e di dominio dell'ambiente, quindi,
inquina automaticamente quest'ultimo, in quanto diminuisce quell'aspetto
di esso che ci rinnova, ci rinfresca, ci sorprende e ci alletta.
Lo scopo del controllo è di generare la prevedibilità,
ma la prevedibilità è tanto noiosa per quanto sicura,
tanto affaticante per quanto confortante. Ogni atto di dominio
sostituisce un po' d'ambiente con uno specchio, ma una casa di
specchi può soddisfare soltanto persone molto ammalate.
Se questa fosse l'unica forma di inquinamento risultante dai nostri
sforzi per dominare l'ambiente, potremmo, probabilmente, sopportarla
e si potrebbero sottoscrivere, anche se non troppo entusiasticamente,
tentativi generosi di risolvere i problemi della tecnologia con
maggior
tecnologia. Ma il problema è assai più grave.
Ho fatto notare come controllare significhi mettere un po' di
noi nell'ambiente. Ma quale po'? Qualche cosa di buono, o di cattivo?
Qualche cosa di noto, o di ignoto? Di che cosa è composto
questo ambiente fatto dall'uomo? Da quali parti di noi derivano
queste scelte? Norman Brown riassume il pensiero psicologico riguardante
questo problema e non è affatto rassicurante.
« II sé... viene conservato assorbendo continuamente
dal mondo esterno le parti buone... ed espellendo le parti nocive
dal mondo interno ».
Se ciò è vero, l'inquinamento non è un mero
incidente - una funzione, cioè, della negligenza o di un
industrialismo vecchia maniera. L'inquinamento è una parte
inevitabile del rapporto fra umanità e ambiente - la nostra
vera identità si basa sull'inquinamento psichico, così
come la nostra integrità fisica si basa sull'espulsione
dei rifiuti organici. Però l'ambìente è in
grado di assorbire i rifiuti organici dell'uomo, se non di volgerli
ad una buona utilizzazione; e quanto all'inquinamento psichico
dell'uomo, che differenza fanno le fantasie? Ma che proietti pure
la sua disposizione malvagia dove vuole - che importa? II pericolo
nasce quando alle escrezioni psichiche dell'uomo vien data forma
umana - quando le sue proiezioni appaiono come oggetti fisici.
In effetti, non si possono ignorare le sue fantasie di superpotenza
quando sono rappresentate da automobili ipercompresse che esigono
il diritto di migliaia di vite a settimana; le sue paure paranoidi
quando vengono espresse attraverso espedienti terrifici e banche
di dati sulla sicurezza ; i suoi odii quando appaiono sotto forma
di arsenale nucleare capace di eliminare la vita vertebrata sul
nostro pianeta. In altre parole le nostre escrezioni psichiche
manifestano una fastidiosa tendenza a diventar parte del nostro
ambiente reale per cui siamo costretti a consumare i nostri rifiuti
psichici sotto forma fisica. Invece di venire riciclati, come
avviene negli scambi emotivi fra persone -conservando in tal modo
un livello relativamente costante di tossico psichico- la loro
materializzazione porta ad aumentare l'accumulo di tossico. La
gente ha imparato da secoli quanto sia insalubre un qualsiasi
_ luogo abitato da una grande quantità di umani, II riciclaggio
esige l'accettazione della mortalità delle strutture individuali,
mentre l'impulso tecnologico - cioè, la tendenza a dare
agli impulsi psichici forma materiale anziché interpersonale
- è fortemente influenzato dal bisogno di denegare la mortalità
umana. Alcuni anni fa', un film di fantascienza ha così
posto, in maniera drammatica, il problema della materializzazione
del rifiuto psichico. Alcuni esploratori spaziali scoprono un
pianeta che già aveva vantato una civiltà al più
alto livello e i cui abitanti avevano trovato il modo di materializzare
direttamente i pensieri. Gli esploratori non riescono a comprendere
perche questa civiltà si fosse totalmente estinta, quando
cominciano ad apparire mostri giganteschi. Allora si rendono conto
di come gli abitanti del pianeta avessero trascurato di considerare
che i desideri e le fantasie inconscie si sarebbero materializzate
anch'esse unitamente ai pensieri coscientemente espressi, per
cui essi furono distrutti da questa mancanza di perspicacia. Questo
dramma costituisce una parabola per i nostri tempi. La nostra
realtà differisce dalla fantasia spaziale in quanto (1)
la materializzazione del pensiero e più lenta da effettuarsi,
e (2) non c'è separazione fra pensieri consci e inconsci.
Ogni progresso tecnologico racchiude in sé un mostro, ma
quanto esprime, in un modo o nell'altro, oltre ai semplici desideri
dei quali appare essere superficialmente espressione, il narcisismomostruoso
dell'uomo.
Prendiamo in considerazione sia il concetto di « controllo
per alzata di dito » o « controllo per premi-bottone
», sia il modo in cui esso si applica alle fantasie di onnipotenza
infantile narcisistica: « Io sono il mondo, esso è
il mio corpo. » II bambino piange, il seno arriva, il mondo
sorride.
Questo è il controllo per alzata di dito. Premi il bottone
e tutti i desideri vengono soddisfatti. Ma com'è che le
fantasie (e la realtà) del controllo per alzata di dito
portano alla fantasia (e alla realtà) del « premere
il bottone »? Perché il sogno di onnipotenza narcisistica
porta sempre a quello di distruzione universale? Perché
la soddisfazione dei bisogni alla premi-bottone non evoca beatitudine?
Per comprendere questo processo dobbiamo, per prima cosa, ricordarci
che la fantasia di onnipotenza infantile è illusoria. Inizialmente,
il dominio personale dell'ambiente non giuoca pressoché
alcuna parte nella gratificazione. Il bambino è impotente,
e i suoi bisogni vengono soddisfatti non perché è
onnipotente, ma perché qualcuno lo ama, fintantoché
lo ama. La piacevolezza della gratificazione è centralmente
associata al non dover soddisfare i propri bisogni - a quella
che Grace Stuart chiama « licenza dall'interesse di sé
». Le società primitive si rendono conto molto bene
di tutto ciò e devolvono grandi quantità di energia
allo scambio reciproco di doni, prassi questa che antropologhi
e sociologhi occidentali generalmente interpretano come promotrice
di qualsiasi tipo d'effetto collaterale sia esso sociale, sia
economico. Ma, pur essendo questi sottoprodotti importanti e interessanti,
non servono a spiegare l'esistenza della prassi. Non ci verrebbe
mai in mente di attribuire la nostra preferenza per i rapporti
sessuali sulla masturbazione al fatto che i primi promuovono la
solidarietà comunitaria creando una rete di legami sociali.
Diciamo semplicemente che sono più piacevoli, e lo stesso
vale per lo scambio di doni.
La nostra cultura sembra aver perduto traccia
di ciò, per cui è totalmente impegnata nell'illusione
narcisistica che il piacere possa essere ottenuto attraverso il
dominio. Ma l'essere capace di comandare al piacere o all'amore
contiene un'evidente contraddizione. Il desiderio alla base della
lotta compulsiva per il dominio è che qualcuno mi ami senza
che io debba far nulla per determinarlo, che io riceva doni senza
doverli chiedere e che a me pervenga quel piacere che non mi attendo
e non cerco. Più controllo del processo si ha - cioè
più è possibile comandare a questa donazione
meno, automaticamente, quest'ultima diventa gratificante.
Controllo e piacere non possono coesistere, perché si distruggono
a vicenda. La ricerca della sicurezza svilisce la circolazione
di qualsiasi cosa essa cerchi di garantire. A questo punto, si
mette in moto un circolo vizioso. Dacché tanto più
possiamo controllare la produzione del piacere tanto meno piacevole
questo diventa, esso viene depauperato proprio dai nostri tentativi.
Quanto più diventa modesto, tanto più cerchiamo
di controllarlo - di garantircelo - ma ciò, a sua volta,
diminuisce il valore di gratificazione della fonte del piacere,
e così via. Il tiranno decadente è un simbolo
familiare degli stadi avanzati di questo processo: tutto ciò
che egli si sente dire è « II tuo volere è
un comando per me », ciò nonostante è annoiato
e insoddisfatto. Vuole che i suoi desideri vengano soddisfatti
perché
qualcuno desidera soddisfarli spontaneamente, ma ciò non
può essere comandato. Il tiranno desidera, altresì,
che qualcuno lo ami per sè stesso, ma non osa rischiare
e diffida di ogni amore che riceve. « Darei il mio
regno per un amico sincero », dice, ma non lo fa mai. Cerca
piaceri sempre più esotici, ma ciò finisce sempre
per stancarlo. Esige costante passatempo, ma questo assume forme
sempre più sadiche non appena egli tenta di verificare
l'amore di coloro che cercano di soddisfarlo. Dorme male e sente
il bisogno di tradurre in atto fantasie distruttive, di rischiare
morte e perdita.
È così che il controllo per premi-bottone porta
a fantasie di premere il bottone nucleare. Il mondo ostile, avaro,
insoddisfacente deve venire distrutto, unitamente al sé
indegno e disgustoso. Si deve far cessare questa
richiesta senza tregua, questa tensione intollerabile. È
l'ultimo comando che cerca l'ultima soddisfazione. È anche
l'ultima sfida al mondo, contenente la segreta speranza che, alla
fine, giungerà in soccorso, all'ultimo minuto, un essere
ancor più potente, ma benevolo, per gratificare il desiderio
d'esser liberati dalla responsabilità dell'auto-nutrizione.
Gli umani sono gli unici animali malvagi. Uccidono per sport e
possiedono impulsi che non possono essere estinti. Le loro estensioni
creano un ambiente corrispondentemente malvagio e non gestibile.
Da tempo immemore gli storici hanno osservato che la guerra è
la prima progenitrice dello sviluppo tecnologico. Ma da questa
materializzazione del bisogno di coartare, che altro può
derivare se non discordia e distruzione? E, quando la guerra,
fredda o calda che sia, non è disponibile per stimolare
la crescita tecnologica, l'ingordigia competitiva diventa lo sprone
più importante. La tecnologia, in altre parole, è
un'estensione dell'aspetto umano orientato alla penuria, mentalmente
teso alla sicurezza, orientato al controllo della natura a fronte
di un mondo percepito antipatico, avaro e insoddisfacente.
È assurdo, pertanto, parlare di utilizzazione della tecnologia
per il bene o per il male, così com'è assurdo parlare
di utilizzazione creativa di una bomba. L'impulso immesso nella
progettazione, nella costruzione e nello sgancio di una bomba
è implicitamente distruttivo, e l'impulso tecnologico,
per lo stesso motivo, è implicitamente diffidente, coercitivo
e pieno d'odio verso la vita. Per decenni questo è stato
il tema dei film di fantascienza e di mostri, e, seppure sia facile
disprezzare il messaggio sulla dannosità della scienza
sempliciotta di tali film, forse non dovremmo accantonare troppo
drasticamente un allarme tanto spesso ripetuto, anche se da fonte
tantomodesta.
Il tipico film del genere presenta uno scienziato
che scopre un segreto capace di conferire un certo tipo di potere
speciale. Di solito, lo scienziato è estremamente vanitoso
ed ambizioso. Attraverso la sua scoperta o crea un mostro, o lo
diventa lui stesso, o, in qualche altro modo, scatena una forza
terribile sulla landa, dalla quale egli, insieme a parecchi altri,
alla fine verrà distrutto. La massa del popolo, piuttosto
stupida ma bonacciona, che gli si oppone, sopravvive alla calamità,
per cui la forza malvagia viene, in qualche modo, distrutta (modo,
di solito, poco convincente).
L'ultima scena, spesso, vede la distruzione della scoperta stessa
- il laboratorio esplode in fiamme, il quaderno degli appunti
viene buttato nel caminetto del soggiorno. Forse attraverso questa
formula rozza, tentiamo di comunicarci qualche cosa In effetti,
uomini alla caccia della fama e della gloria personale hanno creato
mostri che ci distruggono. La formula del film è semplicemente
una drammatizzazione del secolo scorso.
Scienziati, inventori, ingegneri (così come altre persone
preminenti che, per fortuna, hanno un impatto meno concreto -
scrittori, artisti, musicisti, e così via) sono, anche
troppo spesso, persone che non hanno saputo conquistarsi, per
qualità intrinseche, amore e ammirazione da coloro che
li circondano e si sono, pertanto, rivolti all'ambiente non umano
nel tentativo di estrarre queste risposte attraverso le proprie
acquisizioni personali. Quando parliamo di estensione dell'uomo,
quindi, dovremmo ammettere che il suo estendersi nell'ambiente
non è gioia e pienezza di vita, ma gelosia, amarezza, frustrazione
e rivalsa. C' è ben poco
da meravigliarsi che, quando osserviamo il mondo circostante creato
dall'uomo, esso contenga tanta bruttura e odio per la vita, da
costringerci a scappare in un qualche pezzetto di paese relativamente
intatto.
La nostra dominanza del mondo è arrivata al punto in cui
la parte di noi che viene espulsa in esso fa marcia indietro e
inonda la personalità con le sue componenti rigettate.
Ciò accade anche nella sfera interpersonale,
dove esercitiamo ancor più controllo di quanto sia a noi
di vantaggio.
Nelle piccole comunità stabili, è possibile coltivare
gli amici più intimi, non l'ambiente sociale nella sua
totalità - è un dato. Tutti si conoscono e debbono,
entro certi limiti, interagire con ciascuno. Ciò garantisce
un certo
equilibrio di stili interpersonali e di schemi d'espressione.
Come se ognuno fosse obbligato a possedere un regime interpersonale
equilibrato. Ma gli Americani urbani e suburbani non vivono in
comunità, vivono in reti.
Una rete è un indirizzario - una lista di persone che possono
aver poco in comune, al di fuori di sè stesse. Ogni rete
ha solamente un punto di riferimento che la definisce. Non esistono
due persone che abbiano la stessa identica rete. Ciò significa
che ogni persona controlla il proprio ambiente
sociale, e che, se lo gradisce, può mantenersi interamente
di stecche di zucchero filato interpersonali. Le persone della
sua rete non si
conoscono tutte, per cui essa non è mai costretta ad integrare
i lati disparati di sé, ma può compartimentalizzarli
in rapporti sconnessi. Questo è uno dei motivi per cui
le persone, tanto spesso, sperimentano ansia quando fanno il loro
ingresso negli encounter groups l'esposizione ad altra
gente, nello stesso momento, di aspetti compartimentalizzati di
sé fa sentire che la loro personalità si trova sulla
linea del fuoco. D'altro canto, quest'ansia è accompagnata
da sentimenti di eccitazione, rischio e vitalità.
Il sistema della rete preclude la possibilità della novità
si tende semplicemente a ripetere, in incontri successivi,
la stessa esperienza. Si possono avere tipi diversi di amici,
ma non si è costretti a sperimentarne
nuove combinazioni, mentre parecchi tipi vengono selettivamente
esclusi del tutto. Ovviamente, nessuna comunità (di quelle,
cioè, in cui ciascuno interagisce con ogni altro) è
del tutto equilibrata esistono sempre
fratture e limitazioni. Ma una vera comunità massimizza
l'utilizzazione di tutte le risorse umane esistenti in essa -
cioè a dire, tutte le possibilità di combinazione
tendono ad essere utilizzate nel sistema di comunicazione
mentre invece le reti minimizzano tale utilizzazione, dacché
questa è limitata dalle capacità di ognuno ad assorbire
stimoli sconvolgenti (nuove combinazioni).
Una comunità vera è come un sistema ecologico dove
il rifiuto di una specie è sostentamento per l'altra, come
lo scambio ossigeno-diossido di carbonio fra piante e animali.
Ciò che l'una espelle, l'altra cerca. La gamma completa
dell'emotività e del comportamento umano può essere
così realizzata in una data forma o nell'altra. In una
rete, invece, creiamo circuiti chiusi in cui continuamente ri-incontriamo
ciò che abbiamo scaricato. Tuttavia, come Ross Speck ha
dimostrato, l'intervento in una rete per renderla più simile
ad una vera comunità tende ad avere profondi impatti riverberanti
sugli individui coinvolti. Produce, altresì, un effetto
generale di gruppo un innalzamento dei sentimenti di vivacità,
disponibilità emotiva e compassione. Questa elevazione
è come l'effetto di una fresca brezza dopo un lungo periodo
in un ambiente chiuso dove si inalano le proprie esalazioni.
Nella nostra società, le persone vengono indottrinate fin
dall'infanzia con la nozione che la scelta personale è
una grazia preclusa al genere umano che tutti i nostri
mali derivano dalla persistenza di ostacoli alla sua più
piena realizzazione. Ciò nondimeno, i topi, di fronte alla
scelta fra un regime salubre e la saccarina scelgono quest'ultima
e muoiono di fame, e l'attività frenetica di comprare degli
americani è, forse, lo stesso fenomeno.
La scelta tende ad essere liberatoria ed eccitante quando è
dualistica - quando si può accettare o respingere ciò
che appare essere il proprio destino. Questa è la situazione
che affrontano coloro che, per la prima volta, abbandonano una
comunità stabile. Ma lo spazio vitale di molti occidentali
appartenenti alla classe media - in cui, in effetti, può
essere realizzato un qualsiasi numero di possibilità -
è notevolmente meno allegro. Se tutte le opzioni sono egualmente
piacevoli ed esistono più di due scelte, allora, su base
puramente matematica, per ogni decisione si perderebbe più
di quanto si guadagnerebbe. Né questa è pura frivolezza
matematica: Kiyo Morimoto dello Harvard Bureau of Study Counsel
scrive con acutezza riguardo al senso di depressione e perdita
che pare accompagnare le scelte fatte da studenti per i quali
qualsiasi cosa è possibile.
Probabilmente, non esiste più arena in cui la libera scelta
personale sia maggiormente e universalmente apprezzata della scelta
coniugale, e, certamente, parecchi miserie ed orrori costituirono
il risultato dell'imposi-
zione di norme culturali e di desideri parentali a spose e a sposi
riluttanti.
Allo stesso tempo, sarebbe difficile sostenere che la libera scelta
abbia portato un qualche incremento sostanziale alla felicità
coniugale di tutto il paese. Quando la gente ha cominciato a scegliere
il proprio compagno o la propria compagna, quel che è andato
perduto è stato il dono di scoprire cose apprezzabili e
desiderabili non cercate. Una volta che la scelta venne effettuata
su base puramente pratica, sociale o economica, si determinò
un'uguale possibilità di sposare una persona il cui stile
personale e interpersonale avesse necessità di ristrutturare
i propri schemi neurotici.
La tendenza compulsiva che, adesso, la gente ha di riprodurre
le sue esperienze infantili nel matrimonio è in conflitto,
in questo sistema, con la realtà dell'altra persona. Pur
non patrocinando un ritomo al vecchio
sistema, dovremmo guardarci dai suoi vantaggi tanto quanto dagli
inconvenienti più familiari.
Molta della nostra patologia attuale si basa su di una poco propizia
tendenza umana di cercare l'autarchia. Se la specie si rivelerà
un insuccesso, dovrà probabilmente la sua morte a questo
stimolo. Per autarchia intendo l'auto-sufficienza - cioè,
quel sistema basilare a tariffa elevata in cui nulla entra e nulla
esce. Ma la mancanza di scambio è morte - i sistemi viventi
sono in costante interscambio fisico col loro ambiente.
Che cosa fa si che gli umani cerchino tanto avidamente
la latenza? L'umanità si è conquistata il suo attuale
dominio attraverso il prolungamento della dipendenza infantile.
L'infante umano è il cucciolo più impotente della
terra, aggredito com'è, dall'interno e dall'esterno, da
stimoli sui quali non ha controllo, ma ogni partita ha la sua
contropartita, per cui, quando la specie si assunse questo terribile
rischio, sviluppò simultaneamente una feroce cupidigia
di sicurezza e di auto-sufficienza.
Possiamo, sì, sentirci più vivi e palpitanti quando
ci permettiamo di ricreare la nostra precedente
vulnerabilità, ma pochi umani riescono a tollerarla per
molto tempo.
Però, la sicurezza è morte, cosi come la vita è
vulnerabilità. Il non arrischiare mai danni terribili e
il non soffrire mai significa non essere vivi. « La vita
è problemi, » decide il protagonista del film di
Chayefsky, Middle of the Night, optando per un futuro pieno di
guai ma vitale, e Norman Brown dimostra che « essere
è essere vulnerabili. ». I meccanismi di
sicurezza mimano la nostra morte e ci portano a familiarizzarci
maggiormente con essa. Vita è guadagnare tutto e perdere
tutto; sicurezza è guadagnare nulla e perdere nulla. Le
assicurazioni sono la morte fondata su di un sistema di vendita
a pagamento rateale.
L'autarchia enfatizza non soltanto la sicurezza, ma anche l'importanza
dei confini individuali - dell'identità. E questa identità
è anch'essa cosa morta soltanto gli organismi individuati
sono mortali. L'individualità umana comincia coi mausolei
- faraoni e rajah l'hanno inventata.
Vita è fusione e flusso e movimento: Ciò che non
possiede identità vive in eterno. Annunciare sè
stessi significa annunciare la propria morte.
L'individualità cominciò con i re, perché
furono i primi ad essere separati e sedotti dalla fantasia autarchica.
I re, e i sistemi autoritari in genere, sorsero soltanto quando
piccole unità sociali organiche collusero, furono infrante
o sradicate da migrazioni involontarie, oppure caddero vittime
di un'ipertrofia risultante dalla prosperità, per cui dovettero
saldarsi, in certo qual modo, in unità di dimensione superiore.
La perdita del senso di relazione totale e gestibile con l'ambiente
personale e fisico determinò sia il desiderio di dipendenza,
sia l'esigenza di autarchia, in cui il primo era diretto al re
e la seconda proiettata su di esso.
Ma la coscienza di sé, con la sua illusione di auto-sufficienza,
ingenerò nei re la paura della morte. Quando gli uomini
perdono la consapevolezza della loro connessione reciproca hanno
paura di morire. Pertanto, desiderano vivere a lungo ed immortalarsi
nei figli o nei monumenti (« Grande re, vivi per sempre!
»). Questo bisogno di estendersi in modo lineare nell'ambiente
si chiama narcisismo e, ormai, non è più territorio
esclusivo soltanto dei re. Esso costituisce l'unico tratto più
importante della nostra specie. Il risultato della paura degli
uomini che il morire sia solitudine definitiva è l'accresciuta
verosimiglianza che tutta l'umanità morirà insieme.
L'occidente vive gli stadi avanzati della malattia. I milionari
tendono ad accrescere le proprie ricchezze, o fanno di tutto perché
i loro nomi vengano scolpiti su cumuli di pietre. Qualcuno desidera,
perfino, che il proprio cadavere venga ibernato in modo da risuscitarlo
quando si troverà la cura per la sua malattia (la prima
azione di una società vitale dovrebbe essere di porre una
croce sopra queste mummie). Ciò nonostante, molti Americani
considerano perfettamente sani tutti questi comportamenti straordinari.
La cultura occidentale è una specie di Linea Maginot della
mente.
Si potrebbe obiettare che questa tetra raffigurazione si poggia
su un concetto limitato e distorto di tecnologia - che ciò
che è stato da me descritto rflette meramente il weltanschauung
meccanico della precedente rivoluzione industriale, ignorando
la visione più olistica e raffinata della rivoluzione elettronica
o cibernetica. Tuttavia, se l'impulso tecnologico è colmo
dei tipi di bisogni da me descritti, il ruolo svolto dalla tecnologia
negli affari umani rimarrà lo stesso, indipendentemente
da quanto raffinata diventi la tecnologia stessa nella sua imitazione
della vita.
Nel Frankenstein originale, il tormentato dottore
tenta di annullare il male causato dalla sua prima creazione,
facendone una seconda, ma, all'ultimo minuto - rendendosi conto
che generare un intera razza di mostri è una soluzione
dubbia dei problemi creati da uno solo - distrugge la sua nuova
Eva. Sfortunatamente, nessun tecnocrate ha, finora, mostrato la
stessa intelligenza, probabilmente perché Frankenstein
è stato scritto da una donna. Per rendere più chiaro
il mio modo di pensare, vorrei anticipare uno sguardo alla terza
rivoluzione tecnologica - quella che, presto, verrà annunciata
dalla nostra abilità a manipolare i codici genetici. Prima
che sia trascorso qualche decennio, la maggior parte della tecnologia
esistente sarà resa obsoleta dall'abilità di programmare
la materia vivente. Chi si preoccuperà di una cosa tanto
goffa e rigida come una macchina, quando
potranno essere creati mostri viventi, dotati di adattamenti specializzati,
per effettuare i medesimi compiti? Una volta che ci siamo impadroniti
in modo completo del codice genetico, è possibile creare
esseri viventi dalla forza smoderata, dall'intelligenza fantastica,
dalla dimensione enorme ovvero minuscola, o dalla nutritività,
docilità, sensualità abbondanti.
Mani, occhi e orecchie possono essere modificati in centinaia
di modi per centinaia di compiti - lo zoccolo del cavallo, dopotutto,
non è altro che una grossa unghia. E non soltanto i mostri
saranno più flessibili e adattabili delle macchine, ma
anche assai più interessanti - più sexy, se volete
- perché soddisferanno più intimamente le nostre
fantasie di potere. Inoltre potranno ridurre, a breve scadenza,
l'inquinamento ambientale, dacché saranno biodegradabili
ed esigeranno soltanto rifornimenti di energia biodegradabile.
La vecchia metafora che oppone il verde al metallo non sarà
più importante a fini ecologici, se, in effetti, mai lo
è stata.
Gli scrittori di fantascienza si sono trastullati per anni con
l'idea degli «androidi». Di solito, questi ultimi,
con invero scarsa immaginazione, vengono ritratti come una sorta
di classe servente, creata su rigido modello umano, che svolge
compiti domestici routinari - come se esistesse un problema a
creare varietà diverse di nuove specie. In alcune storie
si ritrova anche una rivolta, per cui gli androidi sopraffanno
e distruggono i
loro autori, seguendo l'esempio dei loro predecessori meccanici
ed elettronici.
A mio parere, anche questa forma genetica non
evita e non può evitare il dilemma di base della tecnologia
cioè il fatto che essa faciliti la sostituzione
di rapporti reali (bilateralmente determinati) con altri fantasticati
(unilateralmente determinati). In effetti, questo problema è
concreto, dacché diventerà più difficile
accertare la differenza fra un essere veramente separato e un
essere programmato da sé stesso. In questa nuova era, chiunque
può essere un Pigmalione che si costruisce amanti, amici,
genitori, protettori, oggetti sessuali, discepoli e consanguinei.
In effetti, anche la riproduzione bilaterale potrà scomparire
del tutto quando la gente si troverà davanti il procedimento
tentatore di ricostruire sé stessa con esatta somiglianza
genetica. Un individuo, come fa notare Wiener, è fondamentalmente
un messaggio, per cui è assai più probabile che
il
diventare capace di trasmettere questo messaggio nel tempo gli
titilli i ghiribizzi di immortalità molto più dell'ibernazione
dei cadaveri. Come le macchine, gli androidi possono superare
i loro creatori, possono conquistarli e ri-influenzarli. Ma possono
trascendere la vanità e la fatuità dei loro fattori
senza distruggerli, dacché la loro esistenza, in sé,
è un'espressione del falso sé umano. Una delle possibilità
più promettenti della specie umana è la sua incapacità
di controllare il processo genetico, il che garantisce, così,
un'occasionale dose curativa del dono di trovare cose appetibili
e gradevoli non ricercate. La perdita di questo grado di libertà
suonerà, probabilmente, come campana a morto dell'umanità
non so proprio dire se per il bene o se per il male.
Alvin Toffler prevede che, presto, il prossimo sarà in
grado di « riempire il mondo di gemelli, » di creare
esseri umani con branchie per vivere sott'acqua, di aumentare
fino all'infinito la durata dell'esistenza e di mantenere in vita
cervelli scissi dal corpo: « II corpo umano arriverà
ad essere considerato modulare. » Pur concedendosi un poco
caratteristico conato doloroso di sconforto circa questi sviluppi,
gli assunti sui quali essi sono fondati non vengono posti in dubbio.
Per prima cosa, tecnologia e richieste della tecnica sono padrone,
mentre gli esseri umani sono servi. Per Toffler, che rappresenta
una specie di Neville Chamberlain nel rapporto fra umanità
e tecnologia, il corpo umano è semplicemente un oggetto
da manipolarsi a fini meccanici. Se una scimmia è più
adatta di un umano al viaggio spaziale,
costruiremo umani fatti come scimmie. Se la coda è utile,
attaccheremo code al prossimo. Se le gambe sono superflue, le
taglieremo via. È arduo fare obiezioni a queste brutalità,
dacché esse differiscono soltanto per grado dalla crudeltà
con cui gli umani, generalmente, trattano il proprio corpo. L'umanità
si adatterà a qualsiasi cosa sia « necessaria »
cioè, a qualunque cosa venga richiesta dal progetto
arbi-trario di un qualsiasi ignoto. I sentimenti suscitati da
questi adattamenti forzati sono di secondaria importanza, da scaricarsi
sui torreggianti cumuli di scorie di miseria umana che circondano
ogni impresa tecnologica.
Secondo, il potere è l'unico movente umano legittimo. Una
delle parole più ricorrenti di Toffler, oltre a «
volere » (riferentesi all'inevitabile «progresso»
della scienza e della tecnica) e «dovere» (riferentesi
all'adattamento umano richiesto da questa massiccia forza inesorabile
che schianta tutto ciò che incontra sul suo cammino), è
« capace ». Gli esseri umani saranno capaci di vivere
in fondo al mare, capaci di miniaturizzarsi, capaci di creare
altri umani in laboratorio, capaci di costruire macchine che quotidianamente
prendano decisioni in loro vece. Vivere in fondo al mare, sotto
terra, sulla superficie lunare o in una capsula spaziale è,
indubbiamente, una grande acquisizione - come essere capaci di
scorreggiare « Annie Laurie » attraverso il buco della
serratura - ma c'è da chiedersi perché ci si dovrebbe
preoccuparsi di farlo, oltre che di vantarsene. Se osserviamo
più da vicino tutti questi « capaci », un mucchio
di essi risultano essere altrettanti « doveri ». Siccome
siamo « capaci » di mantenere in vita più gente,
alcuni di noi « devono » vivere in fondo al mare,
altri nell'Antartico, altri su Marte. E se cerchiamo di scoprire
perché dobbiamo desiderare di essere « capaci »
di conservare vivi gli embrioni ex utero, troviamo che questa
è una faccenda d'economia: il peso degli umani pienamente
sviluppati racchiusi in una capsula spaziale diretta a Marte richiederebbe
più propellente! Così, all'assurdità che
la propria esistenza sia determinata da una qualsiasi arbitraria
decisione di coloro che stanno al governo sulla necessità
di colonizzare Marte, si aggiungerebbe quella di dover assumere
le forme d'esistenza stabilite dal desiderio dell'organizzazione
statale di mantenersi nei limiti del budget. I leaders di quelle
civiltà estranee prodotte dalle fantasie spaziali spesso
hanno moventi che appaiono ridicolmente banali, ma la beffa è
in noi, dacché queste fantasie sono semplicemente proiezioni
della nostra cultura. È nella nostra cultura che la vita
delle persone viene minacciata o distrutta perché un qualche
sconosciuto è roso da curiosità scientifica imparziale
o porta avanti meccanicamente qualche procedura burocratica, o
obbedisce ad un ordine le cui premesse sono state dimenticate.
Continua >>>>>>>>